sabato 22 febbraio 2014

I 12 anelli: 12 - Vecchiaia e morte

Dodicesimo anello del pratitya samutpada è jara-marana, vecchiaia e morte.
Nelle tradizioni induiste il termine Jara (“che si fa vecchio”) allude al dio Krishna, il quale, dopo la lunga e sanguinosa guerra narrata nel poema epico Mahabharata, si ritirò nella foresta, dove venne ucciso per errore dalla freccia di un cacciatore di cervi, il cui nome era appunto Jara.
Jara era anche, in quanto personificazione dell’invecchiamento, una figlia del dio Mrityu, a sua volta personificazione della morte. Altra figura dei miti induisti relativi alla morte è il dio Yama (yam è ciò che frena, la cessazione, il limite), colui che è preposto al giudizio di coloro che sono morti.
Se jara indica il processo inevitabile dell’invecchiamento, marana è invece la morte, la distruzione.
Ed infatti nell’induismo Mara, altro aspetto di Mrityu (entrambi i nomi derivano dalla radice mri, morire), era associato alla morte per malattia, alle pestilenze, alle uccisioni.
Secondo le tradizionali biografie del Buddha, Mara si manifesta a Siddharta prima che questi ottenga il Risveglio (divenendo appunto un Buddha) e cerca di dissuaderlo dalla sua missione proponendogli, per mezzo delle sue figlie, di dedicarsi alla ricerca dei beni e dei poteri materiali.
In questo ambito Mara rappresenta colui che vuole insinuare il dubbio, colui che crea separazioni, e in tal senso è assimilabile alla ben nota figura del diavolo (etimologicamente “colui che si mette in mezzo”), a Satana nel ruolo di tentatore, di agente provocatore, assunto in epoche più recenti in quanto in origine rivestiva quello di “pubblico ministero”.
Jara - marana

Tornando al bhavachakra, l’anello di jara-marana è raffigurato con l’immagine di un uomo che regge sulle spalle un cadavere avvolto in un telo, mentre lo sta portando al carnaio, o ad un sito di cremazione.
Molto significativo è il fatto che i teli con cui si avvolgevano i cadaveri venivano poi raccolti dai monaci buddhisti e diventavano la “materia prima” con cui venivano confezionati i loro abiti, i kesa, perfetto esempio di rinuncia e di comprensione dell’impermanenza e della vacuità dell’ego.
Si legge nei Sutra: “Condizionate dalla nascita hanno origine la vecchiaia e la morte”.
È fondamentale capire e ricordare che jara-marana è sì il dodicesimo anello in una serie di dodici, ma non è l’ultimo, in quanto in realtà essi non formano visivamente un semplice cerchio, ma vanno visti in una prospettiva temporale, come elementi di una spirale che da un tempo senza inizio si ripresenta costantemente negli stessi punti.
La morte, quindi, non interrompe definitivamente il pratitya samutpada, ma costituisce la fine momentanea di un dato individuo. Le sue stesse azioni, come si è visto, determineranno la formazione di una nuova esistenza, che non è la stessa della precedente ma non è del tutto differente.
Ogni morte, come ogni nascita, non è la prima né l’ultima, e questo avviene fino a quando l’uomo resta attaccato all’esistenza, a causa dell’ignoranza, della brama e dell’attaccamento.
Se grazie alla pratica del Dharma, all’applicazione dei fattori dell’Ottuplice Sentiero (la quarta Nobile Verità), la catena viene spezzata, allora, come si legge nei Sutra, “il passato è distrutto, non vi sarà una nuova rinascita: i saggi che hanno la mente distaccata da una futura esistenza, che hanno distrutto il seme della rinascita, che hanno cessato di coltivare il desiderio, si estinguono a somiglianza di questa lampada”.
Ciò avviene quando si impara a “vedere le cose così come sono” (yatha bhuta), ovvero impermanenti, soggette al mutamento, all’invecchiamento e alla morte. E fonte di sofferenza, se tale realtà non viene pienamente, profondamente accettata.
In genere, parlare di nascita e morte equivale a parlare di inizio e fine definitiva. Per un buddhista significa invece vedere come nascita, invecchiamento e morte siano sempre presenti in noi, vedere come esse vadano di pari passo nel complesso psico-fisico che chiamiamo “io”. Ciò avviene infatti nel corpo e nella mente; l’impermanenza dei processi mentali è evidente a chi porti anche solo per qualche istante l’attenzione su di sé, sensazioni, percezioni, pensieri, nascono, muoiono, rinascono, istante dopo istante. E lo stesso processo si verifica nel corpo, in ogni sua parte, ad esempio nelle cellule che si generano e muoiono continuamente. La morte intesa come termine finale dell’esistenza di un dato individuo è in realtà un processo, che si svolge con modalità diverse: i due flussi, fisico e mentale, durante la vita scorrono di pari passo, alla fine il flusso corporale si dissolve nei suoi elementi di base (terra, acqua, aria, fuoco), che tornano all’origine, il mentale fluisce secondo il karma accumulato e nell’ultimo istante di coscienza di un certo individuo dà origine ad una nuova esistenza.

Nonostante i secoli, i millenni di evoluzione umana, nonostante i progressi di ogni tipo, culturali, tecnologici, anche spirituali, la veridicità dell’affermazione del Buddha secondo cui “la vecchiaia è sofferenza, la morte è sofferenza” (nella prima Nobile Verità) non è stata minimamente scalfita. Ed è a tal punto vera che anche lo stesso pensiero della morte è fonte di sofferenza, in quanto l’uomo “ordinario” non accetta, se non a livello puramente razionale, e quindi superficiale, che alla nascita segua necessariamente la morte.
Anzi, le società del mondo industrializzato hanno ulteriormente accentuato la tendenza degli individui e dei gruppi umani al rifiuto del pensiero della morte, contribuendo così ad aggiungere altra sofferenza alla sofferenza stessa. È il fenomeno che gli studiosi chiamano “rimozione della morte”.

