domenica 23 luglio 2017

Anche i Buddha mangiano - Il Sutra del pasto

Un breve testo di Sawaki Kōdō, monaco giapponese (1880-1965), uno dei principali maestri Zen del XX secolo, nel quale vengono impartiti alcuni insegnamenti sull’alimentazione e sul suo significato nell’ambito della pratica del Dharma del Buddha, ma che possono rivestire un notevole interesse per chiunque voglia portare la propria attenzione su ogni istante e su ogni gesto della propria vita.

Il testo, pubblicato in francese nel 2012 dall’Ed. Mikan, è stato tradotto in italiano a cura di chi gestisce il presente blog, con tutti gli errori e le imprecisioni del caso. Ovviamente senza alcuno scopo di lucro, essendo opinione di chi scrive che i testi di Dharma dovrebbero sempre e comunque essere messi liberamente e gratuitamente a disposizione dei lettori, al di là di ogni considerazione di regole di mercato o di diritti d'autore.


Sawaki Kōdō

La religione della sala da pranzo
Commentari al Jujikigokan, il Sutra del pasto

 Indice

  1. Per quale motivo si mangia?                                   
  2. La malattia entra attraverso la bocca                                  
  3. Ricevere il proprio pasto pregando                          
  4. La vita vigile                                                             
  5. Non perdete il vostro sangue freddo                        
  6. Mangiare per svago                                                 
  7. Perdere se stessi                                                                                          
  
1.  Per quale motivo si mangia

In generale, noi mangiamo tre volte al giorno. Per vivere, dobbiamo mangiare. Ci sono delle persone che mangiano quattro volte al giorno, talvolta perfino cinque.
Buddha mangiava una sola volta al giorno. Anch’io, per tre anni, non ho mangiato che una volta al giorno. In ogni caso, che sia una volta, due volte, cinque volte, tutti mangiano.
Mangiare o ricevere il proprio pasto… Riflettere su questo fatto è molto importante, se si considera che la religione e la vita quotidiana si trovano sullo stesso piano.
Gli abiti, il cibo e un alloggio sono necessari all’uomo. Ci sono persone che non hanno un tetto. Si può eventualmente affittare una casa, ma quanto al cibo, non si può chiedere a qualcuno di mangiare al nostro posto. Dobbiamo prendere da noi stessi il nostro pasto.
Il Maestro Takuan fece una domanda: “Perché si mangia?”
Egli stesso rispose: “Mangiare è il sotterfugio per far cessare la stanchezza”.
Ecco un grande sotterfugio!
Certe persone dicono: “Non riesco a mangiare il riso senza sashimi”. Quelli non hanno ancora conosciuto la fame. In tal caso, finché la fame non arriva non hanno bisogno di mangiare.
Se non avete fame, mangiare è inutile.
Talvolta il nutrimento diventa uno svago. Oppure una consolazione. È possibile che questo vi consoli, ma non con tutti gli alimenti è questo il caso.
In effetti, noi dobbiamo mangiare per una missione.
Ho detto ad una persona: “Ebbene, mio caro, voi lavorate molto.
- è perché altrimenti non posso mangiare.
- Allora, perché non smettere di mangiare, e morire?”
Quella persona rimase sconcertata.
Mangiare per lavorare o lavorare per mangiare? È una domanda importante.
La maggior parte delle persone lavora per mangiare. Ma in questo caso si è schiavi della propria bocca. È una battaglia persa in partenza. Persone come quelle sono degli animali senza coraggio. Sono spiacente, ma vi devo dire che quando siete guidati dalla vostra bocca, siete simili a degli animali.
La nostra missione è di dedicarci alla nostra vita di uomini. È per questo motivo che è indispensabile mangiare.
Un giorno, mentre ponevo la domanda: “Mangiare per lavorare o lavorare per mangiare?”, qualcuno mi ha replicato: “Non mi è mai stata posta una tale domanda, e per di più con una tale energia. Questo mi ha risvegliato”.

