sabato 25 febbraio 2017

Lui, Gary Gilmore - Esorcismi del XX secolo

Il 17 gennaio 1977, nel penitenziario di Stato dello Utah, venne giustiziato Gary Gilmore, nato a Waco, Texas, il 4 dicembre 1940, condannato alla pena capitale per omicidio. L’esecuzione fu richiesta dallo stesso Gilmore, che scelse volontariamente la fucilazione davanti al plotone di esecuzione piuttosto che una eventuale condanna al carcere a vita.
Il testo che qui pubblichiamo è stato redatto dallo scrivente nel febbraio-marzo 1977 e inserito quale Appendice alla propria tesi presentata al termine della Scuola di Perfezionamento in Filosofia presso l’Università di Genova con il titolo “Note di lettura per una immagine marxiana della morte”.
In apparenza l’argomento del testo (che risale esattamente a 40 anni orsono) esula da quelli solitamente trattati, ma in realtà il fatto cui si riferisce ha fortemente contribuito a reindirizzare gli interessi e la visione dello scrivente. “Lui, Gary Gilmore” fa parte ormai delle radici profonde di quanto viene costantemente pubblicato in questo blog, motivo per cui vogliamo ora proporlo alla lettura di quanti lo seguono, e che qui sinceramente ringrazio.    


 La festa punitiva

A partire dall’800, “la lugubre festa punitiva si va spegnendo... il cerimoniale della pena tende ad entrare nell’ombra, per non essere altro che un nuovo atto procedurale o amministrativo(1).
La festa sta per ricominciare? Il “caso G.” ha appassionato l’opinione pubblica americana (2), una parte di essa si è addirittura commossa “e si domanda come mai le autorità non proclamino ancora il lieto fine(3). E que­sto nonostante sia una opinione pubblica “che vuole pene più severe perché è spaventata dall’aumento della criminalità(4).
Lo spettacolo doveva cessare, ma l’esecuzione di Jerry Lurek è stata sospesa, poiché la sua morte – sedia elettrica – “sarebbe stata ripresa e trasmessa dalla televisio­ne(5).
Si può nuovamente parlare di festa lugubre, ma non di danza macabra. Non vi è ironia, non è la morte laica: è una “farsa circense”, un “miscuglio di scommessa e di sadico divertimento(6).

Il corpo del condannato

Il XIX secolo vede sorgere la pudicizia della pratica punitiva. “Se è ancora necessario, per la giustizia, ma­nipolare e colpire il corpo dei giustiziandi, lo farà da lontano, con decenza, seconde regole austere, e mirando ad un obiettivo ben più ‘elevato’. Per effetto di questo nuovo ritegno, tutto un esercito di tecnici ha dato il cam­bio al boia, anatomista immediato della sofferenza: sorveglianti, medici, cappellani, psichiatri, psicologi, educatori(7).
Alla anatomia immediata si sostituisce una morte più volte e in più modi differita. Il signore sa che solo il differimento della morte permette al servo di riconoscer­lo come signore; ma il servo vivente affina le armi della critica, e pone le basi del proprio autoriconoscimento. I tecnici hanno strappato il corpo del condannato dalle mani del boia, lo utilizzano per l’esercizio della loro volontà di sapere. Il loro limite è l’uso della critica delle armi da parte del signore – è il limite del differimento.
In prigione, G. “si trova male e finisce generalmente nei guai con i guardiani(8). Il tecnico dello spirito religiose fallisce la sua missione: “G. non ha chiesto, come la legge gli permetteva, la presenza di due sacerdoti al momento dell’esecuzione(9).
Ha successo il tecnico dello spirito laico, ma non con G.: “la sua donna... Nicole Barret... [viene] inter­nata in una clinica psichiatrica di Provo, Utah, su richiesta della madre(10). Così come la sorella di Nicole, April, era stata rilasciata da un o.p., prima di essere rapita da G. (11).
Infine, il tecnico del corpo, che con un grottesco rituale attestante la serenità dell’azione dello Stato, il suo essere fonte di giustizia sociale e non di vendetta privata, visiterà G. e ne constaterà “le buone condizioni fisiche(12).
Cessazione dello spettacolo e allentamento della presa sul corpo. “Di questo doppio processo... testimoniano i moderni rituali dell’esecuzione capitale... Una morte che dura un solo istante, che nessun accanimento deve moltiplicare in anticipo o prolungare sul cadavere, un’ese­cuzione che tocca la vita piuttosto che il corpo. Non più quelle lunghe procedure per cui la morte viene ritardata da intenzioni ben calcolate e moltiplicata da una serie di insulti successivi. Non più quegli espedienti che veniva­no messi in scena per uccidere i regicidi(13).

Les Tricoteuses de la Rèvolution
Il discorso del patibolo

Il rito dell’esecuzione voleva che il condannato proclamasse lui stesso la propria colpevolezza con la confessione pubblica che pronunciava, col cartello che inalberava, con le dichiarazioni che senza dubbioe lo si spingeva a fare(14).
Ne nasce un vero e proprio genere letterario, le “ultime parole del condannato”: “la giustizia aveva bisogno che la sua vittima autenticasse in qualche modo il supplizio che subiva(15).
Con la scomparsa della sofferenza dalla punizione, tale genere scompare. “Saranno i giornali, a riprendere nel la loro cronaca quotidiana il grigiore senza epopea dei delitti e delle punizioni. La spartizione è fatta, che il popolo si spogli dell’antico orgoglio dei suoi crimini; i grandi assassini sono divenuti gioco silenzioso dei saggi(16).
Più e più volte G. rompe il gioco silenzioso, e lo rompe attraverso i giornali stessi.
Perché il popolo dell’Utah non ha il coraggio delle sue convinzioni? Avete condannate un uomo a morte: me. E quando io accetto l’estrema punizione con dignità e stile, il popolo dell’Utah tentenna e discute con me. Siete stu­pidi(17).
Confessa la propria colpevolezza, riconosce l’impar­zialità del giudizio, autenticando il supplizio.
La saggezza del giornalismo non riesce ad operare fino in fondo la spartizione: G. sfugge al gioco dei saggi, il popolo non è orgoglioso del crimine, ma vuole ugualmente il lieto fine. E G. afferma: “siete stupidi”, “faccia­molo in fretta”. E scrive poesie: “Vuoi unirti a me dolce signora / Dimmi vuoi tu unirti a me / Insieme percorre­remo la valle delle ombre / Dell’oscurità dove il sentiero / Non esiste più / Dove il sole si è dimenticato del giorno(18).
G. è scandaloso: la sua voce rompe il silenzio in cui si deve svolgere il rito laico della condanna. Ma è una voce da tradurre, non da ascoltare: “da G. bisogna dire che non giunge nessun messaggio accettabile(19).

