venerdì 26 febbraio 2016

Milarepa mago, poeta e mistico tra storia e mito


Io sono Milarepa, grande per fama, la diretta progenie della Memoria e della Saggezza;
Eppure io sono un uomo vecchio, derelitto e nudo.
Dalle mie labbra esce una canzone breve, perché tutta la Natura, a cui io guardo, è il mio libro.
Il bastone di ferro, che le mie mani stringono, mi guida sull'Oceano della Vita che Cambia.
Maestro io sono della Mente e della Luce;
E mostrando azioni e miracoli, non dipendo da divinità terrene[1].

Con queste parole Milarepa ha descritto se stesso nei versi da lui composti, che fanno parte del Mila mgur-‘bun, i Centomila canti di Milarepa, raccolti molti anni dopo la sua morte.
Milarepa
Milarepa – una particolare figura di mago, eremita, mistico e poeta, uno dei più amati e venerati maestri del Buddhismo tibetano – nacque in un villaggio del Gungthang, nel Tibet di sud-ovest, vicino al confine con il Nepal, tra il 1040 e il 1052, in una piccola famiglia di agricoltori. Il suo nome era Mila Thö-pa-ga, laddove Mila significa “uomo”, o forse è una interiezione che esprime spavento, terrore; e Thö-pa-ga è traducibile con “piacevole da ascoltare” o “buona novella”. Solo in seguito divenne Milarepa, cioè Mila-vestito-di-cotone[2].
Colui che ancora oggi è considerato uno dei più grandi Santi e poeti del Buddhismo conobbe ben presto la sofferenza: a soli sette anni perse il padre per una grave malattia e rimase solo con la madre Karmo Kien (Bianca Ghirlanda) e la sorella di tre anni, Gön-ma-Kyit (Protettrice Fortunata), soprannominata Peta.
Uno dei suoi maggiori discepoli, Rechung, scriverà poi che Mila a seguito della morte del padre e dei successivi avvenimenti venne profondamente impressionato “dalla transitoria ed instabile natura di tutte le condizioni dell’esistenza mondana e dalle sofferenze e dalle bruttezze in cui vide immersi tutti gli esseri. A lui l’esistenza apparve come un’immane fornace in cui stavano bruciando tutti gli esseri viventi[3].
Prima di morire il padre affidò la sua famiglia e la cura di tutti i suoi beni allo zio e alla zia di Mila, che subito divisero tra loro mandrie, greggi, pascoli, campi, attrezzi, abiti e gioielli. La vedova e i due figli andarono a vivere presso i due parenti a turno. Gli zii approfittarono della situazione, e fu così, racconta Mila, “che venimmo privati di tutti i diritti sulla proprietà e non solo questo, ma fummo costretti a lavorare d’estate come braccianti sui campi di mio zio e d’inverno come filatori e cardatori di lana per mia zia. Il cibo che ci veniva dato era così scadente da essere adatto soltanto per i cani; e i nostri vestiti erano fatti di miseri stracci tenuti legati addosso ai nostri corpi con un cordone[4].
Al compimento dei quindici anni di Mila la madre chiese la restituzione dei beni, ma i parenti rifiutarono, affermando che tutto era da sempre di loro proprietà e che era stato concesso al defunto marito solo in prestito. La donna e i ragazzi furono addirittura scacciati dalla casa, e poterono sopravvivere solo grazie all’aiuto degli zii materni. Bianca Ghirlanda fu sopraffatta dall’odio e supplicò Mila di imparare la magia nera per vendicarsi di coloro che avevano fatto loro del male, direttamente o per indifferenza. Mila studiò le arti magiche presso il Lama Yungtung Trogyal, e grazie all’Arte Nera provocò la morte di trentacinque persone, tra cui tutti i figli dello zio: la casa in cui si trovavano per un banchetto nuziale fu assalita da insetti, serpenti, rane e da un gigantesco scorpione. I numerosi cavalli, che erano legati all’esterno, terrorizzati presero a calci i pilastri dell’abitazione, che cedettero. La casa crollò e seppellì gli ospiti.
Marpa
Poiché i vicini, impauriti, meditavano di uccidere la famiglia di Mila, egli scatenò una tempesta di grandine sui campi d’orzo del villaggio, provocando una grave carestia ed altre vittime. A quel punto, grazie alla magia nera, la vendetta era compiuta. Ma Mila rimase sconvolto dalle sofferenze che aveva causato, come pure dalla reazione della madre che invece ne gioiva, tanto era l’odio che provava. Iniziò a pentirsi delle sue azioni, e desiderò intraprendere la Via del Dharma, anche perché consapevole del karma negativo che lui stesso aveva generato. Il suo stesso maestro lo incoraggiò in questo senso, e il giovane si mise in cerca di un guru che lo addestrasse. Gli fu fatto il nome di Marpa Lotsava, noto come il Traduttore (1012-1097), discepolo di Naropa (1016-1100), un grande maestro indiano. Al solo sentire il nome di Marpa, racconta Mila, “la mia mente fu piena di un inesprimibile senso di gioia, ed un fremito percorse tutto il mio corpo, mettendo in movimento ogni pelo, mentre lacrime scendevano dai miei occhi, tanto forte era in sentimento di fede che sorgeva dentro di me[5]. Tale reazione era il segno dell’esistenza di un collegamento karmico stabilitosi tra i due in qualche vita precedente, che verrà confermato dagli sviluppi successivi del rapporto tra Marpa e Milarepa. Un rapporto tra guru e shishya, maestro e discepolo, che diverrà emblematico nella storia del Buddhismo.
Mila divenne quindi discepolo di Marpa, il quale anziché insegnargli il Dharma per prima cosa lo incaricò di costruire una casa per il proprio figlio. Quando il lavoro era a metà, Marpa fece demolire le mura già costruite e ordinò a Mila di ricominciare in un altro luogo, e la stessa cosa si ripeté più volte, per diversi anni, finché Mila si ritrovò con il corpo spezzato, ferito, la schiena piagata. Solo la moglie di Marpa, Dagmena, era gentile e materna con lui, lo curava e gli portava del cibo. Ma Marpa continuava a trattare Mila – che chiamava “Grande Stregone” – come uno schiavo, senza trasmettergli gli insegnamenti che egli desiderava ricevere. Infine, quando ritenne che il percorso di pentimento e di esaurimento del karma negativo di Mila fosse compiuto, gli conferì l’iniziazione, imponendoli il nome di Mila Dorje Gyaltsen (Vessillo di Diamante), e cominciò ad impartirgli gli insegnamenti della sua scuola. Mila trascorse undici mesi in una grotta immerso nella meditazione, poi ricevette ulteriori insegnamenti, tra cui quelli relativi alla pratica del tummo (gtum-mo), il “violento avvampare del fuoco interiore”, uno dei “Sei Yoga di Naropa”, noto soprattutto come tecnica per vincere le rigide temperature delle montagne himalayane, ma in realtà una importante pratica tantrica di realizzazione spirituale che sebbene originatasi nella scuola Kagyupa (di cui Milarepa è considerato il fondatore) si diffonderà anche tra i Gelugpa grazie a Tsongkhapa.
Lo stesso Mila – che da quel momento sarà per sempre Milarepa, Mila-vestito-di-cotone – canterà così la pratica del tummo:

