mercoledì 30 novembre 2016

Gottfried Von Leibniz, la Cina e l’I-Ching

  
Gottfried Wilhelm Leibniz nacque a Lipsia nel 1646, due anni prima della stipulazione dei trattati di Vestfalia con i quali si chiuse una delle guerre più sanguinose della storia, la Guerra dei Trent’anni. Il conflitto, iniziato nel 1618 nei territori del Sacro Romano Impero, aveva tratto origine dalla rottura dell’unità cristiana ad opera della Riforma e dal conseguente atteggiamento antiprotestante della Chiesa Cattolica, dalla crisi degli equilibri tra le potenze europee, dalla posizione centrale della Germania, dalla formazione di alleanze contrapposte dal punto di vista religioso.
Esso si sviluppò prevalentemente in Germania e Italia settentrionale[1], ma quasi tutti i paesi europei furono coinvolti. Le conseguenze per le popolazioni e la loro economia furono disastrose. La sola Germania vide ridursi la sua popolazione del 15-20%, ma secondo alcuni storici le perdite umane vanno calcolate fino a 12 milioni di morti (nella II Guerra Mondiale le perdite complessive della Germania ammontarono a circa 7,5 milioni).
I trattati di Vestfalia del 1648 chiusero sì il conflitto, ma la pace e il clima di tolleranza religiosa che ne scaturirono erano piuttosto, come scrisse poi lo stesso Leibniz, “una specie di tregua sopraggiunta per la stanchezza comune; ciò che fa temere che il fuoco coperto sotto le ceneri riprenda un giorno tutta la sua forza[2].
La città natale di Leibniz fu comunque una della meno coinvolte nella guerra. Questo fatto e il livello sociale e culturale della sua famiglia, di religione protestante (padre e nonno erano docenti di diritto), gli permisero da subito di dedicarsi agli studi, anche se inizialmente “senza direzione”, in maniera poco organizzata: studiò il latino e il greco, i classici, la storia, la poesia. A 13 anni lesse Platone, Aristotele e Plotino, e a 14 si iscrisse all’Università di Lipsia, dove si dedicò alla filosofia, e poi a Jena, per giurisprudenza e matematica. Nel 1663 pubblicò i suoi primi scritti e si immerse nello studio dei filosofi moderni, tra cui Galilei, Cartesio, Hobbes. Nel 1666 dovette scegliere tra la carriera universitaria e quella politica, e optò per quest’ultima. Presso la Corte di Magonza collaborò alla riforma del codice civile, scrisse saggi di argomento filosofico e politico e proseguì i suoi studi filosofici. Compì dei viaggi a Parigi, e qui lesse Pascal e approfondì le sue conoscenze matematiche. Si recò in diverse località dell’Europa, dove svolse una intensa ma ben poco fruttuosa azione diplomatica anche in campo religioso, lavorando per la riunificazione tra Luterani e Calvinisti e tra Cattolici e Protestanti. Si dedicò alla storia dei casati nobiliari, del diritto, delle attività missionarie cristiane in Cina e della stessa civiltà cinese. Intorno al 1684 giunse a maturazione il suo pensiero scientifico, e perfezionò il calcolo infinitesimale, giungendo alle stesse conclusioni cui era pervenuto per altre vie il suo contemporaneo Sir Isaac Newton (1642-1727), da cui fu diviso da un’aspra polemica. Negli ultimi anni di vita Leibniz perse sempre più il favore dei suoi protettori e gli venne addirittura impedito di muoversi da Hannover, dove infine morì nel 1716, ormai dimenticato da tutti, lasciando una grande quantità di scritti filosofici, privi però di organicità e sistematicità.

La filosofia di Leibniz si fondò sulla critica dei limiti delle concezioni meccaniciste allora dominanti, in particolare del pensiero di Cartesio. I principi matematici su cui si reggeva il meccanicismo non erano sufficienti a spiegare la realtà fisica, per cui secondo Leibniz era necessario rivolgersi nuovamente alla metafisica. Egli stesso scrisse nel 1714: “quando cercai le ragioni ultime del meccanicismo e delle stesse leggi del movimento fui sorpreso nel vedere che era impossibile trovarle nelle matematiche e che bisognava tornare alla metafisica[3]. Dopo aver operato la distinzione tra sostanza spirituale e sostanza materiale (entrambe create), Cartesio aveva affermato che l’attribuito principale della prima era il pensiero, della seconda l’estensione: lunghezza, larghezza e profondità costituiscono quindi la natura essenziale della sostanza corporea. Gli aspetti qualitativi esistono solo in chi li percepisce. Proprio queste conclusioni parvero inaccettabili a Leibniz, il quale scrisse infatti che “per rendere ragione delle leggi di natura che l’esperienza ci fa conoscere mi accorsi che non basta conoscere unicamente una massa estesa, ma occorre impiegare anche il concetto della forza, che è intellegibilissimo, benché appartenga al dominio della metafisica[4]. L’estensione era per lui solo un aggregato di parti, divisibili all’infinito, ma che presuppone delle unità non estese, senza le quali negli aggregati non esisterebbe nulla di reale e di sostanziale. Doveva esistere, al di là del mondo fisico dei fenomeni, una realtà meta-fisica, nella quale trovare le ragioni ultime dei fenomeni naturali.
Da queste riflessioni nacque la dottrina delle monadi, per la quale Leibniz è tuttora noto nella storia della filosofia. Le monadi, termine greco (da μονάς, monas, ciò che è semplice, indivisibile) che indica l’unità, sono sostanze semplici, ovvero senza parti, che formano i composti. Sinonimi di monade sono gli spiriti, le anime, le vite, nelle quali non c’è estensione né divisibilità. Sono quindi “assai differenti dagli atomi della filosofia atomistica, i quali, pur essendo fisicamente indivisibili, sono pur sempre estesi e quindi divisibili almeno in linea di principio[5]. Le monadi, non essendo composte di parti, non possono né cominciare né finire naturalmente, ma solo iniziare per creazione e finire per annientamento. Ugualmente non possono vicendevolmente modificarsi, cosa che richiederebbe un passaggio di parti dall’una all’altra. Tutto ciò che avviene in esse avviene secondo quanto stabilito da Dio.
Le monadi sono però diverse l’una dall’altra, il che spiega le differenze tra i fenomeni composti, e sono capaci di percezione e di appetizione: ognuna di esse si rappresenta l’intero universo (percezione), e tende ad una rappresentazione sempre più perfetta di esso (appetizione). Sono pertanto capaci di azione, anzi di un agire finalistico.
Tra le monadi esiste anche una sorta di “gerarchia”, a seconda del grado di “consapevolezza” e di acutezza delle loro percezioni; nasce di qui la differenza tra gli esseri inorganici, il mondo organico vegetale, quello animale e quello umano.
Tutto questo costituisce il vero fondamento dell’universo, dei fenomeni fisici.
Ma se tra le monadi non esiste un vero influsso reciproco, che relazione intercorre tra di loro?
Leibniz trovò la risposta nell’opera creatrice di Dio, il quale ha fatto sì che esse interagiscano come gli ingranaggi di un orologio perfettamente regolato. Il mondo è quindi il frutto di una armonia prestabilita tra le parti, come avviene ad esempio nel rapporto tra il corpo e l’anima.
A partire dalla teoria delle monadi, Leibniz costruì una visione ottimistica del creato, giungendo a dare risposte per lui soddisfacenti ai problemi della libertà dell’uomo, della presenza del male nel mondo e della giustizia di Dio (teodicea).
Nell’atto della creazione di ogni singola monade, Dio, Monade suprema che ha in se stessa la ragione della sua esistenza, ha agito tenendo conto di tutte le altre monadi, prestabilendo la loro reciproca armonia. In Dio si trovano tutte le possibilità, ovvero “il dominio infinito di tutto ciò che, essendo possibile, passerà all’esistenza effettiva come di tutto ciò che, pur essendo possibile, non passerà mai all’esistenza effettiva[6]. Tutti i mondi possibili si pongono davanti a Dio secondo diversi gradi di perfezione, e alla sommità c’è il migliore di tutti. Dio è determinato dalla sua natura (che è bontà e saggezza) a scegliere il meglio, e pertanto il mondo da lui creato è il migliore dei mondi possibili (quindi, non il migliore in assoluto)[7]. Dio è libero nella scelta, ma libertà non significa assoluta assenza di determinazioni, significa invece che ciò che determina è il bene percepito dall’intelletto. Ciò vale anche per l’uomo, che è libero in modo analogo a Dio, ma che non sempre agisce in base alla ragione, e sbaglia nel giudicare ciò che è buono o meno. Agire liberamente significa quindi agire non come si vuole, arbitrariamente, bensì agire realizzando la propria natura.
Quanto alla presenza del male nel mondo, Leibniz operò una distinzione tra male metafisico, morale e fisico. Dio non è causa del male metafisico, il quale è la “limitazione originaria che la natura non ha potuto fare a meno di ricevere con il cominciamento del suo primo esistere…Dio infatti non poteva darle tutto senza farne un Dio[8]. Il male metafisico è quindi una assenza, una privazione, non una realtà positiva creata da Dio.
Il male morale (il peccato) è originato dalla limitazione propria di ogni creatura, che è soggetta ad errore, a valutazioni sbagliate.
Il male fisico consegue infine dai precedenti: è conseguenza etica del peccato e conseguenza materiale dei limiti delle creature.
Quanto precede non risolve ovviamente il problema della teodicea, se si pensa ad un Dio buono, giusto e onnipotente. E Leibniz escogitò una ulteriore soluzione ipotizzando che Dio vuole il meglio e per questo ha creato il male morale quale condizione senza la quale non si potrebbe ottenere il meglio. In tal modo, oggetto della volontà divina continua ad essere il migliore dei mondi, e non il male. L’alternativa sarebbe necessariamente un mondo peggiore…

