mercoledì 30 settembre 2015

Age quod agis: Thomas Merton e il buddhismo

Il 24 settembre, durante il suo viaggio in America, Papa Francesco ha tenuto un discorso all’assemblea plenaria del Congresso degli Stati Uniti d’America, del quale riportiamo qui una breve citazione, ricavata dal sito: https://w2.vatican.va/content/vatican/it.html.

La mia visita capita in un momento in cui uomini e donne di buona volontà stanno celebrando gli anniversari di alcuni grandi Americani. Nonostante la complessità della storia e la realtà della debolezza umana, questi uomini e donne, con tutte le loro differenze e i loro limiti, sono stati capaci con duro lavoro e sacrificio personale – alcuni a costo della propria vita – di costruire un futuro migliore. Hanno dato forma a valori fondamentali che resteranno per sempre nello spirito del popolo americano. Un popolo con questo spirito può attraversare molte crisi, tensioni e conflitti, mentre sempre sarà in grado di trovare la forza per andare avanti e farlo con dignità. Questi uomini e donne ci offrono una possibilità di guardare e di interpretare la realtà. Nell’onorare la loro memoria, siamo stimolati, anche in mezzo a conflitti, nella concretezza del vivere quotidiano, ad attingere dalle nostre più profonde riserve culturali.
Vorrei menzionare quattro di questi Americani: Abraham Lincoln, Martin Luther King, Dorothy Day e Thomas Merton”.

 La breve ma interessante citazione termina con la menzione di quattro figure che in momenti diversi della storia hanno contribuito – e contribuiscono tuttora – a formare i valori fondamentali della società americana. Molto noti a tutti i primi due, forse un poco meno gli altri, la prima dei quali, Dorothy Day (1897-1980), è stata un’attivista impegnata in opere di giustizia sociale a favore dei lavoratori e delle classi più povere. Convertitasi al Cattolicesimo nel 1927, è stata tra i fondatori del Catholic Worker Movement.

Thomas Merton
L’ultimo nome, Thomas Merton, è invece quello che in questa sede più interessa, per i suoi profondi legami con il mondo buddhista.
Thomas Merton nacque nei Pirenei francesi, a Prades, nel 1915, da padre neozelandese e madre americana, entrambi pittori. Dal 1916 visse negli USA, poi, dopo la morte della madre, nelle Isole Bermuda e in Francia. Nel 1931 perse anche il padre, ma riuscì comunque a studiare a Cambridge lingue e letterature straniere. Negli anni dei suoi studi, che proseguì a New York, iniziò un percorso di conversione dall’anglicanesimo al cristianesimo che si completò nel 1938 e successivamente nel 1941, quando entrò come postulante in una Abbazia Trappista americana, dopo aver partecipato ad un ritiro spirituale di preghiera e di silenzio che lo aveva profondamente colpito. Nel 1947 pronunciò i voti solenni come monaco Trappista e nel 1949 divenne sacerdote. Si dedicò agli studi teologici, in particolare a quelli relativi alle tradizioni del misticismo cristiano.

La perdita del fratello durante la II Guerra Mondiale e i conflitti armati degli anni successivi fecero maturare in lui una profonda avversione nei confronti della violenza e della guerra, che si espresse nei suoi numerosi scritti a favore della pace, della non-violenza, dei diritti civili.
Il conflitto vietnamita lo spinse inoltre a volgere la sua attenzione verso le tradizioni buddhiste, che studiò a fondo con un atteggiamento di estrema apertura. Nel 1968 intraprese un viaggio in Oriente, durante il quale incontrò il Dalai Lama. Morì per un incidente proprio durante il viaggio, a Bangkok.
Fu autore di un gran numero di testi di saggistica, di narrativa (La montagna dalle sette balze è il più noto) e di poesia. Per quanto concerne il buddhismo, ne citiamo solo due, che proprio i praticanti buddhisti bene farebbero a leggere e meditare: infatti questo consentirebbe loro una corretta comprensione di che cosa sia il misticismo, concetto che buona parte del mondo buddhista occidentale rifiuta di accostare alla pratica del Dharma.
Il primo è Mistici e maestri zen, del 1967, nel quale Merton, come si legge in III di copertina, “risale…alle matrici non cristiane – religiose, filosofiche, culturali, storiche – dalle quali è scaturito per l’uomo lo stimolo all’evoluzione spirituale”.
Il secondo è Lo zen e gli uccelli rapaci, del 1968, nel quale dimostra una autentica comprensione della Via dello zen, come si vede da questa breve “Nota dell’Autore”.

Scrive Merton:

Dov'è una carogna in putrefazione gli uccelli da pre­da volteggiano e calano al suolo. Vita e morte sono ab­binate. I vivi attaccano i morti, a loro profitto. I mor­ti non ci rimettono nulla. Anzi guadagnano, in quanto vengono venduti. O sembra che guadagnino, se si ragiona in termini di guadagno e di perdita. Tu dunque intra­prendi lo studio dello zen con l'idea che ci sia da guada­gnare? Questa domanda non vuol essere implicitamente un'accusa. È però una domanda importante. Quando si fa molto chiasso intorno alla «spiritualità», all'«illu­minazione», o magari all'«accensione», il più delle vol­te è perché ci sono delle poiane che si librano sopra un cadavere. Questo librarsi, questo volteggiare, questo ca­lare, questa celebrazione di vittoria, non sono ciò che si intende per studio dello zen — anche se possono costi­tuire un esercizio utilissimo in altri contesti. E arricchi­scono gli uccelli rapaci.
Lo zen non arricchisce nessuno. Non c'è alcun cadave­re da trovare. Sul luogo in cui si crede che vi sia, gli uc­celli vengono per un po' a volteggiare. Ma presto volano altrove. Quando se ne sono andati, il «nulla», il «nes­sun corpo» che era lì, tutt'a un tratto appare. È lo zen. Era stato sempre lì, ma gl'insetti non l'avevano toccato perché non era il loro genere di preda.

Ed una altrettanto profonda comprensione egli dimostra nell’altro testo, e con ancor meno parole, quando afferma:

I maestri zen indubbiamente amano la massima age quod agis.

La stessa che chi scrive qui si trovò annotata (insieme col voto) sotto una libera composizione in italiano, negli anni lontani del Liceo, rimanendo quanto meno sorpreso, e non capendo ciò che l’insegnante volesse suggerire. Passò molto tempo, davvero molto, poi, forse, uno spiraglio si aprì.
A quel docente, liberale di vecchio stampo, un profondo inchino.



Le citazioni di Merton sono tratte da:
T. Merton, Mistici e maestri zen, Ed. Garzanti
T. Merton, Lo zen e gli uccelli rapaci, Ed. Garzanti

giovedì 24 settembre 2015

OCCIDENTE BUDDHISTA: storia (breve) di una rivista italiana

Nel marzo 1996 apparve nelle edicole italiane una nuova rivista, interamente dedicata alle tematiche buddhiste.
Il suo nome era OCCIDENTE BUDDHISTA, ed era pubblicata dalle Edizioni Italian Press Multimedia Srl di Milano. Il Direttore responsabile era Fabrizio Balsamo, e Giuseppe Wrzy il Coordinatore editoriale. Questo fino al marzo 1997, quando, a seguito della scomparsa di quest’ultimo, divenne Coordinatore Ezio Nava. La rivista continuò comunque a pubblicare gli scritti di Wrzy come editoriali.

Il n. 1 della rivista
In totale, uscirono in edicola 21 fascicoli con cadenza mensile, fino al dicembre 1997 (dal n° 1 al n° 22, in quanto il fascicolo di luglio ’97 era doppio e portava il n° 17/18).
Tutti i numeri erano riccamente illustrati con bellissime fotografie e riproduzioni di opere dell'iconografia buddhista: pitture murali, statue, tanka, miniature, architetture...
Ogni fascicolo costava 8000 Lire, arrivando poi a 10000. All'epoca, un quotidiano costava circa 1500 lire.
All’interno del n° 1 e fino al n° 9 (tranne nel n° 6), vennero allegati come inserti separabili 8 fascicoli di formato ridotto, ciascuno di 16 pagine, contenenti uno o due articoli dedicati a temi del buddhismo Mahayana e Vajrayana.
L'allegato al n. 1
Già da quanto detto finora, si vede bene come si trattasse di una vera e propria “avventura” editoriale, almeno per l’Italia di quegli anni, nella quale la tradizione buddhista era sì presente ed anche abbastanza radicata, ma in maniera marginale, ininfluente, un poco folkloristica (come oggi, d’altra parte). Il tutto, poi, all’interno di un panorama sociale e politico in cui tutto ciò che era “cultura” in genere – e spiritualità in particolare – era considerato secondario, noioso, irrilevante. A meno che non fosse preconfezionato e precotto dai grandi mezzi di “distrazione” di massa ormai giunti al potere in prima persona (il primo governo Mediaset era entrato in carica nel maggio 1994). E si era solo all’inizio di una storia che ancora non accenna a finire…

Si trattava quindi, oggettivamente, di una pubblicazione “di nicchia”, destinata ad un ristretto numero di lettori.
Infatti nel n° 22 comparve un avviso, in II di copertina, secondo il quale dal 1998 la rivista non sarebbe più stata venduta nelle edicole, e si invitavano quindi i lettori a sottoscrivere un abbonamento. Non risulta a chi scrive che le pubblicazioni siano poi continuate. 

