giovedì 19 marzo 2015

Il buddhismo secondo Jorge Luis Borges

Jorge Luis Borges è stato uno dei maggiori scrittori moderni di lingua spagnola.
Nacque a Buenos Aires nel 1899, a 7 anni scrisse il suo primo racconto, a 9 ne tradusse uno di Oscar Wilde (che venne pubblicato su El Pais).
Dal 1914 soggiornò per alcuni anni in Svizzera, poi in Spagna, iniziando a scrivere poesie ed opere in prosa. Furono soprattutto le sue opere di narrativa e di saggistica a procurargli negli anni successivi un riconoscimento internazionale, anche se non venne mai insignito del Nobel per la letteratura, probabilmente a causa delle sue posizioni politiche che, essendo Borges uno spirito critico e libero, gli procurarono nel periodo del peronismo duri attacchi e l’accusa di essere un reazionario vicino alle dittature sudamericane.
A partire dal 1940 aveva cominciato a perdere la vista, per una malattia ereditaria, fino a diventare completamente cieco alla fine degli anni ’60. Morì nel 1986 in Svizzera, dove spesso si recava per curare gli occhi, e lì volle essere sepolto.

Molti sono i temi ricorrenti nelle sue opere, a partire da quelli del fantastico: il sogno, i libri misteriosi o inesistenti, i miti, il “doppio”, l’infinito del tempo e dello spazio…
Jorge Luis Borges
E molto spesso si trovano in esse passi di argomento filosofico e religioso, nonostante fosse certamente “uno spirito laico, scettico, abitato dal dubbio, alieno dalle certezze, […] votato all’interrogazione e incline semmai ad accordare fiducia all’eventualità, al caso[1].
Egli stesso disse che filosofia e religione erano per lui “due rami della letteratura fantastica[2].
Resta il fatto che le religioni sono effettivamente e non marginalmente presenti nei suoi scritti: il Cristianesimo, l’Islam, l’Ebraismo, e perfino religioni immaginarie. Come pure le religioni dell’Estremo Oriente: il Taoismo, che divenne un fondamentale retroterra di alcune sue opere, e le tradizioni religiose dell’India, di cui dimostrò una conoscenza abbastanza profonda.
Probabilmente il fascino dell’Oriente su Borges fu favorito anche dalla presenza della sua discepola, nonché ultima moglie, Maria Kodama, di padre giapponese. Non a caso Borges fu autore anche di haiku e tanka, cioè di versi redatti secondo gli stili tradizionali della poesia del Giappone.
Arthur Schopenhauer

Ma questo fu il solo contatto “diretto” che ebbe con il mondo orientale. La “fonte” della sua conoscenza dell’India e del buddhismo fu invece l’opera di Arthur Schopenhauer (1788-1860), il filosofo tedesco il cui pensiero era stato profondamente ed esplicitamente influenzato dalle filosofie dell’India. Borges studiò molto bene Schopenhauer e fu colpito dalle sue idee fino ad affermare che “poche cose mi sono accadute più degne di memoria del pensiero di Schopenhauer[3].
Borges ne aveva studiato gli scritti in lingua originale, mentre, giovanissimo, si trovava in Europa, tra il 1915 e il 1921. Dai suoi libri (come pure dalle opere di autori come l’indologo Paul Deussen, Walt Whitman, Edwin Arnold[4], Thomas Eliot…) aveva ricevuto impressioni, spunti, temi di riflessione, in qualche modo riconducibili al mondo indiano e che si ritrovano nella sua produzione letteraria giovanile e successivamente nelle opere della maturità.
A partire dal 1946 la sua conoscenza del pensiero indiano si approfondì ulteriormente, attraverso lo studio di opere specialistiche come quelle dell’orientalista inglese Thomas Rhys Davids (1843-1922) e la monumentale Filosofia indiana di Sarvepalli Radhakrishnan (1888-1975), filosofo e politico, che fu anche il secondo Presidente dell’India dal 1962 al 1967[5].