Gilmore tradotto

In ogni società la produzione del discorso è insie­me controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile ma­terialità(20).
Il discorso di G. non può essere in alcun modo recuperato. Le procedure di controllo e delimitazione vi si spuntano. Deve necessariamente essere tradotto, così come deve essere esorcizzato l’autore del discorso stesso.
Il “caso” può avere una “conclusione estremamente il logica(21), e questo non fa che confermare la richiesta di G. come irrazionale-irrecuperabile.
G. rischia di tornare in libertà(22). Si opera uno scambio rivelatore tra il soggetto e l’oggetto. La liber­tà di G. è un rischio per lo stesso G.
Ugualmente, la dose di medicinali ingerita da lui e da Nicole è “eccessiva(23), anche se il suicidio non è riuscito.
Ma il commento del discorso provvede a riportare l’ordine apparentemente dissolto: la volontà di sapere del giornale conduce alla verità più vera del comportamento di G.: “Cercherò in ogni tribunale di ottenere la scarcerazione e la mia libertà(24).“O mi uccidete o mi scarcerate” (25). “La sentenza è stata pronunciata ed io l’accetto. Se la commissione e la corte non dovessero essere di questo parere, mi dovranno allora lasciare andare(26). “Se non avete il fegato di uccidermi, allora mi dovete lasciare andare(27). Oggi, a 48 ore da un’esecuzione che sembra inevitabile, è nato il dubbio che G. voglia vivere e abbia giocato, con il sue ‘death wish’, il desiderio di morire, soltanto per sopravvivere(28).


Esorcismi del XX secolo

Poiché le procedure di controllo del discorso si rivelano insufficienti – effettivamente G. tradotto è ancora scandalosamente contraddittorio – la volontà di sapere, secondo une schema ragionevole, prima che razionale, si esercita sull’autore, operando una dissezione del suo corpo-gesto, ed una equa ripartizione del materiale così raccolto tra i tecnici della conoscenza.
Ne risulta, un tentativo di razionalizzazione totale, che spieghi e il death wish di G. e la sua vita preceden­te. Spiegare vita e morte insieme: l’antico sogno platonico, la ricerca freudiana di un principio unificatore “al di là” del piacere, vengono ripresi secondo raffinate tecniche di recupero-esclusione.
L’infanzia, naturalmente, è già segnata. Freud diviene un supporto alle teorie della predestinazione. “Quando ero bambino... ero perseguitato da un sogno: sognavo di essere decapitato da uomini mascherati. Per me è sempre stato più di un sogno, piuttosto un ricordo al quale ho sempre saputo di dover ubbidire presto o tardi(29). Non può esservi dubbio: G. “è un delinquente, lo è sempre stato(30). Lo rivela anche la sua figura, il suo “sguardo sfuggente in un viso affilato(31). L’occhio del giusto non sfugge agli sguardi indagatori, poiché non ha nulla da temere.
La pulsione di morte, “dimenticata” da larga parte della psicoanalisi ufficiale, svolge qui una valida fun­zione di razionalizzazione: “il desiderio di morte che G. porta dentro e che il furioso amore per Nicole (32) aiutò probabilmente a far esplodere si è rivolto contro se stesso: vittima e assassino si sono finalmente unificati nel­la persona di G.” (33).
Morte, amore, follia. Il progresso nella conoscenza del “caso G.” è evidenziato dall’unificazione dei problemi. “All’origine del dramma di G. ... fu l’amore. Un amo­re possessivo fino all’ossessione, tragico e disumano(34), “uno strano amore che... certamente ha scatenato le ultime riserve di follia ancora inesplorate in G.” (35).
Dove l’analisi dell’individuo e della coppia si ferma, interviene l’indagine sociologica. Non con la freddezza della statistica, ma con sofferti giudizi di valore che, data per certa l’irrecuperabilità del discorso di G., ne ricercano la motivazione. Prima nella famiglia, “una coppia di nomadi che fece trascorrere a G. notti e giorni nelle sale d’aspetto delle stazioni e negli hotel più laidi(36). Poi, nella società, in cui G. è “un loser, un perdente fra tanti in una società che castiga chi perde(37).
Il giudizio sulla “società” non fa però perdere di vista l’individuo, che ha dimostrato con la sua condotta la necessità di una emarginazione: “è sano di mente un condannato che chiede di essere messo a morte o non è per caso infermo per il fatto stesse di chiederlo? Il passato di G. nelle prigioni dell’Oregon è quello di un an­tisociale cronico, non nuovo alla sezione psichiatrica della prigione(38).
Ma le tecniche moderne dell’esclusione non dimenticano la loro origine. Si ritrova nella parola e nel gesto di G. il segno di una presenza che non viene nominata.
G. si sente posseduto da forze che non sa controllare”: “Non ho potuto farne a meno... non avevo altra scel­ta, era una cosa che non potevo fermare” (39). L’esclusione si fa esorcismo. Il discorso di G. è assolutamente ir­recuperabile, poiché egli è posseduto dal Maligno.


Reazionario!