La rimozione della morte

12 marzo 1763: una data chiave nella storia della società occidentale moderna. Il Parlamento di Parigi emana un decreto che prevede la chiusura dei cimiteri all’interno della città e la loro apertura fuori di essa, nei dintorni.
Al di là del fatto che il decreto non sia stato applicato se non dopo diversi anni (Editto di St. Cloud del 1804. Si ricordi Foscolo: “Pur nuova legge impone oggi i sepolcri / fuor de' guardi pietosi…”), e al di là delle motivazioni “oggettive” (igienico-sanitarie, economiche…) che lo hanno ispirato, resta il fatto che l’ordinanza del Parlamento esplicita concretamente il profondo mutamento intervenuto nelle modalità con cui l’uomo europeo del XVIII sec. pensa e vive la morte, in tutti i suoi aspetti.
Si è trattato di un processo lento, iniziato nei decenni precedenti, parallelo a fenomeni epocali interdipendenti quali la formazione delle classi borghesi, l’industrializzazione, l’urbanizzazione, la laicizzazione della società ecc.; fenomeni strutturali e culturali che non hanno coinvolto omogeneamente e contemporaneamente tutti gli strati sociali, in Francia come altrove. Ma è stato comunque un processo irreversibile, in cui l’espulsione dei cimiteri dall’interno delle città illustra visivamente, come un quadro o una fotografia, un aspetto centrale della società occidentale post-industriale: il fenomeno della rimozione della morte.
Nel corso del XIX e del XX sec., scrive lo storico Philippe Ariès, “una maniera del tutto nuova di morire è comparsa (..) in alcune fra le regioni più industrializzate, più urbanizzate, più tecnicamente avanzate del mondo occidentale”: “la società ha espulso la morte”. E’ un fenomeno che si manifesta a tutti i livelli: il rapporto del moribondo con la propria morte e con chi gli sta intorno, l’ospedalizzazione della morte, il trattamento del corpo, le modalità del lutto e della sua elaborazione, la ritualità e i funerali, i cimiteri, il linguaggio relativo alla morte e al morto, ecc.
E’ certamente una descrizione riduttiva e semplicistica di un fenomeno complesso, disomogeneo, che è profondamente studiato nei suoi aspetti da storici, filosofi, psicologi. Esiste infatti un ramo specialistico del sapere chiamato tanatologia, il che sembra quasi contraddire quanto detto finora. Ma la auto-anestesia della società moderna nei confronti della morte è comunque un dato di fatto, ben sintetizzato da Enzo Bianchi, Priore della Comunità monastica di Bose, il quale scrive che “la morte appare rimossa e, al contempo, spudoratamente esibita; resa oscena, cioè scacciata dalla scena dei vivi, estraniata dal mondo delle relazioni sociali, e spettacolarizzata (..), quasi in un rito di esorcizzazione collettiva officiato dai mass-media. Una società narcisistica cerca di rimuovere la memoria dei limiti e anzitutto quell’evento, la morte, che ha il potere di annichilire tutti i deliri di onnipotenza dell’uomo”. La morte, in effetti, costituisce lo scacco di ciò che sta al centro della nostra società: la produzione e il consumo di merci. Consapevolezza della morte e feticismo delle merci sono elementi tra loro contraddittori ed inconciliabili.
In tal modo, l’individuo e la società, credendo di rimuovere una fonte di sofferenza, si privano proprio di ciò che può “divenire rivelazione, aprire squarci di senso sulla vita” (E. Bianchi). L’uomo, anestetizzandosi dal pensiero della morte, si rivolge alla causa della malattia scambiandola per la terapia. E crea nuova sofferenza a partire dalla sofferenza.
Enzo Bianchi ci ricorda infine che fu proprio la visione di un morto (dopo un vecchio e un malato) a segnare l’iniziazione alla via della liberazione dalla sofferenza per Siddhartha, il futuro Buddha, che da quel momento si allontanò dal Palazzo nel quale le cure paterne lo volevano preservare dalla visione dei mali del mondo.
Anche da questo punto di vista, affatto secondario, gli insegnamenti del Buddha vanno decisamente contro-corrente rispetto alle tendenze di fondo della società. A meno che non siano i valori oggi dominanti ad andare in direzione contraria rispetto ai reali bisogni dell’uomo….

Immagini della morte nelle tradizioni buddhiste

Il tema della morte si connette indissolubilmente ai grandi temi del buddhismo: l’impermanenza, il karma, la non-sostanzialità del sé, l’interdipendenza, la sofferenza. Ma non come modalità teorica, bensì come vera e propria pratica (lo si ricordi, il buddhismo non è una filosofia, ma una prassi). Al punto che il Buddha stesso disse che come tra le impronte degli animali quella dell’elefante è la più grande, così tra le meditazioni quella sulla morte è la suprema.