Dalla sua conoscenza del pensiero antico dell’India e in particolare del Buddhismo nacque un breve saggio (Qué es el budismo, nell’edizione italiana Cos’è il buddismo), di circa 80 pagine, pubblicato nel 1976 in collaborazione con la discepola Alicia Jurado, la quale raccolse, riordinò e trascrisse gli appunti di cui Borges si era servito per una serie di lezioni tenute presso la Libera Scuola di Studi Superiori.
Si tratta di una esposizione estremamente sintetica del pensiero buddhista, redatta con uno stile per nulla accademico, ma comunque attenta e precisa, “ricca di accostamenti col mondo occidentale, condotta evidenziando i punti di contatto o di attrito con filosofi antichi occidentali e con pensatori, mistici e scrittori moderni europei[6].
L’opera è divisa in 12 capitoli, dedicati alla vita del Buddha (1 e 2), alle dottrine che precedettero il buddhismo (3), alla cosmologia (4), alla trasmigrazione (5) e agli insegnamenti (6), alle diverse scuole buddhiste (da 7 a 11) ed infine all’etica (12).
Fin dalla lettura dell’indice, colpisce il fatto che Borges abbia voluto operare una distinzione, nei primi due capitoli, tra il Buddha leggendario e il Buddha storico. Secondo Borges la leggenda “non è un’invenzione arbitraria ma una deformazione o esaltazione della realtà[7]. La sua importanza è data dal fatto che essa “ci rivela quanto credettero innumerevoli generazioni di uomini devoti e che ancora perdura nella mente di una grande porzione dell’umanità[8].
Per riassumere la vita leggendaria del Buddha si è servito – come egli stesso rivela – di due testi classici: il Lalitavistara Sutra e il Buddhacarita di Asvaghosa.
Quanto alla storia, Borges ricorda che “i letterati dell’Indostan sono soliti elaborare iperboli e magnificenze, mentre ignorano i particolari precisi[9] e da questo ricava il criterio secondo cui “se ne troviamo nella leggenda, possiamo arguirne che rispondono alla verità[10]. Ad esempio, poiché viene detto nei testi che Siddhartha aveva 29 anni nel momento in cui lasciò il palazzo e la famiglia, e poiché il numero 29 non riveste alcun significato simbolico, allora se ne deduce che il dato anagrafico dovrebbe corrispondere alla verità storica. La stessa cosa può essere detta intorno alla causa della morte del Buddha, provocata dall’ingestione di cibo avariato (forse dei funghi, o della carne).
In particolare, l’aspetto leggendario sarebbe relativo soprattutto al primo periodo della vita di Shakyamuni, dal concepimento al Risveglio; più autenticamente storica sarebbe invece la narrazione dei 45 anni successivi (dal Risveglio fino al Parinirvana), dedicati all’insegnamento, da cui “basta togliere alcuni miracoli[11].
Nelle tre sole pagine che dedica al Buddha storico, Borges confronta subito la vicenda del Buddha con quella del Cristo, cosa inevitabile per un occidentale. E riconosce che rispetto agli “indimenticabili tratti patetici e [alle] circostanze d’insuperabile drammaticità[12] della storia di Gesù, quella “del principe che lascia il suo palazzo e professa una vita austera è molto più povera[13]. Ma subito il lettore viene invitato a compiere una riflessione che porta al di là di un confronto troppo frettoloso e superficiale: “la negazione della personalità è uno dei dogmi essenziali del buddhismo e […] aver inventato una personalità attraente dal punto di vista umano avrebbe significato contraddire il proposito fondamentale della sua dottrina[14].
Il Buddha è infatti “una specie di archetipo che si manifesta nel mondo in diverse epoche e per mezzo di diverse personalità, le cui caratteristiche non hanno importanza […]. Gotama è un anello in una catena infinita che si protende verso il passato e il futuro[15]. Invece “la passione di Cristo si verifica una sola volta ed è il centro della storia dell’umanità[16].
Molto acutamente, Borges rileva quindi come lo scarso interesse degli Indiani verso le cronache e la storia derivi dal fatto che per essi le idee sono più importanti delle date e degli individui. E le idee stesse, ad esempio le dottrine filosofiche, sono dal loro punto di vista essenzialmente contemporanee. Saranno poi gli Europei a stabilire un loro ordine cronologico, a costruire una “storia della filosofia indiana”.

Nel III capitolo, Borges mostra poi come il buddhismo abbia le sue radici nelle dottrine filosofiche e religiose preesistenti in India, in particolare nel sistema dualistico Sankhyam (= enumerazione)[17] e nel Vedanta (= culmine, compimento dei Veda). Di entrambi offre una breve sintesi, evidenziando i punti di contatto tra il monismo panteistico del Vedanta e alcune dottrine filosofiche occidentali (Parmenide, Zenone, Schopenhauer) o islamiche, nonché l’ateismo “non aggressivo” del Sankhyam, che “esclude un Dio onnipotente, ma non le innumerevoli divinità della mitologia popolare[18]. A tale proposito, cita un testo secondo cui “Dio non può aver fatto il mondo per interesse, perché non abbisogna di nulla; né per bontà, giacché nel mondo c’è la sofferenza. Dunque Dio non esiste[19]. Il che rimanda, per quanto concerne l’Occidente, ad Epicuro e a Voltaire[20].
Dopo aver esaurito in poche righe l’argomento della cosmologia, a proposito della quale viene giustamente detto che “non è essenziale nella dottrina predicata dal Buddha[21], Borges passa ad analizzare il tema della trasmigrazione (cap. V), ricollegandosi alle analoghe concezioni che si ritrovano nella cultura occidentale o medio-orientale: in Pitagora, nell’Orfismo, in Platone, nelle religioni celtiche, in alcune correnti dell’Ebraismo…
Molto correttamente collega la trasmigrazione (meglio sarebbe dire la rinascita) agli insegnamenti buddhisti sul karma, ovvero su quella “opera che incessantemente ordiamo[22] con le azioni del corpo, della parola e della mente, e che viene definito come “un’interpretazione etica della legge di causalità[23].
Il tema del karma è senza dubbio uno dei più difficili da affrontare per che studia il buddhismo e per chi lo pratica, e forse per questo Borges annota che “il karma è uno dei punti deboli del buddhismo[24], anche perché dal punto di vista buddhista “ogni uomo è un’illusione, vertiginosamente prodotta da un succedersi di uomini momentanei e soli[25]. Borges si riallaccia qui alla filosofia dello scozzese David Hume (1711-1776), “per il quale l’individuo è un fascio di percezioni che si succedono con incredibile rapidità[26]: è la vacuità, ovvero l’assenza di un sé separato ed intrinsecamente esistente, insegnamento centrale nella tradizione buddhista. Quindi, se l’uomo è un insieme, impermanente, privo di esistenza intrinseca, composto da parti a loro volta impermanenti e non sostanziali, che cosa trasmigra, rinasce, dopo la morte? È probabilmente questo il “punto debole” cui accenna Borges.
Nagarjuna in un dipinto tibetano
L’approccio borgesiano a questi temi sembra essere rivelatore: nel capitolo sul Mahayana (il VII, Il Gran Veicolo), Borges dedica molto spazio a Nagarjuna, il maestro buddhista del II secolo d.C., che del Mahayana fu il maggior esponente, e definisce i suoi insegnamenti come una “dottrina nichilista”, un “idealismo assoluto” che vede l’universo come una serie continua di apparenze dietro alle quali non c’è nulla. “Era quasi inevitabile – afferma lo scrittore argentino – che il buddhismo arrivasse al nichilismo di Nagarjuna[27]. Come Zenone di Elea (V sec. a.C.) negava la possibilità del movimento[28], così “Nagarjuna sembra sia stato posseduto dalla necessità di negare[29].
Anche il Nirvana (cap. VI) è visto da Borges nei suoi caratteri negativi, come già evidenziati dai primi studiosi europei, per i quali era “abisso di ateismo e di nichilismo”, “annientamento”, un eufemismo per “nulla”. A differenza del nirvana induista, che parla di “spegnersi nella divinità”, ed è quindi sinonimo di eterna beatitudine.
Borges ha intuito che la nozione di nirvana ha contribuito moltissimo a generare il fascino esercitato dal buddhismo nell’immaginario collettivo occidentale in questi ultimi due secoli, ma si può forse dire che lo stesso fascino esercitato su Borges derivi proprio dalla lettura nichilista che egli fa di aspetti del buddhismo quali ad esempio il pensiero di Nagarjuna, la vacuità, il nirvana.
Una lettura quanto meno parziale, in quanto in realtà il termine nirvana ha sì il significato etimologico di estinzione per mancanza di combustibile, quindi spegnimento, cessazione, ma non in senso nichilista, indicando piuttosto uno “stato risultante dalla cessazione delle passioni e delle loro cause, […] stato di pace, liberazione dal samsara, stato non condizionato caratterizzato dall’assenza di nascita, divenire e morte, che trascende il mondo […]. Non è il nulla, ma il Buddha stesso non ne diede mai una definizione precisa in quanto lo stato che trascende il nulla e l’eternità è indicibile e indescrivibile[30].
La filosofia di Nagarjuna, poi, è chiamata la Via del Mezzo (Mādhyamika), proprio perché si pone al centro dei due estremi: la visione eternalista, per la quale i fenomeni esistono in sé, e quella nichilista, così cara a Borges, per la quale i fenomeni non esistono. La Via del Mezzo va al di là di ogni opinione e mantiene un atteggiamento aperto che conduce alla comprensione della vacuità di tutte le cose, all’esperienza salvifica della realtà ultima dei fenomeni.
La definizione di Nagarjuna come di un nichilista costituisce quindi un’errata interpretazione dell’insegnamento sulla vacuità, ma può comunque far comprendere perché il buddhismo abbia così tanto affascinato Borges.