Ogni sorta di tecnico del sapere è intervenuto sul discorso di G., che è stato sezionato e suddiviso come il suo corpo, divenuto oggetto di esercitazione per gli studenti di anatomia.
L’analisi si approfondisce ulteriormente, con l’in­tervento della politologia prima, e di un materialismo storico sui generis, poi.
Pazzo, quindi, disadattato, delinquente, alcolizzato, indemoniato e, naturalmente, reazionario.
La categoria “leninista” dell’oggettività permette di capire e valutare il fatto: “l’esecuzione di G. sembra ora diventare un ottimo espediente per riattivare i sinistri ingranaggi delle esecuzioni capitali e dare forza agli am­bienti americani più reazionari che chiedono il ripristino puro e semplice della massima pena(40). L’atteggiamento di G. ha provocato reazioni che vanne al di là delle sue stesse intenzioni. Ma l’analisi politica non conosce la volontà del singolo: G. è oggettivamente reazionario. Anzi, egli stesso ha rifiutato gli appoggi che i movimenti “pro­gressisti” gli offrivano. Le sue parole “fanno cadere molti veli”: “Non mi piace che mia madre, i negri e i figli di puttana si impiccino nella mia vita. Sono tutti un mucchio di vigliacchi. Non mi piace che la NAACP [Associazione nazionale per il progresso della gente di colore] si interessi al mio caso, perché loro sono una appendice fasulla di zio Tom e io sono un bianco(41). Un nuovo Franti – razzista, per giunta – che non può certo insegnare nulla: “diversamente da ciò che forse lui ha creduto [oggettivamente, quindi] l’unica verità da lui dimostrata è che l’esecuzione capitale non è una ‘morte da uomo’, ma solo un atto orrendo e spaventosamente inutile(42).
Per colpa sua, “le azioni legali intraprese da gruppi contro la pena di morte e dall’associazione per i diritti civili si sono esaurite senza risultato(43), e “la associazione per il progresso della gente di colore non ha mancato di ricordare come la giustizia sembri colpire con maggior frequenza e severità i poveri e i diseredati, in maniera comunque assai sproporzionata alla distribuzione dei crimini(44).
Se G. si riferisce alla NAACP dicendo: “Voglio che questa gente sia buttata fuori a calci”, gli avvocati del­la stessa NAACP non possono che mettere in dubbio la nor­malità del suo stato mentale. In tal modo, si sancisce l’esclusione di un discorso irrecuperabile, e la non-contraddittorietà del punto di vista delle associazioni “pro­gressiste”.

Mors oeconomica

Come già la psicoanalisi, anche il materialismo viene qui utilizzato a fini di razionalizzazione-esclusione. Al di sotto degli epifenomeni sovrastrutturali – il desiderio di morte, il problema giuridico, l’amore e la follia, ecc. – si ricerca l’istanza economica fondamentale, il vero motore di tutta la vicenda. Ed infatti il denaro ac­compagna G., dai suoi primi incerti passi di criminale fino al momento della sua morte.
Ci si pone una domanda inquietante: “G. è un uomo deciso a morire con dignità dopo una vita sbagliata, o un personaggio cinico e astuto, capace di giocare anche la carta della sua morte per procurarsi un ergastolo d’oro a suon di milioni?” La risposta, implicita, si rivela errata solo in apparenza: infatti G., si è visto, è un perdente.
Forse ci sbagliamo, ma è davvero un successo troppo grande e fruttuoso per uno che vuole morire(45). Lo sbaglio, se c’è, non è d’altra parte fonte di rammarico: G. era predestinato, il sogno non può mentire.
A lui spettano ormai “centinaia di migliaia di dol­lari in diritti d’autore per la storia della sua vita, di prossima pubblicazione(46), e per la vendita dell’auto­rizzazione a girare un film sulla sua vicenda.
Una definitiva, conferma viene due girmi prima dell’esecuzione: “G. starebbe cercando di vendere all’asta due posti a spettatori che vogliano assistere alla sua fine(47). Non può sussistere alcun dubbio: il suo attaccamento al denaro è patologico, rivelatore di una psiche malata.


L’analisi interminabile

Il pazzo non è proponibile come modello. Non è un “eroe”. Il suo discorso – per definizione – non può co­stituire un insegnamento accettabile. Lo si ascolta solo per tradurlo e correggerlo, interpretarlo e commentarlo.
L’inizio dell’analisi – l’emarginazione del cri­minale e del folle, la punizione e la cura vissute nel segreto dell’esclusione – si confonde con il punto di arrivo.
Attraverso la ricerca della morte – e “l’atto suicida è sempre patologico(48) – attraverso un amore “strano”, “disumano” – attraverso un maniacale desiderio di denaro, anche nel momento della morte - attraverso tutte le pieghe di una follia totale, irrecuperabile, si è definita la linea dell’analisi: è un cerchio, che rende interminabile, infinita, l’analisi stessa. In esso, la follia di G. non ha un inizio (l’infanzia? il death wish?) e non ha un termine, neppure con la sua morte: Excell White, condannato per omicidio, ha chiesto di morire (49) e giornalisti ed avvocati hanno espresso il timore “che l’esecuzione di G. diventi un circo e che il battage ispiri altri criminali alla ri­cerca di una simile gloria(50).
Il discorso di G. è circolare, finito in se stesso ed infinito per l’analisi. La sua superficie non offre appi­gli, sancisce il fallimento della volontà di sapere.
Un suo recupero non è possibile, “per la contradizion che nol consente(51): “G. ha realizzato il suo desiderio di morire, privando, con il suo comportamento, i sostenitori del supplizio del piacere della vendetta sociale; e gli abolizionisti di un possibile martire(52).

Gary Gilmore è morto, lunedì 17 gennaio 1977, alle ore 8.06, nel penitenziario di Stato dello Utah, fucilato da 5 volontari.

vvvvvvv

Note

1. Foucault, Sorvegliare e punire, pag. 10
2. cfr. CdS, 1.12.1976
3. G, 18.11.1976
4. G, 12.11.1976
5. St, 19.1.1977
6. U, 19.1.1977
7. Sorvegliare e punire, pag. 13
8. G, 12.11.1976
9. G, 15.1.1977
10. G. 15.1.1977
11. cfr. St, 15.1.1977
12. St, 17.1.1977
13. Sorvegliare e punire, pag. 14
14. id., pag.71
15. id., pag. 72
16. id., pag. 75
17. G, 12.11.1976
18. Eva, 27.1.1977
19. U, 19.1.1977
20. Foucault, L’ordine del discorso, pag. 9
21. St, 21.11.1976
22. G, 15.12.1976 e St, 21.11.1976
23. CdS, 17.11.1976
24. G, 16.12.1976
25. St, 16.12.1976
26. CdS, 1.12.1976
27. U, 5.12.1976
28. St, 15.1.1977
29. St, 5.1.1977
30. St, 17.1.1977
31. U, 5.12.1976
32. “una ragazza dalla psiche fragile”: U, 5.12.1976
33. St, 5.1.1977
34. Eva, 27.1.1977
35. St, 5.1.1977
36. St, 5.1.1977
37. St, 5.1.1977
38. G, 12.11.1976
39. G, 12.11.1976
40. U, 19.1.1977
41. U, 5.12.1976
42. U, 19.1.1977
43. St, 15.1.1977
44. St, 19.1.1977
45. U, 5.12.1976
46. G, 3.12.1976
47. G, 15.1.77 e L, 15.1.1977
48. Moron, Il suicidio, pag. 75
49. cfr. CdS, 2.12.1976
50. G, 3.12.1976
51. Inferno, XXVII, 120
52. St, 19.1.1977

Abbreviazioni:

CdS: Corriere della Sera
G: Il Giorno
St: La Stampa
U: L’Unità
L.: Il Lavoro

The Adverts
Nel 1977 il gruppo punk inglese The Adverts pubblicò Gary Gilmore's Eyes, il cui testo parlava della storia di Gary Gilmore e della sua scelta di donare i suoi occhi dopo l’esecuzione.
Il brano – per chi ama il genere punk… -  può essere ascoltato qui:
Il testo, nella versione originale e in una traduzione italiana, è invece leggibile qui:


Nel 1979 lo scrittore statunitense Norman Mailer pubblicò un romanzo dedicato alla storia di Gary Gilmore, The Executioner’s Song, che vinse il Premio Pulitzer per la narrativa. Il romanzo uscì in Italia nel 1981con il titolo Il canto del boia presso l’Editore Mondadori


mercoledì 22 febbraio 2017

René Guénon e le forme tradizionali del sacro


La lezione su René Guénon del 21 febbraio, nell’ambito del corso 2016-17 dell’Unisabazia, è stata tenuta dall’amico Renato Breviglieri dell’Unitre Valbormida.
Breviglieri – che ringraziamo per la collaborazione – è l’autore del testo da lui stesso utilizzato per il suo intervento, che ci ha gentilmente inviato e che qui di seguito pubblichiamo per intero.

L’autore e la sua vita

         René Jean-Marie-Joseph Guénon, conosciuto anche come Shaykh 'Abd al-Wahid Yahya dopo la conversione all'Islam (Blois, 15 novembre 1886 – Il Cairo, 7 gennaio 1951) [1]. Nel 1912 si convertì all’islam (26 anni) e nel 1930 lasciò la Francia per stabilirsi in Egitto dove morì nel 1951 (65 anni).
È stato uno scrittore, esoterista, intellettuale francese. Non lo troviamo citato nella storia del pensiero filosofico occidentale.
Mauro Tonko Peretti all’inizio del primo paragrafo del suo intervento su “Arthur Schopenhauer legge le Upanishad” scrive “Proprio secondo Nietzsche, un pensiero filosofico “è sempre la confessione autobiografica del pensatore che lo enuncia”. Per Schopenhauer, poi, “ogni biografia è una patografia”.
René Guénon
Bisogna inquadrare Guénon nell’epoca in cui è vissuto, un XX secolo erede dell’esoterismo e dell’occultismo dell’‘800. Questo fa sì che nel mondo ci siano ammiratori di Guénon che ritengono i sui scritti incontestabili. A lui possiamo riconoscere di aver provato a vivere una via e di aver lasciato degli scritti che sono chiari e utili per ricavarne informazioni e testimonianze sulle mentalità dell’epoca.
Questo per introdurre il pensiero di René Guénon sviluppandosi nel fermento degli ambienti esoterici e religiosi dell’inizio del 1900. In quegli ambienti, nella ricerca della sua via, sviluppa una sua concezione di Tradizione e di Metafisica che lo farà passare da varie esperienze sino ad approdare nell’Islam.
Frequentatore precoce degli ambienti esoterici. A 20 anni frequenta la Scuola Ermetica ed è iniziato: all’Ordine Martinista, alla Chiesa Gnostica, alla Massoneria. Fonda l’Ordine del Tempio.
Tra questi associazioni va posta l’attenzione sull’Ordine Martinista in quanto fondato da Louis-Claude de Saint-Martin che nell’ultima sua opera pubblicata nel 1802, Il mistero dell’uomo-spirito, scrive: “…grande sapere verrà dallo studio delle opere che giungono dall’India”, riferendosi alla pubblicazione in Francia delle Upanishad, o parte di esse, avvenuta alla metà del XVIII secolo.
Louis-Claude de Saint-Martin dopo il periodo passato con il suo iniziatore Jacques de Livron de la Tour de la Case Martines de Pasqually prosegue su una sua via mistica e viene influenzato da Jacob Böhme (1575 –1624) ciabattino che dopo essere stato “illuminato” diventa filosofo, teologo, mistico e alchimista luterano tedesco. Fu uno dei principali esponenti del misticismo cristiano moderno, ed era detto dai suoi contemporanei «Philosophus teutonicus».
L’anello di congiunzione tra la mistica cristiana di Böhme e le intuizioni sull’oriente di Louis-Claude de Saint-Martin è dato dalla figura di Johann Georg Gichtel (1638 –1710) è stato un filosofo, teologo e mistico tedesco. Egli intuisce, non risultano prove di contatti con l’India, i sette centri energetici segreti del corpo umano, già conosciuti nella letteratura indiana come chakra e li pubblica nel libro Theosophia Practica (1696).

Immagine dall'opera di Gichtel
Nel 1912 a 26 anni ha il suo contatto con l’esoterismo islamico. Nel 1913 incontra l’Indù Swami Narad Mani che lo documenta sulla Società Teosofica. Si laurea nel 1915 in filosofia.
Parte nel 1930 a 44 anni per il Cairo d’Egitto dove si risposa con la figlia dello Shaykh Muhammad Ibrahim. Era rimasto vedovo nel 1928 dopo 16 anni di matrimonio. Muore nel 1951 a 65 anni.