Leibniz e l’Oriente

In un famoso libro del 1975, Il Tao della fisica, Fritjof Capra, fisico americano e studioso delle interrelazioni tra scienza moderna e filosofie orientali, scrisse che la teoria della monade quale sostanza fondamentale del cosmo e specchio dell’universo avrebbe portato Leibniz “ad una concezione della materia che presenta analogie con quella del buddhismo Mahayana[9]. Ipotizzò quindi un reale influsso del Buddhismo sul filosofo tedesco, basandosi sul fatto che Leibniz aveva conosciuto il pensiero cinese – e quindi anche il Buddhismo di quel paese – attraverso le relazioni e le traduzioni di testi ad opera dei missionari gesuiti in Cina. Le somiglianze tra la teoria delle monadi e la parabola della rete di Indra costituirebbe una prova di tale influenza: si tratta di una metafora che è contenuta nell’Avatamsaka Sutra, un antico testo buddhista, che “concepisce l’universo come un’enorme rete che si estende all’infinito in ogni direzione, proteggendo e accudendo la vita nella sua interezza, senza escludere nulla. Al punto di intersezione di ciascun nodo della rete c’è una lucente gemma, sfaccettata e riflettente. Grazie alle sue molte facce, ciascuna gemma riflette ogni altra, generando una vasta rete di sostegno di tutta l’esistenza[10]. Secondo Capra le gemme della rete sarebbero quindi paragonabili alle monadi.
Ma in realtà le due concezioni sono molto diverse tra loro, sono anzi antitetiche: la monade è un elemento reale, a sé stante, indipendente, creato, e costituisce il fondamento dei fenomeni. Ma il Buddhismo esclude esplicitamente ogni idea di sostanza fondamentale, e vede i fenomeni come vuoti, cioè privi di esistenza intrinseca. Le monadi sono poi “prive di finestre”, secondo l’espressione dello stesso Leibniz, non interagiscono tra loro, mentre i fenomeni, nell’ottica buddhista, sono tra loro interdipendenti, proprio perché vuoti. Per non parlare poi dell’idea di un dio creatore, di una causa prima che non è effetto di una precedente causa, rifiutata da tutte le scuole buddhiste. È quindi da escludere l’ipotesi di una influenza diretta del Buddhismo sul pensiero di Leibniz, ed anche le eventuali analogie, per quanto suggestive, nascono da una lettura superficiale sia della sua teoria sia degli insegnamenti buddhisti[11]. Ancor più radicalmente si esprime l’orientalista Icilio Vecchiotti, secondo cui in Leibniz “non c’è [..] nulla di cinese[12].