Nei capitoli successivi Borges parla dell’evoluzione storica del buddhismo al di fuori dell’India, a partire dal Tibet. E definisce il buddhismo Mahayana del Tibet come “lamaismo”, con un termine ormai caduto in disuso presso gli studiosi.
Dopo aver dedicato poche righe alla Cina, affronta il tema del buddhismo tantrico, stranamente senza collegarlo proprio alle tradizioni del Tibet, dove le scuole tantriche (note nel loro complesso con il termine di Vajrayana, la Via del Diamante) ebbero un grande sviluppo quali naturali prolungamenti del Mahayana, i cui punti essenziali dovevano peraltro essere stati completamente acquisiti dal praticante prima di poter accedere ai metodi del Tantra.
Passando infine al Giappone, Borges si sofferma, comprensibilmente, sugli aspetti più “esotici” del buddhismo così come si è evoluto nel paese del Sol Levante, in particolare sullo Zen e su una delle sue metodiche più note: il koan, “che consiste in una domanda la cui risposta non risponde alle leggi della logica[31].
E naturalmente analizza l’influenza esercitata dallo Zen su diversi aspetti della vita quotidiana del Giappone tradizionale: la poesia, la pittura e la calligrafia, l’arte della spada e del tiro con l’arco, l’ikebana, i giardini, la cerimonia del tè…

Infine, con alcune citazioni tratte dai testi classici e dedicate all’etica, il volumetto termina. Dopo aver forse risposto, con gli ovvi limiti oggettivi di un breve testo redatto da un non specialista, alla domanda su cosa sia il buddhismo, ma lasciando senza alcuna riposta, per quale motivo non si saprebbe dire, ad una domanda altrettanto importante: cosa significhi essere buddhista. Se il buddhismo è una Via (di liberazione dalla sofferenza), cosa vuol dire, nella pratica, camminare su quella Via?
Nel capitolo VI (Dottrine buddhiste) Borges ha giustamente osservato che la dottrina del Buddha “non è dogmatica né speculativa, ma morale e pratica[32], e che “una retta comprensione intellettuale della dottrina è assai meno importante del fatto di assimilarla e viverla[33]. Ma non una parola in più è stata da lui dedicata alla pratica della Via, ovvero agli aspetti pratici dell’Ottuplice Sentiero, dalla disciplina morale (retta parola, retta azione, retti mezzi di sussistenza) al raccoglimento meditativo (retto sforzo, retta attenzione, retta concentrazione), fino alla conoscenza superiore (retto pensiero, retta comprensione).
Il che, se può soddisfare alcune superficiali curiosità di un lettore occidentale, lascia però del tutto privo di risposte chi si chiedesse quale significato la “predicazione di un piccolo principe del Nepal[34] di 2500 anni fa possa avere nella vita di un abitante dell’opulenta società contemporanea.


  