 Le opere


Inizia giovane a scrivere e la sua produzione letteraria sarà di 27 titoli, 10 pubblicati postumi.  L’elenco delle sue opere sono alla fine di questo documento. A 23 anni, 1909, fonda la rivista La Gnose dove appaiono; il suo primo scritto intitolato “Il Demiurgo” articoli sulla Massoneria e la prima stesura de “Il simbolismo della Croce” e de “L’Uomo e il suo divenire secondo il Vedānta”.
Nel 1921 pubblica “Introduzione generale allo studio delle dottrine Indù” in cui precisa in quale accezione occorre intendere alcune nozioni quali; tradizione, religione, metafisica, teologia, filosofia, esoterismo, essoterismo, realizzazione. Termini fondamentali per comprendere il suo pensiero nelle opere successive.
La realizzazione spirituale e l’ortodossia alla Tradizione sono il fulcro delle opere di René Guénon. Tradizione intesa non come mero insieme di usi e costumi ma come trasmissione di un patrimonio simbolico e metodologico. Come un veicolo imprescindibile per accostarsi alla metafisica, termine con il quale egli intende la conoscenza sovrarazionale da realizzare attraverso il procedimento immediato dell’intuizione intellettuale.
Proprio alla metafisica dedica il primo capitolo “Generalità sul Vedānta” nel libro “L’uomo e il suo divenire secondo il Vedānta”. Libro che richiede una conoscenza specifica ed approfondita della cultura induista e bramanica per comprendere le diverse interpretazioni e sfumature.
L’autore ci introduce al concetto di Darśana nelle dottrine indù. Vedere sotto altre angolazioni la stessa sorgente e riconoscere che tutti i punti di vista sono ortodossi. Le varie concezioni metafisiche e cosmologiche dell’India non sono dottrine differenti ma soltanto, secondo certi punti di vista ed in direzioni differenti, sviluppi non incompatibili di una sola dottrina. Specifica che i vari orientalisti e studiosi delle religioni hanno errato nel definire il Vedānta una religione, una filosofia o qualcosa di analogo ai due concetti precedenti.
Vedānta va inteso come il fine, lo scopo, la conclusione dei Vedā e dell’insegnamento delle Upanishad. Nelle sue considerazioni riconosce tutto come appartenente all’ortodossia ma colloca il buddismo fuori dall’ortodossia. Ha un rapporto epistolare con Ananda Kentish Coomaraswamy che gli fa notare che non è d’accordo nel indicare il buddismo come una via fuori dall’ortodossia. Questa classificazione la farà anche quando tratterà confucianesimo e taoismo.
Il messaggio di Guénon è che bisogna elevarsi in base alle proprie capacità, lavorare sui simboli con un costante lavoro individuale.
Nelle varie opere troviamo sempre riferimenti all’oriente, sia che tratti di India, Islam o Ebraismo, sempre ricercando nelle varie vie gli aspetti metafisici. È sorprendete la vastità culturale dell’autore che iniziando a sperimentare in vari campi da giovane ed a scrivere le sue riflessioni ci ha lasciato una testimonianza basilare per capire il passaggio della spiritualità e dell’esoterismo dal XIX al XX secolo.
Seguendo cronologicamente suoi scritti troviamo, relativamente all’oriente, i seguenti argomenti:
a) Abbozzo di quello che diventerà poi il libro L’Uomo e il suo divenire secondo il Vedānta (1909);
b) Introduzione generale allo studio delle dottrine indù (1921) che pone le basi del significato dei termini che utilizzerà;
c) Oriente e Occidente (1924);
d) L'uomo e il suo divenire secondo il Vedānta (1925) tutto dedicato all’approfondimento dei testi sacri indiani;
e) Il Re del Mondo (1927); in cui tratta di Agarttha, del Kali-yuga;
f) Autorità spirituale e potere temporale (1929). Tratta la natura rispettiva dei Brahmani e degli Kshatriya.
g) Il simbolismo della Croce (1931); libro fondamentale per capire cosa intende Guénon per simbolo. Espone la teoria indù dei tre guna, spiega lo swastika, il simbolo estremo-orientale dello yin-yang, equivalenza metafisica di nascita e morte. La grande Triade.
h) La Metafisica orientale (1939);
i) Considerazioni sull'iniziazione (1946); in cui tratta la nascita dell’Avatāra.
j) La Grande Triade (1946);
k) Iniziazione e realizzazione spirituale (1952); in cui tratta Guru e upaguru.
l) Simboli della Scienza sacra (1962); L’albero ed il Vajra. Kâla-mukha.

         Sono partito dal libro L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta. L’edizione su cui mi sono basato è quella pubblicata dalle Edizioni Adelphi, prima edizione del 2015. Il testo è composto da 24 capitoli e ha alla fine un indice dei termini sanscriti che ci aiutano ritrovare i collegamenti all’interno dell’opera.
         Nella prefazione l’autore scrive che trattare troppi argomenti o fare accostamenti azzardati non è giustificabile e che quindi sceglie di scrivere di un argomento, anche se in maniera non esaustiva, per fare della metafisica – e non della pseudo-metafisica come fanno i filosofi europei.  Prosegue scrivendo che le intenzioni dell’autore non sono quelle di uno storico e che vuole fare comprensione e non erudizione, che gli interessa solo la verità delle idee e non fare filosofia.

Guénon - Shaykh 'Abd al-Wahid Yahya

Concetti

L’opera di Guénon è concepita a partire da una ridefinizione in senso tradizionale della nozione di metafisica, intesa come “conoscenza dei principî di ordine universale” da cui tutto procede. Non un sistema sincretistico. Espone alcuni aspetti delle cosiddette “forme tradizionali”: Taoismo, Induismo, Islam, Ebraismo, Cristianesimo, Ermetismo, Libera Muratoria, Compagnonaggio, ecc.
L’intera opera è caratterizzata da una coerenza organica, sul piano formale e su quello sostanziale, tale da rendere Guénon un autore differente dalla maggior parte degli altri esoteristi.
Il suo richiamo continuo all’ortodossia ed all’esoterismo delle vie può farlo sembrare un sincretista ma è proprio questo che egli non vuole.
Proseguiamo con l’analisi della struttura del libro L'uomo e il suo divenire secondo il Vedānta.
Nel primo capitolo “Generalità sul Vêdânta” Guénon afferma che contrariamente alle opinioni fra gli orientalisti, il Vêdânta non è una filosofia, né una religione, né qualche cosa che partecipa più o meno dell’una e dell’altra.
         Ma cos’è il Vêdânta? Se per comodità, prendendo le notizie come fonti non di prima mano, andiamo a vedere Wikipedia troviamo: Vedānta è un termine sanscrito che ha il significato di fine dei Veda.
Il termine intende indicare quindi sia le Upaniṣad, per l'appunto parte finale del corpus vedico, sia il fatto che esse rappresentino il culmine dello stesso corpus nel senso che indirizzano al fine ultimo dello stesso, il mokṣa ("liberazione"), sia nel senso che tale letteratura viene studiata per ultimo, dopo gli altri testi.
Il termine indica anche una tradizione dottrinale, detta altrimenti Uttaramīmāṃsā ("esegesi ulteriore"), che si fonda sul Brahmasūtra (conosciuto anche come Vedāntasūtra, Uttaramīmāṃsāsūtra o Śārīrakamīmāṃsāsūtra), testo teologico generalmente attribuito a Bādarāyaṇa (primi secoli della nostra èra; altra datazione III-II sec. a.C.) e composto di 555 aforismi. In tal senso questo alveo dottrinale fa particolare riferimento a un "triplice canone" (prasthanātraya: traya, tre; prasthanā, "punto di avvio") che corrisponde alle Upaniṣad, alla Bhagavadgītā, al Brahmasūtra di Bādarāyaṇa.
Sankara
Le correnti del Vedānta tradizionalmente sono sei, le principali correnti (sampradāya) indicate come le quali, pur radicandosi nel prasthanātraya, offrono dottrine e teologie assolutamente diverse tra loro:
la corrente di Śaṅkara (VI-VII secolo) fondata sulla dottrina del kevalādvaita;
la corrente di Rāmānuja (XI secolo) fondata sulla dottrina dello viśiṣtādvaita;
la corrente di Madhva (XIII secolo) fondata sulla dottrina dello dvaita;
la corrente di Nimbārka (XIV secolo) fondata sulla dottrina dello dvaitādvaita;
la corrente di Vallabha (XV-XVI secolo) fondata sulla dottrina dello śuddhādvaita;
la corrente di Caitanya (XVI secolo) fondata sulla dottrina dell’acintya-bhedābheda.