“Disgustato della vita del mondo io cercavo la solitudine sulle pendici del Latchi Khang.
Il cielo e la terra, tenuto consiglio, mi inviarono la tempesta come loro messaggero.
Gli elementi dell'aria e dell'acqua, alleati alle fosche nebbie del sud, imprigionarono
il sole e la luna, soffiarono via dal cielo le piccole stelle
ed avvilupparono le grandi in un sudario di foschia.
Nevicò poi senza sosta per nove giorni e nove notti, i grossi fiocchi erano spessi
come fiocchi di lana, essi discendevano e volavano come uccelli.
I piccoli della grossezza dei piselli e dei grani di mostarda;
Essi discendevano roteando e turbinando.
L'immensità della neve era di là da ogni descrizione.
In alto, copriva le creste dei ghiacciai,
in basso, gli alberi della foresta ne erano sepolti fino alle cime.
I monti neri sembravano bianchi di calce, il gelo appiattiva le onde agitate dei laghi,
e i ruscelli dalle acque azzurre erano nascosti sotto il ghiaccio,
alture e vallate livellate sembravano un piano, gli uomini erano prigionieri nei villaggi,
gli animali domestici soffrivano la fame, gli uccelli e le bestie selvagge digiunavano.
I topi ed i ratti erano sigillati nella terra come tesori.
Durante questo periodo di calamità, la neve, l'uragano invernale, da un canto
e i miei abiti leggeri dall'altro, si combattevano uno contro l'altro sulle montagne bianche.
A mano a mano che cadeva, la neve si fondeva su me, mutato in ruscello.
La tempesta ruggiva e si rompeva sul mio leggero abito di cotone
che conteneva un calore ardente.
La lotta per la vita e la morte poteva allora essere vinta.
Ed avendo riportato la vittoria, io lasciai per gli eremiti un esempio
che dimostra la grande virtù del tummo[6].

Durante un ritiro, Mila sognò che la sua casa era andata distrutta, la madre era morta e la sorella andava errando senza alcun aiuto. Allora si separò da Marpa e tornò al suo villaggio, dove poté verificare che il sogno era stato veritiero. Il dolore e la disillusione che provò lo spinsero ancor più a dedicare la propria vita alla ricerca dell’Illuminazione. Prese con sé, raccogliendoli tra le rovine della casa, i resti della madre e i suoi vecchi testi e ripartì, facendo tesoro anche di questa dolorosa esperienza:
O Grazioso Signore, Tu l'Immutabile,
O Marpa il Traduttore; secondo la Tua Parola Profetica,
Un maestro della transitorietà delle cose io ho trovato
Nella mia terra natale - prigione di tentazioni;
E per mezzo della Tua Benedizione e della Tua Grazia, possa io,
Da questo nobile maestro, ottenere esperienza e fede.
Tutti i fenomeni, esistenti ed apparenti,
Sono sempre transeunti, mutabili ed instabili;
Ma, ancora di più, la vita mondana
Non ha realtà, [in essa] non c'è conquista permanente[7].

Milarepa continuò a vivere in solitudine tra le montagne, nutrendosi spesso di sole ortiche – il che causò il colorito verdastro della pelle con cui è spesso raffigurato –, sempre profondamente immerso in meditazione. Un giorno la pentola con cui cucinava le ortiche cadde e si spezzò, ma anche questo incidente costituì per lui un’occasione di pratica, che così descrisse:

Anche la pentola di terracotta, che una volta esisteva ed ora non esiste più,
Dimostra la natura di tutte le cose [composte];
Ma essa simbolizza ancora di più la vita umana.
Perciò io, Mila il devoto,
Sono risoluto a perseverare senza vacillare.
La pentola di terracotta, che costituisce la mia ricchezza,
Rompendosi è ora diventata un Guru
Perché predica per me un sermone sulla Precarietà[8].

Dopo aver incontrato la sorella, che divenne poi sua discepola, ottenne infine il Risveglio durante un ritiro invernale tra le montagne. La sua reputazione come grande yogi cominciò a diffondersi e molte persone si recavano presso di lui.  Secondo la tradizione ebbe ventuno discepoli, uomini e donne: otto maggiori, i “figli del cuore[9], e tredici minori, i “figli consociati”; oltre a molte centinaia di seguaci. Non solo umani, in quanto tra di essi vi furono le Cinque Dee Sorelle, delle orchesse ed altri esseri spirituali che si erano dedicati alla protezione del Dharma.
Il suo metodo di insegnamento è spesso considerato non convenzionale, sia per lo stile in cui era espresso sia perché utilizzava sovente i poteri psichici di cui era dotato (il tummo, la levitazione, il canto sacro spontaneo, la chiaroveggenza, l’ubiquità…) per indurre i suoi seguaci ad avere fede.
Anche la vicenda della sua morte, avvenuta nel 1136, costituisce un perfetto esempio di come ogni istante dell’esistenza possa diventare un insegnamento per sé e per gli altri. Milarepa aveva suscitato l’invidia e l’odio da parte di un erudito, il Geshe Tsaphuwa, al quale aveva mostrato come la sapienza libresca generi solo confusione mentale e non conduca ad una reale comprensione. In preda all’ira, il Geshe lo fece avvelenare dalla propria compagna con una mistura di caglio e veleno. Milarepa conosceva bene, grazie ai suoi poteri psichici, le intenzioni di Tsaphuwa, ma, consapevole di essere ormai giunto al termine della sua esistenza terrena e della sua missione, bevette lo yogurt avvelenato, trasformando ancora una volta ogni evento della sua vita in un’occasione di pratica spirituale. Benché ormai vicino alla morte, diede ancora insegnamenti ai suoi discepoli; inoltre perdonò e convertì con il suo atteggiamento compassionevole anche il Geshe che lo aveva avvelenato: grazie ai poteri psichici di Milarepa questi poté sperimentare in piccola parte la sofferenza che il Santo stava provando, ma questo fu sufficiente per farlo sinceramente pentire del suo gesto dettato dalla gelosia e dall’avversione.
Alla sua morte e durante la cremazione i discepoli assistettero a meravigliosi fenomeni ed apparizioni, che certificarono il raggiungimento del Nirvana da parte del Maestro.
Milarepa è rinomato in Tibet per la sue determinazione al raggiungimento della più alta vetta degli ottenimenti spirituali, senza badare alle difficoltà e alle fatiche. Il suo coraggio nell’affrontare le condizioni avverse e l’ottenimento finale del suo scopo hanno fatto di lui il più conosciuto e riverito Santo del Tibet e i suoi canti sono motivo di ispirazione continua per i praticanti in tutte le occasioni[10].