Per comprendere bene lo spirito che animava i coraggiosi responsabili della rivista si può leggere l’editoriale del n° 1, intitolato “Una ricerca”.
Scriveva Giuseppe Wrzy:

È sorprendente scoprire quanto tempo si passi a cercare "l'altrove". Appare come una scoperta sconcertante, annichilente eppure ovvia e quasi banale.
"Mi sono chiesto come mai - scriveva Robert M. Pirsig, in una delle letture giovanili più entusiasmanti - abbiamo avuto per tanto tempo la verità sotto gli occhi senza vederla. Forse eravamo allenati a non vederla, a pensare che il cuore dell'azione e dei fatti fosse la città e che altrove non ci fosse che noioso retroterra."
Già, l'altrove relativo delle utopie giovanili e dei rapporti personali, giurati ricchi e poi scoperti troppo spesso piccole falsità. L'altrove, come se si trattasse di un luogo fisico, di un'entità palpabile, plasmabile, a volte anche edificabile; tutto in equilibrio sui desideri e sulle certezze. Poi si scopre, si vede, si tocca: ma si tratta dell'altrove assoluto, talmente vicino e talmente lontano che distinguerlo diventa un lungo, lento e piacevole impegno; quello che si riceve e a volte si trasmette da una bocca ad un orecchio. E allora compaiono le armonie dell'altrove, la serenità dell'altrove, la felicità dell'altrove e che può essere qui e adesso. Certo bisogna sapersi liberare e occorrono scelte coraggiose per distinguere e trovare; scelte ardite, desuete, interiori.
È nella ricerca di questo "altrove" che ha preso corpo questo progetto e trovo giusto non dissimulare la mia emozione nel vederlo a compimento. Il più grande desiderio è stato quello di trasmettere al lettore parte di queste sensazioni e introdurlo alla percezione della grandezza di questa Dottrina; cercando di non opprimerlo con le difficoltà che sono tipiche dell'accostarsi ad argomenti di questa portata.
E il piacere di questa ricerca è stato grande per la partecipazione d'intenti che ha messo in moto; per la risposta ricca e intensa di "luci" lontane e autorevoli, come di più vicine armonie che si sono espresse in queste pagine a vantaggio di quest'opera. E le immagini si sono inanellate sugli scritti; comparse da dietro gli occhi pieni di gioia di vivere dei fotografi professionisti e non, colpiti dall'armonia di un luogo, di un gesto, di uno sguardo. Una ricerca entusiasmante di iconografie istantanee o di classiche rappresentazioni religiose che qui, come fisicamente altrove, rappresentano sentimentalmente questo sentiero.
Un sentiero percorso da molti e diversi, di cui solo il tempo e il giudizio dei lettori potrà dare la misura della compiuta realizzazione, e il riconoscimento del desiderio che ci ha mossi. In ogni caso, se anche una sola persona trovasse la sua strada e un po' di serenità grazie a queste pagine, ne verrebbe il più grande premio per la nostra opera. Intendo ovviamente per la mia e per quella di tutti coloro che hanno contribuito a far sì che quest'iniziativa vedesse la luce, ai quali rivolgo il mio più grande e sentito ringraziamento.”

Scorrendo ancora oggi la rivista, gli articoli pubblicati, le firme che vi sono comparse, lo splendido apparato iconografico, è da dire che il programma esposto nell’editoriale è sempre stato coerentemente seguito.
Lo si può osservare leggendo l’elenco degli articoli apparsi, quasi 300, che qui di seguito abbiamo raggruppato in un foglio Excel, in ordine alfabetico per autore. Per consultarlo, cliccare su:



Inoltre, nella ultime pagine di ogni fascicolo, comparivano alcune rubriche, quali:
- il “Calendario dei Centri”, con informazioni relative alle attività dei vari Centri di Dharma italiani
- un utile “Glossario” dei termini sanscriti, pali, tibetani, cinesi, giapponesi ricorrenti nei testi degli articoli
- le “Cronache” delle diverse iniziative in corso nel mondo del buddhismo nazionale ed internazionale
- i “Libri del mese”, a cura di Gloria Magotti, con la presentazione dei volumi legati alle tradizioni buddhiste usciti sul mercato editoriale italiano.

Un’ultima notazione va riservata alla pubblicità, vero e proprio elemento inquinante di gran parte delle riviste che escono nelle edicole, anche se si è ben consapevoli di quanto le “informazioni commerciali” possano essere necessarie (ma quanto condizionanti?) per la sopravvivenza delle pubblicazioni stesse.
L'ultimo numero
Ad “Occidente Buddhista” va invece riconosciuto il merito di essere riuscita a “contenere” la pubblicità in maniera più che accettabile, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Una pubblicità “discreta”, non invasiva, spesso direttamente legata ai contenuti della rivista: case editrici, agenzie di viaggi… e mai per più di 3-4 pagine sulle 70-80 di cui era composta. Nulla, se si pensa a certe pubblicazioni tuttora esistenti, e proprio sui temi qualificanti dell’ambiente, della salute, del “biologico”, che paiono essere cataloghi di prodotti con alcuni articoli sperduti qua e là.

Per finire, tra i tanti articoli apparsi sulla rivista, ne proponiamo qui uno, che per gli argomenti trattati riassume in sè molte delle tematiche di "Occidente Buddhista": l'importanza della pratica meditativa, il rapporto del Buddhismo con le altre tradizioni (qui, il Cristianesimo) e con le scienze della mente...
Si tratta del testo della relazione tenuta da Arnaldo Graglia (Lama Paljin Tulku Rinpoce, del Centro Mandala di Milano) durante un convegno interreligioso del 1997, intitolato: "Meditazione e estasi, stati naturali di coscienza".

