lunedì 29 dicembre 2014

I Nove Sutra sulla pace di Raimon Panikkar

In occasione della fine di un anno caratterizzato non solo dalle difficoltà economiche di molti, ma soprattutto dal proliferare a livello individuale, sociale, politico, di una cultura della violenza, della discriminazione, del razzismo, dell'egoismo,  pubblico qui, quale proposta di riflessione per il prossimo 2015, un breve scritto del 2002 – ma di assoluta attualità – di Raimon Panikkar, sacerdote cattolico, filosofo, teologo e scrittore spagnolo, di cultura indiana e catalana, il quale dedicò gran parte della sua vita e dei suoi studi al dialogo interreligioso.
Il brano è tratto dal volume Pace e interculturalità, edito da Jaca Book, ed è stato pubblicato nel 2003 dalla rivista Mondialità dei Missionari Saveriani di Parma.

Raimon Panikkar (1918 - 2010)
1. La pace è partecipazione all'armonia del ritmo dell'Essere. La pace non altera il ritmo della realtà. Non è statica, né dinamica. Non è nemmeno un movimento dialettico. E non significa assenza di forze o di polarità. L'Essere è ritmico, è ritmo, integrazione a-dualista del movimento e del riposo. La cultura tecnocratica occidentale, coltivando l'accelerazione, ha sconvolto i ritmi naturali: è senza pace.

2. E' difficile vivere senza pace esterna; impossibile senza pace interna. Ogni giorno, dopo l'ultima guerra mondiale, mille persone muoiono vittime della guerra. In tutto il mondo vi sono milioni di profughi, bambini nelle strade e persone che muoiono di fame. Non si deve minimizzare questa degradazione umana della nostra razza. Ma se la pace interna sussiste c'è ancora speranza. D'altronde non si può godere di una pace interna se il nostro ambiente umano ed ecologico è vittima di violenze e di ingiustizie. In tal caso la pace interna è un'illusione. E nessun autentico saggio (da Buddha a Cristo) si rinchiude nell'egoismo e nell'autosufficienza.

3. La pace: non la si conquista per se stessi, né la si impone agli altri. È dono dello Spirito. La pace non proviene né da spiritualità masochiste, né da pedagogie sadiche. I regimi imposti non fondano la pace per chi li riceve: bambino, povero, famiglia o nazione che sia. A noi manca l'atteggiamento più femminile del ricevente. La natura della pace è d’essere grazia, dono. È frutto di una rivelazione: dell'amore, di Dio, della bellezza della realtà, è esistenza della provvidenza, bontà della creazione, speranza, giustizia. È Gabe e Aufgabe, dono e responsabilità.

4. La vittoria ottenuta con la sconfitta violenta del nemico non conduce mai alla pace. La maggior parte delle guerre ha trovato giustificazione come risposta a trattati di pace anteriori. I vinti riappaiono ed esigono ciò che è stato loro rifiutato. La stessa repressione del male non ha risultati durevoli. La pace non è il risultato di un processo dialettico del bene contro il male. Il giovane rabbino di Nazaret invitava a far crescere insieme grano e zizzania. La pace fugge il campo dei vittoriosi (Simone Weil). La vittoria è sempre sulle persone; e le persone non sono mai assolutamente cattive.

5. Il disarmo militare richiede un disarmo culturale. La civiltà occidentale ha sviluppato un arsenale di armamenti, qualitativamente e quantitativamente; deve esservi un che di inerente a questa cultura: spirito di competizione, soggettività, tendenza a trascurare il campo dei sentimenti, senso di superiorità, di universalità, ecc.. Il fatto che i discorsi [per la pace, nella civiltà occidentale] si concentrino sulla distruzione degli armamenti, senza prestare attenzione alle questioni più fondamentali, costituisce un esempio di questo stato spirituale. Allora il disarmo culturale - prerequisito per la pace - è difficile almeno come quello militare. Implica una critica alla cultura e un approccio autenticamente interculturale.

