mercoledì 25 ottobre 2017

A proposito di veli, non solo quello di Maya



Assistiamo spesso in questi strani giorni a stucchevoli dibattiti, tra i quali quello sull’uso del velo femminile.
Secondo alcuni, l’accettazione dell’uso del velo nei luoghi pubblici o aperti al pubblico costituirebbe un segno di rispetto nei confronti delle culture cui appartengono le persone che lo adottano. Altri sostengono opinioni contrarie, giungendo ad esprimere il timore di un possibile scontro tra culture diverse. Anche se non è ben chiaro a cosa si riferiscano, specialmente per quanto concerne un Occidente culturalmente in stato vegetativo.

Il velo è quindi divenuto oggetto di dibattito tra giornalisti, politici, giuristi, sociologi, psicologi, educatori, religiosi, blogger ecc.
Ovvero: come parlare del velo attraverso un velo, quello di Maya, il velo dell’illusione, dell’ideologia, del magico potere ammaliatore.
Ciò che qui interessa è il fatto che di velo sul viso si opinò anche nel già citato Lalitavistara Sūtra, testo buddhista di circa duemila anni or sono, quindi diversi secoli prima della nascita delle culture islamiche, alle quali il pensiero corre pavlovianamente quando si parla di velo.
Ne dibatté nel cap. XII la principessa Gopā, prima tra le ottantaquattromila donne che a vario titolo componevano la cerchia femminile del futuro Buddha.
Gopā rifiutava di velare il proprio viso e per questo era oggetto di feroci critiche da parte della famiglia e della corte del re suo suocero.
La sua replica rispecchia pienamente l’atteggiamento buddhista di allora e di oggi nei confronti di simili problematiche (ad esempio la questione delle caste – oggi diremmo, sbagliando, delle classi sociali – o del potere, o della guerra ecc.). Ovvero, non tanto considerare il problema come ‘problema’, come oggetto di disquisizioni filosofiche o sociologiche, di dibattiti ideologici, di scontri politici, ma piuttosto vivere autenticamente al di là del problema. Non tamquam non esset, ma perché effettivamente non est, è insostanziale, è vacuitas vacuitatum.  Proprio come lo sono coloro che ne dibattono: fantasmi in un mondo di fantasmi, quattro capponi nelle mani di Renzo, stupide galline che si azzuffano per niente (Battiato).

È detto in L.V. XII:

Intanto Gopā, la giovinetta della famiglia Śākya, in presenza del suocero, della suocera e di tutti coloro che vivevano nel palazzo non teneva velato il proprio viso. Costoro dicevano tra loro, biasimandola con severità: Quella giovane ha un comportamento indecoroso, poiché non indossa mai il velo.
Allora Gopā della stirpe Śākya, avendolo saputo, recitò questi versi in presenza di tutti gli abitanti del palazzo:
32. Senza velo, una persona onorabile risplende seduta, in piedi o in cammino; la pietra preziosa Maṇi sulla cima di uno stendardo appare ancor più brillante.
33. Senza velo, una persona onorabile risplende quando parte e risplende ugualmente quando ritorna; in piedi o seduta, una persona onorabile risplende ovunque.


34. Una persona onorabile risplende mentre parla ed ugualmente risplende quando rimane in silenzio, come l’uccello kalabiṅka quando lo si vede o quando canta.
35. Con una veste di kuśa, senza abiti o con una veste povera e il corpo emaciato, una persona onorabile brilla per il proprio splendore; colui che possiede delle qualità è adorno delle sue stesse qualità.
36. Risplende ovunque la persona onorabile priva di difetti; per quanto adorno possa essere, l’essere immaturo che commette il male non risplende.
37. Coloro che con il male nel cuore pronunciano parole dolci sono come una brocca di veleno ricoperto di nettare. Il fondo dell’animo di simili persone è duro al tocco come una roccia, è come carezzare la testa di un serpente.
38. Tutti accorrono con gioia laddove si trovano persone onorabili, come verso laghetti sacri indispensabili per la vita degli esseri; le persone onorabili sono sempre come un vaso ricolmo di latte e di caglio; la vista di tali esseri puri è una vera benedizione.
39. Coloro che da molto tempo sono stati lasciati da amici dissoluti e sono stati accolti da preziosi amici virtuosi ed hanno abbandonato il male per dimorare nel Dharma del Buddha: la vista di siffatte persone è una benedizione che dà ottimi frutti.
40. Coloro che hanno ottenuto il controllo sui loro corpi e ne hanno perfettamente soggiogato i difetti; coloro che, padroni del loro linguaggio, proferiscono sempre parole discrete; coloro che avendo padroneggiato i loro sensi sono nella quiete ed hanno uno spirito pacificato; per quale motivo siffatte persone dovrebbero velare il proprio viso?
41. Quandanche ricoprissero il loro corpo con mille vesti, coloro il cui spirito è privo di disciplina, senza pudore né modestia, coloro che privi di tali qualità non hanno nemmeno un linguaggio veritiero, vanno per il mondo più nudi di coloro che sono nudi.
42. Coloro che con la mente domata e i sensi costantemente soggiogati, soddisfatte del loro sposo, non rivolgono il loro pensiero ad altri se non a lui, appaiono, senza velo, splendenti come il sole e la luna: perché siffatte persone dovrebbero velare il loro viso?
E ancora:
43. I grandi e saggi Ṛṣi, abili nel leggere i pensieri degli altri, conoscono le mie motivazioni, così come le moltitudini degli dei conoscono la mia disciplina, le mie qualità, il mio controllo, la mia prudenza; per quale motivo dovrei quindi velare il mio viso?