[1] F. Tentori Montalto, Introduzione a J.L. Borges, Cos’è il buddismo, Ed. Tascabili Economici Newton, pag. 9
[2] Id.
[3] A. Pellegrini, J.L. Borges e il buddhismo, in G. Orofino e F. Sferra (a cura di), Ponti magici. Buddhismo e letteratura occidentale, Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, pag. 208
[4] L’autore de La Luce dell’Asia. Si veda: http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/02/sir-edwin-arnold-e-la-luce-dellasia.html
[5] L’opera di Radhakrishnan è stata pubblicata in Italia da Einaudi (solo il I volume) e poi da Āśram Vidyā (I e II volume)
[6] A. Pellegrini, J.L.Borges e il buddhismo, cit., pag. 200
[7] J.L. Borges, Cos’è il buddismo, cit., pag. 29
[8] Id., pag. 21
[9] Id., pag. 29
[10] Id.
[11] Id.
[12] Id., pag. 30
[13] Id.
[14] Id.
[15] Id.
[16] Id.
[17] Il Sankhyam viene spesso citato in unione col sistema Yoga, come Sankhya-Yoga
[18] J.L. Borges, Cos’è il buddismo, cit., pag. 35
[19] Id.
[20] Voltaire fu profondamente colpito dal terremoto di Lisbona del 1755, che provocò quasi 100mila morti, e che lo spinse a rivedere la propria posizione sui problemi della sofferenza, della presenza del Male sulla Terra, della bontà di Dio e di una visione ottimistica dell’Universo. Gli stessi temi verranno ripresi dopo la Seconda Guerra Mondiale, a seguito della Shoah (si veda ad es. H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Ed. Il Nuovo Melangolo)
[21] J.L. Borges, Cos’è il buddismo, cit., pag. 43
[22] Id., pag. 49
[23] Id.
[24] Id., pag. 51
[25] Id.
[26] Id.
[27] Id., pag. 64
[28] Secondo i famosi paradossi di Zenone, una freccia non raggiungerà mai il bersaglio e Achille non potrà mai superare in corsa una tartaruga
[29] J.L. Borges, Cos’è il buddismo, cit., pag. 65
[30] Ph. Cornu, Dizionario del Buddhismo, Ed. Bruno Mondadori, pag. 416
[31] J.L. Borges, Cos’è il buddismo, cit., pag. 82
[32] Id., pag. 56
[33] Id.
[34] Id., pag. 87.

sabato 7 marzo 2015

Un'icona New Age: "Siddharta" di Hermann Hesse


Hermann Hesse, l’autore

            Hesse nacque in Germania nel 1877, figlio (e nipote) di missionari evangelici. Dopo gli studi teologici in un seminario evangelico, e dopo 4 anni in una clinica per disturbi mentali (a 15 anni aveva tentato il suicidio), si trasferì in Svizzera e si dedicò all’attività di scrittore, ottenendo un buon successo già nel 1904 con il romanzo Peter Camenzind. Nel 1911 intraprese un viaggio in India, dove per decenni i genitori avevano prestato opera di missionari. In realtà visitò Sri Lanka e l’Indonesia: Borneo, Sumatra, Burma. Ma per quanto l’eco dell’India fosse pervenuto a Hesse già nella primissima infanzia, dai racconti della madre e dalle traduzioni paterne delle preghiere buddhiste, tuttavia il viaggio fu deludente.
Hermann Hesse
Nel corso di un’escursione a Sri Lanka, scrisse: “noi veniamo al Sud e in Oriente spinti da un presagio oscuro […] e qui troviamo il paradiso [...]. Ma noi stessi qui siamo diversi, siamo stranieri e senza diritto di cittadinanza, abbiamo perduto da tempo immemorabile il paradiso, e quello nuovo che possediamo e vogliamo costruire non si trova all’equatore e nei caldi mari d’Oriente, ma è dentro di noi e nel nostro futuro di uomini nordici”. E in una sua lettera del 1919: “Da molti anni sono convinto che lo spirito europeo è in declino e ha bisogno di tornare alle sue fonti asiatiche. Per anni ho ammirato Buddha e ho letto la letteratura indiana già nella mia prima gioventù [...] il mio viaggio indiano è stato solo una piccola aggiunta o un’illustrazione a queste esperienze”.
Alla fine del primo conflitto mondiale, durante il quale Hesse mantenne posizioni pacifiste, pubblicò altri romanzi, quali Demian e, nel 1922, Siddharta, il vero frutto del suo interesse per la cultura indiana.
E’ interessante ricordare che nel 1916, anche a seguito della morte del padre, si sottopose a sedute psicanalitiche con il dr. Lang, di scuola junghiana, e poi ad altri cicli di sedute, nel corso della composizione di Siddharta (1919-1922), con lo stesso Jung.
Pubblicò quindi altri capolavori, quali Il lupo della steppa (1927), Narciso e Boccadoro (1930), Il pellegrinaggio in Oriente (1932), Il gioco delle perle di vetro (1943). Hesse si era ritrovato, nel frattempo, iscritto nelle liste di proscrizione naziste, a causa della sua richiesta di non censurare le sue opere. Nel 1946 gli venne conferito il Premio Nobel per la letteratura. Morì nel 1962, a 85 anni, per emorragia cerebrale.