Per iniziare a comprendere l’insegnamento del Buddha sulla morte, ci si può affidare non solo ai Sutra nei quali esso è esposto, quanto invece ai racconti di due donne, due monache vissute all’epoca del Buddha. Le loro vicende sono narrate nel Therigatha (Le Strofe delle Anziane), un antico testo che fa parte del Canone Buddhista, nel quale le monache narrano le loro vicende umane.
La prima è Kisagotami, donna di nobili origini, alla quale morì l’unico figlio, ancora bambino. Impazzita dal dolore, correva di porta in porta con il cadavere del piccolo sul fianco, chiedendo per lui una medicina. Tutti la respingevano con disprezzo, ma uno, più saggio, la indirizzò dal Buddha. Ella vi si recò, e gli chiese un rimedio per il figlio. Il Buddha, “scorgendo la promessa che in lei era racchiusa”, le disse: “Vai, entra in città, e riporta un piccolo seme di mostarda da ogni casa nella quale non sia morto nessuno”. Così ella fece, inutilmente, in quanto in nessuna casa non era mai morto nessuno. Alla fine, la sua pazzia si placò, e pensò: “Evidentemente questo è l’ordine naturale delle cose in tutta la città. Il Beato previde questo, preso da pietà, per il mio bene”. Portò quindi il corpo del figlio nel cimitero, dicendo: “Non è questa legge di villaggio e neppure di città, né è la legge di una sola stirpe, ma in tutto il mondo ed anche per gli dei nel cielo questa è la legge: tutto è impermanente!”. Infine, tornò dal Buddha, ed entrò nell’ordine monastico.
Ugualmente significativo è il racconto di Patacara, figlia di un tesoriere, la quale abbandonò la casa paterna dopo essere divenuta l’amante di uno dei servitori. Mentre ella stava partorendo il loro secondo figlio, il marito entrò nella foresta per tagliare delle frasche per farle un riparo, ma venne ucciso da un serpente velenoso. Patacara prese con sé i figli per tornare dai genitori, ma durante il viaggio il piccolo le fu rapito da un falco, e l’altro morì annegato in un fiume in piena. Sconvolta dal dolore, mentre entrava nella città natia venne a sapere che la casa paterna era crollata, seppellendo padre, madre e fratello. Impazzita per il dolore, iniziò a girare in tondo, con le vesti che le cadevano a terra (Pata-acara = che va in giro trascinando la veste), mentre la gente le tirava immondizia e zolle di terra, in segno di disprezzo. La vide però il Buddha, il quale le si avvicinò, “contemplò la maturazione della di lei conoscenza” e le disse: “Sorella, riacquista la consapevolezza”. Dopo aver ascoltato il suo racconto, la rese consapevole con queste parole: “Patacara, non pensare che tu sia venuta da uno capace di esserti di aiuto. Proprio come tu ora stai versando lacrime per la morte dei tuoi bimbi e per il resto, così tu hai, in un infinito giro di esistenze, versato lacrime per la morte di bimbi ed altro, più abbondanti che le acque contenute nei quattro oceani.
Sono meno le acque dei quattro oceani
che la vasta distesa di acque, in lacrime versate,
dal cuore dell’uomo che si lamenta toccato dal dolore.
Per chi sprechi la tua vita, crogiolandoti in acerbi lamenti?
E ancora:
Non sono di riparo i figli, né il padre né alcun altro parente:
afferrata che tu sia dalla morte il vincolo del sangue non ti è di rifugio.
Questa verità discernendo il saggio, ben fondato sulla retta condotta,
rapidamente scopre la via conducente al Nirvana”.
Quindi, anche Patacara, il cui dolore era ormai più leggero da sopportare, entrò nell’ordine monastico. Un giorno, mentre si lavava i piedi, gettò via un poco di acqua, e la osservò mentre si spargeva per un breve tratto, prima di essere riassorbita nel terreno. Ne versò dell’altra, che arrivò più lontano. La terza volta, l’acqua andò ancora più in là. Osservando questo, Patacara sviluppò un pensiero: “Così pure i mortali muoiono, o nell’infanzia o nella mezza età o nella vecchiaia”. Il Buddha assistette da lontano alla presa di consapevolezza della monaca, e disse:
L’uomo che, vivendo un centinaio d’anni,
non contempla mai come sorgano e scompaiano le cose,
sarebbe stato meglio per lui vivere solo un giorno,
ed in quel giorno scorgere il flusso degli eventi”.
Per Patacara come per Kisagotami, si passa dalla disperazione ad un primo grado di liberazione: la realizzazione dell’universalità della morte e del suo carattere di assoluta naturalità. La loro è “una radicale accettazione della morte”, come dice Corrado Pensa. Ma il salto compiuto dalle due donne non è per nulla casuale o automatico. In entrambi i casi, si noti, il testo afferma chiaramente che il Buddha aveva visto in loro una promessa (Kisagotami) o una maturazione (Patacara). Quel salto di consapevolezza, di liberazione, può solo essere il frutto di una pratica spirituale. E nel buddhismo (e non solo in esso, va ribadito) “dire pratica spirituale significa automaticamente dire pratica sulla morte e, al contrario, dire pratica sulla morte significa dire pratica spirituale” (C. Pensa).
Un esempio di cosa significhi “pratica sulla morte” ci viene dalla meditazione sulla morte esposta nel Lam-rim, “Il Sentiero Graduale”, un sistema di pratica centrale nella tradizione tibetana della scuola Gelugpa, nella quale fu introdotto dal Lama Tsongkhapa nel XIV sec. In effetti, le scuole del buddhismo tibetano sono ricchissime di testi e insegnamenti sulla morte e sul morire, ed hanno sviluppato un approccio “pratico” al problema difficilmente riscontrabile nelle altre tradizioni spirituali, buddhiste e non.
La meditazione esposta nella prima parte del Lam-rim è detta “Tre radici, nove ragioni, tre determinazioni”, e si sviluppa secondo il seguente schema:

Prima radice
1 - l'inevitabilità della morte
Tre ragioni
1a - a suo tempo la morte arriva per tutti gli esseri umani
1b - giorno dopo giorno la vita diminuisce e non c'è alcuna speranza di poterla allungare
1c - anche se siamo vivi troviamo pochissimo tempo per praticare il dharma
Prima determinazione
1 - determinazione di praticare il Dharma

Seconda radice
2 - l'incertezza del momento della morte
Tre ragioni
2a - su questo pianeta la vita umana non ha una durata fissa
2b - la vita ha molte forze che le si oppongono e poche che le sono favorevoli
2c - il corpo umano è estremamente fragile
Seconda determinazione
2 - determinazione di praticare il Dharma immediatamente

Terza radice
3 - al momento della morte solo le proprie realizzazioni spirituali hanno valore
Tre ragioni
3a - ricchezze, proprietà, fama o potere sociale non sono di nessun valore
3b - la famiglia, gli amici e i parenti non ci sono di nessun aiuto
3c - perfino il vostro corpo non avrà più alcun valore
Terza determinazione
3 - determinazione di praticare il Dharma in modo puro, non mischiato a tendenze materialistiche.

Il meditante, seduto correttamente, osserva le tre radici, con le corrispondenti ragioni e determinazioni, quindi, secondo i tempi e le modalità insegnategli, medita formalmente su ogni singola ragione, giorno dopo giorno, concludendo ogni sessione su tutti i punti, per arrivare dopo un certo periodo a lavorare sull’intera meditazione. Ed ogni volta, alla fine della seduta, recita una preghiera, ad esempio: “grazie al potere di questa pratica possa io raggiungere rapidamente la perfetta buddhità e possa così ogni essere senziente realizzare l’eterna felicità della saggezza”, dove, come si vede, la pratica è sempre finalizzata al beneficio di tutti gli esseri, mai solo al proprio vantaggio.
Bodhidharma
Ancora un breve cenno sul tema della morte, nella tradizione Zen questa volta, con la storia di Bodhidharma, il monaco che nel VI sec. d.C. portò dall’India alla Cina la pratica del dhyana, divenendo il primo Patriarca Ch’an (in giapponese Zen). Il padre di Bodhidharma, sovrano di un piccolo regno dell’India del Sud, si ammalò e morì dopo una lunga agonia, che segnò profondamente il figlio. Il giovane, dopo le esequie, si sedette accanto alla tomba, e vi restò immobile in profonda meditazione per sette giorni. Alla fine di questo ritiro, due suoi fratelli gli domandarono perché avesse fatto questo e si sentirono rispondere: “Ho voluto vedere dove era andato mio padre, ma non ho visto altro che il sole che brilla sulla terra e nel cielo.

Diceva il maestro Taisen Deshimaru (1914-1982):

anche se li amiamo,
i fiori appassiscono e muoiono;
e le erbacce, anche se le detestiamo,
spuntano e vivono…
Durante la vita non dovete cadere nell’adorazione del paradiso.
Dopo la morte, non dovete avere paura dell’inferno.


venerdì 21 febbraio 2014

Il Buddha e/o le ciminiere



Ha scritto Peter Timmerman, studioso canadese di problematiche ambientali:

Essere buddhisti oggi costituisce un atto geopolitico, per l’evidente ragione che in questo momento ognuno dei nostri atti aggiunge o toglie qualcosa dal fardello dei problemi umani che gravano sulla terra. È un atto geopolitico anche perché, data la continua inclinazione al consumismo, una delle azioni più radicali che possiamo compiere nella nostra società è di consumare meno, di sedere silenziosamente meditando in una stanza oppure cercare di pensare con chiarezza a quello che cerchiamo di essere. E infine, essere buddhisti è un atto geopolitico perché ci fornisce uno spazio entro cui operare e resistere alla nostra cultura aggressiva, considerando le alternative.