Il film

Nel 1973-74 uscì nelle sale cinematografiche il film Milarepa, della regista Liliana Cavani (nt. 1933), ad oggi autrice di opere quali Il portiere di notte, Al di là del bene e del male, La pelle, Il gioco di Ripley e di ben tre film sulla figura di Francesco di Assisi (1966, 1989, 2014).

Il Milarepa di Liliana Cavani
L’autrice aveva letto nel 1970 il libro sulla vita di Milarepa narrata dal discepolo Rechung, all’epoca non tradotto in italiano, che le era stato prestato dalla scrittrice Elsa Morante, e ne era rimasta profondamente colpita, al punto da volerne ricavare un film. A questo proposito la regista ha scritto: “La lettura di Milarepa ha fatto muovere in me le letture di Jung che a suo tempo mi avevano molto appassionato. Ho ritrovato anche in Milarepa i miti della mia stessa cultura: la liberazione dal padre, dalla madre, dal paese, dal background, la ricerca del maestro, la liberazione dal maestro ecc. Il collegamento tra i miti della cultura occidentale e orientale è stimolante per la ricerca del quid in comune, per l’indagine sul profondo; ricerca che non finisce mai e tutto quello che mi ci conduce mi affascina. […] Il film è la storia di una persona, un ragazzo di oggi che s’identifica con la vicenda di Milarepa restando quel che è, cioè viaggiando soltanto con il pensiero, entrando in un’avventura che solo apparentemente sembra escluderlo, mentre invece lo riguarda molto da vicino. […] Il viaggio del protagonista è immaginario: lo immagina attraverso e parole del testo di Milarepa. Una ricostruzione semplice e complessa a un tempo. Un oriente più onirico che reale, non tanto suggerito dalle nozioni di chi è esperto ma dall’emozione della lettura. Potevo solo raccontare le cose così come sono state per me: un viaggio dalla mia cultura in un’altra in cui c‘è qualcosa che io cerco[11].
Un oriente onirico, dice Cavani, un luogo della mente, in un’opera che non vuole essere realistica, bensì il racconto di un’esperienza che non è solo quella di un individuo speciale vissuto nel Tibet dell’XI secolo (come sarà invece il Siddhartha del Piccolo Buddha di Bertolucci), ma che è nelle possibilità di tutti gli esseri. Così il film è girato a Torino e sui monti dell’Abruzzo, senza alcun effetto speciale, nemmeno quando racconta i devastanti sortilegi di Milarepa; i costumi, le case, i sentieri “himalayani” appartengono ad un Tibet immaginario che non è così lontano dalle vie della (ex) capitale dell’auto, dall’appartamento proletario in cui vive Leo con la madre e la sorella, dalla strada percorsa dall’auto di Bennet. Lo studente universitario post-sessantottino che fa fatica a rapportarsi col suo docente (e traduttore di testi, come Marpa) è il Milarepa che non riesce a vincere gli incontri di lotta e a persuadere Marpa a insegnargli il Dharma; la madre operaia che vorrebbe emanciparsi per interposta persona, attraverso i futuribili successi accademici del figlio (dalla lotta di classe all’invidia sociale?) si riflette nella vedova che vuole vendicarsi dei torti e dello sfruttamento con la magia nera operata da Milarepa; e così per tutti i personaggi principali, che non a caso sono interpretati dagli stessi attori, in un gioco di specchi che sembra anch’esso appartenere a quella “geometricità religiosa-filosofica” di cui ha parlato Pier Paolo Pasolini in un suo saggio sul Milarepa di Cavani[12]: secondo P.P.P. la vita di Milarepa ha “i caratteri della visione religiosa del reale, che è appunto sempre polivalente e onnicomprensiva (lo sguardo della santità “razionale” è quello di un perfetto e sublime pittore cubista, che vede contemporaneamente tutte le superfici di una realtà oggettiva). L’andirivieni di Milarepa che cerca il sapere o un modello inaugurale di sapere attraverso cui interpretare la vita, si cristallizza nel film della Cavani in una serie di linee quasi rigidamente ritmiche: una successione di inquadrature ferme, di panoramiche per lo più irregolari […] su un mondo “profilmico” stranamente geometrico anch’esso: un Abruzzo brullo e azzurro, spesso con nuvole o nebbie vaganti su distese di rocce perdute in una solitudine particolarmente profonda. Anche nella parte moderna, che fa da cornice e da fondamento all’esperienza religiosa di Milarepa, e che ha la funzione di renderla esplicitamente onirica, la Geometria […] è perfetta. Onirica anch’essa. Un sogno su cui s’impianta un altro sogno[13].
Quest’ultima espressione di Pasolini potrebbe essere applicata anche ad un altro “sognatore”, lo spettatore, colui che impianta un sogno, il film, in quello che per il Buddhismo è a sua volta un sogno: la propria vita – la vida es sueño, diceva Calderòn, rifacendosi inconsapevolmente alle vicende del Bodhisattva indiano…[14]
Lo stesso gioco di specchi, la stessa “geometria”, si ripete nelle ultime sequenze del film: nella solitudine di Leo, che torna a piedi lungo la strada, senza accompagnare Bennet sull’ambulanza, e nella solitudine di Milarepa, ormai emancipato (lo è anche Leo?), che riprende il suo cammino tra i monti e oltrepassa l’ombra spettrale di Marpa senza guardarla, in accordo con il suo ultimo insegnamento: “Non voltarti, non distrarre la tua mente… E tutto quello che penserai e dirai sia quello che hai conosciuto da te stesso. Non voltarti, non voltarti…