Siddharta, il romanzo

            Siddharta è un breve romanzo, che Hesse terminò nel 1922, e che comparve in Italia per la prima volta nel 1945 (tradotto dal musicologo Massimo Mila). E’ ambientato nell’India del VI secolo a.C., l’India del Buddha Sakyamuni e di Mahavira (fondatore del Jainismo), e narra la vita del giovane Siddharta, figlio di un brahmino (sacerdote hindu), a partire dal momento in cui lascia i genitori e la casa natia, insieme con l’amico d’infanzia Govinda, per “scoprire la fonte originaria nel proprio Io e impadronirsene”, in quanto nessuno di coloro con cui viveva, il padre, i brahmini, i saggi, conosceva la vera Via verso l’Io, l’Atman. A tal fine, i due giovani si recano presso i Samana, gli eremiti che vivono nelle foreste, digiunando e praticando le forme più estreme di ascetismo. La loro meta era “diventare vuoto, vuoto di sete, vuoto di desideri, vuoto di sogni, vuoto di gioia e di dolore”. I loro sforzi non portano i frutti che ricercano, e pertanto, dopo tre anni, Siddharta e Govinda abbandonano i Samana e vanno a cercare il Buddha, che in quei giorni si trovava nei pressi. Dopo averne ascoltato gli insegnamenti, Govinda si aggrega alla comunità dei monaci del Buddha, ma Siddharta decide di rimanere solo, risoluto ad “abbandonare tutte le dottrine e tutti i maestri e raggiungere da solo la meta o morire”. Mentre il Buddha si allontana, egli pensa: “Nessuna dottrina mi sedurrà mai più, poiché non m’ha sedotto la dottrina di quest’uomo”.
            Siddharta giunge quindi in città, e lì conosce Kamala, una cortigiana di cui ottiene i favori grazie alla padronanza di sé e alla profonda conoscenza della mente umana acquisita negli anni trascorsi con i Samana. E viene altresì assunto come socio dal ricco mercante Kamaswami. La bella Kamala lo inizia alle arti dei piaceri sensuali, e Kamaswami gli insegna l’arte del commercio e dell’arricchimento, le cui regole Siddharta impara molto bene, ancora una volta grazie alla dura ascesi praticata nella foresta, ma alle quali rimane a lungo indifferente: guadagnare o perdere sono per lui un gioco, giocato da quelli che chiama gli “uomini-bambini”.
            Siddharta vive quindi, fino in fondo, la vita del mondo, il samsara. Ma a poco a poco il piacere, il denaro, la pigrizia, l’avarizia, il gioco dei dadi, lo assorbono sempre più e gli fanno dimenticare gli insegnamenti ricevuti quando era un Samana. Fino a che, disgustato, abbandona la città, Kamala, il mercante, giungendo al punto di desiderare la morte, pensiero da cui sarà il ricordo dell’Om, su cui a lungo aveva meditato, ad allontanarlo. Ritrova poi, per un breve colloquio, Govinda, ormai monaco. Ma sarà per lui determinante l’incontro con Vasudeva, un barcaiolo, con cui va a vivere, condividendone il lavoro, la capanna, il povero cibo, e soprattutto l’idea che il fiume sia vivo, sia un grande maestro, se lo si sa ascoltare.
OM
            Dalla voce del fiume Siddharta apprende che il tempo non esiste: “nulla fu, nulla sarà: tutto è, tutto ha realtà e presenza”. E che “tutte le voci delle creature sono nella sua”, e se si riesce ad intenderle tutte insieme, quella voce dice “Om”.
            Dopo molto tempo, arrivano al fiume frotte di pellegrini, tra cui Kamala e il figlio (cui aveva dato il nome di Siddharta), in viaggio verso il luogo in cui il Buddha stava per entrare nel Parinirvana. Ma Kamala muore, morsa da un serpente, tra le braccia di Siddharta, al quale affida il ragazzo, dopo avergli rivelato di esserne il padre. Il giovane vive con Siddharta e Vasudeva, ma è un ribelle, non accetta la figura paterna, di cui non sopporta la dolcezza, l’amore, la saggezza. E rifiuta il lavoro, la povertà, la vita sul fiume. Quindi fugge via. Siddharta lo segue per un poco, ma poi, giunto alle porte della stessa città in cui aveva vissuto con Kamala, si ferma e lascia che il figlio segua la sua via: “profondamente sentì in cuore l’amore per il figlio fuggito, come una ferita, e sentì insieme che la ferita non gli era data per rovistarci dentro e dilaniarla, ma perché fiorisse in tanta luce”.
            Altri anni passano, finché anche Vasudeva abbandona Siddharta, e si ritira nelle foreste per trascorrere i suoi ultimi giorni e raggiungere quella pace che già viveva in lui.
            Il racconto termina con l’ultimo incontro con il monaco Govinda, al quale Siddharta, ormai vecchio, parla a lungo, esprimendo, per quanto possibile con le parole, la saggezza e la pace interiore a cui era giunto, insieme al rifiuto di ogni dottrina. Le dottrine sono parole, e le troppe parole impediscono di trovare la vera pace: “anche liberazione e virtù, anche samsara e nirvana sono mere parole, Govinda. Non c’è nessuna cosa che sia il nirvana, esiste solo la parola nirvana”. Quindi Siddharta con un semplice bacio sulla fronte “apre” la mente di Govinda alla visione dell’unità nella molteplicità dei fenomeni; milioni di volti, umani, animali, dèi, le loro nascite, le sofferenze, le gioie, le malvagità, la loro distruzione; e dietro a tutto, come dietro a un ghiaccio sottile o ad una maschera d’acqua, un solo volto, quello di Siddharta. E, con un profondo inchino, Govinda si congeda da Siddharta, che sorride tranquillo: “così – questo Govinda lo sapeva – così sorridono i Perfetti”. 

