domenica 24 dicembre 2017

Il Natale non è un mito, un mito non è una favola



Tratta dal quotidiano Il Foglio, una meditazione sulla Natività ricca di spunti di riflessione.
In particolare, si segnalano per la loro pressante attualità gli inviti a fare il presepe e a non dimenticare la tradizione.
 
Pubblichiamo in esclusiva un’anticipazione di “Prediche corte, tagliatelle lunghe. Spunti per l’anima” (208 pp., 13 euro), il volume edito da Edizioni Studio Domenicano che contiene una selezione di brevi brani tratti da discorsi, relazioni e omelie del cardinale Carlo Caffarra, scomparso lo scorso settembre a 79 anni. La prefazione è firmata da mons. Matteo Maria Zuppi, attuale arcivescovo di Bologna.


Il Natale non è un mito
di Carlo Caffarra


Fate il presepe
Il presepio è rappresentazione della nascita del Salvatore, e anche di come fu accolto, o rifiutato. E’ quindi rappresentazione del primo incontro degli uomini con Cristo, e in quel primo incontro nella storia subito si vide chi Lo accoglieva e lo riconosceva come senso della vita, e Lo adorava orientando a Lui la sua vita, e chi Lo rifiutava e anche Lo combatteva. Le semplici figure dei presepi da sempre annunciano la presenza di Cristo e mettono in guardia contro il sempre ricorrente rischio di non accoglierlo. Ma fare il presepio è già una dichiarazione e un annuncio: far posto a Gesù Bambino nei luoghi dove quotidianamente si vive vuol dire che si intende far posto a Lui nella vita, e che si intende portargli i doni delle nostre opere.

Oblio della tradizione
Immaginiamo che in una scuola si voglia celebrare il Natale. Può essere che ci sia qualche insegnante nelle scuole che… per rispetto a qualche bambino musulmano presente in aula parli e presenti il Natale come la festa del solstizio, con l’inevitabile presenza di Babbo Natale, e gli immancabili sermoni sulla pace e la solidarietà. Si trasforma cioè una narrazione storica in un “mito” che offre lo spunto per esortazioni moralistiche. Si compie in realtà un’operazione ideologica, che viene imposta al bambino, sradicandolo dalla tradizione in cui vive. […] L’oblio della tradizione o la sua trascuratezza ci fa ripartire dal niente, costringendoci a costruzioni ideologiche dettate dal momento.

Il cristianesimo è incontrare Gesù
Vogliamo vedere Gesù (Gv 12,21). Il cristianesimo [...] prima di essere una dottrina da apprendere e una regola da osservare, è l’avvenimento di un incontro: l’incontro della nostra persona colla persona di Cristo. E’ lasciare che la sua presenza occupi sempre più la nostra intelligenza, la nostra coscienza, la nostra libertà, fino al punto che possiamo dire con san Paolo: per me vivere è Cristo (Fil 1,21). E dove finalmente potete vedere, incontrare Gesù? Nella Chiesa: “E’ in essa e per mezzo di essa che Gesù continua a rendersi visibile oggi e a farsi incontrare dagli uomini” (Messaggio di Giovanni Paolo II, 5,3). E la Chiesa si rende concretamente presente vicino a voi, davanti a voi, nella vostra parrocchia, nei movimenti ed associazioni da essa riconosciuti. Perché nella Chiesa e per mezzo della Chiesa voi potete incontrare Gesù? Perché nella Chiesa voi potete sperimentare realmente la sua forza rigeneratrice della vostra umanità mediante il sacramento della Confessione. Perché voi potete entrare in una pienezza indicibile di comunione con Cristo mediante l’Eucaristia. E’ l’Eucaristia il luogo in cui voi potete soprattutto incontrare Cristo. E da questo incontro eucaristico voi ricevete la capacità di amare, cioè di donare voi stessi. E’ per questo che solo nell’incontro eucaristico con Cristo voi potete risolvere pienamente il problema, l’enigma della vita. L’uomo infatti “rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente” (Lett. Enc. Redemptor hominis 10,1, EE 8/28). E’ precisamente nell’incontro eucaristico con Cristo che tu ti incontri con l’amore, lo fai tuo, vi partecipi vivamente: l’amore di Cristo; l’amore con cui Cristo ha amato. E’ in questo che voi, carissimi giovani, ritrovate la grandezza, la dignità propria della vostra persona: diventate capaci di amare come Cristo ha amato.