Questo spazio operativo, con i suoi modi di considerare attentamente e di meditare su quello che facciamo, fa parte di quello che viene chiamato “pensiero non violento”. Probabilmente è una delle strategie che sole possono agire contro un sistema così aggressivo nelle sue pretese di razionalità e che provoca risposte irrazionali nelle persone soggette ai suoi potenti meccanismi...

Il buddhismo si presenta come una alternativa che sfida... le idee aggressive che per così lungo tempo hanno formato i nostri pensieri e le nostre azioni.



Con altre parole, il XIV Dalai Lama ribadisce lo stesso concetto di responsabilità individuale:

Dobbiamo sviluppare un senso di responsabilità universale, non solo in senso geografico, ma anche in rapporto alle diverse sfide che il nostro pianeta deve affrontare. La responsabilità non ricade solo sui capi dei nostri paesi o su coloro che sono stati eletti o nominati a ricoprire un particolare incarico. Essa ricade su ciascuno di noi individualmente.

È detto nell’Avatamsaka Sutra:

Tutti i paesi sono il mio corpo
e così sono i Buddha che vivono colà;
guarda i miei pori
e io ti mostrerò il regno del Buddha.
Proprio come la natura della terra è una sola
mentre ciascun essere vive separatamente,
e la terra non ha idee di unicità o differenza,
così è la verità del Buddha.



Così si esprime Ajahn Sumedho, monaco buddhista americano:

Quando si capisce quello che è in gioco, si sente veramente il bisogno di essere molto attenti a ciò che si fa e si dice. Non si può aver l’intenzione di vivere la propria vita a spese di altre creature. Non si percepisce più la propria vita dandole un’importanza tanto maggiore rispetto a quella di qualsiasi altro. Si comincia a sentire la libertà e la leggerezza nell’armonia con la natura piuttosto che nella pesantezza dello sfruttamento della natura a scopo di guadagno personale.


Le alternative sono possibili, e una ce la indica l'antica tradizione dello Zen:

Tokusan interrogò Ryutan intorno allo Zen fino a notte tarda. Alla fine Ryutan disse: “E’ notte fonda. Faresti meglio ad andartene”. Tokusan fece i suoi inchini, sollevò la tenda della porta e uscì. Trovandosi di fronte al buio della notte, tornò indietro da Ryutan e disse: “E’ buio fuori”. Ryutan accese perciò una candela e gliela porse. Tokusan stava per prenderla, quando Ryutan la spense con un soffio. In quel momento Tokusan fu improvvisamente illuminato.



Si veda:

Batchelor - Brown     Ecologia buddhista    ED. Neri Pozza

mercoledì 5 febbraio 2014

I 12 anelli: 11 - La nascita

XI – Jati, la nascita

Undicesimo anello del pratitya samutpada è jati, la nascita, raffigurata con l’immagine di una donna che sta partorendo.
Condizionata dal processo del divenire ha origine la nascita”.
In questo contesto il termine jati indica più precisamente la ri-nascita, essendo jati il primo dei due fattori prodotti (l’altro è vecchiaia-e-morte), laddove brama, attaccamento e divenire sono i fattori di produzione.
Si legge nei Sutra: “Quello che di questo e quell’essere, in questo e in quel gruppo, è nascita, origine, riproduzione, comparsa dei fattori, acquisizione delle modalità sensoriali, viene definito nascita”.
Jati, la nascita

In un altro passo viene detto che “tutto è soggetto alla nascita”, e quel “tutto” viene poi definito come “occhio, forme, coscienza oculare, stimolazione oculare, la sensazione piacevole, spiacevole o neutra che insorge a causa della stimolazione oculare”, per proseguire poi con gli altri sensi, compreso il “senso interno”, mana.
Sono, si noti, gli elementi della prima parte del pratitya samutpada, tutti relativi alla percezione. Quindi tutto l’universo, in quanto percepito, è soggetto alla nascita (e a vecchiaia-e-morte).
Ancora una volta, si evince che per il buddhismo “non c’è alcun mondo esistente di per sé; il mondo è un processo dinamico, che viene costantemente prodotto e deliberatamente costruito dai nostri sensi, dai nostri pensieri e dai nostri desideri (..). Questo non vuol dire che noi e il mondo siamo irreali o una mera illusione. Gli oggetti ci sono, ma le percezioni che di essi noi abbiamo sono loro parti essenziali e costituenti (Johansson).
Si legge nei testi: “è proprio in noi, in questo nostro corpo alto due braccia, con le sue percezioni e la sua coscienza, che c’è il mondo, il sorgere del mondo, la fine del mondo e il sentiero che conduce alla fine del mondo”.
Quindi, noi siamo i costruttori del mondo e pertanto possiamo anche distruggerlo: distruggere il mondo, ovvero esserne indipendenti, è raggiungere il Nirvana, la liberazione, attraverso la comprensione della reale natura delle cose e di noi stessi.

Jati, la nascita, è citata quale primo elemento nell’elenco di ciò che il Buddha definisce come sofferenza nella Prima Nobile Verità: “La nascita è sofferenza, la vecchiaia è sofferenza, la morte è sofferenza; tristezza, lamenti, dolore fisico e mentale, angoscia è sofferenza; la separazione da ciò che piace è sofferenza, non poter avere ciò che si desidera è sofferenza”.
Siamo soggetti alla sofferenza in quanto siamo nati, e siamo nati in quanto condizionati da avidya, l’ignoranza che ci impedisce di vedere le cose come sono e quindi ci fa agire spinti dalla brama e dall’attaccamento.
Questa nostra nascita è il frutto del desiderio e dell’attaccamento delle vite precedenti. Il desiderio e gli attaccamenti di questa vita produrranno una futura rinascita, determinandone le condizioni.
È detto: “Gli esseri sono eredi delle loro azioni, le loro azioni sono l’utero da cui sorgono, le azioni sono i genitori, le azioni sono gli arbitri”.

Vengono dunque esclusi due punti di vista opposti tra loro:
-          quello per cui c’è una Entità suprema che ordina l’universo, decidendo quali debbano essere le differenze tra gli esseri e
-          quello secondo il quale tutto nell’universo è caos o casualità.
L’uomo nella visione buddhista è totalmente responsabile della propria vita presente, lo è stato per quelle passate, lo è e lo sarà per quelle future.
Tutto è dovuto a cause e condizioni, e le innegabili differenze tra gli uomini non possono pertanto sussistere senza cause e condizioni, e tale causa non può che essere il processo karmico.
Il tema delle differenze tra gli esseri, che “il karma divide... in superiori e inferiori”, è oggetto di un Sutra, il Culakammavibhanga Sutta (il Sutra delle determinazione dell’azione), che così recita.

