lunedì 8 agosto 2016

Parole e silenzi

Nello scorso luglio, Papa Francesco, in Polonia per la Giornata Mondiale della Gioventù, si è recato nel campo di concentramento di Auschwitz. Durante la visita il Pontefice non ha voluto pronunciare nessun discorso, rimanendo invece immerso nel silenzio della preghiera e della meditazione, come sottolineato a più riprese dai media:

La stessa visita era stata compiuta nel maggio 2006 da Papa Benedetto XVI, che aveva invece pronunciato un importante discorso, che qui riproduciamo come riportato sul sito: https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2006/may/documents/hf_ben-xvi_spe_20060528_auschwitz-birkenau.html.
In esso vogliamo evidenziare in particolare ciò che Benedetto disse a proposito della preghiera: “il nostro grido verso Dio deve al contempo essere un grido che penetra il nostro stesso cuore, affinché si svegli in noi la nascosta presenza di Dio”, e poi ancora: “emettiamo questo grido davanti a Dio, rivolgiamolo allo stesso nostro cuore”. Un insegnamento che va al di là del Cristianesimo, dei monoteismi, della stessa dicotomia credenti/non-credenti. Un insegnamento sulla natura stessa della preghiera, sulla sua forza di trasformazione, di con-versione, per evitare di mettere al centro, anche nel momento stesso della preghiera, del raccoglimento, della meditazione, il nostro piccolo ego.


"Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l'uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile – ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania. In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio – un silenzio che è un interiore grido verso Dio: Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?
È in questo atteggiamento di silenzio che ci inchiniamo profondamente nel nostro intimo davanti alla innumerevole schiera di coloro che qui hanno sofferto e sono stati messi a morte; questo silenzio, tuttavia, diventa poi domanda ad alta voce di perdono e di riconciliazione, un grido al Dio vivente di non permettere mai più una simile cosa.
Ventisette anni fa, il 7 giugno 1979, era qui Papa Giovanni Paolo II; egli disse allora: "Vengo qui oggi come pellegrino. Si sa che molte volte mi sono trovato qui… Quante volte! E molte volte sono sceso nella cella della morte di Massimiliano Kolbe e mi sono fermato davanti al muro della morte e sono passato tra le macerie dei forni crematori di Birkenau. Non potevo non venire qui come Papa". Papa Giovanni Paolo II stava qui come figlio di quel popolo che, accanto al popolo ebraico, dovette soffrire di più in questo luogo e, in genere, nel corso della guerra: "Sono sei milioni di Polacchi, che hanno perso la vita durante la seconda guerra mondiale: la quinta parte della nazione”, ricordò allora il Papa. Qui egli elevò poi il solenne monito al rispetto dei diritti dell'uomo e delle nazioni, che prima di lui avevano elevato davanti al mondo i suoi Predecessori Giovanni XXIII e Paolo VI, e aggiunse: “Pronuncia queste parole […] il figlio della nazione che nella sua storia remota e più recente ha subito dagli altri un molteplice travaglio. E non lo dice per accusare, ma per ricordare. Parla a nome di tutte le nazioni, i cui diritti vengono violati e dimenticati…”.
Papa Giovanni Paolo II era qui come figlio del popolo polacco. Io sono oggi qui come figlio del popolo tedesco, e proprio per questo devo e posso dire come lui: Non potevo non venire qui. Dovevo venire. Era ed è un dovere di fronte alla verità e al diritto di quanti hanno sofferto, un dovere davanti a Dio, di essere qui come successore di Giovanni Paolo II e come figlio del popolo tedesco – figlio di quel popolo sul quale un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di ricupero dell'onore della nazione e della sua rilevanza, con previsioni di benessere e anche con la forza del terrore e dell'intimidazione, cosicché il nostro popolo poté essere usato ed abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio. Sì, non potevo non venire qui. Il 7 giugno 1979 ero qui come Arcivescovo di Monaco Frisinga tra i tanti Vescovi che accompagnavano il Papa, che lo ascoltavano e pregavano con lui. Nel 1980 sono poi tornato ancora una volta in questo luogo di orrore con una delegazione di Vescovi tedeschi, sconvolto a causa del male e grato per il fatto che sopra queste tenebre era sorta la stella della riconciliazione. È ancora questo lo scopo per cui mi trovo oggi qui: per implorare la grazia della riconciliazione – da Dio innanzitutto che, solo, può aprire e purificare i nostri cuori; dagli uomini poi che qui hanno sofferto, e infine la grazia della riconciliazione per tutti coloro che, in quest'ora della nostra storia, soffrono in modo nuovo sotto il potere dell'odio e sotto la violenza fomentata dall'odio.