2.  La malattia entra attraverso la bocca

Per prima cosa riflettiamo su questo: “Lavorare per mangiare o mangiare per lavorare?”
Non ci si ammala mai per non aver mangiato troppo.
Non ho mai sentito dire: “Alla fin fine mi sono ammalato mangiando con moderazione”. Persone così non esistono.
“Cosa vi succede?
- Ieri ho bevuto troppo, ho mal di testa, non riesco a dormire”.
Vi sono molte persone come questa, obbligate a dormire con una borsa di acqua gelata sotto la testa.
Unsui [1] – nuvole ed acqua, questa parola si presenta bene. In realtà, i giovani monaci sono grossolani.
Quando ero giovane, se mi davano del riso, ne potevo mangiare venti ciotole. Mi è addirittura capitato di mangiarne ventidue.
Mangiavo senza misura, fino a che il mio ventre diventava una gobba e finivo con l’ammalarmi. Non ho mai avuto mal di pancia avendo mangiato in modo ragionevole.
Mangiare troppo ed ammalarsi è sconfortante, sconfortante nei confronti del nostro paese, del mondo, dell’umanità, di nostra moglie, di nostro marito, dei nostri figli, nei confronti di tutti.
Un giorno, mentre mi trovavo in ospedale, ho assistito ad una lezione di medicina. Il medico e i suoi studenti esaminavano un uomo che aveva un dolore allo stomaco. Il medico infilò un tubo nella bocca del paziente e gli studenti si avvicinarono. Il medico spiegò qualcosa e gli studenti scoppiarono a ridere.
Ho chiesto ad uno degli studenti cosa stesse accadendo. Mi disse: “Ha mangiato troppo grano”.
Spesso, la malattia entra attraverso la bocca. La malattia arriva quando si mangia troppo. La bocca è causa di infelicità. L’infelicità proviene dalla bocca.
La religione non si limita a richieste come: “Salvatemi, per favore”. La religione è condurre una vita il più possibile luminosa, una vita dove non c’è né testa né croce. Che le persone vi vedano o no, che Dio vi veda o no, voi dovete rimboccarvi le maniche con uno spirito religioso.
Anche se mangiate da soli, dovete mangiare con uno spirito religioso. Questo è detto: “la religione della sala da pranzo”.