Scheda del film:
Regia:             Liliana Cavani
Soggetto:        Liliana Cavani
Sceneggiatura: Liliana Cavani, Italo Moscati
Fotografia:      Armando Nannuzzi
Scenografia:    Jean Marie Simon
Costumi:         Jean Marie Simon

Interpreti e personaggi:
Lajos Balászovits:       Milarepa/Leo
Paolo Bonacelli:         Marpa/professor Bennet
Marisa Fabbri:           madre di Milarepa/madre di Leo
Marcella Michelangeli: Dagmema, moglie di Marpa/Karin, moglie di Bennet

Da leggere:
il breve saggio del monaco zen M. Yushin Marassi in
http://www.lastelladelmattino.org/cinema-buddista/milarepa
la scheda di D. Bardelli in
http://www.lankelot.eu/cinema/cavani-liliana-milarepa.html
la scheda di F. Prono in
http://www.torinocittadelcinema.it/schedafilm.php?film_id=475&stile=large




[1] Cit. in: W.Y. Evans-Wentz (a cura di), Milarepa – Il grande Yogi tibetano, Ed. Newton Compton, pag. 47.
[2] La traslitterazione corretta dal tibetano è Mi-la-ras-pa.
[3] Cit. in Milarepa – Il grande Yogi tibetano, pag. 49.
[4] Id., pag. 71.
[5] Id., pag. 100.
[6] Cit. in: A. David-Neel, Mistici e maghi del Tibet, Ed. Astrolabio, pag. 182.
[7] Milarepa – Il grande Yogi tibetano, pag. 169.
[8] Id., pag. 199.
[9] Tra cui Rechung Dorje Tagpa, autore della vita di Milarepa qui citata.
[10] J.P. Lodro, Milarepa, pag. XCVI dell’allegato alla rivista Occidente Buddhista.
[11] Da: L. Cavani, Milarepa, Ed. Cappelli, in: http://www.torinocittadelcinema.it/schedafilm.php?film_id=475&stile=small
[12] P.P. Pasolini, in Cinema Nuovo n. 229/1974, cit. in: ttp://www.torinocittadelcinema.it/schedafilm.php?film_id=475&stile=small
[13] Id.; a questo proposito si può ricordare che come Cavani ha ambientato in Abruzzo la vita di Milarepa, così Pasolini nel 1964 aveva ambientato in Basilicata quella di Cristo, ne Il Vangelo secondo Matteo.
[14] Si veda. http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/02/il-beato-iacopo-da-varagine-e-la-strana.html, con la storia di Joasaf, il “Buddha cristiano”, narrata da Iacopo da Varagine nella Leggenda Aurea.

venerdì 12 febbraio 2016

Il XIV Dalai Lama e l'affaire Shugden: tra storia, politica e religione


ü Il 14 e 15 giugno 2014 i media italiani hanno riportato con una certa enfasi la notizia della presenza del XIV Dalai Lama a Livorno. Ovviamente non si sono soffermati sui contenuti degli insegnamenti buddhisti impartiti in quei giorni ad alcune migliaia di persone giunte da tutta Europa, bensì su due fatti: la consegna a Sua Santità della cittadinanza onoraria da parte del Sindaco appena eletto nelle liste del movimento politico guidato da un comico genovese, e soprattutto la manifestazione contro il Dalai Lama inscenata da circa 400 persone appartenenti alla Comunità Internazionale Shugden (ISC), presunta vittima di persecuzioni religiose e di violazioni dei diritti umani da parte del Premio Nobel per la Pace e dei suoi seguaci.
Livorno 2014
Per molte ore infatti gli insegnamenti sono stati accompagnati dall’eco dello slogan ripetuto come un mantra all’esterno del Pala Modigliani: “Stop Dalai Lama, Stop Lying! Stop Dalai Lama, Stop Lying![1].

ü Il 4 febbraio 1997 a Dharamsala, nell’India del Nord, a pochi passi dalla residenza del Dalai Lama in esilio, Geshe Lobsang Gyatso, direttore della Scuola di Studi Dialettici Buddhisti e due monaci suoi collaboratori sono stati uccisi a coltellate mentre lavoravano sulla storia del Quinto Dalai Lama. La polizia indiana identificò i presunti responsabili in alcuni seguaci del culto di Shugden poi fuggiti in Tibet (e tuttora in libertà…).

ü Ancor prima, nel 1986, proprio a Dharamsala, il Dalai Lama aveva pubblicamente dichiarato: “Ultimamente vi sono stati problemi connessi con il protettore Gyalchen Shugden. Quanti di voi vivono in India lo sanno bene e non devo ripeterli. Ma quei tibetani che lo accettano solo sulla base della sua reputazione di grande protettore dei Gelugpa non fanno del bene al Tibet, né religiosamente né politicamente[2].

Ma… chi o che cosa è Shugden? Poiché tale voce curiosamente non sembra comparire nel meritorio Dizionario del Buddhismo di Philippe Cornu, si può leggere ciò che dice Donald Lopez, docente di studi buddhisti negli Usa, secondo cui Dorje Shugden (Rdo rje Shugs Ldan, Fulmine Poderoso, o Portatore della Forza del Vajra) “è un’importante divinità protettrice della scuola Gelug, ma di origini recenti[3].