Quante domande ci si impongono in questo luogo! Sempre di nuovo emerge la domanda: Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male? Ci vengono in mente le parole del Salmo 44, il lamento dell'Israele sofferente: “…Tu ci hai abbattuti in un luogo di sciacalli e ci hai avvolti di ombre tenebrose… Per te siamo messi a morte, stimati come pecore da macello. Svégliati, perché dormi, Signore? Déstati, non ci respingere per sempre! Perché nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione? Poiché siamo prostrati nella polvere, il nostro corpo è steso a terra. Sorgi, vieni in nostro aiuto; salvaci per la tua misericordia!” (Sal 44,20.2327).
Questo grido d'angoscia che l'Israele sofferente eleva a Dio in periodi di estrema angustia, è al contempo il grido d'aiuto di tutti coloro che nel corso della storia – ieri, oggi e domani – soffrono per amor di Dio, per amor della verità e del bene; e ce ne sono molti, anche oggi.
Noi non possiamo scrutare il segreto di Dio – vediamo soltanto frammenti e ci sbagliamo se vogliamo farci giudici di Dio e della storia. Non difenderemmo, in tal caso, l'uomo, ma contribuiremmo solo alla sua distruzione. No – in definitiva, dobbiamo rimanere con l'umile ma insistente grido verso Dio: Svégliati! Non dimenticare la tua creatura, l'uomo! E il nostro grido verso Dio deve al contempo essere un grido che penetra il nostro stesso cuore, affinché si svegli in noi la nascosta presenza di Dio – affinché quel suo potere che Egli ha depositato nei nostri cuori non venga coperto e soffocato in noi dal fango dell'egoismo, della paura degli uomini, dell'indifferenza e dell'opportunismo. Emettiamo questo grido davanti a Dio, rivolgiamolo allo stesso nostro cuore, proprio in questa nostra ora presente, nella quale incombono nuove sventure, nella quale sembrano emergere nuovamente dai cuori degli uomini tutte le forze oscure: da una parte, l'abuso del nome di Dio per la giustificazione di una violenza cieca contro persone innocenti; dall'altra, il cinismo che non conosce Dio e che schernisce la fede in Lui. Noi gridiamo verso Dio, affinché spinga gli uomini a ravvedersi, così che riconoscano che la violenza non crea la pace, ma solo suscita altra violenza – una spirale di distruzioni, in cui tutti in fin dei conti possono essere soltanto perdenti. Il Dio, nel quale noi crediamo, è un Dio della ragione – di una ragione, però, che certamente non è una neutrale matematica dell'universo, ma che è una cosa sola con l'amore, col bene. Noi preghiamo Dio e gridiamo verso gli uomini, affinché questa ragione, la ragione dell'amore e del riconoscimento della forza della riconciliazione e della pace prevalga sulle minacce circostanti dell'irrazionalità o di una ragione falsa, staccata da Dio. Il luogo in cui ci troviamo è un luogo della memoria, è il luogo della Shoa. Il passato non è mai soltanto passato. Esso riguarda noi e ci indica le vie da non prendere e quelle da prendere. Come Giovanni Paolo II ho percorso il cammino lungo le lapidi che, nelle varie lingue, ricordano le vittime di questo luogo: sono lapidi in bielorusso, ceco, tedesco, francese, greco, ebraico, croato, italiano, yiddish, ungherese, neerlandese, norvegese, polacco, russo, rom, rumeno, slovacco, serbo, ucraino, giudeoispanico, inglese. Tutte queste lapidi commemorative parlano di dolore umano, ci lasciano intuire il cinismo di quel potere che trattava gli uomini come materiale non riconoscendoli come persone, nelle quali rifulge l'immagine di Dio. Alcune lapidi invitano ad una commemorazione particolare. C'è quella in lingua ebraica. I potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità; eliminarlo dall'elenco dei popoli della terra. Allora le parole del Salmo: "Siamo messi a morte, stimati come pecore da macello" si verificarono in modo terribile. In fondo, quei