È invece assodato che Leibniz studiò la cultura cinese, ed effettivamente lo fece attraverso le traduzioni dei testi classici e le relazioni inviate in Occidente dai missionari gesuiti. I Gesuiti erano giunti in Cina già dal 1582, partendo dalla colonia portoghese di Goa, sul Mare Arabico. Non si limitarono a fare opera di proselitismo, bensì contribuirono a far conoscere in Europa la cultura cinese, dando origine ad un periodo di veri scambi culturali. Il primo ad ottenere il permesso di entrare in Cina fu Matteo Ricci, che nel 1601 si stabilì nella capitale e studiò la lingua e la cultura cinese. Col tempo, i Gesuiti acquisirono un grande prestigio, grazie alle loro competenze anche di tipo scientifico e alla loro abilità diplomatica, al punto che l’Editto di Tolleranza del 1692 autorizzò le conversioni al Cristianesimo, le predicazioni e la costruzione di chiese. Dai primi decenni del XVIII secolo l’interesse dei Cinesi per il Cristianesimo e per i missionari iniziò però a declinare, ed essi furono anche oggetto di persecuzioni. Nel frattempo, i Gesuiti iniziarono ad essere malvisti anche in Occidente soprattutto per il potere che detenevano, ma anche perché considerati “lassisti” dai Domenicani e dai Francescani per il loro atteggiamento tollerante nei confronti delle usanze cinesi (il culto del Cielo e degli Antenati, l’uso di nomi ed abiti locali…)[13]. Fino a che nel 1773 il Papa Clemente XIV soppresse la Compagnia di Gesù, che fu ricostituita solo nel 1814.
Come già detto, gli scritti dei Gesuiti in Cina ebbero grande risonanza in Europa, e ne influenzarono la cultura e l’arte: nascerà di qui la moda delle chinoiseries, caratterizzata dall’utilizzo di immagini ed elementi decorativi ispirati ad una Cina più immaginata che realmente conosciuta. Anche lo stile Rococò, tarda evoluzione del Barocco, trasse in parte le sue origini da ciò che i Gesuiti trasmettevano dall’Oriente ad una Europa assetata di novità. Leibniz non restò immune dal fascino della Cina, anche se come si è visto la sua filosofia delle monadi e la sua teodicea non devono nulla alla filosofia cinese.
Ma non fu così per quanto concerne i suoi interessi per la matematica, un campo in cui il contributo di Leibniz fu ben più rilevante rispetto alla metafisica. Si è già detto dei suoi studi sul calcolo infinitesimale, ma già nel 1673 aveva presentato alla Royal Society di Londra il progetto della prima calcolatrice meccanica in grado di eseguire moltiplicazioni e divisioni.
In un suo breve manoscritto del 1679 si trova lo schema della rappresentazione dei primi cento numeri in base 2, insieme col metodo per passare dal sistema decimale a quello binario e viceversa e per effettuare operazioni con quest’ultimo. Fu così in grado di progettare una calcolatrice basata sul sistema binario, con valori 1 e 0, introdotto anche da Juan Caramuel, matematico spagnolo del 1600. Un’idea che verrà sviluppata appieno solo con la nascita dei calcolatori.
Gli interessi di Leibniz per la matematica vennero poi in parte accantonati, ma mai abbandonati. In una sua lettera del 1697, con cui proponeva la coniazione di una medaglia per celebrare le sue stesse scoperte, paragonò l’armonia del sistema binario a quella della creazione divina dell’universo:
Perché uno dei punti principali della Fede Cristiana [..] è la creazione di tutte le cose dal nulla attraverso l’onnipotenza di Dio; bisogna dire che non c’è una migliore analogia, o anche una dimostrazione di tale creazione, dell’origine dei numeri come qui è rappresentata, usando solo l’unità e lo zero, o il nulla. E sarebbe difficile trovare una migliore illustrazione di questo segreto nella natura o nella filosofia [..].
Non è meno degno di nota che vi compare non solo che Dio creò tutto dal niente, ma anche che il tutto che Egli fece era buono; come possiamo vedere qui, con i nostri occhi, in questa immagine della creazione. Perché invece di non apparire alcun ordine o struttura, come nella comune rappresentazione dei numeri, qui al contrario sono manifesti un ordine e un’armonia meravigliosi, che non possono essere superati. Dato che la regola dell’alternanza fornisce quella della continuazione, così che si può scrivere quanto si vuole senza calcolo o con l’aiuto della memoria, se si alterna all’ultimo posto 0, 1, 0 ,1, 0, 1, ecc., mettendoli uno sotto l’altro; e poi mettendo uno sotto l’altro al secondo posto (da destra) 0, 0, 1, 1, 0 ,0, 1, 1, ecc.; nel terzo 0, 0, 0, 0, 1, 1, 1, 1, 0 ,0, 0, 0, 1, 1, 1, 1, ecc.; nel quarto 0, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 1, e così via. Il periodo o ciclo di cambiamento aumenta così per ogni nuovo posto[14].
Scrisse inoltre: “Sto corrispondendo con il Gesuita Padre Grimaldi, che si trova attualmente in Cina, ed è anche colà presidente del Tribunale Matematico [..]. Siccome mi aveva detto che il monarca di questo potente impero era un amante dell’aritmetica e che ha imparato a far di calcolo nella maniera europea dal Padre Verbiest, il predecessore di Grimaldi, ho giudicato appropriato comunicargli queste rappresentazioni numeriche, nella speranza che questa immagine del segreto della creazione potesse servire a mostrargli ancor di più l’eccellenza della fede cristiana[15].
Infatti nel 1689 durante un viaggio a Roma Leibniz aveva stretto amicizia con il missionario Padre Grimaldi. Da quella amicizia nacque il suo interesse per la Cina, che lo portò poi a scrivere il libro Novissima sinica (Le ultime novità della Cina, del 1697); ma soprattutto grazie al Gesuita conobbe una delle opere fondamentali di quella cultura, l’I-Ching, il Libro dei Mutamenti, opera del mitico imperatore Fu Xi, che sarebbe vissuto tra il 2952 e il 2836 a.C.
Sono date attribuibili più al mito che alla storia, ma si tratta comunque del testo più antico nella storia della filosofia cinese e non solo, nel quale sono espressi i principi cosmologici che sottostanno al Diagramma del Fondamento Supremo, il T’ai Chi T’u, ormai universalmente conosciuto, e spesso semplicemente chiamato “il Tao”, o “Yin e Yang”:


 L’I-Ching (traslitterato anche con I-King) era in origine un testo oracolare, una raccolta di segni utilizzati come oracoli dagli uomini di Stato, che risale certamente ad oltre 3000 anni or sono (già nel 1143 a.C. l’imperatore Wen ne scrisse un commento). Nel tempo acquisì sempre maggiore importanza anche e soprattutto dal punto di vista filosofico-religioso, e divenne oggetto di studi e di commentari da parte dei più grandi maestri di tutte le scuole di pensiero, taoiste e confuciane, a partire da Lao-tzu e Confucio stessi.
Fino ad essere studiato e commentato in tempi recenti (1948) da Carl Gustav Jung, che scrisse la prefazione all’edizione inglese dell’opera[16].
In verità, nell’I-Ching non compare il diagramma del T’ai Chi T’u, ma in una appendice, aggiunta al più antico testo base, è detto:
Per questo vi è nei mutamenti il grande inizio primordiale [il T’ai Chi]. Questi genera le due forze fondamentali. Le due forze fondamentali generano le quattro immagini. Le quattro immagini generano gli otto segni[17].
Si tratta del processo, descritto nel Tao te ching, per cui il T’ai Chi genera le due polarità, che saranno poi chiamate yang e yin e che nell’I-Ching sono rappresentate da due linee, una intera e una spezzata.
Per raddoppiamento ne nascono le Quattro Immagini (associate alle stagioni) e, con l’aggiunta di una terza linea, gli Otto Segni (trigrammi), associati ad otto “elementi”. Questi non sono concepiti come “cose” definite, ma come “stati” transitori di ciò che accade in cielo e in terra: così, l’interazione tra le energie rappresentate dagli otto trigrammi dà luogo all’intero mondo fenomenico, le Diecimila Cose: gli otto segni si ampliano nei 64 esagrammi (2 x 4 x 8), che nell’I-Ching vengono raccolti e affiancati da altrettante “sentenze”, da “immagini” e da dettagliati commentari che interpretano ogni esagramma ed ogni singola linea che lo compone, in base alla loro reciproca relazione, alla posizione all’interno del segno, alle loro qualità ecc.


 Mentre i trigrammi rappresentano concetti, condizioni, cose, gli esagrammi introducono “il rapporto e l’interazione tra questi stessi concetti, condizioni e cose, nonché le loro mutue e reciproche reazioni, simboleggiando l’interazione dell’intero mondo manifesto nei suoi poteri di attrazione e repulsione[18].