Due esperienze per capire cosa significa seguire Cristo
Prima esperienza: l’arrivo del primo figlio a una coppia sposata. Che cosa succede quando ad una coppia nasce il primo bambino? E’ sostanzialmente l’ingresso e l’instaurarsi di una nuova presenza dentro la loro vita. E’ arrivata una nuova persona! Di conseguenza la vita dei due sposi non può più essere come prima: ormai devono “fare i conti” con lui. Abitudini che forse duravano da anni dovranno essere cambiate. Il lavoro acquista un nuovo senso: lavorano soprattutto per lui, per assicurare il suo futuro. Potremmo dire che la loro giornata viene vissuta e la loro vita interpretata in larga misura alla luce della presenza del bambino. Seconda esperienza: un giovane si innamora di una ragazza o viceversa. Che cosa succede nella vita del giovane/della giovane? Ancora una volta: una persona entra con inaspettata potenza nella vita. C’è come un “urto”: i latini parlavano di “passio”, di passione. E’ un avvenimento che accade e che ti colpisce: ne sei “preso”. Ed in modo tale che tutte le energie – intelligenza e libertà – ne sono coinvolte, perché la persona intuisce che le si apre davanti una nuova possibilità di esistenza. E’ una presenza carica di attrattiva che la spinge a una risposta. Queste due esperienze così umane ci possono aiutare a capire cosa significa seguire Cristo.

Incontrare Cristo non è una questione principalmente morale
Qualcuno potrebbe pensare: seguire Cristo significa vivere come Lui ci ha insegnato a vivere. Significa cambiare la propria vita in senso morale. E pensiamo alla vita immorale e sregolata di una persona che decide di… rientrare nell’ordine della legge morale. Pensare la sequela di Cristo in questi termini non è sbagliato. Anzi, come vedremo, questo modo di pensarla ne coglie un aspetto imprescindibile. Ma non è questo il nucleo centrale. Per convincervene andate a leggere con attenzione due pagine bibliche: Lc 19,1-10, l’incontro di Gesù con Zaccheo; e Fil 3,7-14. Voi costatate un fatto un po’ singolare. E’ vero che Zaccheo cambia la sua vita dal punto di vista morale: decide non solo di non rubare più, ma restituisce il mal tolto con una misura superiore a quella richiesta dalla legge. Ma se guardiamo alla storia di Paolo, le cose non stanno proprio in questi termini. Egli, prima dell’avvenimento decisivo (quello appunto che egli descrive in Fil 3,7-14), non teneva – a differenza di Zaccheo – condotte moralmente riprovevoli. Anzi, egli dice di se stesso che era irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge (Fil 3,6b). Dunque: si può essere malfattori e ladri, come Zaccheo, e non essere ancora alla sequela di Cristo, e questo è abbastanza facile da capire. Si può essere persone oneste e molto giuste, come Paolo, e non essere ancora alla sequela di Cristo, e questo è abbastanza difficile da capire. E non è neppure sempre vero che i secondi siano più vicini al Vangelo dei primi. Gesù una volta disse a chi era o si riteneva giusto: I pubblicani e le prostitute vi precederanno nel Regno di Dio [Mt 21,31]. Partire dalla considerazione morale dell’esistenza non è la partenza migliore per capire la sequela di Cristo. Ed allora che cosa significa seguire Cristo?

Incontrare Cristo non significa cambiare il modo di interpretare il reale
Qualcuno a questa domanda potrebbe essere tentato di rispondere: cambiare il proprio modo di pensare, di valutare le cose, cioè, e di interpretare la realtà. Ancora una volta, devo dire che sicuramente non esiste vera sequela senza questo cambiamento. Ma ancora una volta non è questo il nucleo centrale. Abbiamo anche al riguardo un esempio nella storia della Chiesa. La conversione di Agostino, come è noto a tutti, fu lunga ed assai faticosa. Egli dovette superare due enormi difficoltà (assai attuali!): la difficoltà di una visione materialista; la difficoltà di una visione fatalista. Egli pensava che esistessero solo realtà materiali; egli pensava, da manicheo quale era, che l’uomo quando agiva male non fosse libero. Egli superò questi due formidabili errori soprattutto attraverso la lettura di libri neo-platonici. Fu la sua conversione? Non proprio. Essa può accadere quando incontra Ambrogio che, scrive egli stesso, lo “accolse come un padre e gradì il mio pellegrinaggio proprio come un vescovo” (Confessioni V, 13,23). Ed allora che cosa significa seguire Cristo? Che cosa succede a Zaccheo di così diverso dalla sua vita ordinaria? Incontrò Cristo che chiese di entrare in casa sua. Che cosa è successo a Paolo di così straordinario che cominciò da quel momento a considerare una perdita tutto ciò che fino a quel momento poteva essere per lui un guadagno? Abbiamo due testi che in maniera molto suggestiva ce lo dicono. Il primo dice: E Dio che disse: rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo (2 Cor 4,6). L’altro testo dice: Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunciassi in mezzo ai pagani… (Gal 1,15-16). Ha avuto un incontro con Cristo nel quale egli, Paolo, ha visto la Presenza: la presenza stessa di Dio, colla gloria del suo amore. Il profeta (Is 9,1) aveva preannunciato: Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce: su coloro che abitavano in terra tenebrosa, una luce rifulse. Nella vita di Paolo questa parola si è compiuta: una luce si è accesa nella sua esistenza perché ha incontrato Cristo; ha visto in Lui la presenza stessa di Dio che si prende cura dell’uomo.

