giovedì 12 giugno 2014

Perchè sedere in zazen?

A partire da un'antica storia, come di consueto nella tradizione Zen, Barry Magid, psicoanalista e insegnante Zen americano, ci offre un'importante indicazione per la riflessione e per la pratica. Ciò di cui ci parla l'Autore, allievo di Charlotte Joko Beck, è una questione imprescindibile e sempre attuale, sia che ci si avvicini alla pratica (quale che sia) per la prima volta, sia che si pratichi da tempo, ovvero il problema delle nostre motivazioni.

Il brano è parte di un volume pubblicato nel 2008 dalle Edizioni Ubaldini con il titolo, in apparenza ben poco attraente, "Guida zen per non cercare la felicità".


"Un'antica storia racconta di un monaco che voleva sapere il signifi­cato della pratica. Questa storia ci insegna che non basta fare una buona domanda, bisogna anche saper riconoscere la risposta:

Un monaco chiese a Hsiang Lin: "Qual è il significato della ve­nuta del Patriarca dall'occidente?". Hsiang Lin rispose: "Sede­re a lungo diventa faticoso".

Tutti ci accostiamo alla pratica con alcune domande fondamentali al­le quali cerchiamo di rispondere. Forse vogliamo sapere come dob­biamo vivere; forse stiamo cercando di capire come possiamo affron­tare la sofferenza o il lutto o i problemi della nostra relazione. Oggi sarebbe strano se uno studente venisse a domandare: "Qual è il si­gnificato della venuta del Patriarca dall'occidente?". Con questa do­manda il monaco sta però domandando al maestro di mostrargli ciò che tutti vogliamo sapere, di mostrargli una qualche verità fonda­mentale a cui potersi attenere. Qual è l'essenza stessa della nostra pratica? Sembra una domanda elevata che meriti una risposta eleva­ta, ma Hsiang Lin risponde semplicemente: "Sedere a lungo diventa faticoso".
Come può una tale risposta soddisfare la richiesta del monaco? Tutti sanno che lo zazen è doloroso e stancante. Hsiang Lin non gli dice nulla che già non sappia. Ma il monaco sta ancora cercando la risposta al di là della sua semplice esperienza quotidiana di questo momento. Quando Dogen ritornò dalla Cina, dopo aver ricevuto dal suo maestro la trasmissione del Dharma, qualcuno gli domandò cosa avesse imparato. Rispose di aver imparato che i suoi occhi erano orizzontali e il naso verticale. Chi non lo sa? Ma quanti di noi rico­noscono che questa è la risposta alle nostre domande più fondamen­tali?
Nella "Raccolta della roccia blu", che contiene questo koan, l'in­troduzione al caso specifico dichiara che dobbiamo essere capaci di tranciare il ferro e non temere di affrontare le frecce e le spade, se vogliamo essere maestri dello zen. Ma tutti questi sforzi eroici si ri­ducono allo zazen e alla fatica. Anche se la nostra pratica può a volte condurci "al posto in cui nemmeno uno spillo può entrare" - un luogo di totale assorbimento o samadhi - dobbiamo pur sempre ritornare per guardare in faccia le vicissitudini della vita di ogni gior­no. Per prendere in prestito un'altra frase dall'antica introduzione a questo koan: che cosa fate quando "le onde spumeggianti inondano il cielo"? Oppure potremmo chiedere: "Come vi comportate quan­do la verità viene a galla smerdando tutti?".
Nella nostra pratica quotidiana dobbiamo scoprire ed esprimere la verità fondamentale che questa mente, questo corpo, questo momen­to sono tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che c'è. Arriviamo alla prati­ca convinti che la mente così com'è, il corpo così com'è, siano il pro­blema. Chi vorrebbe una mente che divaga o due ginocchia doloran­ti, per non parlare di un corpo che invecchia o che contrae una grave malattia? Ma la pratica non ci insegnerà mai a scambiare questa men­te con un'altra o sostituire questo corpo con il corpo di qualcun al­tro. E nemmeno dobbiamo esercitare il corpo e la mente per trasfor­marli in versioni nuove e migliori di quelle che già abbiamo. Forse la mente si acquieterà o le gambe diventeranno più elastiche, ma il vo­stro naso potrà diventare più verticale? Date ascolto a Hsiang Lin: questo vecchio corpo stanco non è il problema; è la risposta.