criminali violenti, con l'annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell'umanità che restano validi in eterno. Se questo popolo, semplicemente con la sua esistenza, costituisce una testimonianza di quel Dio che ha parlato all'uomo e lo prende in carico, allora quel Dio doveva finalmente essere morto e il dominio appartenere soltanto all’uomo – a loro stessi che si ritenevano i forti che avevano saputo impadronirsi del mondo. Con la distruzione di Israele, con la Shoa, volevano, in fin dei conti, strappare anche la radice, su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell'uomo, del forte. C'è poi la lapide in lingua polacca: In una prima fase e innanzitutto si voleva eliminare l'élite culturale e cancellare così il popolo come soggetto storico autonomo per abbassarlo, nella misura in cui continuava ad esistere, a un popolo di schiavi. Un'altra lapide, che invita particolarmente a riflettere, è quella scritta nella lingua dei Sinti e dei Rom. Anche qui si voleva far scomparire un intero popolo che vive migrando in mezzo agli altri popoli. Esso veniva annoverato tra gli elementi inutili della storia universale, in una ideologia nella quale doveva contare ormai solo l'utile misurabile; tutto il resto, secondo i loro concetti, veniva classificato come lebensunwertes Leben – una vita indegna di essere vissuta. Poi c'è la lapide in russo che evoca l'immenso numero delle vite sacrificate tra i soldati russi nello scontro con il regime del terrore nazionalsocialista; al contempo, però, ci fa riflettere sul tragico duplice significato della loro missione: hanno liberato i popoli da una dittatura, ma sottomettendo anche gli stessi popoli ad una nuova dittatura, quella di Stalin e dell'ideologia comunista. Anche tutte le altre lapidi nelle molte lingue dell'Europa ci parlano della sofferenza di uomini dell'intero continente; toccherebbero profondamente il nostro cuore, se non facessimo soltanto memoria delle vittime in modo globale, ma se invece vedessimo i volti delle singole persone che sono finite qui nel buio del terrore. Ho sentito come intimo dovere fermarmi in modo particolare anche davanti alla lapide in lingua tedesca. Da lì emerge davanti a noi il volto di Edith Stein, Theresia Benedicta a Cruce: ebrea e tedesca scomparsa, insieme con la sorella, nell'orrore della notte del campo di concentramento tedesconazista; come cristiana ed ebrea, ella accettò di morire insieme con il suo popolo e per esso. I tedeschi, che allora vennero portati ad Auschwitz Birkenau e qui sono morti, erano visti come
Abschaum der Nation – come il rifiuto della nazione. Ora però noi li riconosciamo con gratitudine come i testimoni della verità e del bene, che anche nel nostro popolo non era tramontato. Ringraziamo queste persone, perché non si sono sottomesse al potere del male e ora ci stanno davanti come luci in una notte buia. Con profondo rispetto e gratitudine ci inchiniamo davanti a tutti coloro che, come i tre giovani di fronte alla minaccia della fornace babilonese, hanno saputo rispondere: "Solo il nostro Dio può salvarci. Ma anche se non ci liberasse, sappi, o re, che noi non serviremo mai i tuoi dèi e non adoreremo la statua d'oro che tu hai eretto" (cfr Dan 3,17s.).
Sì, dietro queste lapidi si cela il destino di innumerevoli esseri umani. Essi scuotono la nostra memoria, scuotono il nostro cuore. Non vogliono provocare in noi l'odio: ci dimostrano anzi quanto sia terribile l'opera dell'odio. Vogliono portare la ragione a riconoscere il male come male e a rifiutarlo; vogliono suscitare in noi il coraggio del bene, della resistenza contro il male. Vogliono portarci a quei sentimenti che si esprimono nelle parole che Sofocle mette sulle labbra di Antigone di fronte all'orrore che la circonda: "Sono qui non per odiare insieme, ma per insieme amare".