"Parlare di estasi in senso fideistico è molto difficile per un buddhista. Perché il buddhismo, pur non trascurando le ragioni del cuore, è una scienza della mente che porta l'uomo a vedere la realtà nel suo costante divenire relativo e quindi nella sua vacuità assoluta. Manca nel buddhismo la figura di un Dio creatore cui affidarsi, poiché lo stesso Buddha, considerando il concetto di Dio come impossibile da esplorare anche dalla più acuta delle menti umane, rinunciò a parlarne. Ecco perché i praticanti che seguono gli insegnamenti del Risvegliato non devono abbandonarsi ad una fede cieca, ma devono contrapporre a essa una fiducia in ciò che li ha concretamente convinti: ovvero prima di accettare come valido un qualsiasi insegnamento, l'allievo lo deve verificare in ogni momento attraverso l'esperienza personale. E ciò avviene per mezzo di un attento e obiettivo esame delle circostanze, che porta a valutare non solo i fatti ma anche le loro cause, le condizioni e l'interdipendenza tra i fattori che li hanno generati, passando alla loro relativa durata nel tempo per approdare infine a un'opinione della quale ciascuno è responsabile.
Lama Paljin Tulku Rinpoche (Arnaldo Graglia)
Il Buddha dice: "Non aspettatevi nulla se non da voi stessi. Nessuno ci può dare l’illuminazione, però qualcuno può indicarci la strada da seguire, fermo restando che l'uomo raccoglie da solo i frutti del male che ha fatto e lo riscatta da solo: bene e male si purificano individualmente, nessuno può purificare un altro. Ciò non toglie che anche la via spirituale dei buddhisti passi attraverso stati di coscienza che possono assimilare la beatitudine derivante dalla meditazione agli stati mistici che i cristiani definiscono abbandono. La meditazione fonde immaginazione e realtà attraverso un momento esperienziale in cui la percezione dei concetti si trasforma in conoscenza intuitiva.
Nel Cristianesimo questo tipo di meditazione è basato sulla preghiera che viene dal cuore, per il cui tramite l'individuo può sentire un'entità esterna a lui (Dio) e vivere estaticamente questa relazione frutto di una elevazione di coscienza. Da questa proiezione mentale di origine devozionale nascono emozioni in grado di consolidare il rapporto fideistico con la divinità. È dunque la grazia divina che conduce i mistici occidentali alla contemplazione, mentre i meditatoli orientali usano il ragionamento per ottenere quei risultati di carattere interiore che, tramite l'intelligenza, conducono alla saggezza. La meditazione buddhista, così come viene praticata nella tradizione tibetana, si basa su un elemento contemplativo ottenuto con la visualizzazione, che consente al meditatore di raggiungere la condizione mentale necessaria a compiere ogni azione del corpo, della parola e della mente per il beneficio degli altri. La stessa funzione si potrebbe attribuire ai doni gratuiti che, secondo San Tommaso d'Aquino, Dio trasferisce ai mistici cristiani perché possano aiutare il prossimo. Qui i dono dello Spirito Santo, attraverso l'estasi, portano a una beatitudine che San Tommaso considera come un ben dell'intelletto. Nella meditazione buddhista tibetana è il maestro che fa cadere sull'allievo una colata di nettare di beatitudine che aiuterà il praticante a raggiungere la stabilità mentale atta a sviluppare quel processo conoscitivo che, partendo dal duale, porta alla verità ultima, ovvero alla consapevolezza che tutte le cose sono prive di un sé inerente. La mistica cristiana, manifestandosi come un atto d'amore verso Dio, apre canali di comunicazione trascendenti che portano più alla visione che non alla visualizzazione, intesa come atto immaginativo.
Esistono comunque casi di santi che hanno praticato la visualizzazione con risultati sorprendenti. Tra questi: santa Teresa di Lisieux e Santa Teresa d’Avila. Le esperienze mistiche di Santa Teresa del Bambin Gesù, detta anche Teresa di Lisieux, nata in Francia nel 1873 e morta nel 1897 a soli 24 anni, sono legate a stati immaginativi del tutto simili ai passaggi della meditazione buddhista tibetana. Una delle sue visualizzazioni preferite era quella dedicata alla Madonna. Nel libro "Storia di un'anima", Teresa di Lisieux narra che per praticare questa visualizzazione ella immaginava la propria anima come una grande superficie libera.
S. Teresa di Lisieux
Poi pregava la Madonna di erigere su questo spazio una grande tenda piena di ornamenti preziosi e quindi invitava tutti gli angeli e i santi a riunirsi nella tenda per tenere un magnifico concerto. A quel punto Teresa immaginava che Gesù scendesse nel suo cuore accolto da una grande melodia. Al termine della visualizzazione la santa decideva di conservare quello stato di grazia per tutta la giornata, in totale beatitudine. Come non vedere in questa descrizione il Mandala dei buddhisti, composto da una superficie circolare al cui centro un sontuoso palazzo ospita la divinità tutelare? Ma c'è di più. Dopo aver invitato con offerte magnifiche le entità positive a presenziare alla cerimonia cui non mancano musiche melodiose, il praticante si identifica con la divinità del Mandala facendola entrare dentro di sé e assumendone le qualità. Egli potrà per tutta la giornata, e anche oltre, dimorare in quella condizione positiva. Anche nel caso di Teresa di Lisieux, la meditazione contemplativa porta a uno stato di conoscenza in cui amore e abbandono svolgono un ruolo importante.
Nella tradizione Induista questo tipo di abbandono è detto prapatti, pittorescamente definito come la scuola del gatto, poiché la mente del praticante si abbandona alla meditazione proprio come il gattino resta inerte e disponibile quando la madre lo prende per la pelle del collo e sollevandolo lo trasporta in un luogo sicuro.
Non è difficile intuire che Santa Teresa si abbandona come un gattino alla guida del Signore e si offre a lui per essere trasportata nella dimensione dell'estasi. Se vogliamo proprio parlare di abbandono riferendoci al Buddhismo possiamo riferirci a un eventuale abbandono alla meditazione, ma non certamente a un abbandono nella meditazione poiché durante la pratica meditativa la coscienza è sempre vigile, pronta a riportare la mente sull'oggetto del meditare. Ci sono tre modi di meditare: con supporto impuro, con supporto puro, senza supporto.
Il supporto impuro può essere un oggetto, un ambiente, una cosa da esaminare minuziosamente: forma, colore, dimensioni ecc. È interessante notare che nella tradizione cattolica tutte le apparizioni o visioni siano legate a immagini che fanno parte dell’iconografia classica cui appartengono le divinità contattate: Gesù ha la barba e i boccoli, le sue mani sono bellissime, come le vede Santa Teresa d’Avila. La Madonna è vestita di bianco, talvolta ha la cintura azzurra, ora assomiglia alla Madonna del Rosario, ora assomiglia alla Madonna del Carmelo. Nella tradizione tibetana questo tipo di immagine visualizzata si chiama supporto puro ed è rappresentato da una figura che abbia valenze sacre: ad esempio il Buddha e la Bodhisattva Tara, che hanno nel buddhismo una carica evocativa simile a quella di Gesù o di Maria nella tradizione cristiana. Su questa figura ci si deve concentrare completamente controllando e interpretando dettagliatamente tutti i particolari del corpo, dell'abbigliamento e delle posture, così come vengono proposti dall'iconografia sacra, ed entrare nel vivo del loro valore simbolico senza essere toccati da altri pensieri. Un altro supporto puro può essere una pallina di luce bianca che si visualizza all'altezza della fronte, nel puntò che si trova tra le sopracciglia e la radice del naso: questa luce rappresenta il Maestro, la cui energia è indifferenziata dalla luce. Infine, nella meditazione senza supporto, la mente è sgombra da immagini e pensieri ed è mantenuta libera, senza distrazioni. In questa dimensione senza spazio e senza tempo, il praticante trova la via per intuire il principio del vuoto, grazie
al quale si comprende come la nostra coscienza del mondo sia illusoria, e illusori siano purè i desideri, gli attaccamenti, la gelosia, l'orgoglio: tutti fattori generati dalle proiezioni di una mente che galoppa incessantemente nel regno dell'astrazione e dell'immaginario. Infatti l'uomo è portato a perdersi nei ricordi e nei sogni, ma tutto ciò che concerne il passato è un'astrazione e anche il futuro non è che una costruzione mentale.
La meditazione ha lo scopo di imbrigliare la nostra mente come si fa con un puledro selvaggio e di portarla alla calma. Ciò consente di eliminare in noi gli stati negativi e di sviluppare quelli positivi.
Il metodo permette a chiunque lo pratichi con regolarità di ottenere gradualmente la condizione di tranquillità necessaria per affrontare con equilibrio i problemi della vita quotidiana.
In pratica la meditazione buddhista ci permette di vedere la realtà nella sua vera dimensione transitoria e relativa, liberandoci dalle paure, dalle tensioni, dai complessi, dalle illusioni: tutti fattori che costantemente agitano la nostra mente e generano quello stato di confusione che porta grande sofferenza in ogni essere umano. E con la mente sgombra dalle tensioni noi possiamo vincere ogni egoismo e pregiudizio dedicandoci a quelle azioni che possono portare armonia in noi stessi affinché ci sia possibile attivarci positivamente per il bene degli altri. Da questo punto di vista, l'abbandono inteso come frizione di uno stato di beatitudine differisce tra occidente e oriente poiché nella concezione cristiana questo abbandono è visto come un atto d'amore verso Dio, mentre secondo il buddhismo tibetano i frutti della chiara visione derivante da questo abbandono alla meditazione servono per fini altruistici e si configurano come un atto generatore d'amore e di compassione verso tutti gli esseri senzienti. Nonostante tali differenze i due sistemi hanno molti punti in comune: nell'esperienza estatica come nella meditazione si elimina l'io e si lascia fluire la mente in un contesto esperienziale senza limiti di spazio e di tempo. Il mistico cattolico vive la propria realtà convenzionale in modo libero e gioioso poiché l'ha spogliata dei valori ad essa imposti dall'io e ne comprende la funzione provvisoria legata all'impermanenza.
Così anche il meditatore, il quale ha acquisito una consapevolezza totale che lo libera dagli attaccamenti e dalle illusioni e gli conferisce una profonda pace interiore.
Quella pace dell'assoluto che pervade lo spirito di mistici e meditatori di tutte le tradizioni.
Secondo alcuni ricercatori la mente umana dispone di una coscienza critica che vede, sente, analizza; e di una coscienza identificabile con il sé, la quale è vista, sentita e analizzata.
A mano a mano che queste due coscienze si avvicinano, la loro individualità scompare e non si vive più la dimensione dicotomica: l'esterno e l'interno si fondono. Questo stato è neurobiologico e può essere ottenuto da chiunque ne conosca la tecnica. Recenti studi attuati con mezzi scientifici hanno dimostrato che nei soggetti cattolici che hanno visioni mistiche l'elettroencefalogramma ha frequenza costante. La stessa cosa si può riscontrare nei meditatori orientali. In alcuni casi i mistici cattolici durante le visioni hanno gli occhi aperti, ma non reagiscono alle sollecitazioni esterne; così avviene normalmente presso certi meditatori tibetani la cui pratica consiste proprio nel mantenere la fissità dello sguardo ad occhi sbarrati anche se la pupilla è esposta a un forte fascio di luce. Ciò è dovuto a una interruzione del collegamento nervoso tra cervello e gli organi di senso. È errato voler interpretare il fenomeno mistico come un fattore condizionato solo da elementi psichici o fisici: il misticismo ha un complesso di cause che vanno globalmente considerate. Qualsiasi stato di coscienza può essere infatti analizzato in differenti aspetti, ma queste parti formano un sistema in cui tutti i fattori sono interdipendenti. È stato rilevato che l’estasi si raggiunge attraverso il succedersi di momenti diversi che hanno una durata più o meno lunga e che devono comunque essere superati uno per uno, fino allo stadio finale che corrisponde all'ingresso in una condizione di beatitudine. Lo stesso procedimento è alla base del Lam-Rim, il sentiero graduale per raggiungere l'illuminazione: una pratica comune a molte scuole della tradizione buddhista tibetana. Una recente analisi effettuata da ricercatori qualificati su numerosi individui sani di mente soggetti a frequenti contatti con la Madonna, ha permesso di constatare che durante l'estasi queste persone avevano una respirazione diaframmatica, con ritmi ridotti e grande regolarità nei cicli respiratori.
Queste persone inoltre non davano segni di allucinazione, non erano in catalessi e non avevano i muscoli irrigiditi. In altre parole potevano manifestare i sintomi di uno stato meditativo comune.
S. Tommaso d'Aquino
Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino suddividono le fasi di contatto mistico con Dio in tre gruppi: intellettive, immaginali ed esteriori. Dove per intellettivi si intendono i contatti ottenuti senza il tramite di immagini, ovvero con il solo pensiero privo dei simboli figurati o parole. I contatti immaginali sono quelli nel corso dei quali si vedono figure o si odono parole senza realmente vedere con gli occhi o udire con le orecchie. Sono in pratica delle proiezioni della fantasia. I contatti esteriori si verificano quando il soggetto vede e sente fisicamente i fenomeni.
Il tutto deve passare, secondo i padri della Chiesa, attraverso un dono divino. Invece potrebbe trattarsi di una questione tecnica. La scienza moderna considera infatti questi fenomeni come un fattore illusorio originato dal raggiungimento del limite estremo della coscienza. Lo ribadiva anche Santa Teresa d’Avila quando diceva: "Vedo il Signore non con gli occhi del corpo e neppure con quelli dell'anima, perché si tratta di una visione immaginaria". Ci troviamo di fronte a un punto ulteriore di consapevolezza. Proprio quel punto in cui il meditatore, come il mistico cattolico, intuiscono quanto il bodhisattva Avalokiteshvara predicò nel Sutra del Cuore: ovvero che le sensazioni, le discriminazioni, gli elementi di formazione e la coscienza sono vacui, cioè privi di un sé inerente. In conclusione: lo studio delle esperienze mistiche si è enormemente sviluppato negli ultimi trent'anni, ma c'è ancora confusione tra fisiologia e patologia e si tende a differenziare l'estasi dalla meditazione sulla base di preconcetti religiosi. In verità non si tratta oggi di sapere quale dei due metodi sia il migliore, né quanto ci sia di occidentale nella meditazione e di orientale si trovi nell'estasi cattolica, ma la scienza dovrebbe soprattutto impegnarsi per scoprire quanto di universale ci sia in questi stati di coscienza che non sono modificati come si tende a definirli, ma sono naturali, autonomi e semplicemente poco noti."

