mercoledì 8 gennaio 2014

I 12 anelli: 8 - Il desiderio

Nel Sutra della messa in movimento della Ruota del Dharma (Dharmachakrapravarnatasutra), il Buddha ha esposto le quattro Nobili Verità: la sofferenza, l’origine della sofferenza, la cessazione della sofferenza, il sentiero che conduce alla cessazione della sofferenza.
La seconda Nobile Verità così recita: “Ecco, o monaci, la nobile verità sull’origine della sofferenza. È questa sete che produce la rinascita, il ri-divenire, che è legata ad una attività passionale e che trova nuovo piacere qui e là, ossia la sete dei piaceri dei sensi, quella dell’esistenza e del divenire e quella della non-esistenza”.

La sete, il desiderio avido (tanha in pali, trishna in sanscrito) – che è qui considerato la più evidente causa della sofferenza – costituisce altresì l’ottavo anello della catena del pratityasamutpada, nella quale è rappresentato visivamente da un uomo che sta bevendo.
L’individuo, (namarupa, il IV anello), ossia quel complesso psico-fisico, privo di una sostanza autonoma e permanente, che chiamiamo “io”, attraverso le sei basi sensoriali (V anello) entra in contatto (VI anello) con gli oggetti sensibili. Ne scaturisce una sensazione (vedana, il VII anello) che può essere piacevole, spiacevole o neutra, la quale genera nella persona ordinaria una reazione di desiderio (VIII anello). Il che porta ad attaccarsi (IX anello, upadana) agli oggetti sensibili rimanendo prigionieri del ciclo:

=> sensazione => desiderio => attaccamento => divenire

ovvero il samsara, il ciclo dell’esistenza condizionata, in cui regna la sofferenza.

Trishna, la sete
La sete, il desiderio avido, è una specie di mancanza, di senso di vuoto che deve essere colmato, che viene dopo la sensazione e che spinge a voler ripetere l’esperienza. 

Si può quindi trattare di desiderare che il piacere si rinnovi o si prolunghi, oppure che la sensazione spiacevole cessi e non si ripeta.
I desideri possono essere distinti in tre categorie principali:
- la sete dei piaceri sensoriali (kama trishna)
- la sete di esistenza, sete del divenire (bhava trishna)
- la sete di non-esistenza, di annullamento (vibhava trishna).
È facilmente intuibile quanto sia potente la sete del kama, il piacere sensuale. A questo proposito il maestro della tradizione buddhista theravada Nyanaponika Thera (Germania, 1901-1994) diceva che l’avidità sensuale è un gorgo poderoso che “sebbene risucchi incessantemente dentro di sé gli oggetti del desiderio non può mai trovare pace e soddisfazione”. L’uomo si abitua a cercare costantemente la gratificazione dei sensi, e tale abitudine produce una sorta di orrore del vuoto, come se si temesse di “rimanere privi di esperienze sensibili”. Tale paura, che è espressione della paura della morte, a sua volta diviene un ulteriore stimolo alla ricerca di nuove gratificazioni sensoriali.
Noi ci sforziamo di “assorbire nel nostro io ciò che è non-io o estraneo; inseguiamo febbrilmente e insaziabilmente i godimenti sensuali, la ricchezza o il potere; desideriamo ardentemente di essere amati, invidiati o temuti. In breve, cerchiamo di costruire la nostra personalità: una ‘persona’, una maschera vuota. Ma i tentativi di soddisfare l’avidità sensuale sono condannati al fallimento”. Se si pensa che ciò di cui ci si impadronisce nel mondo esterno per gratificare il proprio desiderio, che si tratti di oggetti o di persone, divenga parte del proprio io, ci si inganna. Resterà pur sempre un residuo che rimane al di fuori, che non può essere assimilato, e si instaura così un meccanismo che inevitabilmente porta alla sofferenza. L’avidità sensuale eccessiva può ridurre la stessa individualità umana ad un livello animale, a scapito della coscienza. La vita diventa allora una meccanica ripetizione di comportamenti abitudinari, alla ricerca di stimoli, di desideri, di vani tentativi di gratificazione e soddisfazione. Questo non è vuoto moralismo, precisa Nyanaponika, bensì una obiettiva descrizione di meccanismi mentali e dei conseguenti comportamenti umani.
Proprio in quanto rischia di portare all’eliminazione dell’individualità, delle peculiarità umane, l’avidità sensuale può essere avvicinata al suo apparente opposto, la sete di non-esistenza, vibhava trishna. Quanto Eros e Thanatos, amore sensuale e morte, siano affini, era cosa ben nota già dall’antichità. In tempi a noi più vicini, fu Freud a studiare il principio di piacere e la pulsione di morte nella loro interdipendenza, e lo fece soprattutto negli ultimi anni della sua vita.
Nyanaponika Thera
Nelle parole di Nyanaponika, il desiderio di annullamento è visto come uno straripamento del fiume della vita individualizzata: le acque rompono gli argini, spinte dalla sofferenza, dalle frustrazioni, per fluire verso una immaginaria unità con un oceano indistinto. L’avidità di annullamento è assoluta disperazione, il sogno di un sonno senza sogni e senza risveglio, il desiderio di distruggere noi stessi o il mondo che non esaudisce i nostri desideri, o entrambe le cose. Di qui sono nate e continuano altresì a generarsi le teorie economiche e politiche che esaltano la forza, la distruzione, lo sfruttamento dell’uomo e delle risorse naturali. E le teorie filosofiche del nichilismo, del materialismo, del superomismo.