  
Come si vede, l’idea fondamentale che sottostà all’I-Ching è quella del mutamento, della trasformazione vicendevole delle due forze fondamentali, yin e yang, l’una nell’altra. Il titolo stesso dell’opera rende esplicita tale visione: I (o yi), come aggettivo, indica ciò che è facile, agevole; come nome, esprime il processo del mutamento: “non v’è niente di più facile del mutamento, in quanto esso è inscritto nell’ordine naturale delle cose: un essere vivente non è mai definito o definitivo, ma contiene già in sé il principio della propria trasformazione[19].
Infatti, anche gli esagrammi non sono entità statiche, definitive. Ognuno di essi, attraverso la trasformazione di una linea in quella opposta, può (si badi: può, non deve) mutarsi in un altro, ma in maniera né casuale né deterministica, bensì in base al valore numerico delle linee.
Ad esempio, l’esagramma Kkunn, il Ricettivo, la Terra, il tardo autunno, attraverso il mutamento della linea inferiore, si trasforma nell’esagramma Fu, il Ritorno, il tuono, il moto che inizia nella terra dopo il solstizio invernale, il ritorno della luce:



Nonostante tutto, Leibniz non mise subito in relazione il suo sistema binario con la logica combinatoria dell’I-Ching, basata come si è visto su due simboli, una linea retta ed una spezzata. Ma grazie a padre Grimaldi conobbe altri missionari gesuiti, fino a che uno di loro, il francese Joachim Bouvet (1656-1730), con una lettera del 1701 (ricevuta nel 1703) gli inviò una riproduzione quadrata e circolare degli esagrammi:


  
Osservando l’immagine, Leibniz intuì finalmente il possibile rapporto tra il sistema binario e l’I-Ching, e scrisse subito una dissertazione intitolata Explication de l’arithmétique binaire, qui se sert des seuls caractères 0 et 1, avec des remarques sur son utilité, et sur qu’elle donne le sens des anciennes figures chinoises de Fohy (Fu Xi).
Vi si legge: “Ciò che vi è di sorprendente in questo calcolo, è che questa Aritmetica per 0 e 1 si trova a contenere il mistero delle linee d’un antico Re e Filosofo chiamato Fohy, che si crede sia vissuto più di quattromila anni fa, e che i Cinesi considerano come il Fondatore del loro Impero e delle loro scienze. Ci sono diversi figure lineari che gli si attribuiscono. Tutte si trovano in questa aritmetica, ma è sufficiente mostrare qui le Figure degli Otto Cova [kua, i trigrammi], come sono chiamati, che sono considerati fondamentali, e di aggiunger loro la spiegazione che è manifesta una volta che si noti in primo luogo che una linea intera  ──  significa l’unità o 1, e poi che una linea spezzata   ─ significa lo zero o 0”.
Nel suo testo “Leibniz accosta gli otto trigrammi fondamentali ai primi otto numeri binari (da 0 a 7), sostituendo la linea spezzata Yin con lo 0 e la linea continua Yang con l’1 e leggendo i trigrammi dal basso verso l’alto. Combinando questi 8 trigrammi, si ottengono i 64 esagrammi che costituiscono il sistema completo dell’I-Ching”:


  
Tuttavia secondo il filosofo tedesco “i Cinesi hanno perduto il significato dei Cova o linee di Fohy, forse da più di un millennio, e hanno scritto dei commentari su di essi, dove hanno cercato non so quali significati reconditi. C’è voluto che la vera spiegazione ora venisse loro dagli Europei[20].
Leibniz non era affatto interessato, come si nota, ad una interpretazione divinatoria o mistica degli esagrammi. Anzi secondo lui dovrà essere la lettura che ne fa la cultura europea a spiegare ai Cinesi il loro autentico significato! Il suo sogno è invece quello di poter integrare i simboli matematici, gli esagrammi dell’I-Ching, gli ideogrammi della lingua cinese, gli elementi delle antiche lingue egizie ed ebraiche, in un unico sistema non solo matematico ma filosofico, per risolvere uno dei problemi che più assillavano molti pensatori dell’epoca: il problema del linguaggio, inteso non solo come mezzo di comunicazione, ma soprattutto per “il ruolo che esso svolge nel processo conoscitivo e nel ragionamento[21], in quanto strumento che ci permette di memorizzare e ordinare le conoscenze, nonché di parlare di qualcosa senza ri-definirla ogni volta. È il progetto, perseguito invano da Leibniz per tutta la vita, di costruire una lingua generale, un instrumentum rationis costituito da elementi primi indivisibili, cui assegnare dei segni da usare secondo valide regole combinatorie, capaci di dimostrare ogni verità e di scoprirne delle nuove. È il sogno del ritorno a ciò che la Torre di Babele aveva fatto perdere all’uomo, il ritorno alla lingua di Adamo, una lingua unica che esprimeva una conoscenza perfetta delle cose: “Il Signore Iddio formò dalla terra tutti gli animali e tutti gli uccelli del cielo e li condusse ad Adamo per vedere con quale nome li avrebbe chiamati, poiché il nome che egli avrebbe loro imposto sarebbe stato il loro nome[22].





[1] Nella Guerra dei Trent’anni si innestò anche la guerra di successione di Mantova e del Monferrato, detta anche guerra del Monferrato (1628-1631), che costò all’Italia un milione di morti, e che fece da sfondo alle vicende de I Promessi Sposi di Manzoni
[2] Cit. da L. Perissinotto, Leibniz, in: E. Severino (a cura di), Filosofia, Ed. Curcio, pag. 837
[3] Id., pag. 818
[4] Id.
[5] Id., pag. 820
[6] Id., pag. 830
[7]Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”. Genesi, 1,31
[8] Cit. in Leibniz, pag. 832
[9] F. Capra, Il Tao della fisica, Ed. Adelphi, pag. 345
[10] D. Eshin Rizzetto, Svegliati a ciò che fai, Ed. Ubaldini, pag. 32
[11] Di queste difficoltà lo stesso F. Capra è ben consapevole. Cfr. pag. 346
[12] I. Vecchiotti, Che cosa è la filosofia cinese, Ed. Ubaldini, pag. 9
[13] La cosiddetta querelle dei riti
[14] Citazione tratta dal blog: http://keespopinga.blogspot.it/2014/03/leibniz-il-sistema-binario-e-la-cina.html
[15] Id.
[16] V. l’edizione italiana basata sulla versione tedesca del 1923 di R. Wilhelm, in: B. Veneziani e A.G. Ferrara (a cura di), I-King, Ed. Astrolabio.
[17] I-King, pag. 583
[18] J.C. Cooper, Yin e Yang. L’armonia taoista degli opposti, Ed. Ubaldini, pag. 57
[19] A. Cheng, Storia del pensiero cinese, Ed. Einaudi, vol. I, pag. 277
[20] Tutte le citazioni sono tratte da: http://keespopinga.blogspot.it/2014/03/leibniz-il-sistema-binario-e-la-cina.html
[21] L. Perissinotto, pag. 833
[22] Genesi, 2, 19-20.