         L’autore prosegue affermando che il Vêdânta è un ramo metafisico della cultura indiana, che non è per tutti e che bisogna elevarsi in base alle proprie capacità.
         La lettura del primo capitolo è difficile per chi non ha un precedente base sulla cultura indiana. L’autore inizia scrivendo che “Le varie concezioni metafisiche e cosmologiche dell’India non sono, a rigore, dottrine differenti, ma soltanto sviluppi, secondo certi punti di vista e in direzioni diverse ma per nulla incompatibili, di una solo dottrina. Del resto, il vocabolo sanscrito darshana, che designa ciascuna di queste concezioni significa propriamente [visione] o [punto di vista]…
Nel secondo capitolo tratta della distinzione fondamentale fra il Sé e l’io. Rendendosi conto della complessità dell’esposizione e delle diramazioni tra Universale, Individuale, Generale, Particolare, Collettivo, Singolare, alle pagine 31e 32 [2] riporta due schemi riassuntivi.
Il terzo capitolo lo dedica al centro vitale dell’essere umano dimora di Brahma. La sua vasta cultura gli permette di fare parallelismi tra la sede dell’Âtmâ che risiede nel più piccolo germe del più piccolo seme di miglio con la parabola del Vangelo di Matteo, 13, 31-32, “il Regno dei Cieli è simile a un granello di senape che un uomo prende e semina nel suo campo, esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande di tutti gli altri legumi e diviene un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a riposarsi sui suoi rami”.
Nel quarto capitolo tratta di Purusha e Pakriti. Principio attivo e passivo, rappresentante il maschile ed il femminile. Dobbiamo avere sempre presente che essi non sono svincolati. Per esempio, nel corpo abbiamo i due principi. Nell’evoluzione spirituale abbiamo varie inversione dei due principi nei vari stadi.
Il ventiquattresimo capitolo tratta dello stato spirituale dello Yogî: l’Identità Suprema. Questa unione che dovrebbe essere comune a tutte le vie. Basta saperne trovare l’essenza.
Sapendo di avere appena sfiorato la complessità dell’opera di René Guénon, termino con una citazione per ricondurmi al titolo:
“Il sacro è un elemento della struttura della coscienza e non un momento della storia della coscienza. L'esperienza del sacro è indissolubilmente legata allo sforzo compiuto dall'uomo per costruire un mondo che abbia un significato. Le ierofanie e i simboli religiosi costituiscono un linguaggio preriflessivo. Trattandosi di un linguaggio specifico, sui generis, esso necessita di un'ermeneutica propria”.
(Mircea Eliade, Discorso pronunciato al Congresso di Storia delle religioni di Boston il 24 giugno 1968).

Note

1. https://it.wikipedia.org/wiki/Ren%C3%A9_Gu%C3%A9non 18/02/2017 14.00.
2. René Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, Adelphi Edizioni S.p.A., Milano, 2015, 1a edizione­.


Glossario minimo

Brahmā: adattato anche in Brahma è nella lingua sanscrita l’adattamento in genere maschile del termine di genere neutro Brahman e indica, a partire da testi recenziori hinduisti, quella divinità predisposta all'emanazione/creazione dell’universo materiale.
Brahmā acquisisce quindi quel ruolo che nei testi più antichi è riservato a Prajāpati ma a differenza di quest’ultimo Brahmā non è una divinità suprema quanto piuttosto è al servizio di altre divinità considerate supreme.
Brahmā non deve essere confuso con il Brahman upaniṣadico che intende invece indicare quell’unità cosmica da cui tutto procede e da cui procede anche Brahmā che ne risulta un agente. Anche se va tenuto presente che nel loro variegarsi le teologie hinduiste possono intendere lo stesso Brahman come mera potenza impersonale della divinità principale intesa come Persona suprema, e di volta in volta indicata come Kṛṣṇa/Viṣṇu o Śiva o queste, viceversa, possono rappresentare solo una sua manifestazione.

Brahmanesimo: con il termine Brahmanesimo gli storici delle religioni e gli orientalisti intendono la religione dell’India generatasi intorno all'ultima letteratura vedica, quella inerente ai Brāhmaṇa e alle Upaniṣad "vediche". Rappresenta lo sviluppo del Vedismo e si avvia intorno al IX secolo a.C. terminando nei primi secoli della nostra Era con l’ingresso dell’Induismo.
Il passaggio dal Vedismo al Brahmanesimo corrisponde alla progressiva sostituzione delle figure sacerdotali coinvolte nei riti sacrificali. Se nel primo Veda, il Ṛgveda, l'officiante delle libagioni è l’hotṛ (corrispondente allo zaotar dell'Avesta), accompagnato da altre figure sacerdotali minori, con il passare dei secoli e con l’elaborazione dottrinale all'interno degli stessi Veda, sopraggiunge la figura dell’udgātṛ il cantore delle melodie del Sāmaveda, sostituito poi anch’esso come figura sacerdotale primaria dallo adhvaryu, il mormorante i mantra relativi allo Yajurveda e infine con il Brahmanesimo, dal brahmano, l’ultimo dei sacerdoti che sovrintendeva alla correttezza del rito, riparando a qualsiasi errore, e detentore dell'ultimo Veda, l’Atharvaveda.