Il desiderio dell’esistenza, bhava trishna, “è l’incessante inquieto fluire del fiume della vita verso le mete sperate, ma mai raggiunte”: può essere il desiderio che la propria vita si prolunghi incessantemente, che sia eterna, come se l’eternità fosse una somma matematica di istanti, di giorni, di anni; oppure è la speranza in un qualche paradiso, fisico o mentale o spirituale; o ancora, l’attesa di un’età dell’oro che corrisponda finalmente alla nostra fede religiosa o politica, per noi stessi, i nostri figli, il nostro paese o l’intera umanità.
L’avidità di esistere è ciò che fa girare la ruota della vita: in apparenza, vivere significa salire un gradino dopo l’altro, sperando che il successivo sia l’ultimo, quello che rappresenta la meta desiderata. Ma in realtà, in una ruota non c’è un ultimo punto, un ultimo passo. Non è in quel modo che si può raggiungere la liberazione dalla sofferenza. Il solo modo è arrestare le forze interiori che spingono la ruota stessa: l’ignoranza, l’avidità, l’avversione.
Altrimenti, accade come a Sisifo, il quale, secondo il mito greco, era costretto a spingere un masso dalla base alla cima di un monte. Tuttavia, ogni volta che Sisifo raggiungeva la cima, il masso rotolava nuovamente alla base del monte. Ogni volta, e per l'eternità, Sisifo avrebbe dovuto ricominciare da capo la sua scalata senza mai riuscirci.
Inoltre, l’avidità di esistenza si manifesta come desiderio di varietà, come continua ricerca di felicità al di fuori di noi, in altri luoghi, in altri tempi, presso altre persone, al di fuori di ciò che è così com’è, qui ed ora. E allora siamo come Tantalo, che non poteva cibarsi né bere, nonostante fosse circondato da cibo e acqua. Infatti egli era legato ad un albero carico di ogni qualità di frutti, in mezzo ad un lago la cui acqua arrivava fino al suo mento. Ma non appena Tantalo provava a bere il lago si prosciugava, e non appena provava a prendere un frutto i rami si allontanavano.

La società contemporanea, specialmente nei paesi più ricchi – ma la globalizzazione ha ormai omologato quasi tutto il pianeta ai valori e agli stili di vita dominanti in Occidente – è un esempio lampante dei meccanismi mentali e comportamentali sopra descritti; essa è un modello perfetto di come la corsa sempre più frenetica alla soddisfazione di ogni tipo di desiderio attraverso l’appropriazione di oggetti, persone, situazioni, si risolva in fallimenti e sofferenze. Ma le frustrazioni non divengono occasione di riflessione e di “conversione” verso altri modi di vita e di pensiero, al contrario diventano il motivo per ulteriori corse alla ricerca di nuovi stimoli, di nuovi falsi bisogni… e di nuove sofferenze. Nulla sembra più falso della massima di Cicerone, secondo cui “historia magistra vitae”, sia per gli individui che per le nazioni.
Un circolo vizioso che si autoalimenta incessantemente, radicato nella falsa credenza (avidya, l’ignoranza) di avere un ego. 
La soluzione che l’insegnamento del Buddha propone per spezzare la catena e porre fine alla produzione di sofferenza è quella di “lasciare la presa”; smettere di andar dietro ai fantasmi dell’ego; superare la sete, il desiderio avido, la brama, come motivazioni delle nostre azioni, anzi, delle nostre re-azioni automatiche; cessare di alimentare con nuovo combustibile l’io-mio, l’io-voglio, il “mi piace-non mi piace”.
Cominciare da adulti a fare ciò che il Buddha diceva dei bambini: guardare i nostri castelli mentali come i bambini guardano i loro castelli di sabbia, qualcosa con cui giocare per qualche tempo e poi distaccarsene senza problemi lasciando che l’acqua li distrugga. 
È detto nei testi: “Chi è sopraffatto dal desiderio, trama a proprio danno, a danno del prossimo, a danno di entrambi [..]. Il desiderio è la causa della cecità, del non vedere, del non sapere, della perdita della comprensione: è strettamente legato all’afflizione e non conduce al nirvana”. 