Nel complesso pantheon del Buddhismo del Tibet, il Vajrayana (Veicolo Adamantino), i Protettori del Dharma, in sanscrito Dharmapala, sono deità che hanno il compito di custodire gli insegnamenti e proteggere i praticanti. Nonostante siano spesso raffigurati con un aspetto irato, terrifico, non sono dei demoni malvagi, anzi vengono invocati per dissipare gli ostacoli sulla via spirituale[4].
Tradizionalmente vengono riconosciuti due tipi di Dharmapala:
- i protettori di saggezza, emanazioni dei buddha e dei bodhisattva, e
- i protettori mondani: “spesso si tratta di deità locali molto antiche, di demoni o spiriti potenti che, dopo essere stati soggiogati [dai grandi maestri buddhisti] hanno offerto loro la propria essenza vitale[5] e hanno giurato di preservare gli insegnamenti. Molti di essi appartengono alle religioni tibetane pre-buddhiste (genericamente definite Bön). Alcuni sono specificamente legati a taluni luoghi del Tibet, a singole scuole buddhiste e a particolari monasteri. Ad esempio Pehar, che è molto importante per i Gelugpa e per i Nyingmapa, ed è il protettore ufficiale del governo tibetano, il quale lo consulta attraverso l’oracolo-medium di Nechung.

Shugden, originario del Tibet Occidentale, appartiene alla classe dei protettori mondani, anche se i praticanti del suo culto lo ritengono una emanazione di Manjusri (“Dolce Gloria”), il bodhisattva personificazione del principio della Saggezza dei buddha.
Lopez ha definito Shugden “di origini recenti”: l’espressione è vera se la si intende in relazione alla storia del Buddhismo in Tibet, che inizia nel VII secolo d.C.
Il mito di Shugden nasce invece molto più tardi, nel XVII secolo, all’epoca del Dalai Lama Lobsang Gyatso, il “grande Quinto” (1617-1682), nella cui persona si attuò una piena convergenza di potere spirituale e potere temporale. Come tutti i Dalai Lama, apparteneva alla scuola Gelugpa[6], ma si aprì anche agli insegnamenti dei Nyingmapa, la scuola “degli Antichi”, fondata da Padmasambhava (“Nato dal Loto”) nell’VIII secolo dopo che ebbe soggiogato le forze occulte che ostacolavano la diffusione del Buddhismo nel Tibet. Le aperture del Grande Quinto suscitarono le ire di molti monaci Gelug, che consideravano Padmasambhava un eretico.
Quando Lobsang venne incoronato Dalai Lama, nel 1642, tra i settemila monaci del monastero di Drepung dove viveva c’erano solo due tulku, ufficialmente riconosciuti come rinascite di grandi maestri del passato: uno era lo stesso Lobsang, l’altro era Dragpa Gyaltsen, un dotto monaco di origini aristocratiche, anch’egli candidato alla carica di Dalai Lama. Venne scelto Lobsang, e Dragpa fu invece riconosciuto come successore di Panchen Sonam Dragpa, un grande studioso e maestro del terzo Dalai Lama, vissuto nella seconda metà del 1500. La cosa non fu accettata da tutti e una profonda rivalità si instaurò tra i seguaci di Lobsang e quelli di Dragpa, i quali lo consideravano il solo rimasto a difendere la pura tradizione Gelugpa.
Nel 1656, a soli 38 anni, Dragpa morì, forse suicidandosi ritualmente ingoiando una sciarpa cerimoniale, forse assassinato con la sciarpa stessa per aver sfidato il Dalai Lama ad un dibattito filosofico, o forse per malattia.
Secondo l’autobiografia del Grande Quinto, che si recò per pregare presso Dragpa, già gravemente malato, “il tulku era come impossessato da un demone e la sua mente non era chiara, perciò la pratica non ebbe effetto e il tredicesimo giorno del mese [di luglio] morì[7].
Durante la cerimonia di cremazione avvennero però fatti stupefacenti, che 300 anni dopo saranno così narrati da Trijang Rinpoche, secondo tutore dell’attuale Dalai Lama e devoto di Shugden: “Applicato il fuoco alla pira, co­minciò il rito. Il fumo si eresse come una colonna, dritto, bianco, e tre par­ti distinte volarono via nel cielo. L'attendente di Dragpa Gyaltsen, quando vide alzarsi quelle nuvole dalla forma pacifica supplicò il maestro: “Moti­vati da gelosia e intenzioni cattive ti hanno ucciso, e tu ancora mostri un aspetto gentile”. Allora con lo scialle da monaco sventolò l'aria e il fumo si divise. Due parti si diradarono nel cielo, una parte divenne scura e pre­se la forma di un pugno chiuso, si abbassò verso terra con un movimento a spirale muovendosi nella direzione di Tsangpu passando da Dembag (uno spiazzo sotto al monastero), segno che l'aspetto della saggezza della mente di Dragpa Gyaltsen andò a chiedere l'aiuto di Setrap [uno spirito guardiano locale].
Nel fuoco, il corpo di Dragpa Gyaltsen non bruciò e fu costruito uno stupa d'argento a base ottagonale per contenerlo, poi lo stupa fu tra­sportato provvisoriamente nella Residenza Superiore. I custodi sentiro­no esplosioni, voci, lamenti e suoni spaventosi provenire dall'interno, co­sì che nessuno poteva nemmeno transitare lì vicino. Interpellato l'oraco­lo di Nechung, il Reggente fece aprire lo stupa d'argento, estrasse il cor­po, lo mise in una scatola di legno e lo fece gettare nel fiume Kyichu[8], dove la corrente lo trascinò via.
Nei giorni successivi il Dalai Lama ebbe incubi e visioni negative, molti monaci si ammalarono, alcuni morirono. Tutti questi segni furono attribuiti allo spirito di Dragpa, “sorto nell’aspetto di una divinità violenta”, come dice Trijang Rinpoche[9].
Si trattava di Shugden, chiamato anche Dholgyal o Gyalchen, “uno spirito perfido molto potente scaturito da chi ha deliberatamente mancato di mantenere la parola o promessa al suo lama a causa di risentimento o dissenso ed è nato da preghiere distorte, così da danneggiare l’insegnamento del Buddha e gli esseri senzienti[10]. Sono le parole del Grande Quinto, il quale divenne il bersaglio di Shugden e si ammalò. Si verificarono altre morti di monaci, carestie, terremoti, fino a che venne deciso di procedere al Rito del Fuoco, un potente esorcismo per distruggere lo spirito. Secondo quanto narrato nella biografia di un lama che partecipò alla puja, “i Messaggeri Operatori del Rito [presero] l’incontrollabile spirito elementare che vagava di notte, lo legarono alla vita, lo uccisero e lo mangiarono. Tutti i partecipanti udirono grida e avvertirono odore di bruciato[11]. Pare invece che in sostanza l’esorcismo non funzionò: il Dalai Lama guarì completamente, ma la sua stessa biografia afferma che lo spirito si allontanò e si recò presso il monastero Sakyapa, dove un maestro gli diede un rifugio e dove gli venne poi costruita una cappella.
Da lì cominciò la vicenda di Dholgyal/Shugden, che segnò i secoli successivi della storia del Tibet e, dopo l’invasione cinese, dei Tibetani in esilio. Il culto a lui dedicato si diffuse rapidamente, i riti venivano praticati in diversi monasteri, il che era anche favorito dai gravi problemi che il paese doveva affrontare: dopo la scomparsa del Grande Quinto e le tortuose vicende che accompagnarono la vita del sesto [12], cinque Dalai Lama, dall’ottavo al dodicesimo, morirono da bambini o vennero comunque uccisi; i Cinesi approfittarono della situazione e intorno al 1720 inviarono soldati in Tibet per proteggerlo dai Mongoli. Questo fatto ancora oggi è usato dal governo cinese per legittimare le proprie pretese su quei territori strategicamente molto importanti. Da allora la figura di Shugden iniziò ad intrecciarsi indissolubilmente con la storia dei rapporti politici tra Cina e Tibet.
Molti lama della scuola Gelug ed esponenti del governo tibetano presero a rivolgersi allo spirito, chiedendogli di diventare un protettore della loro scuola dalle influenze dei Nyingmapa, e Shugden acconsentì, fino a diventare uno dei principali protettori dei Gelugpa. Sua funzione specifica era quella di impedire ogni tipo di mescolanza tra le due scuole, al punto che ad un Gelugpa era fatto divieto perfino di toccare i testi Nyingma[13].
Il riconoscimento “ufficiale” di tale ruolo avvenne nel 1837, quando, alla morte del X Dalai Lama, l’ambasciatore cinese si recò nel principale tempio di Shugden per chiederne un parere ed ebbe risposte che ritenne corrette. L’Imperatore concesse allora il riconoscimento dello spirito come Protettore della scuola.
L’immagine di Shugden, la sua dimora e i riti a lui connessi vennero stabiliti con precisione:
All’interno del palazzo sono gettati qua e là cadaveri umani e carcasse di cavalli, e il sangue degli uomini e dei cavalli si unisce a formare un lago. Pelli umane e pellicce di tigre pendono come tendaggi. Il fumo della 'gran­de offerta del fuoco' [carne umana] si diffonde nelle quattro direzioni del mondo. All’esterno, sulla terrazza, si dimenano cadaveri resuscitati e rakṣasa [demoni], e le quattro classi di scheletri eseguono la loro dan­za. Da ogni lato pendono tappezzerie fatte di pelle d’elefante e pelle tolta ai cadaveri. Vi sono 'stendardi della vittoria' e stendardi circolari fatti con cor­pi di leone, nappe fatte di visceri colanti, ghirlande di teste, ornamenti rica­vati dai cinque organi sensoriali, scacciamosche di capelli umani, e altri og­getti spaventosi...
All'interno... [c'è] lo spaventoso rDo rje shugs ldan [Dorje Shugden], di colore rosso scu­ro, feroce come un selvaggio rakṣasa, dalla bocca simile all’abisso dello spa­zio. Scopre quattro zanne, taglienti come lastre di ghiaccio, tra cui arrotola la lingua alla velocità della saetta, facendo tremare i tre mondi... La fronte è contratta per l’ira. I tre occhi iniettati di sangue guardano irati i vighna [ostruttori] nemici. Le fiamme giallo-rosse che escono dai sopraccigli e dai peli della faccia bruciano completamente le quattro classi di bdub [demo­ni]. I capelli giallo-bruni sono ritti sulla testa, e in cima, al centro, in un mandala solare, risiede il signore protettore e re della religione, il grande Tsong kha pa in aspetto pacifico.
Muovendo rapidamente le orecchie, rDo rje shugs ldan provoca un for­tissimo vento che distrugge il male e spazza via i malfattori, gli spergiuri e i demoni creatori di ostacoli. Dalle narici prorompono nuvole cariche di pioggia, da cui escono tuoni e fulmini che percuotono con lampi gialli la terra dei vighna[14].