Darśana: (dalla radice sanscrita drś, cioè "vedere") è un aggettivo e un sostantivo neutro sanscrito dai molteplici significati.
In qualità di aggettivo darśana indica "che espone", "che mostra", "che sa", "che insegna", "che rivela".
In qualità di sostantivo neutro darśana possiede numerosi significati che vanno dalla "vista", all’"indagine", al "discernimento", all’"opinione", alla "dottrina".
Nell’ambito delle cosiddette "teologie" o filosofie religiose induiste il termine darśana indica un sistema teorico o interpretativo frutto di un "punto di vista".
Tali sistemi interpretativi prendono avvio dal pieno periodo del Brahmanesimo fino agli inizi dell’Induismo (dal IV secolo a.C. al IV secolo d.C.).
La necessità di pronunciare un astika ("è così") rispetto alla interpretazione dei Veda rientra tra i "quattro obiettivi dell'uomo" (quattro puruṣārtha) stabiliti dai Dharmasūtra (VI secolo a.C.-V secolo d.C.). L’ultimo di questi obiettivi denominato mokṣa inerisce al saṃnyāsin (il rinunciante) il quale deve necessariamente mettere in atto quelle vie di liberazione collegate ai Veda che lo emancipino dalla schiavitù del karman. Da qui la necessità di elaborare delle darśana sulla comprensione della realtà e sulle vie di emancipazione.
Secondo Gianluca Magi, la nascita e lo sviluppo delle darśana corrisponde alla nascita e allo sviluppo delle correnti religiose, come il Buddhismo e il Jainismo, considerate eterodosse dai brahmani:
«Questa minaccia delle scuole eterodosse rende impellente per la filosofia brāhmaṇica l’adozione di un metodo logico-critico in grado di fondare concezioni teoretiche tali da resistere alle critiche delle varie scuole, e per contrattaccare a propria volta. In tal modo viene organizzata ogni forma di pensiero; ogni materia passa attraverso il filtro di questi sei metodi, le conclusioni, spesso contraddittorie, consentono di esaminare le problematiche filosofiche in modo equilibrato. Questi sei metodi, chiamati appunto "punti di vista" (darśana), considerati sei aspetti di una singola tradizione ortodossa sono...»
(Gianluca Magi. Darśana, in "Enciclopedia filosofica" vol. 3. Milano, Bompiani, 2006, pag. 2534 e segg.)

Ishvara: è un concetto in Induismo, con una vasta gamma di significati che dipendono l’epoca e la scuola dell’Induismo. Nei testi antichi di filosofia indiana, a seconda del contesto, Ishvara può significare supremo dell'anima, righello, signore, re, regina o il marito. In testi medievali indù, a seconda della scuola di induismo, Ishvara significa Dio supremo, dio personale, Sé.
In Shaivism, Ishvara è sinonimo di "Shiva", a volte come Maheshvara o Parameshvara che significa il "Supremo Signore", o come Ishta-deva (dio personale). In Vaishnavism, è sinonimo di Vishnu. In tradizionali movimenti Bhakti, Ishvara è una o più divinità di preferenze di un individuo da politeista canone della divinità dell’induismo. Nei moderni movimenti settari, come Arya Samaj e Brahmoism, Ishvara assume la forma di un Dio monoteistico. In Yoga della scuola di induismo, è qualsiasi "divinità personale" o "ispirazione spirituale". Nella scuola Vedanta, Ishvara è un Universale monistico che collega ed è l’Unità di tutto e tutti.

Karma: (adattamento del termine sanscrito trascritto come kárman o più comunemente karman) è un termine d’uso nelle lingue occidentali traducibile come "atto", "azione", "compito", "obbligo", e nei Veda inteso come "atto religioso", "rito". Il karma indica, presso le religioni e le filosofie religiose indiane, o originarie dell’India, il generico agire volto a un fine, inteso come attivazione del principio di "causa-effetto", quella legge secondo la quale questo agire coinvolge gli esseri senzienti nella fruizione delle conseguenze morali che ne derivano, vincolandoli così al saṃsāra, il ciclo delle rinascite. Quello del karma è uno dei concetti nucleari delle dottrine induiste, strettamente connesso all'altro del mokṣa, inteso quest’ultimo sia dal punto di vista soteriologico, e cioè salvezza dal saṃsāra, sia dal punto di vista spirituale, come conseguimento di una condizione superiore, diversamente intesa a seconda della dottrina.

Māyā: indica diverse dottrine filosofiche e religiose originarie dell’India nonché, come nome proprio, la madre di Gautama Buddha o uno dei nomi della dea Lakṣmī.
Il significato originario di māyā è quello di "creazione", ma ha successivamente acquisito il significato di "illusione".

Mokṣa: sostantivo maschile della lingua sanscrita dal significato di "liberazione", "affrancamento", "emancipazione", "salvezza". Mokṣa è uno dei cardini delle dottrine religiose e spirituali dell’India, comune a tutte le correnti e tradizioni dell’induismo, al jainismo, al sikhismo, e affine al nirvāṇa del buddhismo. La liberazione, variamente interpretata e diversamente conseguibile a seconda del contesto, è principalmente intesa come salvezza dal ciclo delle rinascite (saṃsāra), ma anche quale conseguimento di una condizione spirituale superiore.

Saṃsāra: (devanāgarī संसार, "scorrere insieme") indica, nelle religioni dell’India quali il Brahmanesimo, il Buddhismo, il Giainismo e l’Induismo, la dottrina inerente al ciclo di vita, morte e rinascita. È talora raffigurato come una ruota.
In senso lato e in un significato più tardo, viene ad indicare anche "l’oceano dell'esistenza", la vita terrena, il mondo materiale, che è permeato di dolore e di sofferenza, ed è, soprattutto, insostanziale: infatti, il mondo quale noi lo vediamo, e nel quale viviamo, altro non è che miraggio, illusione māyā. Immerso in questa illusione, l’uomo è afflitto da una sorta di ignoranza metafisica (avidyā), ossia da una visione inadeguata della vita terrena e di quella ultraterrena: tale ignoranza conduce l’uomo ad agire trattenendolo così nel saṃsāra.