Si dice infine nel testo che udendo le parole della nuora il re Śuddhodana fu ricolmo di felicità, di soddisfazione e di piacere, e per la gioia che provò, [le donò] una coppia di stole bianche disseminate di pietre preziose del valore di centomila koti di pala, una collana di perle ed una ghirlanda d’oro impreziosita da splendide perle rosse.
E tutto questo senza alcun bisogno di proporre tavole rotonde o disegni di legge, partecipare a talk show o inscenare manifestazioni pro o contro.
Semplicemente seguendo l’esempio di Gopā: togliendo il velo dai propri occhi, così come la principessa lo aveva tolto dal suo bellissimo viso.

venerdì 20 ottobre 2017

Siddhartha e Odisseo



È noto che Siddhārtha Śākyamuni, figlio del re Śuddhodana, prima di abbandonare il palazzo paterno per dedicarsi alla ricerca della liberazione dalla sofferenza divenendo il Buddha, sposò una bellissima donna, la principessa Gopā, conosciuta anche con il nome di Yaśodharā. Per poterla sposare Siddhārtha dovette cimentarsi, su richiesta del padre della giovane, lo Śākya Daṇḍapāṇi, in una lunga serie di prove di ogni tipo contro altri cinquecento pretendenti alla mano di Gopā, tutti appartenenti, come lui, al clan degli Śākya, una stirpe di guerrieri. Superò tutte le prove: la conoscenza delle lingue, della scrittura, dei testi sacri, della matematica e della cosmologia, l’abilità nella lotta, nel nuoto, nella spada, nel cavalcare elefanti e cavalli, nel salto ecc.
Tutto questo si trova nelle tradizionali “vite” del Buddha, e lo stesso Bertolucci vi fece cenno in una scena del suo film Piccolo Buddha del 1993. In particolare le competizioni sono raccontate nel XII capitolo del Lalitavistara, il Sūtra buddhista che è in corso di traduzione in italiano, a cura di chi scrive, a partire da una versione francese del XIX secolo.
Anticipiamo qui un breve estratto del capitolo suddetto, dove è descritta dettagliatamente una delle prove di abilità a cui il giovane Bodhisattva si sottopose, uscendone trionfatore, il tiro con l’arco. E ne proponiamo la lettura facendo seguire il testo indiano da un altro passo, indimenticabile, che si trova nei capitoli XXI e XXII di un’opera fondamentale quanto il Lalitavistara, ma appartenente all’area mediterranea, alla cultura occidentale: l’Odissea. Il confronto tra i due passi è estremamente significativo, e non può non spingere a riflessioni profonde sulle radici della cultura umana, al di là di ogni sciocca idea di appartenenza.
Kipling scrisse: “Oh, l’Est è Est, e l’Ovest è Ovest, e mai i due si incontreranno, finché il Cielo e la Terra si presenteranno infine al Grande Seggio del Giudizio di Dio”. Ma proseguì con queste parole: “Ma non c’è né Est né Ovest, non Confine, non Razza, non Nascita, quando due uomini forti si affrontano faccia a faccia, arrivando dai lati opposti del mondo”.
Certo, resta da chiarire e comprendere molto bene, da parte di ognuno di noi, quale significato intendiamo attribuire al concetto di uomo forte

 Si legge nel Lalitavistarasutra (testo forse del I sec. a.C. – I d.C.: la prima versione cinese apparve nel 308 d.C.):