giovedì 17 novembre 2016

La filosofia classica antica e l'Oriente


    Già un migliaio di anni prima di Cristo, durante il regno ebraico di Salomone, i contatti tra il mondo mediterraneo e il sub-continente indiano erano relativamente frequenti e costanti, grazie a mercanti, navigatori, soldati, esploratori, ambasciatori. Inoltre, già nel V sec. a.C. esistevano in India importanti colonie greche. Nei Vishnu Purana[1] è detto che “a est di Bharata [l’India] vivono i Kirata e a ovest gli Yavana” chiamati Yona dalla letteratura buddhista. Il che dimostra che i Greci erano ben conosciuti nell’India del V - VI sec. a.C.
I termini che designano i Greci dell’India, Yona e Yavana, derivano direttamente dal nome Ioni, con cui venivano chiamati i Greci che abitavano le coste e le isole dell’Asia Minore (l’attuale sponda egea della Turchia).
Dal punto di vista occidentale, è poi vero ciò che afferma lo studioso tedesco Helmuth Von Glasenapp, secondo il quale “in Occidente i primi ad avere cognizione della filosofia indiana furono i greci[2].
Il primo a “delineare l’India come precisa entità geografica[3] fu il greco Scilace di Carianda, che nel VI sec. a.C. – il periodo in cui visse forse il Buddha Shakyamuni – compì un viaggio fino alla foce dell’Indo per conto del re di Persia Dario I. Nella sua opera intitolata Periplo usò per la prima volta la parola India, dal nome sanscrito del fiume, Sindhu.
L’autore che ci consente di capire con maggior precisione che cosa i Greci effettivamente sapessero dell’India è però lo storico Erodoto (V sec. a.C.), che fornì informazioni di probabile fonte persiana intorno alle tradizioni religiose degli Indiani, fino ad allora sconosciute: essi “non uccidono alcun essere vivente, non coltivano piante, non esiste la proprietà privata, si nutrono solo di leguminacee cotte e non si danno cura di chi di loro cada ammalato o morto. Nulla di quanto qui scrive pare esagerato né inesatto: lo storico si riferisce proprio ai sādhu, gli asceti indù[4].
Anche Ctesia di Cnido scrisse intorno all’India a partire dal 397 a.C., dopo essere stato medico personale di Artaserse II, e descrisse vari fenomeni fantastici, tra cui la formazione di un “siero della verità” che avviene a primavera, condensandosi dalla rugiada. Un’interpretazione simbolica del siero potrebbe rimandare al soma, la bevanda dell’immortalità della tradizione indù, utilizzata nei cerimoniali vedici ma mai identificata con certezza[5].
Quanto alla filosofia, si dice che Platone avrebbe progettato un viaggio in India mai realizzatosi, mentre invece Democrito vi si sarebbe effettivamente recato…ma si tratta di voci quasi certamente prive di valore storico, anche se cercano di dare un fondamento concreto a reali influenze culturali.
Più degna di fede è la notizia dell’incontro tra Socrate e un saggio indiano: “il filosofo ateniese, interrogato sulla materia della sua ricerca, avrebbe risposto che il suo compito consisteva nell’investigazione dell’umano. A questa risposta risuonava la fredda replica dell’indiano: Ma nessuno è capace di capire l’umano senza conoscere il divino[6]. Un evento forse mai accaduto, ma comunque significativo.
Anche di Pitagora diversi autori (Erodoto, Apuleio, Clemente Alessandrino) dicono che si sia recato in India, e sebbene il fatto non abbia serie basi storiche il motivo di questa voce è evidente, e lo si ritrova proprio in un aspetto fondamentale del pensiero del filosofo di Samo (570-495 a.C.~): la dottrina della metempsicosi, la cui diffusione in India era ben nota tra i Greci.
Pitagora poneva a fondamento della propria scuola (che era insieme filosofica, religiosa e politica) una visione dell’uomo e del mondo molto simile a quella di varie tradizioni indiane.
Secondo Pitagora – che molto probabilmente, come il Buddha, Socrate e Cristo non scrisse mai nulla – l’anima sopravvive dopo la morte del corpo, e trasmigra continuamente in altri corpi: in questo senso si parla quindi di metempsicosi, termine composto da μετα (meta, preposizione che indica passaggio) + εν (en, dentro) + ψυχη (psyke, anima, soffio vitale)[7]. Il corpo è per l’anima una prigione, di cui essa ha bisogno per provare sensazioni. Ma al di fuori del corpo l’anima vive in un mondo superiore, al quale accede dopo la morte solo se si è purificata durante la vita corporea. La catena delle trasmigrazioni cessa quindi solo dopo la purificazione dell’anima stessa, che per i pitagorici era il frutto dell’attività teoretica e non, come per altre sette simili, il risultato di riti e pratiche propiziatorie[8].
La filosofia di Pitagora era quindi una vera e propria disciplina spirituale, basata sulla non-violenza, sulla rinuncia, su una alimentazione vegetariana[9], e sostenuta altresì da una comunità di persone motivate dalle stesse finalità. I suoi discepoli erano divisi, come in molte comunità spirituali indiane, tra gli “acusmatici”, cioè gli ascoltatori (non si può non pensare agli śrāvaka del Buddhismo) e i “matematici”, che erano ammessi agli insegnamenti più profondi. Gli insegnamenti erano infatti di ordine essoterico, ovvero rivolti a tutti, oppure esoterico, destinati invece alla cerchia degli iniziati. Pitagora era quindi molto simile ad un guru, il maestro spirituale delle tradizioni indiane.
Una tradizione del I sec. a.C. sosteneva che “i cinque principali indirizzi filosofici che per primi fecero la loro comparsa in Grecia sarebbero delle semplici variazioni delle culture dei cinque principali popoli orientali[10], secondo questo schema: il sistema pitagorico sarebbe nato dalla sapienza cinese, il sistema parmenideo da quella indiana, l’eracliteo da quella persiana, la scuola di Empedocle da quella egiziana, la filosofia di Anassagora dal giudaismo. Tale interpretazione è sicuramente superata, anche perché non renderebbe conto delle peculiarità della filosofia greca rispetto a quella orientale e non terrebbe nemmeno in considerazione le profonde differenze esistenti tra le scuole delle diverse regioni citate (Egitto, India, Cina, Persia ecc., nonché all’interno di ogni singola cultura). È però indiscutibile la derivazione orientale di alcune specifiche dottrine, come nel caso sopra esposto dell’interpretazione pitagorica della filosofia come soteriologia, come via di salvezza e liberazione, e della dottrina della metempsicosi.
Una dottrina che fu successivamente lodata e ripresa da Platone (428-348 a.C.~) ad esempio quando nel dialogo Fedone parla delle anime non purificate, distaccatesi dal corpo “contaminate e immonde” in quanto rimaste sempre “unite e asservite ad esso e di esso innamorate”. Queste anime, dice Platone per bocca di Socrate, “sono costrette ad andare errando attorno a questi luoghi [sepolcri e monumenti funebri], scontando la pena della loro passata esistenza malvagia. E se ne vanno errabonde fino al momento in cui, per il desiderio di quell'elemento corporeo che tien dietro a loro, non vengano legate di nuovo ad un corpo [..].
Ecco qualche esempio: quelle che si abbandonarono ai piaceri dell'ingordigia e alle dissolutezze e alle ubriachezze e non ebbero alcun ritegno, è verosimile che entrino in forme di asini e di altre bestie del genere [..].
Invece, quelle che preferirono ingiustizie, tirannidi e rapine, è verosimile che entrino in forme di lupi, avvoltoi o nibbi [..].
E, anche per le altre anime, non è chiaro dove ciascuna di esse debba andare, secondo la somiglianza delle abitudini che ebbe nella sua vita? [..]
E allora, non saranno forse i più felici e non andranno nei luoghi migliori coloro che praticarono la virtù civile e politica, quella che chiamano temperanza e giustizia, quella che nasce dal costume e dall'esercizio, senza filosofia e senza conoscenza? [..]
È probabile che costoro trapassino in un genere di animali socievoli e mansueti come loro, per esempio in api, in vespe o in formiche, oppure anche, di nuovo, nel genere umano, e che si rigenerino da costoro uomini probi[11].