Grazie a Dio, con la purificazione della memoria, alla quale ci spinge questo luogo di orrore, crescono intorno ad esso molteplici iniziative che vogliono porre un limite al male e dar forza al bene. Poco fa ho potuto benedire il Centro per il Dialogo e la Preghiera. Nelle immediate vicinanze si svolge la vita nascosta delle suore carmelitane, che si sanno particolarmente unite al mistero della croce di Cristo e ricordano a noi la fede dei cristiani, che afferma che Dio stesso e sceso nell'inferno della sofferenza e soffre insieme con noi. A Oświęcim esiste il Centro di san Massimiliano e il Centro Internazionale di Formazione su Auschwitz e l'Olocausto. C'è poi la Casa Internazionale per gli Incontri della Gioventù. Presso una delle vecchie Case di Preghiera esiste il Centro Ebraico.
Infine si sta costituendo l'Accademia per i Diritti dell'Uomo. Così possiamo sperare che dal luogo dell'orrore spunti e cresca una riflessione costruttiva e che il ricordare aiuti a resistere al male e a far trionfare l’amore.
L'umanità ha attraversato a Auschwitz Birkenau una "valle oscura". Perciò vorrei, proprio in questo luogo, concludere con una preghiera di fiducia – con un Salmo d'Israele che, insieme, è una preghiera della cristianità: "Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore
del suo nome. Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza … Abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni" (Sal 23, 14. 6)."


Da leggere:
Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Ed. Il Melangolo




sabato 6 agosto 2016

Il crollo delle grandi narrazioni

Quale ulteriore strumento di lettura e meditazione per questo momento di crisi e trasformazione, pubblichiamo un’intervista rilasciata dal cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, al giornalista Matteo Matzuzzi. Il testo è stato pubblicato con il titolo “La tragedia di un Dio diventato utopia” sul quotidiano Il Foglio del 4 agosto.
A partire dal tema ineludibile del fondamentalismo religioso, Scola tocca argomenti centrali della concreta esistenza umana, non solo per i cristiani: la morte, il senso dell’esistenza, la separazione tra fede e vita, le mistificazioni delle ideologie.
  
Padre Jacques Hamel
 
“La tremenda uccisione di padre Jacques Hamel significa che il martirio del sangue è ritornato in Europa, e questo è un fatto su cui è necessario riflettere in profondità da parte di tutti, a cominciare da noi cristiani”. Il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, parte dall’ultima di quelle “tragedie terribili e insopportabili” per riflettere con il Foglio sul rapporto tra le religioni, l’occidente travagliato, la chiesa in Europa che pare assopita e il ruolo della fede nel contesto attuale. Sullo sfondo ci sono gli ottanta e più morti di Nizza e gli attentati in Germania, fino al sacrificio dell’anziano sacerdote di Rouen. Non sarà una guerra di religione, non c’è uno scontro tra fedi che si contrappongono coltello in mano, ma “il problema delle derive violente del fondamentalismo religioso va ben interpretato”, sostiene Scola. “La mia tesi è che quando l’ideologia (di qualunque origine essa sia) ‘parassita’ la religione presto o tardi, inevitabilmente, si assiste a una deriva radicale dell’esperienza religiosa. Questa può raggiungere gli estremi del terrorismo, ma anche quelli di uno svuotamento interiore della religione, che annulla la sua costitutiva e universale apertura alla totalità del reale. La religione diventa così uno strumento in mano ai poteri dominanti. Si capisce molto bene l’affermazione del Santo Padre ed è del tutto condivisibile. Nella mia esperienza con la Fondazione Oasis, incontrando musulmani di tutto il mondo, ho constatato di persona un equivoco molto diffuso. Quello di pensare che, a partire dal peso straordinario che ha il Corano e dal problema delicatissimo della sua interpretazione, l’islam sia una sorta di coperta che tiene dentro tutto. Invece ci sono molti islam. Ben inteso, questo non significa ridurre l’urgenza di interpretare i fondamentalismi religiosi violenti. E non aiuta a compiere questo lavoro mettere la sordina alla potenza del cristianesimo, fenomeno a cui da qualche decennio purtroppo assistiamo in Europa. C’è una frase di Balthasar che mi colpisce sempre: ‘In tutte le epoche si cerca di ridurre il cristianesimo in modo tale che la ferita che Cristo ha inferto alla storia si possa chiudere. Non è possibile, continuerà a suppurare’. Possiamo dire che oggi in Europa l’impossibile impegno a chiudere la ferita è particolarmente perseguito. Anche, purtroppo, con molta colpa dei cristiani”.