Upaniṣad: sono un insieme di testi religiosi e filosofici indiani composti in lingua sanscrita a partire dal IX-VIII secolo a.C. fino al IV secolo a.C. (le quattordici Upaniṣad vediche) anche se progressivamente ne furono aggiunti di minori fino al XVI secolo raggiungendo un numero complessivo di circa trecento opere aventi questo nome.
Trasmesse per via orale, furono messe per iscritto per la prima volta nel 1656 quando il sultano musulmano Dara Shikoh (1615-1659) ordinò la traduzione dal sanscrito al persiano di cinquanta di esse e quindi la loro resa in forma scritta.
Il termine Upaniṣad deriva dalla radice verbale sanscrita: sad (sedere) e dai prefissi upa e ni (vicino) ossia "sedersi vicino", ma più in basso (ad un guru, o maestro spirituale), suggerendo l'azione di ascolto di insegnamenti spirituali.
Questo termine richiama chiaramente, come evidenziato da Mario Piantelli, anche un insegnamento "esoterico". Significativo è che persino la Bhagavadgītā si qualificava come upaniṣad nel colophon dei manoscritti del Mahābhārata e che, evidenzia Piantelli ricordando le note dell'antico commentatore Bhāskara, le persone di bassa casta che l’avessero ascoltata avrebbero subito la stessa sorte di coloro che avessero ascoltato le Upaniṣad senza averne la qualifica: gli sarebbe stato versato del piombo fuso nelle orecchie. Questo spiega la ragione per cui le Upaniṣad non furono mai messe per iscritto ma sempre trasmesse per via orale solo a persone che erano autorizzate a riceverne gli insegnamenti.
Le Upaniṣad sono, dunque, commentari "segreti" (rahasya) dei Veda, nonché loro 'fine', nel senso di completamento dell’insegnamento vedico; per questo motivo sono anche conosciuti come Vedānta (Fine dei Veda) e sono alla base del pensiero religioso indiano che attraverso il Brahmanesimo giungerà, nella nostra era, a costituire quel complesso di dottrine e pratiche che va sotto il nome di Induismo.

Veda: sono un’antichissima raccolta in sanscrito vedico di testi sacri dei popoli arii che invasero intorno al XX secolo a.C. l’India settentrionale, costituenti la civiltà religiosa vedica, divenendo, a partire dalla nostra era, opere di primaria importanza presso quel differenziato insieme di dottrine e credenze religiose che va sotto il nome di Induismo. Il Veda più antico è senza dubbio il Ṛgveda, cui seguono gli altri tre: Sāmaveda, Yajurveda, e Atharvaveda. Nel complesso questa letteratura religiosa descrive gli indoari come nomadi guerrieri in conflitto con le popolazioni locali, eredi della Civiltà della valle dell'Indo. I testi vedici descrivono le popolazioni autoctone come di pelle scura oggi identificate come dravidiche. Gli indoari indicavano sé stessi come ārya (nobili) riservando il termine dāsa (anche dasyu, successivamente col significato di "schiavo") alle popolazioni autoctone con cui erano venuti a contatto. Secondo gli indoari, questi dāsa non veneravano divinità né possedevano riti religiosi quanto piuttosto veneravano un "fallo" (pene eretto, sanscrito liṅgaṃ, denominato dio-pene o dio-coda Siśnadeva). Secondo Alf Hiltebeitel la scoperta di oggetti di forma fallica nella Valle dell'Indo fa supporre come corretta la descrizione vedica di questi culti, peraltro anticipatori del culto del Liṅgaṃ nello Śivaismo.

Vedānta: è un termine sanscrito che ha il significato di fine dei Veda (anta, "fine", del Veda).

Opere

(Le date fanno riferimento alla prima edizione francese)

Libri
Introduzione generale allo studio delle dottrine indù (1921), Adelphi
Le théosophisme, histoire d'une pseudo-religion (1921), Éditions Traditionnelles
Errore dello spiritismo (1923), Luni Editrice
Oriente e Occidente (1924), Luni Editrice
L'uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta (1925), Adelphi
L'esoterismo di Dante (1925), Adelphi
Il Re del Mondo (1927), Adelphi
La crisi del Mondo moderno (1927), Edizioni Mediterranee
Autorità spirituale e potere temporale (1929), Luni Editrice
San Bernardo (1929), Luni Editrice
Il simbolismo della Croce (1931), Luni Editrice
Gli Stati molteplici dell'essere (1932), Adelphi
La Metafisica orientale (1939), Luni Editrice
Il regno della quantità e i segni dei tempi (1945), Adelphi
La Grande Triade (1946), Adelphi
Considerazioni sull'iniziazione (1946), Luni Editrice
I princìpi del calcolo infinitesimale (1946), Adelphi

Pubblicazioni postume
a cura di Jean Reyor (alias di Marcel Clavelle):
Iniziazione e realizzazione spirituale (1952), Luni Editrice
Sull'esoterismo cristiano (1954), Luni Editrice
a cura di Michel Vālsan:
Simboli della Scienza sacra (1962), Adelphi
a cura di Roger Maridort:
Études sur la Franc-maçonnerie et le Compagnonnage - tome I (1964), Éditions Traditionnelles
Études sur la Franc-maçonnerie et le Compagnonnage - tome II (1965), Éditions Traditionnelles
Studi sull'Induismo (1966), Luni Editrice
Forme tradizionali e cicli cosmici (1970), Mediterranee
Scritti sull'esoterismo islamico e il Taoismo (1973), Adelphi
Recensioni (1973), Luni Editrice
Mélanges (1976) trad. it. Il Demiurgo e altri saggi, Adelphi


Altre pubblicazioni
Écrits pour Regnabit (1999) - a cura di PierLuigi Zoccatelli - raccolta di tutti gli articoli scritti da R. Guénon per la rivista «Regnabit»
Psychologie, a cura di Alessandro Grossato (2001) - attribuzione di un quaderno di appunti raccolti da uno studente di un corso di filosofia tenuto a Sétif (Algeria) da R. Guénon negli anni 1917-1918.
Articles et comptes rendus - tome I (2002) - miscellanea
La corrispondenza fra Alain Daniélou e René Guénon, a cura di Alessandro Grossato (2002)
Il risveglio della tradizione occidentale (2002) - miscellanea
La Tradizione e le tradizioni, a cura di Alessandro Grossato (2003) - miscellanea
Lettere a Julius Evola (2005)
Recueil (2013) - a cura di Mircea Tamaş - miscellanea
Fragments doctrinaux (2013) - a cura di Mircea Tamaş - trad. it Frammenti dottrinali, Luni Editrice - estratti di circa 600 lettere a una trentina di corrispondenti
Orient et Occident (2014) - a cura di Mircea Tamaş - miscellanea
Le Sphinx, Recueil, Textes parus dans la France Antimaçonnique (2015) - articoli giovanili di R. Guénon (a firma le Sphinx) scritti a difesa e supporto della Libera Muratoria, pubblicati nella rivista «La France Antimaçonnique»

Filmografia su René Guénon
Film che trattano la figura di René Guénon:
Un'altra giovinezza - Youth without Youth (2007), di Francis Ford Coppola, tratto dalla novella di Mircea Eliade e interpretato da Tim Roth
Il mistero di Dante (2014), di Louis Nero, interpretato da F. Murray Abraham

(testo di Renato Breviglieri
immagini inserite dal curatore del blog)