Alessandro
Nel 327 a.C. iniziò una nuova fase nella quale i rapporti fra oriente e occidente e le conoscenze del mondo indiano ebbero un considerevole incremento: la spedizione del più grande conquistatore di tutti i tempi avvicinò questi due mondi come prima non si sarebbe mai creduto possibile[12].
Alessandro, figlio di Filippo II, sovrano del regno greco di Macedonia, intraprese infatti una grande spedizione verso oriente, con l’intento di conquistare il mondo, fondando un impero insieme militare e culturale. A tal fine c’erano con lui, oltre ad un esercito di 40.000 uomini, anche numerosi scienziati, storici e filosofi.

Ma ancor prima di Alessandro, si dice che anche il dio Dioniso (Bacco per i Romani) abbia compiuto una spedizione in India, intorno alla quale scrisse Arriano (II sec. d.C.). Ivi egli fondò città e diede loro delle leggi; fece dono agli Indiani del vino, come aveva fatto con i Greci; insegnò a seminare e ad arare la terra con i buoi. “Insegnò loro a venerare diversi dèi e in particolare lui stesso suonando cembali e timpani; fece loro imparare la danza dei Satiri[13], il kordax; mostrò come farsi crescere i capelli in onore della divinità…
Dioniso era il dio al centro del culto chiamato Orfismo (da Orfeo, sacerdote del culto stesso). Non era una divinità originaria della Grecia, bensì della Tracia (tra le attuali Grecia, Bulgaria e Turchia Europea). Era quindi estraneo al pantheon dell’aristocrazia greca, ma molto più vicino alle classi popolari, il che spiega le sue caratteristiche “democratiche” e libertarie.
Orfeo e gli animali
Centrale nell’Orfismo – che sta probabilmente alla base delle concezioni pitagoriche – è la concezione della necessità per l’uomo di trasmigrare da un corpo ad un altro (non necessariamente umano), fino a raggiungere la perfezione spirituale. Il corpo è una sorta di prigione in cui l’anima è racchiusa a causa delle sue colpe, ma è anche ciò che le permette di evolversi. La via della salvezza non consiste in una astratta contemplazione del divino, ma negli slanci frenetici, fisici e spirituali, che preparano l’unione effettiva col dio. L’Orfismo ha addolcito gli aspetti più estremi di altre forme del culto dionisiaco, ha sostituito le danze orgiastiche e l’uso rituale del vino e della carne con offerte di vegetali e di incenso e con danze e canti liturgici.
Questi aspetti più o meno estremi del culto dionisiaco hanno permesso ad alcuni studiosi di collegare la figura di Dioniso a quella del dio indiano Śiva e al culto śivaita, fino a far parlare di Dioniso come di uno Śiva occidentale[14]. In effetti sono déi accomunati da infiniti elementi: le sembianze fisiche, i capelli lunghi, l’abbigliamento “selvaggio” o la completa nudità, l’uso rituale di sostanze inebrianti, l’utilizzo di strumenti musicali, soprattutto a percussione, per raggiungere stati di trance mistica e, non ultima, una sessualità vissuta con finalità di ordine spirituale. Dioniso e Śiva rappresentano le energie naturali, sono déi della natura: mostrano all’uomo i metodi per conoscere se stesso (Śiva è il Signore dello Yoga) e per comunicare con tutti gli esseri viventi: gli animali, anche i più feroci, ascoltano rapiti e pacificati la musica del sacerdote dionisiaco Orfeo, e quanto a Śiva, egli è detto Paśupati, Signore degli animali.
Dioniso, si è detto, ha insegnato agli Indiani la danza sacra dei Satiri[15] che porta all’unione col dio. E Śiva è anche Nataraja, il Signore della danza, manifestazione dell’energia ritmica primordiale da cui Tutto ha origine.
Molti secoli dopo, in Germania, Friedrich Nietzsche scriverà: “Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare”.

  
Tornando ad Alessandro e alla sua spedizione, dopo lunghe marce e battaglie raggiunse l’attuale Kandahar, oggi in Afghanistan. Entrò poi nella valle di Kabul e qui fondò insediamenti greci che, molto tempo dopo, avrebbero avuto profonda influenza nella storia del subcontinente indiano. Ricevette anche la visita di un giovane rifugiato dal regno di Magadha, nel nord-ovest dell’India, vicino al regno della dinastia Shakya, che dette i natali a Siddhartha Gautama, il Buddha. Il nome del giovane era, pronunciato alla greca, Sandrokottos, ma si trattava di Chandragupta, il futuro fondatore dell’impero Maurya.

Un interessante aneddoto narra che il figlio di Chandragupta, Amitrocate (Amitraghàta, meglio conosciuto come Bindusàra, 320-272 a.C.~) pregò Antioco Sotèr, sovrano di un regno dell’Asia Minore, di mandargli vino dolce, fichi secchi e un sofista greco. An­tioco gli rispose però che avrebbe dovuto rinunciare a quest'ultimo perché, secondo la legge greca, non era permesso vendere sofisti. Il che dimostra che in India si aveva qualche nozione di filosofia greca…

Alessandro e i gimnosofisti
L’esercito di Alessandro attraversò poi l’Indo su un ponte di barche e giunse a Taxila, grande centro commerciale dove convivevano le tre grandi tradizioni spirituali dell’India dell’epoca: Brahmanesimo, Buddhismo, Jainismo. Lì il re incontrò i gimnosofisti (da gymnòs, nudo; quindi i sapienti nudi): asceti di diverse scuole, che avevano rinunciato al mondo per ricercare la liberazione, monaci, yogi, śramana. Cercò di convincere uno di loro, Dandamo, a seguirlo insieme al gruppo dei filosofi greci, ma questi rifiutò dicendo al grande re: “Perché hai viaggiato tanto? Io ho tanta terra quanta ne hai tu o chiunque altro. Anche se possiedi tutti i fiumi, non puoi bere più di me. Apprendi da me questa saggezza: non desiderare nulla e tutto sarà tuo.” Alessandro non fu fermato da queste parole, ma il filosofo Pirrone, che era con lui, ne rimase certamente colpito: quando tornò in Grecia fondò infatti la prima scuola degli Scettici (da sképsis, indagine), nella quale si ritrovano alcuni punti di contatto con la spiritualità indiana: ad esempio, il raggiungimento della pace interiore attraverso la sospensione di ogni giudizio, il rifiuto di ogni dottrina, la in/differenza nei confronti di ogni cosa (atarassìa).
Alessandro non penetrò nell’India come la intendiamo oggi, non giunse nemmeno alla pianura del Gange, ma si fermò nel Punjab e di lì iniziò il viaggio di ritorno, in quanto il suo esercito si era molto indebolito. Ma non rivide più la Grecia: infatti morì a Babilonia nel 323 a.C., a 33 anni. Qualche tempo prima, l’asceta jaina Calano (il “virtuoso”) aveva accettato di seguirlo, ma si era subito ammalato. Dopo aver rifiutato le cure dei medici greci, ritenendo che fosse meglio morire piuttosto che vivere al di fuori delle regole di condotta che egli stesso aveva scelto, salì da solo sul rogo funebre, dicendo ad Alessandro: “Ci rincontreremo a Babilonia”. E così avvenne…
La spedizione di Alessandro diede origine nell’India settentrionale a diversi Regni ellenistici (almeno 36), che durarono fino al 10 d.C., e la cui presenza rafforzò ulteriormente il rapporto e lo scambio linguistico, religioso, filosofico, artistico, scientifico, tra i due mondi. Ne derivò una forma di cultura indo-greca la cui influenza è visibile ancora oggi, sia nell’arte sia in antiche tradizioni dei popoli di quei luoghi[16].
Il più famoso dei re indo-greci fu senza dubbio Menandro I, il quale regnò su un vasto territorio dell’attuale Punjab verso la metà del II sec. a.C.
Oltre che dagli storici greci, è ricordato anche nella letteratura buddhista con il nome di Milinda, che ricorre già nel titolo di un fondamentale testo del buddhismo più antico, il Milindapaňha, ovvero Le domande di Milinda. Si tratta di una serie di dialoghi, paragonabili ai dialoghi platonici, tra il re Menandro/Milinda e un monaco buddhista, Nagasena, di cui non si sa null’altro. Nell’opera vengono toccati un po’ tutti gli argomenti degli insegnamenti del Buddha, con il probabile scopo di creare un testo utile alla diffusione del buddhismo anche nella stessa Grecia. Alla fine del VII libro dell’opera si legge che Milinda, dopo i lunghi colloqui con Nagasena, “cessò dall’aver dubbio alcuno nelle Tre Gemme[17], “divenne pieno di fiducia e libero di brame e tutto il suo orgoglio e presunzione lasciarono il suo cuore” e si dedicò ad una sincera pratica del Dharma. Lasciò il regno al figlio e “abbandonando la vita sotto un tetto per una condizione senza tetto, divenne grande in introspezione e raggiunse lo stato di arhat[18].
La conversione di Milinda non è un fatto storicamente accertato, e i libri del Milindapaňha dal IV al VII sono stati probabilmente aggiunti al testo originario nel IV sec. d.C.[19], ma resta il fatto che Menandro/Milinda fu “esperto di tutte le arti e delle scuole di pensiero indù, un vero ‘filosofo in armi’ […e] questa informazione è una prova della conoscenza da parte della classe dirigente greca della realtà culturale con la quale era ormai da secoli a contatto[20].