L'ultimo inserto
Pochissimi sono i riferimenti reperiti in Internet su "Occidente Buddhista". Tra questi:
http://buddhismoitalia.forumcommunity.net/?t=29030075&st=15

La rivista è stata inoltre citata alle pag. 13 e 147 del volume:
M. Thengavila, Ambedkar e il neobuddhismo, Ed. Mediterranee

Su Lama Paljin si veda, tra l'altro:
http://www.centromandala.org/


venerdì 18 settembre 2015

I popoli in marcia: intervista con Enzo Bianchi

Sul quotidiano La Repubblica del 9 settembre 2015 è apparso il testo di una interessante intervista di Silvia Ronchey con Enzo Bianchi, Priore della Comunità di Bose (ricordiamo che Silvia Ronchey è coautrice del volume Storia di Barlaam e Ioasaf pubblicato da Einaudi, del quale si è parlato nel post su Iacopo da Varagine - http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/02/il-beato-iacopo-da-varagine-e-la-strana.html).
Oggetto dell’intervista, leggibile anche sul sito http://www.eddyburg.it/2015/09/enzo-bianchi-critichiamo-lislam-ma-poi.html, sono le sfide del cristianesimo, la minaccia del terrorismo dell’Is e il ruolo della donna nella Chiesa, alla luce del pontificato di Francesco.
Presentiamo volentieri questo testo, anche se apparentemente esula dai temi solitamente trattati in questo blog, in primo luogo perché gli interventi di Enzo Bianchi costituiscono sempre un pressante invito a riflettere sui temi della spiritualità inserendoli correttamente nel loro contesto storico e politico, facendo costantemente ricorso alla razionalità di cui l’uomo è portatore, e non in maniera superficialmente emotiva, come accade sempre più spesso.
Inoltre, i temi che Bianchi tocca nell’intervista, in primis quello del confronto con l’Altro, con lo “Straniero”, non sono affatto diversi (off-topic, come si dice) da quelli della spiritualità dell’Oriente, che sono prevalenti nel blog. I grandi movimenti di popoli a cui stiamo assistendo oggi non costituiscono una eccezionalità o una novità, né per l’Occidente né per l’Oriente
Basta rileggere qualche libro di storia per ricordarsene. E la lezione del Buddha (non a caso citato da Bianchi) sul come porsi di fronte a chi riteniamo Altro-da-noi, lo “straniero”, il “barbaro”, non è affatto diversa da quella dei maestri di ieri e di oggi, dell’est o dell’ovest (Cristo, Savonarola, A. Schweitzer, M.L. King, N. Mandela, Gandhi, il Dalai Lama ecc.). Come dice Bianchi, è “una posizione di umanità e di tolleranza”, la sola che ci permetta di non abbandonare il fatto stesso di essere realmente uomini, e non solo homo oeconomicus o politicus…o televisivus.

Ecco il testo dell’intervista:

«Il papa ha lanciato l’allarme già due anni fa, dopo la visita a Lampedusa. È rimasto inascoltato e credo che anche questo suo nuovo appello lo sarà. Il fastidio di un certo clero verrà magari dissimulato dall’ipocrisia religiosa, che è la più bieca e spaventosa di tutte». Siamo a Bose, alla vigilia dell’apertura dell’annuale convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, e il priore Enzo Bianchi commenta l’esortazione di Bergoglio ad accogliere nelle parrocchie i rifugiati del grande movimento di popoli di cui quest’estate, con i suoi avvenimenti sconvolgenti, sembra avere cambiato la percezione generale. «Un mese fa il vescovo di Crema ha chiesto di ospitare i rifugiati in locali adiacenti una scuola cattolica, è stato contestato dalle famiglie. La situazione italiana è una vergogna, soprattutto nelle regioni tradizionalmente più cattoliche, il Veneto e la Lombardia».