Ogniqualvolta in Tibet si verificavano dei tentativi di creare collegamenti tra scuole diverse – ad esempio nel XIX secolo, col movimento Ris Med (Rimé, “senza restrizioni”, “non settario”), o nei primi decenni del XX, con le prime esperienze di modernizzazione del Paese da parte del XIII Dalai Lama – il culto di Shugden riprendeva vigore, opponendosi ad ogni apertura e rinnovamento.
Un importante esponente del culto fu il monaco Pha bong kha pa (Pabonka)[15], uno dei più grandi maestri tibetani del XX secolo, guru di Trijang, il già citato tutore del XIV Dalai Lama. “Rivolto tanto ai monaci che ai laici, il movimento [guidato da Pabonka] favoriva un forte senso di identità comunitaria in un momento in cui quella stessa identità veniva minacciata dalla spinta modernizzatrice del governo e da influenze esterne[16]. Poiché il culto era così diffuso ai più alti livelli della scuola Gelug, fino ai tutori dell’attuale Dalai Lama, anche quest’ultimo ne fu profondamente influenzato e per molti anni incluse le preghiere a Shugden nella propria pratica religiosa quotidiana, favorendo la devozione nei confronti del Protettore da parte del clero. L’oracolo di Shugden divenne così il secondo per importanza dopo Nechung.
L'oracolo di Nechung
Si disse anche che fu proprio Shugden, nel 1959, a consigliare il giovane Dalai Lama a fuggire in India prima del definitivo attacco cinese alla sua residenza a Lhasa.
La diaspora dei Tibetani non contribuì affatto a ricomporre le divisioni: anche durante l’esilio, molti continuarono a pensare che i problemi del Tibet fossero dovuti alle eccessive aperture verso le altre scuole e verso il mondo esterno, e che solo Shugden potesse costituire la soluzione.
Ma a partire dagli anni ’70 si verificò un profondo cambiamento: il Dalai Lama ebbe diversi sogni e premonizioni intorno al culto di Shugden, ne studiò a fondo la storia e la dottrina e nel 1975 pervenne alla decisione di abbandonare la pratica, scoraggiando chiunque a seguirla. Affermò che Shugden non era “né un buddha né l’incarnazione di Drakpa Gyaltsen, ma una divinità mondana, forse uno spirito nefasto, il cui culto alimentava il settarismo nella comunità in esilio, ostacolando la causa dell’indipendenza tibetana[17]. In una intervista recente, ha ribadito un elemento fondamentale nel Buddhismo, ovvero l’aver personalmente sperimentato gli effetti di una pratica: “Se ho deciso di sconsigliarne il culto [di Shugden] è perché ho sperimentato a mia volta i problemi che possono sorgere affidandosi a questi esseri e ho avuto numerose esperienze durante i sogni e le divinazioni [..]. Se prendi come vero rifugio l’Oracolo o una divinità che non sia trascendente, oltre i limiti dell’attaccamento, il tuo legame con i Tre Gioielli, il Buddha, i suoi insegnamenti e la comunità religiosa, è perso[18].
Già nel 1973 Zemey Rinpoche, discepolo di Trijang, aveva pubblicato un “Libro Giallo”, nel quale raccontava in dettaglio le disgrazie di cui furono vittime i monaci che avevano mescolato le pratiche Gelug con quelle di altre scuole, provocando la reazione di Shugden. Ma il testo venne condannato dal Dalai Lama, il quale “non tornò mai sulle sue decisioni, e fece sapere che se i suoi consigli non fossero stati ascoltati avrebbe negato a coloro che fossero rimasti legati a Dorje Shugden la possibilità di presenziare ai suoi insegnamenti[19]: nel 1996, durante le celebrazioni del Capodanno tibetano (Losar) in India, chiese a tutti i devoti di Shugden di abbandonare la cerimonia, a causa del legame karmico che si instaura durante le iniziazioni tra il lama e l’iniziato. In caso contrario la sua stessa salute ne sarebbe stata danneggiata.
La decisione del Dalai Lama provocò naturalmente gravi lacerazioni nelle gerarchie e nella comunità Gelugpa. Ne nacque una controversia che non solo non è terminata, ma che si è progressivamente inasprita. “Alcuni si spinsero al punto di dichiarare che il Dalai Lama non era il vero Dalai Lama, e che quarant’anni prima era stato scelto il bambino sbagliato[20]. I devoti di Shugden, guidati da Geshe Kelsang Gyatso, un monaco trasferitosi in Inghilterra (la setta è presente e molto attiva anche in Occidente), accusarono Sua Santità di violare la libertà religiosa, di essere intollerante, di provocare la persecuzione dei devoti di Shugden nei monasteri e nei villaggi.