Ma la filosofia buddhista “non arrivò affatto a trionfare, [..] scomparve dalla scena [occidentale] senza lasciarvi alcun ricordo[21], per motivi soprattutto politici e geografici: “la frontiera terrestre era chiusa ad occidente dall’impero dei Parti, [..] ostile nei confronti dell’India e delle sue credenze. La via del mare era lunga e pericolosa[22]. Così l’Occidente rimarrà nuovamente chiuso alle dottrine spirituali dell’India, e il nome del Buddha verrà citato solo alcune volte nell’arco di molti secoli. Sarà il cristianesimo a rispondere alle esigenze spirituali e alle aspirazioni di salvezza delle masse di Roma e della Grecia. Per San Girolamo, la tradizione secondo cui il Buddha sia nato dal fianco di una vergine sarà solo una pretesa dei gimnosofisti[23], e nel Medio Evo la natività di Cristo nella sua unicità e storicità verrà contrapposta alle favole “dei bragmani [sic] sulla nascita di Budda, fondatore della loro setta[24].

Prima di questo, però, non si può non parlare, proprio in merito alla ulteriore presenza di elementi della spiritualità indiana nella filosofia classica occidentale, del pensiero di Plotino (nt. in Egitto nel 203 d.C.~), principale rappresentante del neo-platonismo, una scuola che fu “l’ultima manifestazione del platonismo nel mondo antico[25] e che fuse elementi pitagorici, aristotelici e stoici col platonismo stesso. In tal modo il neo-platonismo, che influenzerà moltissimo la filosofia medioevale, arrivò a giustificare un atteggiamento religioso, secondo cui la verità come tale non va ricercata, in quanto già rivelata e garantita dalla tradizione.
Dopo aver vissuto ad Alessandria, città tra Oriente e Occidente, vero e proprio melting pot dell’antichità, Plotino partecipò alla spedizione dell’imperatore Gordiano III contro i Sasanidi, al fine di conoscere le dottrine dei Persiani e degli Indiani, quindi si trasferì a Roma, dove fondò la sua scuola.
Maestro di Plotino fu il fondatore stesso del neo-platonismo, Ammonio Sacca (175-242 d.C.~), il quale non risulta abbia mai scritto alcunché. Secondo alcuni il suo nome è la grecizzazione di Shakya-Muni [se letto come Sacca-Ammonio], ovvero asceta degli Shakya, uno degli epiteti del Buddha storico: per cui Plotino sarebbe stato il discepolo di un monaco buddhista! Fatto storicamente non impossibile, anche se è più probabile che Sacca sia la lettura greca di Saka, termine che designava le popolazioni indo-scite dell’India del Nord. Egli fu comunque un uomo estremamente vicino al mondo indiano, la cui filosofia – in particolare quella delle Upanişad[26] – influenzò sicuramente Plotino e il neo-platonismo[27].
L’espansione dell’impero aveva convogliato a Roma [..] una serie di credenze astrologiche, di pratiche teurgiche[28] e di appelli a esperienze mistiche che Plotino accolse ricodificandole in una costruzione filosofica [..] che consentisse di approdare all’ineffabilità dell’Uno originario, rispondendo all’esigenza di unità espressa nella cultura greca da Parmenide, da Pitagora, da Platone[29].
Per Plotino l’Uno è origine della materia, non in base ad un principio creazionistico (in quanto ex nihilo nihil fit), ma per emanazione: la materia è l’estremo limite della luce che emana dall’Uno, e che l’Uno non può non emanare. In questo Plotino si richiama alle dottrine indiane, per le quali il cosmo è emanazione del Brahman, non è il risultato di una creazione bensì incessante manifestazione del Principio Primo. La materia è per Plotino inganno, illusione, come la fonte nella quale Narciso si rispecchia. E non a caso in una delle Upanişad è detto: “Ci si riflette nel corpo [quindi nella materia] come in uno specchio”.
Ma la materia, il mondo, non sono per questo da disprezzare: Plotino afferma chiaramente che “chi dunque disprezza la natura del mondo non sa quello che fa e fin dove giunga la sua impudenza”, facendo eco così alle esortazioni upanişadiche secondo cui il cibo, anna, rappresenta la vita divina che fluisce nel cosmo, e ugualmente il mondo e l’esperienza umana che vi si svolge non vanno rifiutate, in quanto immagini del divino.
Altrettanto vicina alle concezioni tradizionali indiane è la visione di Dio. Per Plotino il nome meno inadeguato per indicarlo è Uno: Dio è unità (Plotino non è però monoteista, anzi difende il politeismo!), ma è soprattutto esclusione della molteplicità. Al di là di questo Dio è ineffabile: nelle Enneadi, la sua opera pubblicata dai discepoli, l’Uno è spesso indicato come ού τόδε ού τοΰτο (non questo, non quello); non diversamente, nell’antica India risuonava sovente il richiamo dei sapienti vedici: “Neti! Neti!”, non questo! non questo![30]
Già alcuni secoli prima, in Cina, il mitico Laotse aveva scritto nel Tao Te Ching:

Il Tao di cui si può parlare
non è l’eterno Tao.
Il nome che può essere nominato
non è l’eterno nome.
Il senza nome è l’inizio del cielo e della terra
Il nominato è la madre di tutte le cose.[31]