Il rifiuto è più sociale o più confessionale?
«Quello confessionale l’hanno gridato a suo tempo il cardinal Biffi e il vescovo Maggiolini, secondo cui bisognava eventualmente accogliere solo i cristiani. Ma il problema è la vera e propria fabbrica di paura dei barbari, edificata da forze politiche attente solo all’interesse locale, forze che prima di Francesco la chiesa italiana ha assecondato, anche se all’inizio sembravano assumere riti pagani, precristiani, quelli sì barbarici. Ora si proclamano cattolici ma io li chiamo cristiani del campanile. Il grande silenzio di una chiesa complice li ha aiutati a iniettare nel tessuto sociale del territorio il veleno della xenofobia».

Guardiamo gli eventi nella misura dei millenni di storia anche ecclesiastica, parliamo del V secolo, quando alle cosiddette invasioni barbariche si è affiancata l’assunzione del cristianesimo a religione di stato.
«Quando con Teodosio il cristianesimo è diventato religione dello stato imperiale la furia dei monaci – lo dico con dolore, mi strappa il cuore – ha distrutto i templi pagani, fatto uno scempio di opere d’arte non diverso da quello dell’Is, ma ben più vasto. È il motivo per cui san Basilio non ha mai usato nei suoi scritti la parola “monaco”: designava integralisti violenti, i talebani del momento. Guardando i secoli mi permetto di dire, pur con tutte le differenze: vediamo che altri rifanno a noi quello che abbiamo fatto».

Come ad Alessandria d’Egitto, quando fu distrutto il Serapeo e i parabalani del vescovo Cirillo assassinarono Ipazia. Nel “Libro dei testimoni”, lo straordinario martirologio ecumenico di Bose, questa martire pagana potrebbe trovare posto?
«Sì, come tutti coloro che – da Buddha a Savonarola, da Rumi a Gandhi – in qualunque religione o anche all’esterno hanno perseverato in una posizione di umanità e di tolleranza. La dottrina cattolica del Vaticano II ribadisce con chiarezza che la coscienza prevale su qualsiasi autorità, anche su quella papale».

Torniamo ai movimenti di popoli della cosiddetta fine dell’antichità.
«Con saggezza papa Gregorio Magno chiese accoglienza per i barbari in arrivo dando un’unica dignità a stranieri e latini, che si espresse nel monachesimo benedettino e fece fiorire il cristianesimo, allora esangue soprattutto in occidente. La storia serve da un lato a non stupirci dell’intolleranza, dall’altro a spegnerla richiamandoci alla razionalità, che oggi significa mostrare ai popoli dell’oriente postcoloniale che gli riconosciamo soggettività, dignità, diritto di sedere alla tavola delle genti, anziché continuare a sfruttarli economicamente».

La memoria storica ecclesiastica, la conoscenza delle ere passate di cui si nutre, non ha anche il dovere di ricordare a tutti l’onda lunga della tolleranza islamica?
«Al tempo della conquista musulmana i cristiani del Medio Oriente hanno aperto le porte delle loro città agli arabi che portavano libertà di culto e affrancavano dalle angherie economiche del governo imperiale cristiano. La convivenza di cristiani, ebrei e musulmani nel corso del medioevo islamico ha fatto fiorire momenti di cultura straordinari, come nel mondo sufita, che conosco bene. L’islam è una religione di pace e mitezza con una mistica di forza pari a quella cristiana. Se nel Corano ci sono testi di violenza, non sono molto diversi da quelli che troviamo nella Bibbia e che ci fanno inorridire. La lettura integralista della Bibbia può rendere integralisti quanto quella del Corano [o dei Sutra buddhisti, ci permettiamo di aggiungere]. L’esegesi storico-critica delle scritture, cui il cristianesimo è approdato con fatica e subendo terribili condanne dell’autorità ecclesiastica, è il primo passo di un lungo cammino che aspetta anche i musulmani. Nel frattempo servono ascolto, dialogo, seri studi universitari per dissipare la propaganda ideologica che attecchisce sull’ignoranza: non è vero che l’islam è una religione della violenza e della jihad, affermarlo serve solo a giustificare la nostra nei suoi confronti».

Dai Buddha di Bamyan al tempio di Bel a Palmira, il nostro secolo assiste ad atti islamisti di cancellazione del passato dal contenuto altamente simbolico. Ma non è chiaro quanta parte effettiva vi abbia la religione o la religiosità.
«Una parte minima. Il problema non è religioso, è sociale ed economico. Gli integralisti islamici, anche abbattendo una chiesa, non mirano tanto a offendere la fede cristiana quanto a colpire l’occidente.
Un pacifico abitante di Palmira mi ha detto: “Voi occidentali, piangendo la distruzione di templi etichettati dall’Unesco, date l’idea di averli più cari della nostra popolazione. Così li fate diventare una protesi dell’occidente nella nostra terra”. Mostrando di tenere così tanto a un pezzo di colonna — giustamente, perché è segno di un cammino di umanizzazione — ma facendo saltare in aria le persone nelle guerre da noi scatenate in Iraq, in Siria, in Libia, finiamo per apparire mostruosi. Certo le distruzioni dell’Is sono crimini contro l’umanità oltre che contro la cultura e la dignità dei monumenti va difesa, ma abbiamo la stessa forza nel difendere le popolazioni perché non soccombano alle nostre armi o non trovino vie di morte nella migrazione?».

I popoli sono in marcia e un’ibridazione, che la si voglia o no, dovrà avvenire, perché questa è la storia. Il che pone anche specifici problemi sociali come quello del ruolo della donna: l’islam impone il velo, ma non trovi che anche nella chiesa cristiana ci sia un ritardo?
«Si dice sbrigativamente che certi musulmani siano ancora nel medioevo. Ma il velo completo per le suore di clausura è stato abolito solo nel 1982. È molto recente la presa di coscienza della pari dignità della donna e dell’uomo nel cristianesimo, che non ha ancora nemmeno il linguaggio per esprimerla. La soggezione delle donne agli uomini è un retaggio scritturale nell’islam, ma è presente anche nelle nostre scritture: san Paolo afferma che le donne non devono assolutamente parlare nell’assemblea della chiesa e devono stare a capo coperto. Di nuovo, serve una rilettura storico-critica di tutti i libri sacri, per scorgerne l’intenzione e non le forme. Nella chiesa c’è buona volontà ma poi della donna si hanno immagini irreali: il modello di Maria, vergine e madre, che non può essere il riferimento per una promozione della donna nella chiesa; l’idea, insinuata per moda, che la Madonna sia più importante di San Pietro, idea insipiente come dire che la ruota in un carro è più importante del volano... Non siamo ancora capaci di prendere sul serio l’uguaglianza indubbia tra uomini e donne. Il cammino per la chiesa è ancora lunghissimo perché ovunque ci sia un esercizio di comando restano gli uomini, mentre le donne sono confinate al servizio umile».

Il convegno che si apre oggi è dedicato a “Misericordia e perdono”: sono istanze che, dall’ambito ecclesiale cui appartengono, possono suggerire prassi anche giuridiche e sociali?
«Declinare la giustizia con il perdono, anche a livello politico, è un’esigenza che già Giovanni Paolo II aveva evocato con forza in un suo messaggio per la Giornata della pace. L’insistenza di papa Francesco sulla pratica della misericordia, vissuta nei secoli da tanti cristiani d’oriente e d’occidente anche in controtendenza rispetto alla mentalità dominante, dischiude percorsi fecondi nella faticosa purificazione della memoria cui non ci possiamo più sottrarre, pena l’abbrutimento di ogni nostra relazione».