Infine, come si è detto, nel 1997 dalle violenze verbali si passò a quelle fisiche, quando Geshe Lobsang Gyatso, acceso oppositore del culto di Dorje Shugden, fu ucciso a Dharamsala con due discepoli, e la setta fu sospettata dell’omicidio. Ciononostante, i seguaci di Shugden continuano a presentarsi nel ruolo delle vittime di una vera e propria persecuzione, che “avrebbe fatto perdere il lavoro a molti tibetani in India e fatto espellere molti monaci dai monasteri[21]. Un atteggiamento vittimistico, è da dire, piuttosto tipico nelle organizzazioni con caratteristiche settarie.
Da parte sua, la Cina, che nella sua storia è sempre stata molto attenta a quanto avviene sul Tetto del Mondo, non ha perso le ghiotte occasioni di intervento che l’affaire Shugden le ha offerto, ben consapevole che l’invasione del 1950 e del 1959 e le successive violente repressioni di ogni richiesta di autonomia e di ogni forma di dissenso hanno tutt’altro che risolto il problema Tibet. Dopo aver fatto nominare Panchen Lama, la seconda autorità spirituale tibetana dopo il Dalai Lama, una persona gradita al Partito, ha sponsorizzato la causa dei devoti di Shugden: “oggi le nuove generazioni di tulku, lama, geshe e monaci viventi nella Regione Autonoma del Tibet ricevono un’educazione sempre più regolarmente improntata sulla tradizione di Dorje Shugden[22], e “nella Repubblica Popolare sono stati approvati stanziamenti extra destinati alla costruzione di nuovi templi [a lui] dedicati, all’estero sono state finanziate le attività di proselitismo per promuover[ne] il culto[23]. Dal loro canto, i seguaci del Protettore creano consenso verso il regime cinese e cercano di screditare la figura del Dalai Lama agli occhi dei Tibetani – nel Tibet occupato e in esilio – e di fronte all’opinione pubblica internazionale. Non si può dire quanto questo sia il frutto di scelte consapevoli o meno, ma resta il fatto che “il culto di Shugden è oggi l’arma con cui Pechino cerca di dividere la comunità tibetana[24], per giungere infine ad eliminare ogni traccia del lignaggio dei Dalai Lama, oppure a scegliere un Dalai Lama “fantoccio” del regime comunista.

L’affaire Shugden ad oggi è lontano dall’essere chiuso, il culto è ben presente nella comunità tibetana e si è radicato anche tra i praticanti occidentali del Buddhismo Vajrayana. Le proteste pubbliche contro la persona del Dalai Lama da parte dei seguaci di Shugden non sono affatto cessate, come pure le prese di posizione a favore delle sue decisioni[25]. La vicenda continuerà ad affiancare e a segnare la storia attuale del popolo tibetano e della sua cultura, il cui esito è ancora tutto da scrivere.


DA LEGGERE

Per chi volesse approfondire i temi legati alla vicenda Shugden, è imprescindibile un ottimo volume del 2008: Il demone e il Dalai Lama – Tra Tibet e Cina, mistica di un triplice delitto, pubblicato da Baldini Castoldi Dalai Editore.
L’autore, Raimondo Bultrini, è un documentarista e giornalista specializzato sull’Asia e sul Buddhismo, collaboratore del gruppo La Repubblica/L’Espresso. Nel suo libro ha ripercorso la storia del Protettore Shugden partendo dal triplice omicidio di Dharamsala e, mescolando abilmente stile narrativo e taglio giornalistico, interviste e saggistica storica, ha ricostruito in maniera documentata e di piacevole lettura l’intricata storia che abbiamo cercato di riassumere. La quale non è, come si potrebbe erroneamente ritenere, una curiosa vicenda del tutto interna al mondo tibetano e/o buddhista. In realtà, come Bultrini stesso osserva, “le implicazioni del caso Shugden meritano di essere approfondite proprio perché rappresentano un esempio della direzione verso la quale possono portare le relazioni tra il futuro grande potere planetario, la Cina, il Tibet e il resto del mondo”.