Fortuna di Siddharta

            Anche se nel 1946 gli venne attribuito il Nobel per la letteratura, la popolarità di Hermann Hesse negli anni ’50 era in calo costante, sia tra i lettori sia tra i critici. Negli USA, poi, era quasi sconosciuto.
            Ma a metà degli anni ’60 iniziò il boom di Hesse, a partire proprio dagli USA, dove ancora nel 1962 il New York Times aveva scritto che le sue opere erano “inaccessibili” per il pubblico americano.
            Può allora essere interessante chiedersi perché alcune edizioni di Siddharta negli USA hanno venduto 8 milioni di copie, e 6 milioni in Giappone. Perché in Italia Siddharta è ancora oggi uno dei libri più venduti, perché dal 1975 in poi ha superato, presso Adelphi, le 58 edizioni, con più di 1.750mila copie vendute. Perché, in altre parole, Hesse è divenuto una vera e propria icona tra i giovani, soprattutto per romanzi come Siddharta e Il lupo della steppa.
            Ancora oggi, se sul motore di ricerca Google si digita “Siddharta Hesse” compaiono in risposta 49400 pagine in italiano, e 165000 nel Web!
            Le cause del successo planetario di Siddharta sono molteplici, ed una è certo il fatto che, in genere, soprattutto i lettori più giovani non tendono a cercare nel testo letterario solo la qualità delle strutture linguistiche o l’applicazione di norme estetiche. Piuttosto, la letteratura può essere vista come un aiuto, una guida, un indirizzo per la vita. L’autore (o il suo alter ego nel testo letterario) è colui che conosce la giusta risposta alle proprie domande esistenziali, è uno che ha già percorso la retta via, e quindi può indicarla (si è detto della letteratura, ma si pensi al ruolo svolto da certi musicisti, o attori cinematografici, divenuti veri e propri modelli di vita).
            Non a caso, Siddharta divenne un best seller, anzi un long seller, proprio negli anni in cui nel ricco Occidente emergeva la cultura orientale, confusamente se si vuole, ma irreversibilmente, e soprattutto, ed era la prima volta, con modalità non riservate alle piccole élites degli studiosi accademici. L’India della meditazione, dello Yoga, della nonviolenza, il Giappone dello Zen, il Tibet dei Lama e del buddhismo tantrico, si imponevano all’attenzione di masse di giovani colti, sufficientemente benestanti, alla ricerca di se stessi.
            I ragazzi della generazione che negli USA si rivoltavano contro la guerra in Vietnam e, più in generale, contro un mondo meccanizzato e privo di anima, scoprirono in Siddharta un loro simile, videro in lui e nella sua ricerca di autenticità le loro stesse sofferenze, i loro desideri, i loro bisogni. E soprattutto compresero che nella sua vita reale Hermann Hesse, molti anni prima, aveva coerentemente incarnato le idee trasposte nei romanzi: la ribellione all’autorità, il viaggio, la ricerca interiore, il rifiuto di ogni schema mentale fisso. Al di fuori delle istituzioni, delle dottrine, del successo ad ogni costo. “Nella sua critica della civilizzazione, nella sua protesta contro ogni totalitarismo, nel suo amore per la pace, nel suo scetticismo contro la classe dominante [...] credettero di trovare una conferma delle loro idee” (B. Zeller). Si aggiungano poi l’amore di Hesse per l’Oriente e il suo interesse per la psicoanalisi, già molto popolare in America.
            Per questo Hesse/Siddharta diventò il “santo degli hippies”, uno dei guru di tutta una generazione.
            E’ interessante osservare, a proposito di guru, che proprio quella generazione che teorizzava, anche sulla scia di Siddharta, il rifiuto della figura del Maestro, ha poi “canonizzato” una serie sterminata di maestri: si pensi ad Herbert Marcuse, Erich Fromm, Wilhelm Reich, Carlos Castaneda, per non parlare, in Europa, di Karl Marx, Lenin, Mao Zedong ecc.
Addirittura, la lettura di Hesse divenne parte degli esperimenti con sostanze psicotrope (LSD) condotti da un altro guru degli anni ’60, Timothy Leary, docente – molto discusso – dell’Università di Harvard, il quale predicava l’ampliamento della coscienza mediante l’uso di stupefacenti.
In nessuno scritto di Hesse, però, si possono trovare indicazioni in tal senso, e non risulta che egli ne abbia fatto uso. Anzi, per Hesse la via all’interiorità non è una fuga dal mondo, un illusorio superamento dei conflitti – meno che mai compiuto utilizzando droghe.
In forme meno enfatiche, il “fenomeno Hesse” coinvolse anche l’Europa, quando il movimento giovanile americano e la sua contro-cultura giunsero nel Vecchio Continente (che ad Hesse aveva dato i natali!). Ma, come è noto, i movimenti giovanili in Europa si trasformarono nel giro di pochi anni, scegliendo le vie – rivelatesi vicoli ciechi – della politica, delle lotte di potere, finanche della lotta armata (si ricordino i casi dell’Italia e della Germania).
Le alternative culturali espresse in origine dai movimenti giovanili nel Nuovo e nel Vecchio Continente, inoltre, vennero presto riassorbite dalla cultura egemone – la cultura della mercificazione e dell’omologazione.
Per quanto concerne l’interesse manifestato dai movimenti giovanili nell’ambito della spiritualità, è emblematico - per capire come le istanze di rinnovamento sia state reintegrate nella cultura dominante - il “caso” del c.d. New Age, l’Età dell’Acquario, fenomeno sorto negli USA e dilagato in Europa negli anni ’70.
Sebbene originatosi a partire da bisogni di ricerca interiore, di nuove e più autentiche modalità di vivere la religiosità, il New Age, corrente di pensiero assolutamente non strutturato né istituzionalizzato, punto d’incontro delle più disparate aree di ricerca (dall’Oriente ai Nativi Americani, dal buddhismo all’ufologia, dal channeling ai cristalli, dalle medicine alternative alle fate e alle streghe, dai tarocchi ad Atlantide, dall’astrologia alla qabbala, dallo yoga al Cristo, ecc. ecc.), il New Age, si diceva, si è prestato – inevitabilmente, viste le sue stesse premesse – alla mercificazione più sfrenata, divenendo un’etichetta buona per ogni genere di prodotto “spirituale”.
Oggi, del New Age Hermann Hesse viene visto – malgré lui – come un precursore. E il suo Siddharta appare ormai come un santino zuccheroso e inautentico, perfetta icona per l’odierno “fai-da-te” del sacro tra i cui scaffali ogni seria ricerca spirituale rischia di perdersi.



Nota:
L’edizione di Siddharta cui si fa riferimento è quella di Adelphi del 1982. Per il riassunto del romanzo è stato consultato sia il testo sia la voce “Siddharta (libro)” nel sito Internet www.wikipedia.org.
Per quanto concerne il titolo dell’opera e il nome del protagonista, è stata utilizzata la versione Siddharta, in quanto è quella che compariva nell’edizione del romanzo qui citata. Successivamente la stessa casa editrice Adelphi ha utilizzato la versione Siddhartha.
Le notizie sulla vita di Hermann Hesse sono state reperite sul sito www.wikipedia.org alla voce “Hermann Hesse”.
Per la terza parte sono stati utilizzati i saggi Risonanza mondiale di Bernhard Zeller (in www.hermann-hesse.de/it/literatur/www.pdf) e Hesse: dall’uomo a Dio un’opera senza tempo di Antonio Stanca (in www.edscuola.it/archivio/antologia/recensioni/hesse.htm), nonché la voce “New Age” in www.wikipedia.org.  
Può essere interessante effettuare una lettura “parallela” tra il romanzo di Hesse e la vita del Buddha, Siddhartha Gautama Shakyamuni, così come è narrata nel classico Le gesta del Buddha di Aśvaghoşa (II sec. d.C.), pubblicato da Adelphi e dai Fratelli Fabbri Editori.