Se per un istante si abbandona la prospettiva buddhista e ci si rivolge alle tradizioni spirituali dell’Occidente, si può osservare come tutto questo sia stato realizzato nella propria vita, sia pure in un contesto culturale e religioso radicalmente diverso, da Francesco d’Assisi, il quale aveva pienamente compreso come qualsiasi gioia fondata sull’ego e sull’ignoranza della propria autentica natura non fosse gioia autentica, ma solo una emozione impermanente, causa di ulteriore frustrazione e sofferenza. Si legge nei Fioretti:

Venendo una volta santo Francesco da Perugia a Santa Maria degli Angioli con frate Lione a tempo di verno, e 'l freddo grandissimo fortemente il crucciava, chiamò frate Lione il quale andava innanzi, e disse così: “Frate Lione, avvegnadioché li frati Minori in ogni terra dieno grande esempio di santità e di buona edificazione nientedimeno scrivi e nota diligentemente che non è quivi perfetta letizia”. E andando più oltre santo Francesco, il chiamò la seconda volta: “O frate Lione, benché il frate Minore allumini li ciechi e distenda gli attratti, iscacci le dimonia, renda l'udir alli sordi e l'andare alli zoppi, il parlare alli mutoli e, ch'è maggior cosa, risusciti li morti di quattro dì; iscrivi che non è in ciò perfetta letizia”. E andando un poco, santo Francesco grida forte: “O frate Lione, se 'l frate Minore sapesse tutte le lingue e tutte le scienze e tutte le scritture, sì che sapesse profetare e rivelare, non solamente le cose future, ma eziandio li segreti delle coscienze e delli uomini; iscrivi che non è in ciò perfetta letizia”. Andando un poco più oltre, santo Francesco chiamava ancora forte: “O frate Lione, pecorella di Dio, benché il frate Minore parli con lingua d'Agnolo, e sappia i corsi delle istelle e le virtù delle erbe, e fussongli rivelati tutti li tesori della terra, e conoscesse le virtù degli uccelli e de' pesci e di tutti gli animali e delle pietre e delle acque; iscrivi che non è in ciò perfetta letizia” [..]. 
E durando questo modo di parlare bene di due miglia, frate Lione, con grande ammirazione il domandò e disse: “Padre, io ti priego dalla parte di Dio che tu mi dica dove è perfetta letizia”. E santo Francesco sì gli rispuose: “Quando noi saremo a santa Maria degli Agnoli, così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo e infangati di loto e afflitti di fame, e picchieremo la porta dello luogo, e 'l portinaio verrà adirato e dirà: Chi siete voi? e noi diremo: Noi siamo due de' vostri frati; e colui dirà: Voi non dite vero, anzi siete due ribaldi ch'andate ingannando il mondo e rubando le limosine de' poveri; andate via; e non ci aprirà, e faracci stare di fuori alla neve e all'acqua, col freddo e colla fame infino alla notte; allora se noi tanta ingiuria e tanta crudeltà e tanti commiati sosterremo pazientemente sanza turbarcene e sanza mormorare di lui, e penseremo umilmente che quello portinaio veramente ci conosca, che Iddio il fa parlare contra a noi; o frate Lione, iscrivi che qui è perfetta letizia. E se anzi perseverassimo picchiando, ed egli uscirà fuori turbato, e come gaglioffi importuni ci caccerà con villanie e con gotate dicendo: Partitevi quinci, ladroncelli vilissimi, andate allo spedale, ché qui non mangerete voi, né albergherete; se noi questo sosterremo pazientemente e con allegrezza e con buono amore; o frate Lione, iscrivi che quivi è perfetta letizia. E se noi pur costretti dalla fame e dal freddo e dalla notte più picchieremo e chiameremo e pregheremo per l'amore di Dio con grande pianto che ci apra e mettaci pure dentro, e quelli più scandolezzato dirà: Costoro sono gaglioffi importuni, io li pagherò bene come son degni; e uscirà fuori con uno bastone nocchieruto, e piglieracci per lo cappuccio e gitteracci in terra e involgeracci nella neve e batteracci a nodo a nodo con quello bastone: se noi tutte queste cose sosterremo pazientemente e con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le quali dobbiamo sostenere per suo amore; o frate Lione, iscrivi che qui e in questo è perfetta letizia”.

Testi

Cornu Dizionario del Buddhismo Ed. Bruno Mondadori
Falà Salayatana, gli organi sensoriali in: Paramita n. 36
Falà Phassa, il contatto in: Paramita n. 37
Falà Vedana, la sensazione in: Paramita n. 38
Falà Tanha, il desiderio in: Paramita n. 39
Nyanaponika Thera La visione del Dhamma Ed. Ubaldini
Johansson La psicologia dinamica del buddhismo antico Ed. Ubaldini
- I Fioretti di San Francesco Ed. BUR Rizzoli