3.  Ricevere il proprio pasto pregando

Un saggio ha detto: “Dio o Buddha ci hanno concesso l’autorizzazione a vivere”.
Se si mangia con questo spirito, non si va alla deriva.
“La morte di un uomo come me non disturba nessuno. Ma io non riesco a non mangiare. Gli dei, i miei amici, mia moglie, mio marito, mi offrono la possibilità di vivere, mi offrono la possibilità di ricevere del cibo. Allora io ricevo il cibo e vivo pregando”.
Quando si fa gassho [2], non si possono più fare scenate. “Ora, mi permetto di colpirvi, mia cara”. Facendo gassho, non si possono più alzare le mani su qualcuno, si diventa calmi.
Per il pasto, è la stessa cosa. Se nel momento di andare a tavola si è troppo entusiasti, si mangerà troppo, si berrà troppo. Invece, se si mangia pregando, non c’è pericolo. Questo è un modo di fare molto importante.
Nel Sutra del pasto Jujikigokan:
Hitotsu niwa kō no tashō o hakari, kano raisho o hakaru
“Il nostro pasto non cade dal cielo, né scaturisce dalla terra”.
Ecco un famoso poema del Maestro Gyokai. Monaco del buddhismo della Terra Pura – Jōdō shū, era il capo dei templi Ekō in, Tōji in e Chion in.
Questa lampada ad olio illumina sempre il mio comodino
Io mi rendo conto
L’olio proviene dalla fatica degli uomini.
Leggendo questo poema, l’imperatore dell’epoca, commosso, esclamò: “C’è nel nostro paese un uomo ammirevole. Vorrei recitare il poema in questo modo:
Questa lampada ad olio illumina sempre il mio comodino
Io mi rendo conto
L’olio proviene dalla fatica del mio popolo.
Si riceve il proprio pasto con questo spirito: “L’olio proviene dalla fatica degli uomini”.
Ora, le persone fanno le schizzinose: “Ah, questo riso non è gustoso” oppure “Ah, queste radici sono dure…”. Se non siete contenti, mi viene voglia di dirvi di smettere di mangiare.
“Questo manzo è un po’ duro, questa costata è un po’ grassa”. La mucca mi ha chiesto di trasmettervi un messaggio: “Se vi lamentate tanto, non mangiateci più!”.
Lo shogun Mito scrisse un poema a proposito di una statua di paglia fabbricata da un vassallo. Oggi, questa statua è stata fusa in bronzo ed è possibile acquistarne delle copie nei negozi di souvenir.
Ogni volta che mangio
Non dimentico
Io ricevo il dono del mio popolo
Al quale non dono nulla.
Per i samurai è la stessa cosa: il pasto che essi ricevono proviene dai doni del popolo.
Se osserviamo la nostra vita sociale, anche se non coltiviamo chicchi di riso, nondimeno ne mangiamo. Anche se non tessiamo, tuttavia indossiamo degli abiti.
Non è del tutto normale dirsi che abbiamo il diritto di mangiare perché abbiamo pagato il nostro cibo. Se voi voleste pagare per qualche cosa, e non si volesse vendervela, che cosa fareste?
L’anno scorso sono andato in Cina. Ero molto seccato, perché non c’era nulla che io potessi mangiare. Prendevo il cibo e lo portavo alla bocca, ma non entrava.
Avere del denaro non garantisce di poter mangiare. Bisogna avere questo spirito: “Al mattino, alla sera, quando mangiamo, non dimentichiamolo, riceviamo un dono da persone alle quali non si dona nulla”.
 Hitotsu niwa kō no tashō o hakari, kano raisho o hakaru
“L’ho meritato, perciò ricevo questo pasto”
“Per ottenere una misura di riso, è necessaria una misura di sudore”.
Dal momento in cui si piantano nella terra i germogli di riso fino a quando si serve il riso nei piatti, ci sono cento diversi lavori da svolgere. Ogni chicco di riso è un mucchio di duri compiti per i contadini.
E voi osate recare offesa a tutte queste fatiche?
“Questo riso è insipido, queste sardine sono troppo salate, non ne prendo”.
I cefali cadono forse dal cielo? Le sardine nascono dalla terra? Assolutamente no. È grazie alle fatiche dei pescatori e dei contadini che possiamo portare questo cibo alle nostre bocche.
In Occidente, anche Georges Washington ha dettato delle regole per la sala da pranzo: “Non trattare il cibo come un oggetto di divertimento, non buttarsi sul cibo, non chinarsi sul proprio piatto, non lamentarsi del pasto…”
In questo modo, anche l’Occidente attribuisce molta importanza alla condizione dello spirito nel momento di mettersi a tavola.