 ottobre 2008      

Rainer Maria Rilke e il buddhismo estetico

Negli anni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento vennero tradotti in lingua tedesca i testi del Canone Pāli, le raccolte dei più antichi insegnamenti del Buddha. Ne era autore Karl Eugen Neumann (Vienna, 1865–1915), il più importante tra i pionieri delle traduzioni dei testi buddhisti.
Tra i suoi lettori vi furono due grandi scrittori in lingua tedesca del XX secolo: Rainer Maria Rilke e Hermann Hesse. Il confronto tra le loro diverse modalità di “leggere” il buddhismo “può aiutarci a mettere a fuoco due modi dell’orientalismo letterario. Uno [Rilke] potremmo chiamarlo estetico, e discende soprattutto dall’idea […del buddhismo] come opera d’arte. L’altro [Hesse] etico, che del Buddha considera non solo il messaggio, ma soprattutto l’exemplum, la vita[1].

Rilke
Rainer Maria Rilke, sommo poeta boemo di lingua tedesca, nacque a Praga nel 1875. Indirizzato dal padre alla carriera delle armi, secondo la tradizione di famiglia, a 16 anni abbandonò l'accademia militare. Passando da Linz a Praga, poi a Monaco e a Berlino, fece studî irregolari. La certezza di una vocazione poetica gli venne a Monaco, dove nel 1896 conobbe Lou Salomé, di 14 anni più anziana, legandosi a lei in un singolare rapporto affettivo. Determinanti per lo sviluppo della sua personalità furono le esperienze di viaggio in Toscana e soprattutto in Russia (1898 e 1899), dove fu ricevuto dal vecchio Tolstoj.
La sensibilità per le arti figurative lo spinse a vivere per due anni (1900-02) a Worpswede, villaggio di artisti nei pressi di Brema, dove sposò la scultrice Clara Westhoff, allieva di Auguste Rodin (1840-1917). Dal 1903 Rilke, che non aveva ancora avuto una stabile residenza, trovò a Parigi una specie di patria, e in Rodin un interlocutore privilegiato e un modello per la sua ricerca formale. Ma anche durante gli anni parigini continuò la serie dei suoi viaggi per tutta l'Europa e anche in Africa; tra l'altro a Roma (1903-04) e al castello di Duino[2] presso Trieste (1911-12), dove fu ospite della principessa von Thurn und Taxis. Allo scoppio della guerra nel 1914, fu trattenuto in Germania, dove prestò servizio in un ufficio di estrema retrovia. Finita la guerra, distrutto in Europa il mondo in cui aveva posto fiducia, Rilke si stabilì, dopo un nuovo e più breve soggiorno a Parigi, nel piccolo castello alpino di Muzot, nel Vallese, ospite di un nuovo mecenate. Gli ultimi anni furono molto penosi, a causa del rapido declino fisico; morì di leucemia a Montreux, all'età di 51 anni, nel 1926[3].

Rilke e il buddhismo

Nel 1908 Rilke ricevette in dono dalla moglie Clara le traduzioni dei testi buddhisti curate da Neumann e pubblicate a Monaco nel 1907.
Ma già negli anni precedenti (1905-06), quando era ospite di Auguste Rodin, Rilke aveva tratto ispirazione per la sua opera poetica proprio dalla figura del Buddha, anzi dal Buddha come “figura”.
Il Buddha nel giardino di Rodin
Infatti “dalla finestra della piccola casa nel parco della villa assegnatagli dallo scultore si vedeva una statua del Buddha scolpita dal maestro[4]. Nelle lettere che dalla sua stanza Rilke scrisse alla moglie si legge: “mi è dinanzi, in fiore [è il 20 settembre 1905], l’ampia notte stellata, e sotto, davanti alla finestra, il sentiero di ghiaia sale verso una piccola altura su cui riposa, fanaticamente taciturna, una statua di Buddha, elargendo sotto tutti i cieli del giorno e della notte, in silenzioso riserbo, l’indicibile rotondità del suo gesto. C’est le centre du monde, ho detto a Rodin[5].
E ancora, nel gennaio 1906: “Io sto in piedi al mio leggio, la finestra è aperta […] e il Buddha è grande e sapiente, e viene da pensare che la linfa salga in lui. E si crede di leggerglielo in volto, che per tutta la notte è stato signore di una sterminata luce lunare. Ieri, nella limpidezza della sera inoltrata […], il muro del mio giardino era buio, ma oltre il muro tutto il chiaro di luna del mondo si era raccolto intorno al Buddha, come le luci di un grande ufficio divino di cui egli occupava il centro, impassibile, ricco, raggiante di antichissima indifferenza[6].
Gli accenni al Buddha continuarono frequentemente nelle lettere dei mesi successivi: uno stormo di uccelli è per Rilke “come un Buddha di voci, così grande, imperioso e sovrano, così privo di contraddizione, così al confine della voce, pienezza e armonia con cui vibra il silenzio, quando si fa grande e quando noi lo sentiamo[7]. E le mani delle ballerine cambogiane sono “mani di Buddha che sanno dormire, che, alla fine di tutto, si posano lisce dita accostate a dita, per indugiare secoli accanto a grembi, giacendo, il palmo volto in alto, oppure erte sul polso, in una infinita richiesta di silenzio[8].
Ma soprattutto, al Buddha in quegli anni Rilke dedica espressamente ben tre poesie, due intitolate Buddha e la terza (che conclude la raccolta Poesie nuove, di cui fanno parte), Buddha nell’aura (Buddha in der Glorie), che qui riportiamo[9]:

Buddha (1905)

Quasi fosse in ascolto. Quiete: una lontananza...
Ci fermiamo e non l'udiamo più.
Ed egli è stella. Ed altre grandi stelle
gli stanno intorno, che noi non vediamo.