Incontro che coinvolge le radici della mia esistenza
Per capire meglio che cosa significa qui la parola “incontro”, è necessario tener presente che quando esso accade veramente, sono le radici stesse della nostra esistenza ad essere coinvolte. E quali sono le radici della nostra vita? Che cosa nutre il nostro quotidiano esistere? Che cosa ci fa lavorare, ci fa studiare, ci fa prendere moglie/marito, ci fa desiderare e pensare? Come ha visto bene Agostino, è il desiderio di beatitudine, di pienezza di essere. Le nostre scelte sono sempre in vista di un bene particolare; ma alla fine ciascuna di esse si inscrive e si radica nel desiderio di un bene che sia tale da dare piena soddisfazione alla nostra fame e sete di beatitudine, al nostro sconfinato desiderio di verità, di bontà, di bellezza. Solo una cultura disumana e superficiale come in larga misura è la nostra poteva tentare di estenuare nell’uomo questo suo desiderio, insegnandogli che è possibile ben navigare anche se si naviga sempre a vista senza avere nessun porto a cui dirigersi; che è possibile ben camminare anche senza sapere dove andare.
L’incontro con Cristo pesca in questa profondità dell’essere: Cristo è “sentito” come la risposta vera e totale al proprio desiderio illimitato di beatitudine: “Mio Signore e mio tutto”, pregava san Francesco. Zaccheo ha capito che non nel denaro, ottenuto con tutti i mezzi, era la risposta al suo desiderio, ma la risposta era Lui, lo stare a tavola con Lui. Paolo ha capito che la glorificazione di Dio non consisteva in primo luogo nello sforzo morale dell’uomo, ma che tutta la sua felicità ormai era nel conoscere Lui, nell’essere con Lui. Pietro ha capito che non sarebbe più riuscito ad andare da nessun’altra parte, poiché sapeva che solo Lui aveva parole di vita eterna.
L’incontro con Cristo è un fatto che ha tutti i connotati propri dei fatti che accadono in questo mondo: in un tempo preciso ed in un luogo determinato; mentre Zaccheo è su una pianta, mentre Andrea e Pietro stavano pescando, mentre una donna samaritana va ad attingere acqua al pozzo, e così via. Ma nello stesso tempo è un fatto che è imprevedibile [Zaccheo mai si sarebbe aspettato!], incalcolabile [proprio nel momento in cui Paolo andava ad imprigionare i cristiani!], non programmato [la samaritana faceva ciò tutti i giorni], ma così corrispondente alle attese più profonde della persona da farle esclamare: “Tardi ti ho amato, o Bellezza tanto nuova e tanto antica!”. 




mercoledì 25 ottobre 2017

A proposito di veli, non solo quello di Maya



Assistiamo spesso in questi strani giorni a stucchevoli dibattiti, tra i quali quello sull’uso del velo femminile.
Secondo alcuni, l’accettazione dell’uso del velo nei luoghi pubblici o aperti al pubblico costituirebbe un segno di rispetto nei confronti delle culture cui appartengono le persone che lo adottano. Altri sostengono opinioni contrarie, giungendo ad esprimere il timore di un possibile scontro tra culture diverse. Anche se non è ben chiaro a cosa si riferiscano, specialmente per quanto concerne un Occidente culturalmente in stato vegetativo.

Il velo è quindi divenuto oggetto di dibattito tra giornalisti, politici, giuristi, sociologi, psicologi, educatori, religiosi, blogger ecc.
Ovvero: come parlare del velo attraverso un velo, quello di Maya, il velo dell’illusione, dell’ideologia, del magico potere ammaliatore.
Ciò che qui interessa è il fatto che di velo sul viso si opinò anche nel già citato Lalitavistara Sūtra, testo buddhista di circa duemila anni or sono, quindi diversi secoli prima della nascita delle culture islamiche, alle quali il pensiero corre pavlovianamente quando si parla di velo.
Ne dibatté nel cap. XII la principessa Gopā, prima tra le ottantaquattromila donne che a vario titolo componevano la cerchia femminile del futuro Buddha.
Gopā rifiutava di velare il proprio viso e per questo era oggetto di feroci critiche da parte della famiglia e della corte del re suo suocero.
La sua replica rispecchia pienamente l’atteggiamento buddhista di allora e di oggi nei confronti di simili problematiche (ad esempio la questione delle caste – oggi diremmo, sbagliando, delle classi sociali – o del potere, o della guerra ecc.). Ovvero, non tanto considerare il problema come ‘problema’, come oggetto di disquisizioni filosofiche o sociologiche, di dibattiti ideologici, di scontri politici, ma piuttosto vivere autenticamente al di là del problema. Non tamquam non esset, ma perché effettivamente non est, è insostanziale, è vacuitas vacuitatum.  Proprio come lo sono coloro che ne dibattono: fantasmi in un mondo di fantasmi, quattro capponi nelle mani di Renzo, stupide galline che si azzuffano per niente (Battiato).