6. Nessuna cultura, religione o tradizione può risolvere isolatamente i problemi del nostro mondo. Oggi nessuna religione potrebbe fornire risposte universali (se non altro perché le domande non sono le stesse). Purtroppo nel momento in cui gran parte delle religioni tradizionali tendono a deporre il manto dell'imperialismo, del colonialismo e dell'universalismo, la cosiddetta visione "scientifica" del mondo sembra raccogliere l'eredità culturale di questi atteggiamenti. Qui bisognerebbe citare la parola pluralismo.

7. La pace appartiene principalmente all'ordine del mythos, non del logos. Shalom, pax, eirene, salam, Friede, shanti, ping-an...: la Pace è polisemica; ha numerosi significati. La mia nozione di pace può non essere pacifica per qualcun altro. La pace non è sinonimo di pacifismo. E un mito, qualcosa in cui si crede in quanto dato. Ma non è irrazionale, anzi rende intelligibile l'atto di intendere. Un tempo la pace veniva firmata in nome di Dio; nella nostra epoca la pace sembra un mito unificante emergente ed è anche in suo nome che si fa guerra. Il mythos non dev'essere separato dal logos, ma i due non dovrebbero venire identificati.

8. La religione, via verso la pace. La religione è stata sempre considerata in passato come via di salvezza. Perciò le religioni erano fattori di pace interiore per i propri adepti e di guerre per gli altri. È un fatto che gran parte delle guerre nel mondo sono state guerre religiose. Oggi siamo testimoni di una trasformazione della nozione stessa di religione: le religioni sono modi di raggiungere la pace (non significa ridurle ad un unico denominatore). E la strada per la pace è rivoluzionaria: esige l'eliminazione dell'ingiustizia, dell'egoismo e della cupidigia.

9. Perdono, riconciliazione, dialogo: solo essi conducono alla pace. Punizione, indennizzo, restituzione, riparazione e cose simili non portano alla pace, non spezzano la legge del karma. Credere che ristabilire l'ordine spezzato risolva la situazione è un modo di pensare grossolano, meccanicistico e immaturo. L'innocenza perduta esige la redenzione e non il sogno di una paradiso ritrovato. La via verso la pace è in avanti e non indietro. La storia umana esige perdono. Per perdonare ci vuole una forza che vada oltre l'ordine meccanico di azione-reazione, ci vuole lo Spirito Santo, Amore pilastro dell'universo. 




Per saperne di più:


giovedì 18 dicembre 2014

Rinascita?

In questo testo del 1987 il Ven. Bhikku Bodhi (Jeffrey Block, monaco Theravada di origine statunitense) svolge una interessante riflessione sul tema dell'importanza della dottrina della rinascita in relazione alla pratica del Dharma, in particolare in Occidente,
Una riflessione che definirei "sul filo del rasoio", tra la tentazione di trasformare il Dharma in una pratica di benessere (il "materialismo spirituale") e il rischio di voler aderire ad ogni costo ad una "ortodossia buddhista" che nulla ha a che vedere con l'autentico insegnamento del Buddha.