Questo ho sentito.
Una volta il Sublime dimorava presso Savatthi, nella Selva del Vincitore, nel parco di Anathapindiko.
Là, Subho, un giovane brahmano, figlio di Todeyyo, si recò dal Sublime, scambiò i consueti cerimoniosi saluti, si sedette accanto e chiese: “Quale è la causa, la ragione per cui anche tra coloro che sono divenuti uomini ci sono inferiorità e superiorità? Infatti si vedono uomini che muoiono giovani e altri longevi; alcuni molto malati e altri sani; brutti e belli; poveri e ricchi; ignobili e nobili; stupidi e intelligenti. Perché?”
“Eredi, proprietari, figli, dipendenti, generati dall'azione sono gli esseri, giovane. L'azione determina gli esseri in quanto a inferiorità e superiorità”.
“Io non intendo interamente il senso di ciò che è stato concisamente detto dal signore Gotamo, senza spiegarne il senso. Sarebbe bene che il signore Gotamo mi esponesse la dottrina in modo che io comprenda”.
“Allora, giovane, ascolta con attenzione. Ecco, una donna o un uomo è distruttore di vita, crudele e sanguinario, dedito all'uccisione e alla strage, spietato per gli esseri viventi. Egli per questo agire, dopo la morte riesce in basso, all'inferno. Ma se non va all'inferno e diviene uomo, è di corta vita. Ecco la ragione.
Però se una donna o un uomo si astiene dall'uccidere e, deposte mazza e spada, vive sensibile, pietoso, amichevole e compassionevole verso tutti gli esseri viventi, allora, dopo la morte si trova in un mondo celeste. Ma se non si trova lassù e diviene uomo, vive una lunga vita.
Ecco che una donna o un uomo è seviziatore degli esseri con le mani, la mazza o la spada. Per tale agire, alla sua morte va all'inferno. Ma se non va là e rinasce uomo, sarà molto malato.
Ecco però che una donna o un uomo non è seviziatore degli esseri. Per tale azione, dopo la morte, si trova in un mondo celeste. Ma se non si trova lassù e diviene uomo, è più sano.
Ecco una donna o un uomo iroso, uno che si arrabbia molto: per poco che gli sia detto, insorge, si adira, va in collera, contrasta, manifesta ira, astio e furore. Per tale agire, alla morte, si trova all'inferno. Ma se non va lì e rinasce uomo, diventa brutto.
Ecco però chi non s'arrabbia: pur provocato seriamente, non insorge, non va in collera. Per tale agire si trova in un mondo celeste. Ma se non va lì e rinasce uomo, si ritrova grazioso.
Ecco chi è invidioso: se altri ottengono guadagno, onore, rispetto, rinomanza, riverenza e venerazione, accumula invidia. Alla morte, va all'inferno; oppure, se rinasce uomo, diventa povero.
Se non è invidioso va in un mondo celeste; oppure, se rinasce uomo diviene un gran possidente.
Ecco che c'è chi non dà ad asceti o sacerdoti cibo, bevanda, veste, veicolo, fiori, odori, profumi, letto, tetto e luce. Quello va all'inferno; oppure, se rinasce uomo diventa poco benestante.
Se invece dà tutte quelle cose agli asceti o ai sacerdoti va in un mondo celeste; oppure, diventa un uomo molto ricco.
Una donna o un uomo è orgoglioso e superbo: non saluta chi è da salutare, non si alza davanti a chi bisogna alzarsi, non offre il posto, non cede il passo, non rispetta, non riverisce, non venera chi se lo merita. Alla morte va all'inferno; oppure, rinasce in una famiglia ignobile.
Chi invece non è orgoglioso e superbo e si comporta correttamente, si trova in un mondo celeste; oppure, nasce in una nobile famiglia.
Ecco una donna o un uomo che, recandosi da un asceta o sacerdote, non gli chiede: 'Cos'è salutare e cosa non lo è? Che è giusto e che non lo è? Cos'è da seguire e cosa non lo è? Che cosa fatta da me, mi riesce a lungo d'infausto dolore; e cosa, invece, mi riesce a lungo di fausto piacere?' Non avendolo fatto, finisce all'inferno; oppure, rinasce stupido.
Chi invece fa quelle domande va in un mondo celeste; oppure, rinasce intelligente.
Ecco chiarito, giovane, come eredi dell'azione sono gli esseri."
Dopo questo discorso il giovane Subho, figlio di Todeyyo, disse al Sublime: “Eccellente, Gotamo, eccellente! Così come se si raddrizzasse ciò che era rovesciato, o si scoprisse ciò che è nascosto, o si mostrasse la via a chi s'è perso, o si portasse luce nell'oscurità: 'chi ha occhi vedrà le cose'; così appunto è stata dal signore Gotamo in vari modi esposta la dottrina. E così io prendo rifugio presso il signore Gotamo, presso la Dottrina e presso l'Ordine dei mendicanti. Quale seguace voglia il signore Gotamo considerarmi da oggi per la vita fedele”.

Rinascita… di che cosa?

Si è più volte affermato che le scuole buddhiste sono concordi nel confutare l’esistenza di un sé individuale (che riguarda gli esseri senzienti) e, per quanto concerne la tradizione Mahayana, anche di un sé fenomenico (cioè relativo ai fenomeni percepiti dagli esseri).
In particolare, per la scuola Madhyamika Prasangika (di tradizione Mahayana), il sé è una pura convenzione, una semplice designazione nominale apposta alla base dei cinque aggregati.
Come noto, i cinque aggregati (skanda = mucchio, cumulo) sono i cinque insiemi (ogni aggregato è a sua volta un insieme) nei quali vengono inclusi tutti i fenomeni fisici e mentali:
-          le forme, del corpo e degli altri fenomeni fisici
-          le sensazioni, le esperienze sensibili piacevoli, spiacevoli e neutre
-          le percezioni, che riconoscono e identificano ciò di cui si fa esperienza
-          le formazioni karmiche o della volizione, che provengono dal karma passato e spingono alla “costruzione” delle condizioni karmiche attuali
-          la coscienza, che riunisce le informazioni degli altri insiemi, è “colui che conosce”, e si pone nella prospettiva dualistica di soggetto/oggetto.
A partire dall’insieme degli aggregati viene erroneamente dedotta l’idea di un “io” permanente, immutabile, con il quale ci si identifica. In realtà, l’io non è il corpo, che cambia costantemente, né le sensazioni, le percezioni o le volizioni, estremamente varie e mutevoli. Né la coscienza, anch’essa composta di istanti di coscienza successivi.
Quindi, come ha detto il maestro theravada Buddhaghosa (V sec, d.C.): “Solo la sofferenza esiste, ma non si trova nessun sofferente, le azioni esistono, ma non si trova nessun agente”.