Scola ritiene che si debba rinnovare la pratica della vita cristiana. “Diventa fondamentale, anche dal punto di vista delle nostre chiese in Italia, sviluppare la coscienza della pertinenza della fede all’esistenza di tutti i giorni, della sua capacità di ospitare tutta la realtà. E’ importante, per esempio, essere presenti negli ambienti, non intesi solo come luoghi, ma come generatori di mentalità. E’ importante il lavoro della parrocchia, ma non basta la Chiesa del ‘campanile’ o del ‘campanello’. Qualcosa mi sembra si stia muovendo in questo senso. E’ un inizio di cammino, ma c’è. E’ un segno. La situazione di grande travaglio – che durerà – non ci fa perdere la speranza”.
Quanto all’idea che le religioni sarebbero sempre fonti di pace e la responsabilità della loro trasformazione in fattore di guerra ricadrebbe sui politici o sul capitale “è una tesi che non regge sempre”, dice il cardinale. “Di sicuro resta il tema del parassitismo, ma io parlo dell’ideologia e non della politica, e ne parlo nel senso marxiano della parola, cioè di un modo di dire le cose coprendo la loro radice, quindi di un’impostura in ultima analisi. Che poi diventa utopia.
Quando il pregiudizio investe gruppi sempre più larghi e si cristallizza, diventa ideologia e quasi sempre l’ideologia diventa utopia. Non è vero – sottolinea – che la colpa è sempre della politica. Qui si apre la questione del potere. Non si regge una società senza potere, e la politica deve gestire il potere. Il punto è comprendere quale considerazione il potere debba avere dell’umano. Cosa mi aspetto dall’altro? Che natura vuole avere la mia relazione con tutta la realtà in questa fase storica? Forse ci può aiutare proporre una distinzione. Il potere – osserva – deve trovare la sua sorgente nella potestas, nel senso di autentica autorità. La potestas, che è quella che Gesù ci ha mostrato sulla croce pagando al posto nostro, è quella di padre Jacques, dei monaci di Tibhirine. Penso alla frase straordinaria che disse il priore al monaco spaventato di fronte al rischio di essere assassinato: ‘Tu la tua vita l’hai già data entrando qui’. Il cristiano, colui che è rinato immergendosi nella morte e risurrezione di Gesù nel battesimo, non può non mettere in preventivo questa situazione di martirio. Certo, non si può dire senza tremore, ma la mia vita l’ho già data se sono cristiano”.
In questo senso, dice il cardinale Angelo Scola, “è urgente recuperare tutti i contenuti specifici dell’esperienza cristiana. Pensiamo, ad esempio, a tutti i misteri della vita eterna – cioè morte e giudizio e inferno e paradiso – che si concentrano in Cristo morto e definitivamente risorto. Il fatto che noi veniamo al mondo per non finire più è determinante. Cristo è l’eterno che entra nel tempo e rende il tempo un segno dell’eterno. Queste cose bisogna ricominciare a viverle e quindi a dirle. Non come affermazioni teoriche, ma come descrizione del contenuto più profondo e quotidiano dell’esistenza cristiana. E poi, per quanto riguarda la costruzione sociale, io insisto nel dire che non esiste da una parte la mia esperienza di fede e dall’altra le sue conseguenze, bensì esistono delle implicazioni della fede. Faccio un esempio sapendo di non essere politicamente corretto. Ho spesso ripetuto ai giovani che la fatica che si fa a pensare la differenza sessuale, l’insuperabilità della differenza sessuale, scaturisce dal fatto che non si pensa più la Trinità. Il tema della differenza come originaria e buona è stato introdotto in occidente per pensare la Trinità. Un genio come Romano Guardini diceva che per imparare a costruire una società civile adeguata si dovrebbe guardare alla Trinità. In essa, infatti, troviamo la pienezza della comunione (l’identità di natura) assieme all’assolutamente insuperabile singolarità di ogni persona (la differenza delle persone). San Tommaso diceva che nella