Per leggere e approfondire:

http://www.monasterodibose.it/

E. Bianchi, Ero straniero e mi avete ospitato, Ed. Rizzoli
E. Bianchi, La differenza cristiana, Ed. Einaudi
E. Bianchi, Dono e perdono, Ed. Einaudi

...e tanti altri

domenica 13 settembre 2015

Tintin in Tibet

Come altri protagonisti del mondo dei fumetti, anche Tintin ha potuto incontrare il Dharma del Buddha.
Tintin è il noto protagonista di un fumetto belga, creato da Hergé (Georges Remi, 1907 – 1983), ed appare per la prima volta il 10 gennaio 1929, in un supplemento del giornale Le Vingtième Siècle, in compagnia del suo inseparabile cagnolino bianco Milou.
I 24 album di Tintin
Il primo album interamente dedicato a Tintin esce l’anno successivo, ed è intitolato: Les Aventures de Tintin, reporter du Petit Vingtième au pays des Soviets (in Italia sarà Tintin nel paese dei Soviet). In totale ne usciranno 24 (l’ultimo, incompiuto, apparirà qualche anno dopo la morte di Hergé).
In tutti gli album Tintin, giovane reporter, vive storie avventurose in ogni angolo del pianeta, insieme con Milou e (dal n. 9) con il capitano Haddock, confrontandosi con il “cattivo” di turno e con avversità di ogni genere. 
A proposito di Hergé, è interessante notare ciò che scriveva di lui la rivista Arcadia (http://arcadia.revue.free.fr/9-Herge.html): “Per tutta la vita Hergé si interessò all’esoterismo, al paranormale, al buddhismo [fu inoltre studioso dei Tarocchi, del taoismo, delle opere di Jung]. Le avventure di Tintin riflettono questo aspetto misconosciuto della sua personalità profonda”.
Segni di questi suoi interessi possono essere la scelta del suo pseudonimo, che nasce dall’inversione delle sue iniziali (da G–R a R–G, laddove Her è anche la prima parte del nome di Hermes, il mitico Ermete Trismegisto, fondatore dell’alchimia), come pure il fatto che prima di ogni importante decisione si facesse leggere le carte…
Ma quei segni si trovano soprattutto negli album di Tintin, nelle avventure che vive, nei personaggi che incontra, in moltissimi dettagli delle singole vignette. Come ad esempio la quarta dell’album di cui andremo a parlare, il n. 20:

Confronto tra le immagini di Tintin, il Matto dei Tarocchi e San Rocco
Nell’album intitolato Tintin au Tibet, appunto il n. 20, l’interesse di Hergé per il buddhismo è ampiamente dimostrato.
Si tratta di un lavoro del 1958, un periodo per lui difficile: si era da poco separato dalla moglie e attraversava una profonda crisi di coscienza, che lo aveva portato a cercare l’aiuto di uno psicoanalista, un allievo di Jung.
L’album, come si legge in https://fr.wikipedia.org/wiki/Tintin_au_Tibet, “costituisce la migliore delle risposte a quella crisi”, ed in esso si trova la parte più intima dell’Autore stesso.

Non a caso, è considerato uno dei più riusciti e dei più amati dell’intera serie, se non il migliore in assoluto. Per crearlo, come sempre faceva, Hergé si era documentato con cura, sui paesaggi himalayani, sulle architetture indo-tibetane, sugli abbigliamenti, sulla tradizione buddhista. E naturalmente sullo yeti, la mitica creatura delle nevi del Tibet, già oggetto di studio da parte del fondatore della criptozoologia, Bernard Heuvelmans, che collaborò con Hergé in diverse occasioni.
La vicenda si snoda intorno ad una profonda amicizia, quella tra Tintin e il giovane cinese Tchang, che rispecchia fedelmente quella realmente intercorsa tra Hergé e lo studente cinese Tchang Tchong-Jen, durata fino alla morte del disegnatore.
Tintin, che si trova in vacanza, sogna l’amico ferito, nella neve, che gli chiede aiuto. Tchang stava realmente per giungere in Europa, ma il suo aereo è precipitato. Tintin “sente” che l’amico non è morto, e, con Milou e il capitano, parte alla sua ricerca, verso l’Himalaya, via Delhi e Katmandu.
Monumenti di Delhi
Uno dei templi di Katmandu, danneggiato dal recente terremoto
Ed effettivamente, tra le nevi, i soccorritori trovano le tracce di Tchang. Dopo alcuni giorni di duro e pericoloso cammino raggiungono il monastero buddhista di Khor-Biyong, dove sono accolti dai monaci, uno dei quali, Foudre-Bénie (Fulmine Beato), possiede poteri paranormali quali la levitazione e la chiaroveggenza.
Il monaco tibetano Foudre Bénie

Tintin ritrova Tchang
Grazie a lui, Tintin scopre che l’amico si trova in una grotta tra i monti, e finalmente lo raggiunge, scoprendo altresì che era stato tratto in salvo e nutrito da uno yeti, un essere che si rivela quindi capace di compassione.

Lo yeti
La vicenda termina con il ritorno al monastero, dove i monaci accolgono tutti con una solenne processione.
Come si vede, in questo caso Tintin non lotta contro alcun “cattivo”, nemmeno "l’abominevole uomo delle nevi" lo è. Si tratta piuttosto di un viaggio interiore, fondato sull’amicizia e sulla solidarietà tra i protagonisti: Tintin, Tchang, il capitano, la guida, i monaci, lo yeti… e naturalmente Minou!

Un viaggio che “apre” alla scoperta dell’Altro e conduce quindi ad un autentico arricchimento personale. Come è detto nel sito http://fr.tintin.com/albums/show/id/20/page/98, “con Tintin au Tibet il fumetto entra in una nuova dimensione. Se il movimento, l’avventura e l’azione mantengono tutto il loro significato in questo ventesimo episodio della serie, vi si scoprono ugualmente molti altri elementi direttamente influenzati dall’evoluzione personale del disegnatore e la direzione presa dalle sue letture negli anni sessanta. Nella maturità Hergé lesse opere di carattere filosofico, con una svolta verso la psicologia e la psicoanalisi. Un percorso che lo porterà sulla strada del taoismo, dello zen e del buddhismo”.


Un’ultima interessante notazione riguarda da vicino il Tibet e le sue vicende: nel 2001, quando l’album fu tradotto in lingua cinese, il titolo venne modificato in Tintin au Tibet chinois. La Fondazione Hergé (diretta dalla vedova, divenuta buddhista) si oppose con fermezza a tale decisione, l’album fu ritirato e il titolo riportato alla versione originale.

Infine, nel 2006, il XIV Dalai Lama assegnò alla Fondazione Hergé il premio Luce della Verità, per il significativo contributo a far conoscere il Tibet presso il grande pubblico.


Le vignette sono state tratte dal volume 
Hergé, Tintin au Tibet, Ed. Casterman

Per vedere Tintin au Tibet in versione animata (in francese):
https://www.youtube.com/watch?v=PsQcUNbz2jw

Sullo yeti si può leggere
Reinhold Messner, Yeti - Leggenda e verità, Ed. Feltrinelli

venerdì 11 settembre 2015

Gandhi, gli Ebrei, la non-violenza

Nel n. 2 del 1991 comparve sulla rivista Micromega una serie di testi relativi ad una polemica, risalente al periodo 1938-40, intercorsa tra M.K. Gandhi e due pensatori ebrei, Martin Buber e Judah L. Magnes. Oggetto della querelle erano le opinioni espresse da Gandhi in un suo articolo del 1938 in merito alle rivendicazioni degli Ebrei sulla Palestina e ai metodi con i quali gli Ebrei stessi, in Europa, avrebbero dovuto secondo lui opporsi alle persecuzioni dei Nazisti. 
  
Si tratta di una polemica assolutamente attuale, benchè risalente ad anni apparentemente lontani. Essa riguarda infatti il tema dell'antisemitismo, purtroppo mai superato. E lo riguarda non solo in generale, ma anche all'interno del pensiero di Gandhi, fino a farci chiedere se in lui, il maestro della tolleranza, non sussistessero tuttavia semi molto sottili di un antisemitismo strisciante, dovuti magari ad una insufficiente conoscenza di ciò che stava accadendo in Europa e/o alle influenze di alcuni aspetti della cultura europea con cui era venuto in contatto durante i suoi studi in Inghilterra (per esempio l'antisemitismo di matrice cristiana).
Si noti al riguardo che l'articolo in questione ("Gli ebrei") fu scritto da Gandhi il 20 novembre 1938, 10 giorni dopo la "Notte dei cristalli", che vide in Germania, Austria e Cecoslovacchia la distruzione di oltre 200 sinagoghe e di 7500 negozi appartenenti ad Ebrei, e la deportazione nei campi di concentramento di almeno 30000 Ebrei. Il tutto due mesi dopo gli accordi di Monaco tra Francia, Inghilterra, Italia e Germania, e quasi un anno prima del patto di non-aggressione tra Hitler e Stalin!

Qui di seguito si può leggere l'ottimo saggio introduttivo di Marco Vigevani, che presenta i testi di Gandhi, Buber e Magnes comparsi su Micromega.