4.  La vita vigile

Il secondo verso del Jujikigokan: Futatsu niwa onorega tokugyō no zen ketsu o hakatte ku ni ōzu.
Entrando nella sala da pranzo, dovete per prima cosa domandarvi: “Non ho fatto qualcosa di male oggi? Non ho criticato? Non ho fatto qualcosa di nascosto?”. Dovete fare una riflessione su voi stessi. Se avete agito male, non meritate di ricevere tre ciotole di riso. In tal caso, toglietene una. Dovete valutarvi da voi stessi.
“Oggi, siccome ho risposto male a mio padre, mangerò solo due ciotole di riso”. “Oggi ho ricevuto un pessimo voto, non mangio”. Cercate allora di astenervi.
Dovere guardare in voi stessi: “Sono stato impeccabile oppure ho commesso degli errori?”. Dovete riflettere in questo modo prima di ogni pasto.
Poi: Mitsu niwa shin o fusegi toga o hanaruru koto wa tontō o shū to su.
Questo può essere interpretato così: “Terzo, proteggere lo spirito e allontanare l’avidità, questa è la religione”.
La religione è impugnare il nostro spirito con sicurezza.
Lo spirito…
“Mostrami un po’ il tuo spirito”, non è possibile. È rosso o bianco, rotondo o quadrato? Forse è in piccoli pezzi. Ma in questo caso, non lo si lascia così. Bisogna raccoglierlo e impugnarlo con fermezza, cioè fissare il nostro sguardo sulla nostra vita quotidiana. La vera religione consiste in questo modo di fare.
Ad un uomo che monta a cavallo:
“Dove andate?
- Non lo so, chiedetelo al mio cavallo”.
Non funziona affatto così.
Le persone dicono: “Non avevo intenzione di farlo, ma ho ceduto alla tentazione”. È stupido. È proprio la prova che non hanno preso nel pugno il loro spirito.
“Non ne avevo l’intenzione, ma siccome era squisito ho mangiato troppo”.
“Facevo pure attenzione, ma alla fine ho bevuto troppo”.
“Io non volevo, ma i miei amici mi hanno invitato, io mi sono distratto e alla fine mi hanno portato via tutto il mio denaro”.
È completamente stupido.
La religione significa impugnare saldamente il nostro spirito e portarlo laddove noi abbiamo deciso. È necessario tenere fermamente in pugno il nostro spirito in ogni circostanza.
C’era una volta un condannato a morte al quale era stato detto: “Porta questo piatto pieno d’olio per una distanza di dieci chilometri. Se non ne lasci cadere una goccia avrai salva la vita. Ma se ne lasci cadere una sola goccia, ti farò immediatamente tagliare la testa”. Quel condannato non fece cadere la minima goccia.
Noi dobbiamo praticare con un tale spirito, con tutte le nostre forze, come se attraversassimo l’oceano tenendoci ad una boa.
“Mi potete dare la vostra boa?
- No, non ve la darò.
- Allora, datemene la metà.
- No, non posso”.
La metà di una boa non serve a nulla.
“Posso cercare di bucare la vostra boa?
- No, non va bene.
- Solo un pochino…
- Anche solo un pochino, è no”.
No, è no. Un po’, tanto, non si può fare alcuna concessione. Se avete un solo attimo di disattenzione, siete affogati.