Dhamma Senza Rinascita?
di
Bhikku Bodhi

Copyright © 1987 Buddhist Publication Society. Solo per distribuzione gratuita

"Seguendo l'importanza che si avverte oggi di un insegnamento religioso che abbia rilevanza personale e che sia direttamente verificabile, in certi circoli di Dhamma la dottrina della rinascita di antica pratica è divenuta oggetto di un consistente riesame. Sebbene solo pochi pensatori buddhisti contemporanei siano tanto audaci da proporre che questa dottrina sia scartata in quanto "non scientifica", un'altra opinione sta acquistando consensi nel ritenere che il fatto che la rinascita sia o no un fatto reale, questa dottrina non ha un valore essenziale per quanto riguarda la pratica del Dhamma e quindi non può arrogarsi una collocazione certa tra gli insegnamenti buddhisti. Il Dhamma, si dice, tratta solo del "qui e adesso", dell'aiutarci a risolvere le nostre difficoltà con una crescente auto-consapevolezza ed onestà interiore. Tutto il resto del Buddhismo possiamo tralasciare quali orpelli di una cultura antica completamente inappropriata al Dhamma della nostra era tecnologica.
Bhikku Bodhi
Se per un momento mettiamo da parte le nostre inclinazioni personali e invece facciamo riferimento direttamente ai testi originali, incappiamo nell'indiscutibile fatto che lo stesso Buddha insegnava la rinascita e la insegnava quale un principio basilare della sua dottrina. Visti nella loro totalità i discorsi del Buddha ci mostrano che, ben al di là dall'essere una semplice concessione alle credenze prevalenti al suo tempo o un'invenzione della cultura asiatica, la dottrina della rinascita ha un impatto formidabile sull'intero percorso della pratica del Dhamma, influenzando sia la meta con la quale si intraprende la pratica sia la motivazione con la quale la si continua verso il suo naturale completamento.
Lo scopo del cammino Buddhista è la liberazione dalla sofferenza, e il Buddha esprime con grande chiarezza il concetto che la sofferenza dalla quale necessitiamo una liberazione è la sofferenza del legame al samsara, il ciclo delle ripetute nascite e morti. In verità, il Dhamma non si presenta in un modo tale da essere direttamente visibile e personalmente verificabile. Tramite ispezione delle nostre stesse esperienze possiamo constatare che il dolore, la tensione, la paura e l'afflizione sorgono sempre dalla nostra avidità, avversione e ignoranza, e quindi possono essere eliminati con la rimozione di quelle contaminazioni. L'importanza di questo lato direttamente visibile della pratica del Dhamma non può essere sottovalutata, giacché ci fornisce la ragione di avere fiducia nell'efficacia liberatrice del sentiero Buddhista. Tuttavia, sminuire la dottrina della rinascita e spiegare l'intera portata del Dhamma come il superamento della sofferenza mentale attraverso lo sviluppo dell'autocoscienza priva il Dhamma di quelle più vaste prospettive dalle quali ha tratto la sua ampia portata e profondità. Così facendo si corre il serio rischio di ridurlo alla fine a poco più di un sofisticato mezzo antico di psicoterapia umanistica.
Lo stesso Buddha ha chiaramente indicato che il problema alla radice dell'esistenza umana non è semplicemente il fatto che siamo vulnerabili al dolore, alla pena e alla paura, ma che ci leghiamo con la nostra tendenza egoistica ad un processo autogenerante di nascita, vecchiaia e morte nel quale sperimentiamo le specifiche forme di afflizione mentale. Egli ha anche mostrato come il rischio principale riguardo le contaminazioni consiste nel loro ruolo causale nel mantenere in vita il ciclo delle rinascite. Fintanto che permangono negli strati più profondi della mente, ci trasportano nei cicli del divenire nei quali spargiamo un fiume di lacrime "più ampio delle acque dell'oceano". Quando queste considerazioni sono prese in attenta considerazione si vede come la pratica del Dhamma non mira a procurarci una comoda riconciliazione con la nostra presente personalità e partecipazione al mondo ma a farci intraprendere una lunga e complessa trasformazione interiore che sfocerà nella nostra completa liberazione dal ciclo dell'esistenza mondana.
Sinceramente, per la maggior parte di noi la motivazione primaria per entrare nel cammino del Dhamma è la logorante insoddisfazione con la routine abitudinaria delle nostre vite non illuminate piuttosto che una precisa percezione dei pericoli insiti nel ciclo delle rinascite. Tuttavia, se seguiremo il Dhamma fino alla fine e sfruttiamo a pieno la sua potenzialità nel garantirci la pace e una più elevata saggezza, è necessario per dare motivazione alla nostra pratica maturare al di là di ciò che ci ha indotti all'inizio ad entrare nel cammino. La nostra motivazione di fondo deve crescere verso quelle verità essenziali che ci sono state svelate dal Buddha e, comprendendo quelle verità, dobbiamo servircene per alimentarne la capacità di guidarci verso il conseguimento della meta.
La nostra motivazione acquista la maturità richiesta attraverso la coltivazione di retta visione, il primo fattore del Nobile Ottuplice Sentiero, che cosi come è stato esposto dal Buddha include la comprensione dei principi di kamma e rinascita quali fondamenti della struttura della nostra esistenza. Sebbene la contemplazione del momento sia la chiave per lo sviluppo della meditazione di visione profonda, sarebbe un estremismo erroneo ritenere che la pratica del Dhamma consista interamente nel mantenere la consapevolezza del presente. Il sentiero Buddhista sottolinea il ruolo della saggezza quale strumento per la liberazione, e la saggezza deve includere non solo la penetrazione intuitiva del momento nella sua profondità verticale, ma anche la comprensione degli orizzonti passati e futuri entro i quali la nostra esistenza presente si sviluppa. Prendere pienamente coscienza del principio della rinascita ci darà quella prospettiva panoramica dalla quale possiamo avere una visione delle nostre vite nei loro più ampi contesti e nella totalità delle reti di relazioni. Questo ci spronerà nel nostro impegno lungo il cammino e ci rivelerà il significato profondo della meta verso la quale è orientata la nostra pratica, la fine del ciclo delle rinascite e la finale liberazione della mente dalla sofferenza."