A questo punto non può non sorgere la legittima domanda: se secondo la dottrina dell’anatta (in sanscrito anatman, non-io) al di là del mero fluire condizionato dei fenomeni non c’è alcun ego, che cosa è che rinasce? Ovvero: quel è il supporto del karma e cosa c’è alla base della continuità tra l’autore dell’atto e colui che ne sperimenta l’effetto karmico?
A questa domanda sono state date tante risposte quante sono le scuole che sono nate nella storia del buddhismo e nella sua diffusione nel mondo. E tutte più o meno insoddisfacenti, se si guarda alla tradizione buddhista come ad un insieme di teorie filosofiche o – ancor peggio – di dogmi religiosi.
Una buona sintesi la si trova nelle pagine di un testo del monaco cingalese Walpola Rahula (1907/1997), “L’insegnamento del Buddha”, nel quale scriveva:

Se non c’è un’entità permanente, immutabile, una sostanza come quella di un Sé o di un’anima (atman), che cosa è quello che può riesistere o rinascere dopo la morte? Prima di parlare della vita dopo la morte, vediamo che cosa è la vita presente e come mantiene una continuità. Quella che chiamiamo vita (..) è la combinazione dei cinque aggregati, una combinazione di forze fisiche e mentali. Queste sono in continuo cambiamento, non rimangono uguali neanche per due istanti consecutivi. Ogni momento nascono e muoiono (..). Di conseguenza anche ora, in questa vita presente, ogni momento noi nasciamo e moriamo, ma, nonostante questo, continuiamo a vivere. Se possiamo comprendere che in questa vita possiamo continuare a esistere senza una sostanza permanente e immutabile come un Sé o un’anima, perché non dovremmo comprendere che quelle stesse forze continuano a esistere, senza un Sé o un’anima per animarle, una volta che il corpo smette di funzionare?
Walpola Rahula
Quando questo corpo fisico non è più in grado di funzionare, le energie non muoiono con lui, ma continuano a esistere prendendo un’altra forma, che noi chiamiamo una nuova vita. (..)
Poiché non esiste una sostanza impermanente e immutabile, nulla si trasmette da un istante all’altro. Così è evidente che nulla di permanente, di immutabile, può passare o trasmigrare da una vita all’altra. Si tratta di una serie continua, senza interruzioni, che cambia in ogni momento. Questa serie, parlando più propriamente, non è niente altro che movimento. È come una fiamma che brucia per tutta la notte: non è la stessa fiamma né un’altra. Un bambino cresce e diventa un uomo di sessant’anni. Certamente un uomo di sessant’anni non è la stessa cosa di un bambino di sei anni, né però un’altra persona. Allo stesso modo una persona che morta qui, rinasce in un altro luogo, non è né la stessa né un’altra. È la continuità della stessa serie. La differenza tra la vita e la morte non è che un istante mentale: l’ultimo istante di attività mentale in questa vita condizionerà il primo istante di attività mentale nella cosiddetta nuova vita che, infatti, è la continuità della stessa serie. Anche in questa vita ogni attività mentale condiziona quella seguente. Così, dal punto di vista buddhista, il problema di una vita dopo la morte non è un gran mistero e un buddhista non si preoccupa affatto di questo problema.
Per tutto il tempo in cui ci sarà sete di essere e divenire, il ciclo della continuità (samsara) andrà avanti. Si potrà fermare solo quando questa forza che lo muove, questa ‘sete’, sarà tagliata via dalla saggezza che avrà la visione della Realtà, della Verità, del Nirvana.

Se si rimane attaccati ai concetti, alle dispute intellettuali, gli insegnamenti sul karma e sulla rinascita – come ogni altro insegnamento – non faranno che creare ulteriori complicazioni, nella mente e nella vita. Ma il buddhismo è essenzialmente una Via, una prassi di liberazione, e non una filosofia, un nuovo punto di vista sul mondo e sull’uomo, una teoria da studiare per poi metterla in pratica.
È questo l’insegnamento del buddhismo Zen, riassunto nelle parole del maestro Roland Yuno Rech: “La pratica dello zazen è imparare a vivere qui e ora. (..) Noi non neghiamo la teoria della trasmigrazione e delle vite successive, ma non ce ne preoccupiamo. Ci concentriamo sulla nostra pratica del Dharma, qui e ora. Non pratichiamo allo scopo di accumulare meriti per ottenere una buona reincarnazione. Anche se questo probabilmente è vero, si tratta tuttavia di una visione limitata.
(..) Gli orientali credono che ci si reincarni da una vita all’altra (..) in funzione della legge del karman. (..) Questa visione è accettata nello Zen e riveste anche una certa importanza. Il maestro Dogen [Giappone, 1200-1253] diceva: ‘Se non crediamo a questa causalità karmica con una ricompensa necessaria in uno dei tre periodi del tempo, e cioè questa vita, la prossima o una vita futura, non avremo fatto neanche il primo passo sulla Via’.
(..) Dobbiamo considerare il karman in rapporto alla nostra vita e dire: “Effettivamente, ciò che mi capita è legato al mio karman”. Pensando così divento pienamente responsabile delle mie azioni e posso assumermi tale responsabilità. È inutile pensare di essere perseguitati dalla sfortuna o vittime di una casualità assurda. (..) Se crediamo al caso non c’è un gran che da fare, ma se vediamo che tutto quello che ci capita è il risultato dei nostri pensieri, delle nostre parole e delle nostre azioni, persino di quelle di un passato molto lontano, prenderemo coscienza che tutto ha un effetto. Saremo allora più vigili e responsabili dei nostri atti.
(..) Certo, possiamo anche mettere sempre in dubbio questa nozione del karma, e affermare che non ci sono prove che ci sia qualcos’altro al di là di questa vita. La semplice osservazione che possiamo fare è dirci che, nel mondo che appare, i fenomeni si producono attraverso una concatenazione di cause ed effetti. Di conseguenza non c’è motivo perché tutto ciò non possa essere trasposto nella vita psichica. (..) Anche se la causalità karmica fosse un mito, l’importante è osservare quali sono gli effetti di questa credenza. Ciascuno di noi deve farne l’esperienza per vedere se è salutare o benefica e soprattutto se ci permette di vivere in pace e in armonia con gli avvenimenti dolorosi che ci capitano”.
Roland Yuno Rech
Nel corso stesso della vita quotidiana è possibile osservare come si sviluppi la legge della causalità karmica, la concatenazione delle cause e degli effetti. Ugualmente, durante lo zazen, e fuori di esso, possiamo osservare la trasmigrazione, la rinascita. “In un’ora e mezzo di zazen viviamo già in questo mondo di trasmigrazione [i sei regni del secondo anello del bhavachakra]. Possiamo andare da uno stato infernale di dolore e di ribellione a uno stato di pace prossimo alla beatitudine, prima di venire ripresi da desideri o da preoccupazioni familiari o finanziarie. Vedere la vita dal punto di vista della trasmigrazione è anche osservare in quale mondo si sta vivendo momento per momento”.