5.  Non perdete il vostro sangue freddo

Una volta, San Francesco Saverio disse mentre stava mangiando: “Tutto questo è troppo buono. Se mangio dei cibi così squisiti, non potrò andare in paradiso”. Mise allora della cenere sul suo piatto e lo mangiò così.
Un giorno, mentre stava cominciando il suo pasto, il Maestro Myoe disse: “Se mangio un piatto così, avrò dei bonno [3]”, cosicché gettò della polvere nel piatto. Lo mangiò dicendo: “Ah, la piccola bestia nel mio ventre si è calmata”.
Un uomo aveva sentito che il Maestro Myoe adorava il matsutake [4]. Preparò quindi un piatto di matsutake e lo portò al maestro: “Maestro, voi amate il matsutake, e quindi ve ne offro, prendetene quanto volete, ve ne prego”.
Myoe disse piangendo: “Sarebbe un onore se mi si chiamasse bonzo che ama il Dharma del Buddha, ma sarebbe vergognoso se mi si chiamasse bonzo che ama il matsutake”.
Lo trovo un po’ testardo. Se fossi stato io, ne avrei mangiato a volontà. Ma questo dimostra bene che il Maestro Myoe era veramente serio nel suo proteggere lo spirito.
Un giorno il Maestro Nishiari si recò presso una donna che gli servì semplicemente l’avanzo di un pasto con del riso freddo. Non era affatto buono, ed egli mangiò il cibo a denti stretti.
La donna gli disse: “Sono desolata, oggi non ho nulla”. Il maestro rispose: “No, al contrario, è un buon pasto per l’igiene di vita”.
Dal momento che non si rischia di mangiare troppo, siamo al sicuro. Non siamo soggetti alla seduzione. Se mangiamo un pasto che non è molto buono, cerchiamo di considerarlo come “un pasto buono per l’igiene di vita”.
Così, dobbiamo proteggere lo spirito in ogni circostanza; non essere diretti dallo spirito, ma proteggerlo sempre.
In qual modo proteggerlo?
Se trovate che un piatto sia buono e se dite a voi stessi: “Approfitto dell’occasione, ne prendo ancora una ciotola, poi un’altra, poi ancora un’altra”, se finite per mangiarne una ventitreesima e se la manovella dello stomaco si rompe, tutto questo si chiama ton, avidità.
Un uomo impaziente dice: “Oh, questo riso è mal cotto, cos’è questa zuppa?”. E getta via la sua ciotola e rovescia una caraffa di sakè. Questo si chiama jin, avversione.
Un altro si lamenta: “Ah, ancora del grano, della zuppa di miso e verdure in salamoia, ah, è sempre la stessa cosa”. Questo è detto chi, ignoranza.
I tre veleni [5] sono ton jin chi. La scomparsa di questi tre veleni si chiama san zen kon, i tre fattori del buon karma.
Ton è l’avidità.
Quando si dice di qualcuno: “è avaro”, non si tratta solo di denaro. Quando mangia, mangia troppo, quando gli si offre del sakè, ne beve troppo e quando si trova nella sala da pranzo si lamenta sempre.
Se si trova in un convitto o in un albergo, dirà sempre: “Ah, ancora sardine, basta cefali, ancora tofu…”. È gu chi, lamentarsi.
È sconfortante offendere il cibo che si trova nel proprio piatto. Se si dice: “Per chi mi prendete? Non sono uno che mangia cose così cattive, che beve zuppe così cattive…”, se ci si irrita, è shin i, l’avversione.
È importante non perdere il proprio sangue freddo, in uno stato in cui i tre veleni non esistono.
Se guardate un cibo appetitoso, il vostro cuore si eccita, segno che avete l’abitudine di mangiare dei piatti insipidi.
Oppure se dite: “Questo piatto non ha gusto, è insipido”, è segno che avete l’abitudine di mangiare cibi raffinati.
Non lamentatevi mai. Non si perde il proprio sangue freddo, quali che siano le circostanze, che il piatto sia insipido o squisito. È ciò che è detto nel terzo versetto: “Allontanare i tre veleni”. Questo è jinzūriki, il potere sovrannaturale.
Quando mangiate un piatto delizioso, e dite a voi stessi: “Ah, è buono!”, voi perdete il vostro sangue freddo, perdete jinzūriki e mangiate troppo. Quando mangiate un piatto insipido e subito entrate in collera, ugualmente perdete jinzūriki.
Si perde jinzūriki quando si mangia un piatto squisito. Si perde jinzūriki quando si mangia un piatto insipido. Ma se si resta sempre equanimi, che il piatto sia buono o cattivo, non si perde jinzūriki.
Jinzūriki non è una capacità come andare lontano, portati dalle nuvole e dal vento, o come viaggiare nel tempo. Avere mal di pancia dopo aver mangiato troppo o bevuto troppo e poi rammaricarsene prova che si perde jinzūriki.
Una volta, il governatore Shirakawarakuō si recò a Izu per ispezionare i lavori di protezione del litorale. Lungo la strada, fece una sosta in una piccola casa da tè situata su una collina e lì vide una pentola che avevano messo a scaldare. Egli disse: “L’imperatore ha già visto questa pentola ed ha composto questo poema:
 Dalla casa sulla collina
Vedo il fumo che sale
Il mio popolo sta bene”.
Ed egli stesso scrisse questo poema:
La pentola è come questo mondo
Preparare un pasto buono o cattivo
Questo dipende dallo spirito degli uomini.
Un proverbio dice: “A me, pentola, mi si bruciano le natiche tre volte al giorno ed è la pace di questo paese. Di più, la famiglia va in rovina. Di meno, la famiglia è isolata”. Questo significa che se la famiglia riduce il numero dei pasti, non mantiene più i rapporti sociali.
Quindi, la sala da pranzo è importante.