Trinità c’è il massimo della differenza, ma è una differenza che vive nell’unità della sostanza. E questo, senz’altro, può aiutarci molto a pensare cosa sia la società, superando individualismi e collettivismi di vecchio stampo. Noi cristiani dovremmo mostrare di più questo nesso”. Alla fine, “lo scandalo della modernità si concentra qui: come può, diceva Lessing, una realtà storica particolare – Gesù Cristo – essere il senso di tutto? Chi ci farà superare quest’orribile fossato che da più di duemila anni ci separa da Cristo? La società civile avrebbe molto da imparare da come la Chiesa vive la sua sinodalità, fatta di universale e di particolare, ultimamente radicata nel Collegio dei successori degli apostoli con Pietro e sotto Pietro. Penso – dice l’arcivescovo di Milano – che in Italia (ma non solo) è viva una dialettica tra il ridurre la fede a una religione civile (tesi che io capisco soprattutto per i non credenti) e dall’altra parte il ridurla a un puro annuncio della croce, alieno all’umana esperienza (una posizione che io chiamo di ‘cripto diaspora’). Per uscire da queste due visioni dominanti ma limitate, bisogna battere la via del crinale, che è la via dell’implicazione: far vedere il nesso tra i misteri vissuti della fede (la Trinità, l’incarnazione e la redenzione, il dono dello Spirito, il mistero della Chiesa…), che si documentano nell’umanissima (universale) esperienza cristiana, e la realtà concreta, cioè la trama di circostanze, relazioni e situazioni che costituisce l’umana esistenza. Gesù è venuto, dice sant’Agostino, per essere via alla verità e alla vita”.
Eppure, paradossalmente, Nizza, Rouen, e la sequela di stragismo fondamentalista, “possono essere l’inizio di un risveglio sia per l’Europa, sia per la nostra coscienza. Dobbiamo leggere tutto questo all’interno del disegno di Dio e comunicare la fondatezza di questa lettura a tutti gli uomini. Io parlo di ‘provocazione’ nel senso che la verità è qualcuno che mi viene incontro e mi chiama. Dobbiamo fare di tutto, dinanzi a queste tragedie per non lasciar cadere questa provocazione.
Sullo scenario della storia c’è la libertà di Dio, la libertà dell’uomo e la libertà del maligno. Le tre si intrecciano, anche se non tutte e tre hanno lo stesso peso ovviamente. Gesù ha risolto l’enigma dell’uomo vincendo il male, ma bisogna che ognuno di noi aggiunga nella sua persona ciò che manca ai patimenti di Cristo E cosa manca? Il proprio sì, l’accoglienza del dono della misericordia. Questo puoi farlo solo tu”.
Guardando al martirio di padre Hamel, al cardinale Scola viene in mente la citazione con cui l’arcivescovo di Parigi, il cardinale André VingtTrois, ha iniziato la sua omelia a ricordo del prete assassinato. “Ha citato Geremia quando rivolgendosi a Dio dice ‘Tu sei diventato per me un torrente infido, dalle acque incostanti?’. Come a chiedere, ‘Sei un’ombra o sei veramente tra noi?’. Dal punto di vista cristiano mi chiedo cosa ci voglia dire Dio attraverso un fenomeno storico, quello del martirio, che non si verificava in occidente dalla Seconda guerra mondiale. Anche qui veniamo messi davanti alla nostra vocazione per interrogarci su cosa stiamo facendo di Cristo o della visione della vita che vogliamo seguire e attuare. L’uomo non può vivere senza un senso, senza un significato, senza una direzione di cammino. Il senso della vita cristiana è Gesù Cristo, e padre
Jacques ha dato la vita per questo. E l’ha data con enorme dignità, non piegandosi a inginocchiarsi davanti ai suoi assassini. In questo tragico contesto – ripete l’arcivescovo di Milano – ci sono segni di grande speranza. Sono stato a Cracovia e ho visto lo stile di partecipazione di tante centinaia di migliaia di giovani alla Giornata mondiale della Gioventù, il modo con cui hanno accolto ciò che il Papa ha detto loro. Sono una risposta dei cristiani a quanto sta accadendo”.