giovedì 4 dicembre 2014

L'attenzione

Il testo che segue è la traduzione in italiano (purtroppo non ne conosco l'autore) di un insegnamento del maestro Zen Sando-Kaisen, che ho ritrovato tra alcune vecchie carte.
Lo propongo volentieri alla riflessione  dei lettori di questo blog, quale invito ad una autentica relazione con l'Altro, al di là dei giudizi, delle appartenenze di ogni tipo, del mi-piace/non-mi-piace.

Il m° Sando-Kaisen
Prendere il tempo di guardare qualcuno, di ascoltarlo, non pensare ad altro mentre ci parla, capirlo veramente, non giudicare, non interferire in nulla con la mia mente personale. 
Completamente vuoti, diventiamo completamente disponibili per la persona, come uno specchio.
Mediante l'attenzione, possiamo diventare uno specchio, acquisire una forma di libertà capace di riflettere tutti i fenomeni, senza soffrire, senza dipendere da questi fenomeni e senza giudizio.
Uno solo dei nostri pensieri influenza tutto l'universo. E' come uno stagno.
Gettate un sasso presso una riva, e si formano onde fino all'altra riva. Tutto lo stagno sarà influenzato da questo sassolino. E' lo stesso per la mente e l'universo.
Un cattivo pensiero o una cattiva azione danneggerà qualcosa all'altro capo dell'universo.
Per questo è importante sviluppare l'attenzione, una forma di meditazione, e calmare le nostre emozioni, trovare la pace dentro, mai agire senza avere una pace stabilita all'interno di sé, senza riflessione.
Bisogna evitare di produrre continuamente cattivi pensieri.
Bisogna evitare di far del male agli altri, con la parola, con il corpo, e anche con il pensiero.
Bisogna sviluppare gli aspetti positivi della mente.
E' il solo modo di metter fine, o di aiutare un po' a mettere fine alla sofferenza sulla terra.
E' possibile se tutti noi, tutti gli esseri umani del pianeta, decidiamo effettivamente, individualmente, di cambiare il nostro modo di vivere e di pensare.
Sapete, arriva un momento dove un semplice sguardo è un insegnamento. Un incontro, una stretta di mano, a volte perfino lo sguardo di un cane. Un bello sguardo. Ciò vi trasforma, da quando avete dell'attenzione.
Le religioni hanno perso la loro potenza perché hanno perso l'attenzione. Non si pratica più l'attenzione, la vera attenzione, come per esempio: sollevare questo bicchiere e posarlo là', seguendo il gesto fino in fondo. Se facciamo attenzione, non viviamo che il gesto, senza pensare ad altro. Per abitudine, compiendo un gesto, pensiamo ad altro; quando camminiamo, quando lavoriamo, quando mangiamo, quando guardiamo la televisione... pensiamo ad altro.
A volte parliamo con qualcuno, e pensiamo ad altro. E arriviamo al pensare di notte!
Allora accade che il nostro computer interno sia stanco, il sistema nervoso cominci a mollare e desideriamo continuamente il riposo. Siamo sempre stanchi e pensiamo continuamente alle ferie.
Ma l'attenzione è' proprio la freschezza!
Sapete, è un piacere di sedersi, un piacere di camminare, un piacere di fare tutto ciò che si fa, anche mangiare.
Ma più nessuno ha piacere nel mangiare: si va al ristorante, si discute, e non ci si rende conto di ciò che si mangia.
Non si ha più il piacere di apprezzare un buon pasto, il piacere di bere un bicchiere d'acqua, o di vino, poco importa, di apprezzarlo fino in fondo.
Andare fino in fondo. Nell'attenzione.
Allora, l'attenzione ci rende vivi, veramente vivi.
E quando si è vivi, non si è tristi.
Si è tristi a partire dal momento in cui non si è più presenti. Dal punto in cui ci mettiamo a sognare, cadiamo nella tristezza e nella malinconia. Diventiamo incurvati, viviamo col mento nel palmo della mano, come quelli che sognano, che pensano.
Affondano sempre di più nei loro pensieri e la loro postura sprofonda sempre di più...
L'attenzione, è vivere, è raddrizzarsi.
Nel momento in cui ci si incurva, ci si raddrizza, si rialza la testa e si vive.
Si ritrova uno sguardo più forte, più profondo, e così, si ritorna alla realtà.
Allora, la vita si esprime in noi. Se non facciamo ciò, affondiamo.
E tutto il giorno, abbiamo l’impressione di vivere, ma in effetti, non viviamo. Portiamo il peso delle nostre miserie dal mattino alla sera e non vogliamo raddrizzarci, ricominciare ad ogni istante, ripartire da zero.
Lo zero è molto importante.
Io chiamo questo lo zero della coscienza.
A partire da questo zero, si può' veramente vivere.
Non bisogna, nella vostra mente, fare: 1+2 + 3 + 4 ...accumulare.
Bisogna, ogni volta, fare: zero, uno - zero, uno - zero, uno ...
Diventare freschi, nuovi e vivi, mediante l'attenzione, ad ogni istante.
Per me, è la più grande delle religioni, poiché, mediante l'attenzione, commettiamo sempre meno errori.
E quando siamo attenti, siamo in uno stato d'osservazione. E' naturale.
Se prendo un oggetto, se vivo il gesto e guardo dove lo poso, osservo e dunque, ho la saggezza contemporaneamente. Dunque, attenzione vuol dire saggezza.
Più sarete attenti, più la saggezza si manifesterà. Mediante l'attenzione.