6.  Mangiare per svago

Quarto versetto del sutra del pasto: Yotsu niwa masani ryōyaku o koto to suru wa gyōko o ryōzen ga tame nari.
“Si mangia il proprio pasto come se si prendesse una medicina”.
Nel buddhismo, pasto si dice yaku, medicina. Ji yaku, il pranzo. Hi ji yaku, la cena. Se si prende la medicina di mezzogiorno o della sera, non si dice: “Questa medicina è maledettamente buona, ancora una!” oppure: “è amara, ne prendo solo mezza”. Talvolta i rimedi sono molto forti, non bisogna sbagliare la dose. È importante misurare ciò di cui il corpo e lo stomaco hanno bisogno prima di cominciare a mangiare. È grave sbagliare la dose. Si sbaglia la dose quando si assume il proprio pasto come se fosse un divertimento. Non si deve mangiare con leggerezza, non importa cosa e non importa come, altrimenti si mangia troppo fino ad avere una gobba sul ventre.
Si prende del bicarbonato di sodio e così si mangia per divertimento.
Quando ero bambino, il pasto composto da zuppa di miso, verdure e condimenti in salamoia era chiamato sanpō, i tre Tesori [6].
Il Maestro Dogen diceva: “Dovete chiamare il riso – kome – con una formula di rispetto: o-kome [7], così come dovete chiamare l’acqua – mizu: o-mizu. E se impartite un ordine dovete dire: Avete l’obbligo di mondare l’o-kome, e non: Mondate il kome”.
Quando mangiamo il nostro pasto, dobbiamo mangiare il riso e le verdure pregando.
Anche se si mangia un semplice botamochi [8], lo si tratta come un grande bodhisattva. Si dice anche: “Questo grano, grande bodhisattva; questa sardina, grande Buddha”.
Senza questo spirito, infanghiamo noi stessi. Questo non ha alcun valore.
In ogni caso, noi portiamo sulle nostre spalle un compito grandioso. Dobbiamo avere la motivazione di reggerci in piedi e spalleggiare l’umanità sulla Terra. Non dobbiamo dire: “Non serve a nulla che io viva o che io muoia”. Al contrario, si deve dire: “è assolutamente necessario che io viva, io sono indispensabile a questa Terra. Che cosa diventerebbero se io non fossi più qui?”. Bisogna avere un profondo rispetto per se stessi. Se si prova questo profondo rispetto, ci si può sentire rammaricati per aver mangiato troppo.
Il samurai Kusonoki Masashige diceva: “Non voglio morire, quando penso a qual punto io vi debba la vita”.
Questo corpo è al servizio del maestro, della società, dei propri genitori, dei propri bambini, della propria moglie, del proprio marito. È sconfortante mangiare troppo fino a diventare lividi, aver mal di pancia e non potersi più muovere. Ma se non potete più muovervi perché avete troppa fame, anche questo non serve a nulla.
Durante la guerra russo-giapponese mi trovavo al fronte. Se avevo fame non potevo combattere, quindi cercavo continuamente del cibo per riempire il mio stomaco.
“Cercare”? è buffo dire così. A dire il vero, recuperavo il cibo dei morti sul fronte.
Dicevo: “Prendo questo cibo per il Buddha”. Raccoglievo due o tre porzioni qua e là, poi correvo sul campo di battaglia mangiando il pane, come se si trattasse di una medicina.
Quando un nemico che aveva la pancia piena veniva messo in fuga, se avevo fame non lo potevo inseguire. Per questo, dovevo ben prendere il “rimedio”.
Per portare a termine questa missione, assumiamo del cibo per raccogliere tutte le nostre forze. Il cibo serve a mantenere il corpo in forma. È sconfortante quindi che il cibo possa nuocere al nostro corpo.
Né avere una gobba sul ventre, né aver fame. Bisogna sempre avere una salute impeccabile. È la quarta strofa del sutra del pasto: Masa ni ryōyaku o kototo suru wa gyōko o ryōzen ga tame nari.
Se andiamo alla deriva, esprimiamo un giudizio sul cibo. È perché diciamo “squisito” o “insipido”, che nuoce a questo corpo, che pure deve compiere una grande missione.   
Ho già detto: “Si perde la tranquillità dello spirito”, ma questa volta: “Si perde la tranquillità del corpo”.
Se mangiassi troppo e non potessi più tenere i miei corsi all’università, molti studenti sarebbero probabilmente contenti. Ma in ogni caso, sarebbe sconfortante. Per mantenere il corpo in buona salute, bisogna prendere il rimedio adatto. Se al contrario mangiate troppo poco, soffrite di sottonutrizione.
Quindi, con giusta misura, gyōko o ryōzen ga tame: dovete prendere il vostro pasto per curare il vostro corpo.