La "doppia morale" del Mahatma
di Marco Vigevani

1. Il 26 novembre 1938, esattamente due settimane dopo la «Notte dei cristalli», il giornale Harijan (letteralmente, «figli di Dio», il nome coniato da Gandhi per gli intoccabili), organo del movimento non-violento, pubblica un intervento del Mahatma dal titolo «Gli ebrei», scritto sei giorni avanti, il 20 novembre. In esso Gandhi affronta due distinte questioni: il conflitto arabo-ebraico in Palestina e la persecuzione degli ebrei in Germania ad opera del nazismo. Poiché l'argomentazione gandhiana, per quanto lineare, è tutt'altro che sistematica (né muterà sotto questo aspetto nei successivi interventi, fino all'ottobre del '40) è forse utile riassumerne schematicamente il contenuto.

2. A una iniziale dichiarazione di simpatia per gli ebrei, che definisce «gli intoccabili del cristianesimo», per la cui persecuzione i cristiani «hanno fatto appello alla dottrina religiosa» esattamente come gli indù per giustificare quella dei fuoricasta, segue una decisa presa di posizione sul problema palesti­nese.
«L'invocazione di una nazione per gli ebrei — dice Gandhi — non mi trova particolarmente sensibile». Né «il richiamo alla Bibbia», né la «tenacia con cui gli ebrei hanno desiderato il ritorno in Palestina» possono fondare la pretesa ad una nazione in una terra che «appartiene agli arabi nello stesso senso in cui l'Inghilterra appartiene agli inglesi o la Francia ai francesi». Non solo gli ebrei non hanno diritti sulla Palestina, giacché possiedono già altre patrie in cui lottare per l'uguaglianza e non possono pretendere di avere «una doppia patria in cui possono rimanere a loro piacere» (e la Palestina biblica «non è un'esten­sione geografica... ma è nei loro cuori»), ma anche se pensassero di averli, «sarebbe sbagliato penetrarvi protetti dall'artiglieria britannica. Non è possi­bile compiere un'azione religiosa con l'aiuto delle baionette e delle bombe». L'unica via per gli ebrei in Palestina è convertire il cuore degli arabi attraverso la non-violenza, spinta fino a «sacrificarsi e essere uccisi o gettati nel Mar Morto senza alzare un mignolo contro di essi».
Gandhi non approva gli «eccessi» degli arabi e vorrebbe che anch 'essi sceglies­sero la via della non-violenza, ma, conclude, «stando ai canoni comuni di ciò che è giusto e sbagliato, nulla può essere detto contro la resistenza araba...».

3. «La persecuzione tedesca degli ebrei sembra non avere paragoni nella sto­ria», esordisce Gandhi. «Se mai potesse esistere una guerra giustificabile nel nome dell'umanità (...) una guerra contro la Germania per prevenire la perversa persecuzione di un'intera razza sarebbe totalmente giustificata. Ma io non credo in nessuna guerra.» Se guerra non vi può essere, la via da indicare agli ebrei (Gandhi usa un termine forte, «prescription») è quella del satyagraha e dell'ahimsa; la «forza dell'animo» o della verità e la «non-violenza», ovvero in termini pratici la non-cooperazione attiva non-violenta messa in pratica da Gandhi stesso. Per questa via gli ebrei, fidando «in un Dio più personale del Dio dei cristiani, dei musulmani, o degli indù», giungerebbero a sciogliere il cuore di Hitler e dei tedeschi. Ma anche ove non vi riuscissero in tempo utile alla loro personale salvezza, la sofferenza subita volontariamente susciterebbe in loro gioia e forza interiore e anche un totale massacro «potrebbe essere trasformato in un giorno di ringraziamento a Jehovah!». La prova che la non-violenza è applicabile al caso degli ebrei tedeschi è trovata da Gandhi nell'«esatto paral­lelo» con la campagna da lui condotta in Sud Africa per i diritti civili degli indiani. Anche il governo di Kruger era razzista, anche gli indiani erano pochi (ancor meno degli ebrei in Germania), e ad essi, a differenza che agli ebrei, mancò del tutto l'appoggio dell'opinione pubblica mondiale. Se gli indiani hanno vinto con la non-violenza, conclude Gandhi, a maggior ragione possono vincere gli ebrei.

4. L'intervento di Gandhi, su alcuni punti del quale varrà la pena ritornare più, avanti, suscita vivaci proteste e innesca una discussione, che tuttavia, fino al maggio del '39, ci è possibile seguire solo sulle pagine di Harijan: ciò comporta che le obiezioni dei critici di Gandhi ci sono note, fino a quella data, solo attraverso gli stralci riportati dal Mahatma stesso. Una prima «Risposta ai critici tedeschi» del dicembre '38 ci informa delle proteste suscitate tra i tede­schi non-ebrei, ma non aggiunge nulla di nuovo all'argomentazione.
Un secondo articolo, sullo stesso numero di Harijan («Risposta ad alcune do­mande»), dà invece a Gandhi l'occasione per affrontare un punto che ritornerà costantemente nella polemica: se gli ebrei siano o non siano genuinamente non-violenti. Il leader indiano lo nega, affermando che «gli ebrei non hanno mai praticato la non-violenza come atto di fede, e tantomeno come politica calcola­ta. Tanto è vero che è considerato un marchio per essi che i loro avi abbiano crocefisso Gesù». Gli ebrei inoltre credono nella legge del taglione e la loro non­violenza lungi dall'essere quella gandhiana «è quella del miserabile e del debo­le». Punto di vista ribadito nel successivo resoconto di un dibattito con missio­nari cristiani (Harijan, novembre '38): «È vero che gli ebrei non sono stati attivamente violenti di persona, ma essi hanno invocato la maledizione dell'u­manità sui tedeschi, e volevano che l'America e l'Inghilterra combattessero contro la Germania a nome loro». L'affermazione viene ripetuta nel febbraio del '39 in un articolo su Harijan dal titolo «Nessuna scusa», per essere infine onestamente ritrattata, per mancanza di prove, nel maggio dello stesso anno. Anche i cinesi non sono non-violenti, dice Gandhi nel citato articolo del novem­bre '38, riferendosi alla loro resistenza contro l'invasione giapponese in corso. Ma, siccome non hanno mire su altri popoli, egli augura «successo ai cinesi», il cui comportamento (benché violento) è come per gli arabi «rigorosamente corretto (...) stando ai canoni comuni (...)».

5. Il primo critico di parte ebraica citato per nome da Gandhi è Hayim Greenberg, direttore del periodico newyorkese Jewish Frontier, la cui replica è signi­ficativamente intitolata «Siamo trattati come esseri inferiori; ci si chiede di essere dei superuomini». Gandhi gli risponde nel maggio '39.
Di fronte all'o­biezione che «un Gandhi ebreo in Germania (...) potrebbe agire per circa cinque minuti e poi sarebbe prontamente portato alla ghigliottina (sic)», ribadisce la fede religiosa nella non-violenza, al di là della sua efficacia o applicabilità in casi concreti, e respinge con sdegno l'accusa di essersi lasciato influenzare, sulla questione palestinese, dal desiderio di compiacere i musulmani indiani. Nell'aprile del '39 esce a Gerusalemme, in inglese, un pamphlet del gruppo «The Bond» («Ha-ol»), fondato dal rabbino liberale e pacifista Judah L. Magnes. Contiene due lettere a Gandhi, una dello stesso Magnes e la seconda di Martin Buber. Buber e Magnes sono entrambi personalità dominanti di un sionismo a-statuale, ed entrambi, ma particolarmente Magnes — pacifista nella prima guerra mondiale e quasi un seguace ebreo della non-violenza — tra gli ebrei da sempre più vicini al pensiero di Gandhi. Con i loro interventi la polemica sale decisamente di tono e si allarga a una discussione dei caposaldi dell'ebraismo e del sionismo che, se pure esula in parte dall'occasione che l'ha provocata, rappresenta (in entrambi i saggi) una delle più felici e importanti esposizioni del pensiero ebraico moderno. Non risulta, sfortunatamente, che Gandhi abbia mai preso nota di queste due «lettere» a lui indirizzate, ma ciononostante è attraverso di esse che tenteremo di cogliere il significato di tutta questa lunga polemica.