Una luce in una realtà che appare avvolta da tenebre sempre più fitte che attanagliano l’Europa: “Sono profondamente convinto che se guardiamo dal punto di vista sociopolitico al grande travaglio dell’occidente – preferisco parlare di ‘travaglio’ e non di ‘crisi’ – vediamo che i problemi dell’Europa sono legati a un riemergere dei nazionalismi (forse troppo precipitosamente liquidati), al terrorismo, a un certo modo di affrontare l’immigrazione, alla finanza e alla politica. Sono come chiavi che vanno rimesse in gioco”.
Il cardinale Scola
A questo punto, però, sorge una domanda ulteriore: “Mi chiedo, all’interno di questa situazione di travaglio, qual è il contributo che gli uomini delle religioni • Guerra di religione, ma non per il Papa. La chiesa devono dare per la dopo Rouen ripresa dell’Europa. Perché sono molto convinto che questo sia un contributo dovuto e decisivo. Le implicazioni non sono piccole, penso ad esempio alla necessità di ridiscutere radicalmente la concezione cosiddetta ‘francese’ di laicità dello stato. E’ arrivato il momento di farla finita con la neutralizzazione di ogni religione e di ogni etica sostantiva.
Le religioni non vanno pensate – come sostiene da anni per esempio il sociologo Donati – come soggetti che cerchino tutele (se non quelle dovute a tutti), ma come realtà vitali capaci di sviluppare una soggettività pubblica, liberamente assunta e il più possibile cordialmente dialogata. In quest’età post secolare in cui, con la modernità, è stato abbandonato il riferimento a Cristo come senso di un cammino, bisogna riconoscere che tutti i tentativi fatti per sostituirlo sono falliti. Basti rifarsi al discorso del crollo delle grandi narrazioni. Io credo però che si debba – pazientemente e partendo dal concreto – attraverso un dinamismo di riconoscimento reciproco e di narrazione costante, ricostruire una direzione unitaria di cammino”. Che non è quello di limitarsi a citare in modo vacuo e vago i valori europei, i princìpi che accomunano i popoli del continente, classico refrain che si sente dopo ogni attentato che miete vittime sul suo territorio. “Sono convinto – dice Scola – che è importante riprendere, anche descrittivamente, tutte – è in questo senso è necessario non escludere nessuna – le radici dell’Europa. Però, poi, partendo dalle esigenze concrete del presente bisogna guardare al futuro. E’ chiaro che il cristianesimo è stata la radice portante dell’Europa. Ma vi sono anche le radici anteriori: Roma ha assunto la Grecia, Gerusalemme. Ci sono le varie realtà germaniche, galliche e preceltiche.
E, a posteriori, quelle della modernità e dell’illuminismo, senza escludere la cosiddetta matrice socialista. Questo è certo e rimane. Oggi il cristianesimo si gioca dentro una realtà interculturale e interreligiosa, e quindi deve essere un coagonista, che in Europa può anche essere il protagonista del lavoro che tutte le religioni e tutte le mondovisioni sono chiamate a fare”.
Tutto questo si inserisce in uno scenario in cui la Chiesa, in Europa, dà spesso un’immagine di spossatezza, quasi fosse rassegnata a essere sempre più minoritaria. Che fare? “Le comunità cristiane europee appaiono stanche, è vero, ne ho parlato più volte. Il primo contributo che il cristiano può dare è di essere se stesso, e padre Jacques ce l’ha dimostrato quando quel mattino è andato incontro al martirio. Questo è fondamentale. E il principio della riforma della Chiesa è la conversione alla santità. Qui sta la sua vera radice. Tutti sappiano che non è sufficiente la pur necessaria riforma di istituzioni e strutture. Gli strumenti utili siano benvenuti, ma prima di tutto bisogna essere se stessi. In secondo luogo, dobbiamo farci promotori seri di una continua proposta circa il bonum di una vita associata e quindi circa il bene dell’Europa. E qui bisogna guardare a qualcosa che ha dato inizio all’Europa dopo la tragedia dei due conflitti che hanno definitivamente consumato il tragico impatto delle guerre di religione. Mi riferisco al realismo del partire dal concreto (il carbone e l’acciaio), e partendo da lì far emergere il gusto della vita che molti di noi battezzati non hanno più. Io legherei il discorso che McIntyre faceva sulle minoranze creative alla capacità di innervare il resto del popolo che sicuramente, e non solo nelle regioni latine, è ancora presente. E in maniera diversa lo è anche nei paesi più secolarizzati, benché questa parola oggi voglia dire molto poco”.