7.  Perdere se stessi

La quinta strofa del sutra del pasto è: Itsutsu ni wa jōdō no tame no yue ima kono jiki o uku.
Jōdō, è realizzare la Via. Spesso si sente dire: “Quello ha avuto successo nella vita”, ma io non sono intelligente e non capisco cosa significhi “avere successo nella vita”. Si dice così quando qualcuno ha ammucchiato molto denaro. Di denaro, io non ne ho molto, ma in ogni modo mi si dà da mangiare. Quindi, non capisco perché avere successo nella vita equivalga ad ammucchiare del denaro.
“Ha avuto successo nella vita” perché ha ottenuto una promozione. Ma per noi monaci non c’è rango, non c’è grado, quindi, siccome non sono intelligente, non capisco cosa voglia dire nemmeno questo.
In breve, avere successo è realizzare la Via. Bisogna a tutti i costi realizzare la Via. La Via: ma cosa bisogna fare?
Esistono molte vie, ma nel buddismo è bodai [9]. Bodai, che cos’è? È “conoscere il proprio autentico sé”. È molto importante conoscere autenticamente se stessi così come si è.
“Quest’uomo possiede molto denaro ma ignora il proprio autentico sé”. È così ridicolo.
“Ha il più alto livello sociale ma non è in contatto con se stesso”. È un uomo insignificante.
La Via è quindi conoscere il proprio sé autentico, tenere in pugno se stessi. Buppō, il Dharma del Buddha, è lì per questo. Che cosa dobbiamo fare nella nostra vita? Prendere in pugno noi stessi.
Quindi, la nostra pratica consiste in primo luogo nel non perdere noi stessi. Anche se si mangiano dei cibi squisiti, non dobbiamo perdere noi stessi. In ogni circostanza, prendere bene in pugno noi stessi.
Quando prendete il vostro pasto, dite a voi stessi: “Vivrò più a lungo per compiere una missione importante”, e questo, tenendo bene nel pugno voi stessi. Non dovete perdervi.
Raggiungere il proprio autentico sé si chiama tokugo, realizzare il risveglio. “Risvegliarsi”, suona come un qualcosa di molto difficile. Ci si immagina che rientri nel campo della magia, ma non è affatto così. È radicare saldamente i propri piedi su questa Terra e camminare osservando il proprio sé autentico. L’importante è il modo di camminare. Non perdete voi stessi.
è questo ciò che io sono!” Questo è jōdō, realizzare la Via, il risveglio.
Quale è la missione nella nostra vita? Con quale scopo sono nato in questo mondo?
“Non ne so nulla, ma sono nato così.
- Allora, perché non morire?
- Non ne so nulla, ma non mi va di morire”.
Non bisogna essere così. Bisogna trovare la propria missione, il proprio autentico sé.
Quando si chiede:
“Chi siete?
- Non lo so”.
Quelli sono degli ignoranti, errano in eterno nell’oscurità senza mai poter vedere il sole. Sono contenti di ricevere molto denaro, a loro piace essere amati, ma non essere detestati.
Se conoscete bene voi stessi, anche se non avete denaro, dite a voi stessi con certezza: “Non è un affare altrui, i miei piedi sono completamente sulla Terra, la mia vita quotidiana è saldamente radicata nel mio hara[10].
Un proverbio dice: “Io non guadagno che una misura di riso, ma sono samurai”. Questo è bodai, questa è l’affermazione della Via.
Quindi, nella vita, bisogna trovare il proprio autentico sé. Per questo, bisogna prendere il proprio pasto con uno spirito di pratica, senza mai saltare un giorno, lucidare se stessi.
Bisogna progredire. Se non progredite ogni giorno, cadete sempre più in basso. Se non lavorate ogni giorno, diventate stupidi. Dovete lucidare voi stessi tutti i giorni, altrimenti vi arrugginite.
Bisogna progredire tutti i giorni, diventare ogni giorno più grandi.
Non dobbiamo perdere noi stessi, e tutti i giorni dobbiamo realizzare il risveglio. Realizzare il risveglio quando si mangia il proprio pasto.
Non perdete voi stessi in una condizione qualsiasi. Per questo, dovete continuare a vivere nutrendovi.
Per la realizzazione del risveglio, per conoscere il proprio autentico sé, bisogna ricevere il rimedio chiamato “pasto”, praticare, vivere a lungo e portare a termine la propria missione.
In altre parole, bisogna mangiare per praticare in maniera autentica, non per divertimento. Questa è la religione della sala da pranzo.