Oh, egli è Tutto. Ci aspettiamo forse
ch'egli ci veda? Ne avrebbe bisogno?
E se qui innanzi a lui ci prosternassimo,
resterebbe profondo ed inerte come bestia.

Poiché una forza ci getta ai suoi piedi
che in lui da milioni d'anni ruota.
Egli dimentica ciò che apprendiamo
e apprende quello che ci esclude.


Buddha (1906)

Già da lontano sente il pellegrino timido
l'oro che da lui gronda;
come se ricchi pentiti vi avessero
versato i loro tesori nascosti.

Ma avvicinandosi resta sconvolto
dalla maestà di queste sopracciglia:
non delle loro stoviglie son fatti,
né dei pendagli delle loro donne.

Nessuno sa quali oggetti si fusero
perché dal calice di questo fiore
sorgesse questa statua; più muta,
più quieta e gialla di una statua d'oro
che tutt'intorno tocca anche lo spazio
come se fosse parte di se stessa.


Buddha nell’aura (1908)

Centro dei centri, nucleo dei nuclei,
mandorla che si chiude e si addolcisce –
questo Tutto fino a tutte le stelle
è la tua polpa: ti saluto.

Tu senti che più nulla a te aderisce;
nell'infinito è la tua buccia
e là è il vigore del succo che preme.

E fitti raggi da fuori l'aiutano
perché i tuoi soli in alto
pieni e ardenti rovesciano la luce.
Ma già in te ha avuto inizio
Ciò che dura oltre i soli.

Tra i tanti temi poetici presenti nei versi di Rilke dedicati al Buddha, uno emerge: il Buddha è per l’A. un modo di essere e di rapportarsi con il mondo: “ciò che in modo esemplare appartiene al Buddha è la passività […] conseguita attraverso il superamento di una posizione oppositiva nei confronti del mondo ed il raggiungimento di una condizione di apertura[10].
Il Buddha non è colui che vede (“Ci aspettiamo forse / ch’egli ci veda?”), non ne ha bisogno, rimarrebbe inerte anche di fronte alle nostre prosternazioni. Questo perché il Buddha è al di là di ogni finalità ed intenzione, proprie invece della soggettività e dell’attività umane. Il Buddha di Rilke “dimentica ciò che apprendiamo”, ovvero abbandona quella modalità dell’apprendimento – che è dell’uomo – finalizzata al possesso (ap-prendere) di qualcosa che è separato, esterno al soggetto che vede, che conosce.
Il rapporto del Buddha col mondo non è il rapporto soggetto/oggetto, è un rapporto fondato nella “quiete”, una totale interconnessione (interdipendenza, inter-essere, si dice nel buddhismo) con la realtà così com’è.
Il Buddha è “stella”, ed è stella tra le altre stelle che non vediamo. È cioè una cosa tra le cose, senza separazione, essendo al di là dell’ego, della dicotomia io/tu.
In questo modo è totalmente aperto all’altro: “è aperto al mondo; egli è accolto, con la sua singolarità [che permane inalterata], nel mondo ed apre in se stesso uno spazio puro che può accogliere il mondo[11].
È ciò che diviene ancor più evidente nella poesia del 1908: “Qui il Buddha, riposando in sé […] è al contempo il nocciolo in cui si riversa il Tutto, non per essere trattenuto, ma per essere accolto e farsi frutto[12].
Riecheggiano, parrebbe, le parole del maestro Zen Dōgen (Giappone, 1200-1253) nel suo Genjōkōan: “Studiare la via del Buddha è studiare se stessi. Studiare se stessi è dimenticare se stessi. E dimenticare se stessi è percepire se stessi come tutte le cose. Realizzare questo è lasciar cadere mente e corpo di se stessi e degli altri[13].

Già da queste osservazioni minimali, è evidente che se Rilke, in quanto poeta, non espone espressamente la filosofia del buddhismo (come invece ha cercato di fare Arnold, ma con esiti discutibili…), l’ha però intimamente assimilata nei suoi versi, nella sua visione, nel suo porsi nel mondo proprio in quanto poeta.
I grandi temi dell’insussistenza di un sé separato, dell’interdipendenza dei fenomeni, delle modalità della percezione del mondo e del conseguente rapportarsi con se stessi e col mondo – tutti i temi fondanti della tradizione buddhista, sono infatti presenti nei suoi versi dedicati al Buddha (come in tutta la poetica di Rilke), a partire dalla semplice osservazione di una statua (ma quando il vedere è semplicemente vedere?).





[1] C. Miglio, Estetica ed etica. Percorsi buddhisti nella cultura tedesca tra Otto e Novecento, in: G. Orofino e F. Sferra (a cura di), Ponti magici. Buddhismo e letteratura occidentale, Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, pag. 88-89
[2] Durante il viaggio verso Duino Rilke fece tappa anche a Savona
[3] Le notizie biografiche sono tratte dal sito hhtp://www.treccani.it/enciclopedia/rainer-maria-rilke/
[4] Miglio, op. cit. pag. 93
[5] Id.
[6] Id.
[7] Id., pag. 93-94
[8] Id., pag. 94 nota 43
[9] La versione dei poemi è quella riportata in: D. Liguori, L’influenza del pensiero orientale in Rainer Maria Rilke, tesi di Dottorato di ricerca in Estetica e teoria delle Arti, Università degli Studi di Palermo, pag. 147 e 153
[10] Liguori, op. cit., pag. 148
[11] Id., pag. 153
[12] Id.
[13] Dōgen Zenji, Genjōkōan, in Shōbōgenzō, Ed. Pisani, pag. 2