Rifarsi al sensus fidei, dunque? Sì. “Nella mia venticinquennale esperienza di vescovo noto che il nostro popolo mantiene un sensus fidei che definirei quasi naturale. Quando vado in visita pastorale, sono solito tenere un’assemblea pubblica dove la gente fa sempre domande sostanziali: affetti, amore, giovani, lavoro, giustizia, morte, aldilà… Manca ciò che con grande genio profetico aveva intuito Paolo VI (allora solo mons. Montini) già nel 1934, quando disse che la ‘cultura italiana ha già messo da parte Gesù Cristo’, facendo vedere ciò che sarebbe successo, cioè che questa posizione presto o tardi – soprattutto attraverso i mass media – avrebbe intaccato il popolo. Montini parlò della separazione tra la fede e la vita.
Ecco, c’è la necessità di ridare sostanza all’esperienza personale della fede per ridare corpo di vera comunione alla Chiesa. E qui arriviamo alla proposta che il Santo Padre ha fatto con forza, che è quella della Chiesa in uscita. Non bisogna ridurla sociologicamente. Queste periferie sono le periferie dell’umano, che sono certo anche sociologiche. Se penso alla mia Milano, ho visto situazioni di degrado a macchia di leopardo in molti quartieri, che sono affrontate con enorme generosità sia da cristiani sia da laici. Però manca ancora un nesso tra carità e cultura, e il Papa quando parla di una visione teologica della povertà intende rifarsi proprio a questo nesso. Siamo entrati – sottolinea l’arcivescovo di Milano – in una fase di riforma della Chiesa e questa deve partire dalla proposta chiara della bellezza di seguire Gesù fatta a tutti, soprattutto ai giovani, del peso dato ai laici attraverso la famiglia intesa come soggetto attivo di annuncio, e di un’assunzione del ministero sacerdotale e della vita consacrata in termini di essenzialità. E’ necessario un ritorno alla semplicità. C‘è un bellissimo libro di Balthasar, La semplicità del cristiano, che dovremmo riscoprire. Il nostro tempo ha bisogno di santi semplici, perché siamo troppo complicati, e lo dico pensando a me”.
Torna, dinanzi allo scenario nel quale siamo immersi, il tema del crollo delle evidenze, “che incide molto nel travaglio dell’occidente, ma dobbiamo domandarci perché è avvenuto questo crollo”, spiega Angelo Scola. “E’ avvenuto non soltanto perché la modernità ha tentato di declinare le evidenze in maniera diversa (dando anche un contributo: penso al tema del soggetto e dei diritti ad esempio). Le evidenze sono entrate in crisi perché sono diventate pure parole, come le carte dei diritti dell’uomo: un bell’elenco. Io parlo più volentieri di libertà realizzate. Ovviamente intendo libertà nella verità. Non ho paura di usare questa parola che molti resistono a utilizzare. La verità, per me, è qualcuno che viene al nostro incontro, che muove la nostra libertà.
La verità non è un insieme di formule. Siamo in un’Europa in cui la complessità ci ha spinti a scegliere la strada della tecnocrazia e della burocrazia per trovare soluzioni. Dobbiamo invece tornare al soggetto. Se io non trovo una ragione per ripartire ogni mattina, il mio compito diventa solo un ruolo, il mio amore solo un’autoaffermazione. E il ruolo inesorabilmente decade in burocrazia e l’autoaffermazione in isolamento. Non c’è respiro. Il cristianesimo si trova nei santi e nei fedeli semplici”.

La strada, alla fine, è quella che porta alla riscoperta del soggetto, dice Scola: “Uno dei motivi del crollo delle evidenze è “mancare” la realtà. Immaginare in termini fittizi la realtà, tagliare via dei pezzi di realtà, nell’illusione di potersi meglio accomodare. Chi vuol essere l’uomo del Terzo millennio? Vuol essere un uomo capace di non lasciare cadere nulla del reale?”.