La concezione neo-platonica del Dio come trascendenza, come causa ma non come creatore, come Uno ineffabile – il che segna l’atto di nascita in Occidente della teologia negativa – non può necessariamente portare a concepire l’Uno stesso come salvatore dell’uomo e del mondo, né direttamente né mediante un “intermediario”: l’Uno è amato dal mondo, ma non ama il mondo: dona ad esso il bene con la stessa necessità con cui la luce illumina le cose, o con cui un profumo si diffonde ovunque.
È l’uomo che si ri/volge all’Uno da cui era disceso, che è attratto da esso, che vi si dirige spogliandosi della propria mondanità e umanità: “non è quindi al cristianesimo, ma all’insegnamento delle Upanişad [..] che si rifà l’ascesi di Plotino come itinerario dell’anima per il ricongiungimento con l’Uno. In questo itinerario, che è tanto un’ascesi quanto un’ascesa, l’anima si risveglia dal sogno che l’aveva portata nel mondo. In ciò è la sua resurrezione che, precisa Plotino contro il cristianesimo, è ‘dal corpo e non col corpo’, perché risorgere col corpo equivale a cadere da un sogno all’altro[32].
Il ritorno dell’uomo all’Uno avviene per Plotino attraverso la bellezza, l’amore e l’estasi, momenti progressivi di una via evolutiva che è in realtà il percorso dell’uomo verso la propria interiorità. “La bellezza consente di passare dall’immagine sensibile all’idea universale di cui l’immagine è rivelazione[33]. Nello stesso modo opera l’amore, Eros, nel momento in cui la passione suscitata dall’atto della visione non si limita a considerare la bellezza come espressione di sé, ma rinvia a qualcosa d’altro, ovvero alla ancora oscura presenza dell’Uno. Bellezza e amore non possono però che avvicinare l’uomo all’Uno; la vera unione con l’Uno originario è resa possibile solo dall’estasi (έκστασις), che è ek-stasis, distacco da sé, spoliazione della propria individualità personale, rigetto della molteplicità, rientro in quell’Uno che non è altro-da-sé e che quindi può essere ritrovato solo nel proprio centro.
Plotino insegnava: per l’anima “essere solo in se stessa e non nell’essere, vuol dire essere in Dio[34]. Lì, l’uomo “riposa in Lui come l’amante riposa in colui che ama[35]. E così si esprimeva il veggente delle Upanişad: “Come un uomo nelle braccia della donna amata non è più cosciente né del mondo interiore né di quello esteriore, egualmente questo Puruşa, abbracciato dall’atman, non sa più nulla né del mondo esteriore né di quello interiore[36].




[1] http://zenvadoligure.blogspot.it/2012/10/unisabazia-201011-i-greci-in-india.html
[2] H. Von Glasenapp, Filosofia dell’India, Ed. SEI, pag. 17
[3] E. Zeper, Plotino e l’India, tesi di laurea triennale presso l’Università di Trieste, leggibile nel sito di G. Bertagni: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/filosofiaantica/plotinoindia.pdf
[4] Id., pag. 4
[5] Id., pag. 5. Soma è il nome di una pianta (non meglio identificata) e del suo succo, utilizzato ritualmente come inebriante o forse come vero e proprio allucinogeno durante alcuni tipi di cerimonie.
[6] Id., pag. 5
[7] Si parla anche di metemsomatosi, di trasmigrazione o di reincarnazione, mentre il termine rinascita, usato in ambito buddhista, ha un diverso significato: il buddhismo rifiuta infatti la concezione di un sé dotato di esistenza intrinseca, indipendente ed immortale, che dopo la morte trasmigrerebbe in un altro corpo.
[8] Cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia – Vol. 1, Ed. UTET, pag. 30
[9] Su Pitagora si racconta il seguente aneddoto, riportato dallo storico Diogene Laerzio: “si dice che un giorno, passando vicino a qualcuno che maltrattava un cane, [Pitagora], colmo di compassione, pronunciò queste parole: smettila di colpirlo! La sua anima la sento, è quella di un amico che ho riconosciuto dal timbro della voce
[10] U. Galimberti, Le origini del pensiero filosofico greco, in: E. Severino (a cura di), Storia del pensiero occidentale – Vol. 1, Ed. Curcio, pag. 39
[11] Platone, Fedone, 80B e segg., in: http://new.lettere.unina2.it/Didattica1/Dispense/Morrone/dispense%202013-2014/St.%20Fil.%20ANTICA/fedone.pdf
[12] Zeper, pag. 8
[13] Arriano, L’India, Ed. BUR, pag. 59
[14] Si legga a tale proposito: A. Daniélou, Śiva e Dioniso, Ed. Ubaldini
[15]Geni dei monti e dei boschi, accompagnavano le Menadi nei festeggiamenti di Dioniso. [..] rappresentavano sempre gli appetiti lascivi e i comportamenti licenziosi”. M. Grant – J. Hazel, Dizionario della mitologia classica, Ed. CDE, pag. 271
[16] Per altre notizie sull’argomento si veda: S. Lévi, Il Buddhismo e i Greci, un articolo del 1891, tradotto da chi scrive in: http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/02/il-buddhismo-e-i-greci-di-sylvain-levi.html
[17] Le Tre Gemme, o Tre Tesori: il Buddha, ovvero la potenzialità del Risveglio insita in ogni essere senziente; il Dharma, gli insegnamenti; il Sangha, la comunità dei praticanti
[18] L’arhat, o arahant, è colui che, liberato dall’esistenza ciclica, alla morte entra nel Nirvana. Le citazioni sono tratte da: G. Cagnola (a cura di), Dialoghi del Re Milinda, Ed. Phoenix, vol. III, pag. 108-109.
[19] Cfr. Zeper, pag. 15-16
[20] Id. pag. 15
[21] S. Lévi, art. cit.
[22] Id.
[23] Cfr. id.
[24] Id.
[25] Abbagnano, pag. 247
[26] Testi religiosi e filosofici indiani composti in lingua sanscrita a partire dal IX-VIII sec. a.C. fino al IV sec. a.C. Successivamente ne furono aggiunte di minori fino al 1500 d.C. Vennero messe per iscritto solo nel XVII secolo
[27] Zeper, pag. 38
[28] Insieme di pratiche, riti e tecniche estatiche atte a creare rapporti privilegiati fra gli dei e gli uomini
[29] U. Galimberti, La gnosi, Plotino e il neoplatonismo, in: E. Severino cit., Vol. 1, pag. 251
[30] Cfr. Zeper, pag. 39 e segg.
[31] Laotse, Il Tao Te King, Ed. Laterza, pag. 25
[32] Galimberti, La gnosi cit., pag. 253
[33] Id.
[34] Id., pag. 254
[35] Zeper, pag. 40
[36] Zeper, pag. 40. Puruşa indica qui l’essere umano, Atman è il Sé autentico, che si identifica con il Brahman, l’Assoluto. Il parallelismo tra unione di Atman e Brahman (che in realtà non sono mai separati) e l’idea di ritorno dell’anima all’Uno come ritorno in se stessa – ovvero la vera conoscenza di sé come essere se stessi e quindi come liberazione – costituisce il punto di maggior contatto tra Plotino e la filosofia indiana delle Upanişad.