Testi

Cornu                    Dizionario del Buddhismo                                                              Ed. Bruno Mondadori
Falà                       Bhava, il divenire                                                                              in: Paramita n. 41              
Falà                       Jati, la nascita                                                                                   in: Paramita n. 42
Johansson            La psicologia dinamica del buddhismo antico                          Ed. Ubaldini
Roland Rech        Noi siamo dei Buddha                                                                     Ed. Oscar Mondadori
Walpola Rahula  L’insegnamento del Buddha                                                           Ed. Paramita
(Il libro non è più reperibile in commercio. Il testo integrale può essere letto qui:

Il testo del Sutra è reperibile on line qui: http://www.canonepali.net/mn/mn_135.htm






I 12 anelli: 9 - L'attaccamento; 10 - Il divenire

IX – Upadana, l’attaccamento

Dice il Buddha: “Condizionato dal desiderio ha origine l’attaccamento” (upadana, in sanscrito e in pali), ovvero l’attaccamento a ciò che è stato oggetto del desiderio, della sete, della brama. È il nono anello, rappresentato nel bhavachakra dall’immagine di una scimmia (già vista nel terzo anello, la coscienza), che coglie frutta su un albero.
Si legge nei testi: “Esistono forme che l’occhio può conoscere, forme desiderabili, piacevoli, care e deliziose, amabili, eccitanti. Se un monaco ne rimane affascinato, se le accoglie con gioia, se continua ad attaccarsi ad esse [..] finirà con l’avere una coscienza da esse dipendente, che su esse si attacca [..] ma, senza attaccarsi, egli si libera”. E si prosegue poi con gli altri sensi.
Upadana, l'attaccamento
Attaccarsi significa quindi rimanere legati ai “prodotti” dei processi percettivi, basarsi su di essi, non accettare che cambino, rifiutare la loro impermanenza, ovvero la loro reale essenza, la loro vacuità. E quindi soffrire e costruire altresì le fondamenta delle future sofferenze.
Per le leggi del karma, le azioni talvolta maturano i propri frutti nella vita presente, altre volte i frutti dell’azione verranno raccolti in altre esistenze successive.
Dice il Buddha: “Affermo che delle azioni intenzionali compiute e accumulate non può esserci cancellazione senza che si faccia esperienza dei loro risultati, sia che questo avvenga in questo mondo, sia che questo avvenga in altre condizioni”.
Upadana, l’attaccamento, fa quindi da tramite tra trishna, il desiderio, e bhava, il divenire, il decimo anello, dal quale si originano nascita e vecchiaia-e-morte (XI e XII).
È detto: “Nel momento in cui un essere abbandona questo corpo, ma non è ancora nato in un altro corpo – tutto ciò, vi dico, si costruisce sul desiderio. Poiché in quel momento il desiderio diventa l’agente [upadana] per ciò”.
Come si intuisce, upadana è un elemento dinamico. È l’agente del processo, così come lo è il vento allorquando strappa le fiammelle di un fuoco e le trasporta altrove, dove genereranno una nuova fiamma, nel contempo uguale e diversa dalla precedente.
Il riferimento è alle antiche credenze dell’India tradizionale (che il Buddha non rifiuta né accoglie incondizionatamente, ma trasforma radicalmente in una nuova visione), secondo le quali l’ultimo desiderio di un morente è ciò che causa e determina la nuova nascita.

All’origine delle sofferenze umane non c’è tanto il possesso degli oggetti quanto l’attaccamento a ciò che possediamo, anzi, che crediamo di possedere, in quanto non ne riconosciamo la natura impermanente e non-sostanziale.
L’attaccamento si manifesta sotto diverse forme: può essere un impulso momentaneo, spontaneo, effimero; oppure si tratta di attaccamenti che nascono da continue ripetizioni e che si trasformano col tempo in vere e proprie abitudini, in comportamenti automatici. Questi sono molto più difficili da riconoscere e influiscono più profondamente sulla vita della persona, sul suo presente e sul suo futuro. L’oggetto dell’attaccamento (una persona, un ideale, un ruolo sociale, degli oggetti materiali o immateriali…) si riveste di una forte componente emotiva, pare divenire insostituibile, assolutamente indispensabile per la vita dell’individuo. Il quale, in definitiva, crea da se stesso i legami in cui resta imprigionato.
Tali legami, ovvero stati mentali, sono ciò che incatenano ad una esistenza ciclica condizionata, non illuminata, priva di libertà, dominata dalla sofferenza e dalle frustrazioni inevitabili, data la reale natura dei fenomeni.

Upadana è tradizionalmente raggruppato in quattro sezioni:
v  Kamupadana, l’attaccamento agli oggetti dei sensi, all’eros, alle passioni; una naturale forma di difesa della vita, che però diviene attaccamento quando si rifiuta di vedere la natura impermanente della vita stessa e delle sue manifestazioni, il che ci impedisce di fruirne fino in fondo! Ne è un buon esempio la attuale “società dei consumi”, fondamento della quale è la coazione a ripetere il gesto dell’acquisizione di beni, indipendentemente dal reale bisogno che se ne ha.
v  Ditthupadana, l’attaccamento alle opinioni, alle false idee, nelle due diverse tipologie del nichilismo (per cui ad esempio non c’è bisogno di seguire alcuna legge morale, in quanto non esiste effetto karmico delle azioni, nulla sussistendo dopo la morte) e dell’eternalismo (secondo cui esiste un’anima immortale, atman, indipendente dai processi fisici e mentali che passa da un corpo all’altro fino a fondersi con il Sé Universale, Brahman). Caso emblematico è la figura dell’intellettuale mai disposto ad abbandonare le proprie idee ed opinioni.
v  Silabbatupadana, l’attaccamento a regole e rituali, il che è tipico di una mente formalistica, la quale ritiene che basti seguire alla lettera delle norme e dei rituali esteriori per attingere alla liberazione. È una radicale critiche che il Buddha rivolse alla religione brahmanica e alla casta sacerdotale che monopolizzava la spiritualità indiana dell’epoca.
v  Attavadupadana, l’attaccamento alla falsa opinione dell’esistenza di un io. Ne consegue la formazione di una personalità piena di sé, con un ego inflazionato che viene proiettato all’esterno di sé e in un futuro senza fine.