L'ideogramma di "ascoltare"
Poiché non esiste saggezza senza attenzione.
Può esistere una filosofia, ma la filosofia non è la saggezza. E' solo una filosofia, una fantasia, una creazione mentale.
Invece la saggezza di cui parlo è nella luce dell'attenzione.
E dato che noi possediamo tutta la saggezza dell'universo nel fondo della nostra luce, più siamo attenti, più questa luce zampilla e appare.
Poiché abbiamo già la conoscenza in noi, pronta a manifestarsi ad ogni istante.
E' per questo che il buddhismo si è interessato prima di tutto alla meditazione: ritornare al silenzio, all'attenzione, non cercare alcuna verità, né di diventare un Buddha, né di trovare un Dio qualsiasi. Sappiamo che essendo direttamente dentro questa luce, tramite l'attenzione, tutta la saggezza dell'universo si manifesta ogni giorno mediante 1'esperienza della pratica.
Infatti, non abbiamo nulla da cercare dato che in verità, tutto è nel fondo di noi.
Invece la gente d'oggi cerca di capire tutto, conoscere tutto, leggere molto, cercare molto.
Alla fine, ciò crea facce stanche.
Dovremmo piuttosto fermarci un po' nel momento in cui sia possibile.
Dopo il lavoro, distendersi, non pensare più a nulla, essere attenti a un respiro, all'attività interiore.
Vedrete allora come la freschezza apparirà di colpo, la voglia di vivere. E ad ogni istante, un nuovo slancio verrà a sollevarvi.
Forse anche altre forme di saggezza appariranno in questo modo, senza fare nulla di particolare.
E questa saggezza vi mostrerà anche ciò che siete.

Kannon, il bodhisattva che ascolta i suoni del mondo


Il sito Internet del m° Kaisen:    http://www.zenkaisen.fr/