CONSIDERAZIONI MARGINALI

Sorge a questo punto una domanda, che apre un campo di ricerca tutto da esplorare: la vicenda Shugden, soprattutto nelle modalità con cui si è manifestata nei tempi recenti, può definirsi come un caso di “fondamentalismo buddhista”?
Ha scritto F. Maroaldi su La Repubblica: “Il fondamentalismo islamico rappresenta da anni il principale pericolo della convivenza planetaria. Del fondamentalismo induista si sente parlare sempre più spesso [..]. Neppure ebraismo e cristianesimo possono dichiararsi indenni da febbri integraliste [..]. Fin qui, l’unica religione che pareva non correre tale rischio era il buddhismo[26], ma il culto di Shugden sembra smontare tale immagine stereotipata e falsamente idilliaca di una tradizione plurimillenaria.
Ferma restando la necessità di pervenire ad una esatta definizione di concetti quali fondamentalismo ed integralismo, che non sono del tutto sinonimi, e tenuto altresì conto del fatto che il fondamentalismo non è un fenomeno solo religioso, ma coinvolge innumerevoli aspetti della vita umana, chi scrive ritiene che molti eventi della storia più o meno recente del Buddhismo debbano essere attentamente studiati non solo dagli specialisti, ma anche dai praticanti, soprattutto occidentali, che spesso tendono ad ignorarli o a considerarli estranei, ininfluenti rispetto alla pratica personale e collettiva. Come se fossero sufficienti la distanza temporale o geografica, o la redazione di una lettera di “scuse” da parte di qualche istituzione religiosa per considerare chiusa la questione.
Solo a titolo di esempio, oltre all’affaire Shugden, si possono menzionare il consenso e il supporto fornito all’imperialismo giapponese nel XX secolo da parte di moltissimi monasteri Zen; la politica persecutoria del governo cingalese appoggiato dalla maggioranza buddhista contro le minoranze induiste, musulmane e cristiane; la disputa tra il governo thai e quello cambogiano per il possesso di un tempio khmer; la persecuzione dei musulmani in Myanmar ecc.
Esempi da studiare, come fece con Shugden il Dalai Lama, che non ha poi esitato ad abbandonare una pratica secolare. E da approfondire bene, sotto tutti i punti di vista, storico, politico, culturale, ricercandone le cause nella storia dei popoli e delle istituzioni civili e religiose, nelle strutture sociali ed economiche, nelle stesse tradizioni ed insegnamenti del Buddhismo, dei buddhismi.
Almeno sotto un certo aspetto, una risposta provvisoria è già possibile: sì, un fondamentalismo buddhista non solo è possibile, ma esiste, e va ricercato in sé stessi, in quanto, ancor prima di un fatto storico, esso è un modo di essere della mente, che si manifesta nell’ignoranza, intesa nel suo significato comune, come assenza di studio intellettuale; nella mancanza di spirito critico; nell’illusione di poter delegare ad altri il proprio cammino evolutivo; nella paura delle “contaminazioni”; nel desiderio di appartenenza, di ortodossia/ortoprassi, di adesione ad un modello “autentico” (il vero-buddhismo, il vero-zen, il vero-maestro, il vero-*).







[1] Cfr. tra gli altri: Dalai Lama cittadinanza e contestazione, su La Repubblica del 15.6.2014.
[2] Cit. in D.S. Lopez, Prigionieri di Shangri-La, Ed. Ubaldini, pag. 180.
[3] Id., pag. 177.
[4] Cfr. Ph. Cornu, Dizionario del Buddhismo, Ed. Bruno Mondadori, pag. 159.
[5] Id., pag. 162.
[6] La scuola Gelugpa, detta anche dei “Berretti Gialli”, fu fondata nel XIV secolo dal lama riformatore Tsong Khapa. A partire dal XVII secolo si diffuse in tutto il Tibet.
[7] Cit. in R. Bultrini, Il demone e il Dalai Lama, Ed. Baldini Castoldi Dalai, pag. 261.
[8] Id., pag. 261-262.
[9] Id., pag. 260.
[10] Id., pag. 263.
[11] Id., pag. 267.
[12] Si veda il post Un sesto, forse due, e un Settimo, in: http://zenvadoligure.blogspot.it/
[13] Cfr. Prigionieri di Shangri-La, pag. 178.
[14] Cit. in: Prigionieri di Shangri-La, pag. 178.
[15] Pabonka (Ciampa Tenzin Trinley Gyatso, 1878-1941 o 1943) fu il principale maestro dei due tutori dell’attuale Dalai Lama. Fu autore de La Liberazione nel Palmo della Tua Mano, un testo fondamentale della tradizione Lam Rim (Stadi del Sentiero), iniziata col maestro Atisha (982-1054) e proseguita con Lama Tsong Khapa. È pubblicato in italiano presso le Edizioni Chiara Luce.
[16] D.S. Lopez, pag. 179.
[17] Id.
[18] Dall’intervista rilasciata a R. Bultrini, in: Il demone e il Dalai Lama, pag. 171.
[19] Voce “Dorje Shugden” in: https://it.wikipedia.org/wiki/Dorje_Shugden
[20] D.S. Lopez, pag.180.
[21] M. Bunting, su: The Guardian del 6.7.1996, cit. in D.S. Lopez, pag. 182.
[22] In: https://it.wikipedia.org/wiki/Dorje_Shugden.
[23] C. Astarita, Come si diventa un’ex divinità, in: http://www.rivistastudio.com/standard/come-si-diventa-unex-divinita/
[24] Id.
[25] Si veda la “Dichiarazione” sottoscritta da moltissimi centri di pratica italiani in: http://www.taracittamani.it/dichiarazione-il-culto-di-dogyalshugden/
[26] F. Maroaldi, Il demone del Dalai Lama, su: La Repubblica dell’8.10.2008.