Naturalmente si tratta soltanto di classificazioni, che l’India antica amava profondamente, e che certo non sono prive di utilità pratica. Altre categorie ancora si potrebbero aggiungere: ad esempio, il maestro theravada Nyanaponika Thera proponeva una ulteriore distinzione, tra l’attaccamento perseguito attivamente e quello di cui si fruisce passivamente. Nella prima categoria rientrano i godimenti legati ai sensi, la sessualità, la fruizione estetica, la spinta ad ammassare, ad accumulare, la sete di potere a tutti i livelli… Nella passività rientrano invece il desiderio di sottomettersi, l’istinto gregario, l’affidarsi compulsivamente a relazioni personali o di gruppo, il culto dei capi, il legame con le usanze, con le tradizioni… Come pure l’abbandono del mistico nei confronti della divinità o verso la beatitudine della meditazione, che è pur sempre una forma di intossicazione dello spirito.
Tutte queste categorie, queste catalogazioni, sono anch’esse frutto del lavoro della mente, e sono pertanto generiche, non esaustive, provvisorie. In ogni caso, non devono divenire a loro volta oggetti di attaccamento.
Diceva il Buddha che “l’insegnamento è come una zattera che serve per approdare all’altra sponda [la liberazione, il nirvana]. L’intelligente, dopo aver attraversato il fiume, non si caricherà la zattera sulle spalle”.
Così colui che si incammina su una Via spirituale deve costantemente vigilare su se stesso affinché nemmeno gli ideali spirituali, gli insegnamenti, la pratica, i meriti accumulati, il Buddha e il Nirvana stessi divengano oggetti di attaccamento, concetti, obiettivi da perseguire al di fuori di sé.
Diceva ancora il Buddha: “Solo un monaco che non raccoglie ottiene il Nirvana”.

  
X – Bhava, il divenire

A partire dal quarto anello (namarupa, il complesso psico-fisico) e fino al nono (upadana, l’attaccamento) è stato preso in esame il meccanismo in base al quale l’uomo interagisce col mondo esterno ed interno. Un meccanismo ripetitivo, introiettato al punto di divenire spesso automatico, difficilmente riconoscibile, che dalla sensazione e sotto la spinta del desiderio porta l’uomo ad attaccarsi agli oggetti senza riconoscere, per ignoranza, la loro non-sostanzialità ed impermanenza, dando così origine alla sofferenza.
Tutto il meccanismo sin qui descritto origina il decimo anello, bhava, il divenire, rappresentato dall’immagine di una donna in stato di gravidanza.
Il termine sanscrito (e pali) bhava deriva dalla radice bhu, che ha il significato di “origine”, “genesi”, “venire alla luce”, e si associa quindi nel contesto del bhavachakra, al karma e alla rinascita.
Bhava è il divenire in cui stiamo agendo ora (talvolta bhava indica l’azione stessa), ed è anche l’anello di congiunzione con la vita futura (jati, la nascita, undicesimo anello). È la base, condizionata dall’attaccamento, su cui si sviluppa una nuova esistenza: la rinascita è quindi preparata durante l’intero corso della vita presente, attraverso il processo intenzionale di attività, esperienze, desideri, pensieri…
Bhava, il divenire

L’esistenza futura è ciò in cui si deve esplicare l’effetto di ciò che è stato compiuto, in quanto eredità del passato.
Dalla sensazione, che di per sé è il semplice incontro tra oggetto sensibile e organo di senso, scaturisce il desiderio, ovvero una reazione che a livello cognitivo è una manifestazione dell’ignoranza dell’autentica natura dei fenomeni (avidya) e a livello emotivo si manifesta come avidità/avversione.
Dal desiderio sorge l’attaccamento, cioè l’aspettativa che un qualcosa avvenga (o non avvenga) come noi vogliamo, oppure resti così come ci piace.
A questo punto il divenire è innescato.
Per questo, i tre nidana (anelli) della sete, dell’attaccamento e del divenire sono definiti nel loro insieme come i “fattori di produzione”, laddove i due successivi sono i “fattori prodotti”, nascita e vecchiaia-e-morte, che sono relativi all’esistenza futura.

Come si è visto, l’anello del divenire riguarda espressamente il karma. Che costituiva già il secondo anello, quello dei samskara (o sankhara), le formazioni mentali condizionate dall’ignoranza, avidya.
Perché due anelli, entrambi relativi al karma?
Nel caso dei samskara, si tratta del karma passato, dei semi karmici che entrano a far parte dell’esistenza presente.
Nel caso di bhava, si tratta invece delle azioni compiuto nel corso della vita presente e degli stati mentali ad esse associati; sono qui presenti due aspetti:
-          quello attivo di produzione karmica e
-          quello passivo, gli effetti di tale produzione, che portano al processo di rinascita.

Si parla pertanto dei due aspetti che il processo di crescita, di sviluppo (bhava) può assumere:
·         da una parte il kammabhava [si presti attenzione a non confondere il termine kamma, in sanscrito karma, l’azione consapevole che genera effetti karmici, con kama, la sensualità], il processo karmico vero e proprio cioè le azioni consapevoli che originano il “carico” karmico,
·         dall’altra upapattibhava, ovvero l’effetto del precedente, la necessità della rinascita quale risultato inevitabile dell’accumulazione karmica.

Secondo i testi antichi, vi sono 9 possibili modalità di esistenza generate da upapattibhava, a seconda del tipo di attaccamento sviluppato. Ad esempio, se si è spinti dall’attaccamento agli oggetti dei sensi (kamupadana), si produce un processo karmico della stessa natura, kamabhava, il quale costituisce a sua volta un preparativo per la rinascita nel mondo legato ai sensi, il kamaloka, che comprende i mondi degli dei e degli dei gelosi, i regni degli uomini, degli animali, degli spiriti famelici, e gli inferni.
Ma, senza entrare in ulteriori dettagli, ciò che conta è comprendere che scopo della persona saggia non è di rinascere in uno dei diversi modi di esistenza, bensì liberarsi dal ciclo della ripetizione delle esistenze.
È detto: “Il saggio dunque non crea né ha come scopo la crescita e il decadimento [..], egli non costruisce nulla nel mondo, è libero dalla sofferenza e ottiene il nirvana: la nascita si conclude”.


Testi

Cornu                      Dizionario del Buddhismo                                                                     Ed. Bruno Mondadori
Falà                         Tanha, il desiderio                                                                                 in: Paramita n. 39
Falà                         Upadana, l’attaccamento                                                                      in: Paramita n. 40
Falà                         Bhava, il divenire                                                                                  in: Paramita n. 41   
Nyanaponika Thera La visione del Dhamma                                                                         Ed. Ubaldini
Johansson                La psicologia dinamica del buddhismo antico                                       Ed. Ubaldini