Note

[1] Nome attribuito ai monaci Zen.
[2] Il saluto a mani giunte, accompagnato da un inchino.
[3] Illusioni, attaccamenti, oscurazioni mentali – fonti di sofferenza.
[4] Un tipo di funghi.
[5] Ignoranza, avversione, desiderio – le tre principali passioni secondo il Buddhismo
[6] Buddha, Dharma (l’insegnamento) e Saṅgha (la comunità dei praticanti).
[7] Il prefisso o- in giapponese indica rispetto.
[8] Dolce di riso.
[9] In sanscrito bodhi, Illuminazione, Risveglio.
[10] Centro di energia vitale, nella zona del basso ventre.

 Da leggere:

K. Sawaki, La religion de la salle à manger – Commentaires du Jujikigokan, Ed. Mikan,
K. Sawaki, Le Chant de l'éveil: Le Shōdōka commenté par un maître zen, Ed. Albin Michel
G. Sono Fazion, Vita di Kodo Sawaki, monaco Zen, Ed. La Spiga
G. Sono Fazion, Lo Zen di Kodo Sawaki, Ed. Ubaldini


E, in questo blog: http://zenvadoligure.blogspot.it/2012/10/unisabazia-200607-kodo-sawaki.html

lunedì 10 luglio 2017

A margine, molto a margine, dell'attuale dibattito politico

A tutti coloro che a vario titolo si sentono coinvolti nel dibattito politico che anima e divide questo paese, proponiamo la lettura di un breve passo di Confucio nel quale il pensatore cinese del VI-V secolo a.C. spiega le modalità secondo le quali il potere temporale deve adempiere il “mandato celeste” in maniera corretta, non separato quindi dal suo principio, l’autorità spirituale alla quale il potere temporale deve essere subordinato. Da essa proviene infatti la sua stessa legittimità. In assenza del riconoscimento di tale subordinazione la conseguenza non può che essere il disordine e la rovina.

Il testo è citato in una breve ma fondamentale opera di René Guénon, di cui non possiamo che consigliare la lettura integrale per comprendere molti aspetti della presente situazione, politica e non solo, ovvero Autorità spirituale e potere temporale, del 1929.


Scrisse Confucio:

“Per far risplendere le virtù naturali nel cuore di tutti gli uomini, gli antichi principi si adoperavano prima di tutto a ben governare ciascuno il proprio principato. Per ben governare il principato essi prima di tutto stabilivano il buon ordine nelle loro famiglie. Per stabilire il buon ordine nelle famiglie, lavoravano prima di tutto a perfezionare se stessi. Per perfezionare se stessi, disciplinavano prima di tutto i battiti del loro cuore. Per disciplinare i battiti del cuore, rendevano perfetta prima di tutto la loro volontà. Per rendere perfetta la volontà, sviluppavano il più possibile le loro conoscenze. Le conoscenze si sviluppano penetrando la natura delle cose. Penetrata la natura delle cose, le conoscenze raggiungono il grado più elevato. Quando le conoscenze sono arrivate al grado più elevato, la volontà diventa perfetta. Quando la volontà è perfetta, i battiti del cuore diventano regolari. Regolati i battiti del cuore, l’uomo tutto è privo di difetti. Dopo aver corretto se stessi, si stabilisce l’ordine nella famiglia. Quando l’ordine regna nella famiglia, il principato è ben governato. Ben governato il principato, presto tutto l’impero gode della pace”.

Naturalmente le “conoscenze”, che sono indicate nel testo come condizione indispensabile per mantenere l’ordine in ogni ambito, non sono le semplici conoscenze libresche a cui subito corre il pensiero. La conoscenza autentica è quella che va al di là della dicotomia soggetto-oggetto, è la Conoscenza metafisica che penetra realmente nella natura delle cose.



Anche per questo aspetto, si rimanda all’opera di Guénon, in particolare alla sua Introduzione generale allo studio delle dottrine indù. Per una breve sintesi si veda la voce “conoscenza” in J.M. Vivenza, Dizionario guénoniano, Ed. Arkeios, pag. 78.