È detto in L.V. XII:

Intanto Gopā, la giovinetta della famiglia Śākya, in presenza del suocero, della suocera e di tutti coloro che vivevano nel palazzo non teneva velato il proprio viso. Costoro dicevano tra loro, biasimandola con severità: Quella giovane ha un comportamento indecoroso, poiché non indossa mai il velo.
Allora Gopā della stirpe Śākya, avendolo saputo, recitò questi versi in presenza di tutti gli abitanti del palazzo:
32. Senza velo, una persona onorabile risplende seduta, in piedi o in cammino; la pietra preziosa Maṇi sulla cima di uno stendardo appare ancor più brillante.
33. Senza velo, una persona onorabile risplende quando parte e risplende ugualmente quando ritorna; in piedi o seduta, una persona onorabile risplende ovunque.


34. Una persona onorabile risplende mentre parla ed ugualmente risplende quando rimane in silenzio, come l’uccello kalabiṅka quando lo si vede o quando canta.
35. Con una veste di kuśa, senza abiti o con una veste povera e il corpo emaciato, una persona onorabile brilla per il proprio splendore; colui che possiede delle qualità è adorno delle sue stesse qualità.
36. Risplende ovunque la persona onorabile priva di difetti; per quanto adorno possa essere, l’essere immaturo che commette il male non risplende.
37. Coloro che con il male nel cuore pronunciano parole dolci sono come una brocca di veleno ricoperto di nettare. Il fondo dell’animo di simili persone è duro al tocco come una roccia, è come carezzare la testa di un serpente.
38. Tutti accorrono con gioia laddove si trovano persone onorabili, come verso laghetti sacri indispensabili per la vita degli esseri; le persone onorabili sono sempre come un vaso ricolmo di latte e di caglio; la vista di tali esseri puri è una vera benedizione.
39. Coloro che da molto tempo sono stati lasciati da amici dissoluti e sono stati accolti da preziosi amici virtuosi ed hanno abbandonato il male per dimorare nel Dharma del Buddha: la vista di siffatte persone è una benedizione che dà ottimi frutti.
40. Coloro che hanno ottenuto il controllo sui loro corpi e ne hanno perfettamente soggiogato i difetti; coloro che, padroni del loro linguaggio, proferiscono sempre parole discrete; coloro che avendo padroneggiato i loro sensi sono nella quiete ed hanno uno spirito pacificato; per quale motivo siffatte persone dovrebbero velare il proprio viso?
41. Quandanche ricoprissero il loro corpo con mille vesti, coloro il cui spirito è privo di disciplina, senza pudore né modestia, coloro che privi di tali qualità non hanno nemmeno un linguaggio veritiero, vanno per il mondo più nudi di coloro che sono nudi.
42. Coloro che con la mente domata e i sensi costantemente soggiogati, soddisfatte del loro sposo, non rivolgono il loro pensiero ad altri se non a lui, appaiono, senza velo, splendenti come il sole e la luna: perché siffatte persone dovrebbero velare il loro viso?
E ancora:
43. I grandi e saggi Ṛṣi, abili nel leggere i pensieri degli altri, conoscono le mie motivazioni, così come le moltitudini degli dei conoscono la mia disciplina, le mie qualità, il mio controllo, la mia prudenza; per quale motivo dovrei quindi velare il mio viso?

Si dice infine nel testo che udendo le parole della nuora il re Śuddhodana fu ricolmo di felicità, di soddisfazione e di piacere, e per la gioia che provò, [le donò] una coppia di stole bianche disseminate di pietre preziose del valore di centomila koti di pala, una collana di perle ed una ghirlanda d’oro impreziosita da splendide perle rosse.
E tutto questo senza alcun bisogno di proporre tavole rotonde o disegni di legge, partecipare a talk show o inscenare manifestazioni pro o contro.
Semplicemente seguendo l’esempio di Gopā: togliendo il velo dai propri occhi, così come la principessa lo aveva tolto dal suo bellissimo viso.