6. Sul problema palestinese Buber e Magnes convergono nella sostanza delle loro obiezioni a Gandhi, tanto che le loro argomentazioni possono essere ridot­te a una sola; cosa che non può stupire, appartenendo entrambi alla stessa corrente del sionismo.
A)   Il richiamo alla Bibbia e la tenacia del desiderio ebraico di ritornare in Palestina (ai quali Gandhi si dichiara «non particolarmente sensibile») vanno intesi all'interno del particolare destino ebraico, espresso nella triade fede-popolo-terra. La fede non è realizzabile se non nel popolo, e il popolo non può esistere se non sulla Terra. La Terra d'Israele non è degli ebrei automaticamen­te in quanto promessa dalla Bibbia, ma anzi gli ebrei sono della Terra Santa solo in quanto la sappiano servire e divenire santi anch'essi, senza escluderne perciò altri dal possesso. D'altro canto, la Palestina della Bibbia non è solo nei cuori, come l'India per Gandhi non è solo il suolo indiano mala saggezza e la «sostan­za» dell'India.
B)   La Palestina non appartiene agli arabi nello stesso senso in cui l'Inghilterra appartiene agli inglesi. Vi sono tre sensi in cui una terra può appartenere a un popolo: per conquista (Buber e Magnes); per uso (Buber); per cultura. Nel primo senso, sia gli ebrei che gli arabi, in epoche successive, l'hanno conquistata e né gli uni né gli altri sono gli ultimi (ergo legittimi) conquistatori, che sono invece i turchi e gli inglesi. Ma anche se gli arabi fossero gli ultimi conquistatori, quale autorità divina stabilisce che la conquista violenta di una terra debba durare in eterno? Nel secondo senso la terra è di chi la sa servire e far fruttare, sia esso arabo o ebreo: allo stato attuale più dei coloni ebrei dunque che dei fellah arabi. Infine, nel terzo, la Palestina appartiene alle tre grandi religioni in misura almeno uguale.
C)   La doppia patria. Così risponde Buber rivolto a Gandhi: «Ha forse detto anche agli indiani in Sud Africa che se l'India è la loro patria, devono abituarsi all'idea che saranno costretti a tornare in India? 0 ha forse detto loro che l'India non è la loro patria?».
D)   Gandhi accusagli ebrei di voler creare una nazione con le sanzioni e le armi dell'imperialismo britannico. La colonizzazione ebraica precede di 35 anni l'inizio del mandato inglese (Buber). Quanto alle armi inglesi Buber si differen­zia dalla non-violenza: «Siamo convinti [gli ebrei] che l'uomo debba a volte usare la forza per salvare se stesso e, ancor di più, i suoi figli». E in un altro passo Magnes conferma il suo dubbio: «Gli ebrei sono un popolo che esalta la vita e diffìcilmente si può dire che disprezzi la morte. Per questa ragione mi sono spesso chiesto se noi siamo dei soggetti adatti per il satyagraha».
E)   L'appello gandhiano alla non-violenza per convertire il cuore degli arabi viene affrontato con gli argomenti appena citati, a cui si aggiunge il rimprovero per non aver rivolto lo stesso monito agli arabi e anzi aver concesso loro le attenuanti dei «canoni comuni di comportamento» (diversi da quelli non-vio­lenti).

7. Sulla condotta consigliata agli ebrei di fronte ai nazisti, Magnes diverge maggiormente da Buber, in quanto forse si sente più vicino agli insegnamenti del Mahatma e la sua lettera accorata merita di essere lasciata parlare da sé. Volendo, per concludere, dare un 'idea sommaria delle articolate argomenta­zioni che il lettore potrà trovare più oltre nelle parole di Buber e Magnes, esse si possono ridurre ad alcuni assunti.
A)  Non c'è alcun parallelo possibile tra gli indiani del Sud Africa alla fine dell'Ottocento e gli ebrei nella Germania nazista.
B)  La campagna non-violenta che assume valore di testimonianza in un regime libero, o di semi libertà della pubblica opinione, non ha alcun valore politico in uno Stato totalitario. Al massimo ha un valore religioso personale e in questo caso la richiesta imperiosa della santità non è tale da poter essere fatta a un popolo intero. Singoli, numerosi ebrei hanno già offerto la loro inutile ed eroica «testimonianza» di fronte ai nazisti e sono morti per questo.
C)  Anche Magnes, da pacifista, è convinto che ogni guerra sia male, persino quella contro la Germania nazista.
Ma tra il male della vittoria nazista e il male della guerra contro Hitler, che cosa deve scegliere un pacifista? Ovvero: può non scegliere?
Ma, al di là delle critiche puntuali alle singole tesi gandhiane, si avverte chiara­mente in Buber e in Magnes la delusione e l'irritazione per il tono usato dal Mahatma. Buber lamenta che «insieme a quella del buon consiglio e del confor­to» si faccia sentire nella lettera di Gandhi «una terza voce che le soffoca entrambe, quella del rimprovero». E ancora, sempre Buber: «Lei, Mahatma Gandhi, (...) non dovrebbe unirsi a coloro che considerano la nostra causa senza comprensione o umanità». Per Magnes, più vicino a Gandhi per i motivi cui abbiamo accennato, la delusione è ancora più profonda: «La sua dichiarazione è una sfida, specialmente per quelli tra noi che si sono considerati suoi discepo­li».
In effetti, anche il lettore odierno non riesce a sottrarsi all'impressione che dietro la dichiarata equanimità del Mahatma ci sia, se non un 'ostilità, una grave inopportunità nella «lezione» che si sente in dovere di impartire agli ebrei vittime del nazismo. Non dimentichiamo che la lettera di Gandhi è scritta, a caldo, pochi giorni dopo il primo, grande pogrom antiebraico nazista: eppure il primo tema sollevato da Gandhi non è quello della persecuzione nazista, bensì quello della Palestina!
Anche in seguito, i richiami alla crocefissione di Gesù e alla legge del taglione, sono, oltre che rivelatori di un antigiudaismo di marca cristiana (che non stupisce troppo in Gandhi, che considerò sempre Cristo uno dei suoi maestri e il Discorso della Montagna uno dei suoi testi spirituali), altamente inopportuni, se non decisamente offensivi nel contesto in cui sono scritti. Solo di sfuggita, Gandhi noterà che «gli ebrei non sono angeli», senza però mai riconoscere loro quei «canoni comuni» di comportamento in virtù dei quali salva invece le violenze degli arabi e dei cinesi, e anzi parzialmente le giustifica. La «doppia morale», la concezione degli ebrei perfetti o reprobi, tipica della visione teolo­gica cristiana, appare così essere passata intatta nella visione del mondo del maestro indiano.


8. La polemica che abbiamo tentato di riassumere e che qui di seguito presen­tiamo per intero è tale, per i suoi protagonisti e per i princìpi che coinvolge, da andare oltre il pur cruciale evento storico che ne fu la causa. Di Gandhi mette in luce, come in poche altre occasioni, il contrasto tra il santo (il guru) e l'uomo (anche politico); del suo pensiero evidenzia la sublime grandezza (e per alcuni l'accento potrà cadere, negativamente anche, su «sublime») e al tempo stesso l'incompatibilità con la tradizione ebraica e attraverso di essa con una parte importante della cultura occidentale. È evidente, infine, nel 1991, l'attualità per la riflessione di oggi di una discussione che ebbe luogo più di mezzo secolo fa.

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Marco Vigevani conclude il suo breve saggio osservando come, nel 1991, anno del suo scritto, le riflessioni sull'antisemitismo e sulla non-violenza siano ancora attuali.
E' passato un altro quarto di secolo, ma l'attualità del tema non è minimamente venuta meno, anzi. La sicurezza del popolo ebraico non è affatto un dato acquisito per sempre, nè in Israele nè in Europa nè altrove. E l'antisemitismo non è stato per nulla cancellato dalle menti e dalle azioni umane. Affiora sempre più sovente, anche nelle sue forme più subdole, spesso nel silenzio dei media (indolenza? complicità? sottovalutazione?). Un solo esempio, marginale fin quanto si vuole, ma si sa, spesso il diavolo si nasconde nei dettagli: moltissimi, dopo i fatti di Parigi del 7 gennaio, hanno (giustamente) scritto ovunque "Je suis Charlie". Ma quanti, in Italia, hanno anche scritto "Je suis Juif"? Eppure, quattro persone, poche ore dopo, nella stessa Parigi, erano state uccise nell'Iper Cacher di Vincennes. Ma tant'è...


Gli scritti di Gandhi sulla "questione ebraica" e sulla resistenza non-violenta al Nazismo sono riportati anche nel volume:

M.K. Gandhi, Teoria e pratica della non violenza, Ed. Einaudi