Allora Daṇḍapāṇi rivolse queste parole ai giovani Śākya: Poiché abbiamo visto ciò che volevamo sapere, mostrate ora l’arte del tiro con l’arco.
Subito Ānanda posò un tamburo di ferro come bersaglio alla distanza di due krośa. Dopo di lui Devadatta posò un tamburo di ferro come bersaglio alla distanza di quattro krośa; quindi Sundarananda mise un altro tamburo di ferro alla distanza di sei krośa. Dopo di lui, lo Śākya Daṇḍapāṇi sistemò un tamburo di ferro alla distanza di due yojana. Infine il Bodhisattva dopo aver posato un tamburo di ferro come bersaglio alla distanza di dieci krośa, vi sistemò dietro sette alberi tāla e più lontano una sagoma in metallo con l’immagine di un cinghiale.
Ānanda colpì il tamburo posto come bersaglio alla distanza di due krośa, ma non poté fare di meglio.
Devadatta colpì il tamburo posto come bersaglio a quattro krośa, senza poter fare di meglio.
Sundarananda colpì il tamburo posto come bersaglio a sei krośa, senza poter fare di meglio.
Daṇḍapāṇi colpì il tamburo posto come bersaglio alla distanza di due yojana e riuscì a bucarlo, ma non poté fare di meglio.
Allora il Bodhisattva, dopo aver spezzato uno dopo l’altro tutti gli archi che gli venivano dati [chiese]: C’è qui in città qualche altro arco che, teso da me, sia in grado di resistere alla forza del mio corpo e di sostenere il mio sforzo?
Il re rispose: Ce n’è uno, figlio mio. Il giovane domandò: O Re, dove si trova? E il re: Si tratta di tuo nonno, chiamato Siṁhahanu (mascella di leone), il cui arco è ora custodito e onorato nel tempio degli dei, tra profumi e ghirlande; fino ad oggi nessuno è stato in grado di sollevare e quindi di tendere quell’arco.
Il Bodhisattva disse: Mi si porti quell’arco, o Re. Lo proveremo.
L’arco fu subito portato; e tutti i giovani Śākya, benché facessero il massimo sforzo, non poterono sollevare l’arco né, a maggio ragione, tenderlo.
Quindi l’arco fu dato allo Śākya Daṇḍapāṇi, ma sebbene impiegasse tutta la forza del suo corpo egli riuscì soltanto a sollevarlo, senza poterlo tendere.
Infine l’arco fu consegnato al Bodhisattva; ed egli sollevò l’arco rimanendo seduto sul trono con le gambe incrociate, lo impugnò con la mano sinistra e lo tese con un solo dito della mano destra.
Nell’istante in cui l’arco fu teso, il suono riecheggiò in tutta la grande città di Kapilavastu e tutti gli abitanti, impauriti, si chiesero l’un l’altro che cosa fosse quel rumore. Poi si dissero che il giovane Sarvārthasiddha aveva teso l’arco di suo nonno e che quel rumore proveniva di lì.
In seguito dei e uomini, a centinaia di migliaia, emisero grida di stupore e di ammirazione e i figli degli dei che si trovavano nelle distese dei cieli rivolsero questi versi al re Śuddhodana e a quella grande moltitudine di persone:
Poiché l’arco è stato teso dal Muni senza che nemmeno si alzasse dal suo trono e senza fare alcuno sforzo, certamente il Muni realizzerà presto i suoi propositi, dopo aver sconfitto l’armata di Māra.
Quindi, o Monaci, dopo aver teso l’arco e incoccato una freccia, il Bodhisattva la scagliò con la sua forza, nella direzione in cui si trovavano i tamburi di Ānanda, di Devadatta, di Sundarananda e di Daṇḍapāṇi. Dopo averli attraversati tutti con la freccia, egli perforò, alla distanza di dieci krośa, il tamburo di ferro che aveva piazzato come bersaglio e oltrepassò i sette alberi tāla. Infine, dopo aver bucato anche la sagoma del cinghiale, la freccia penetrò nel terreno e scomparve sprofondando in esso. Nel luogo in cui la freccia era entrata affondando nel suolo si formò un pozzo che ancora oggi è chiamato Śarakūpa (pozzo della freccia).

E nell’Odissea (forse 800-700 a.C.) è detto:

E allora il porcaro portava attraverso la sala l'arco e lo posò nelle mani di Odisseo.
Poi Eumeo chiamò fuori la nutrice Euriclea, le diceva: “Telemaco ti ordina, Euriclea, di chiudere a chiave la porta della stanza. E se qualcuna delle ancelle sente lamenti o rumori in casa, nel nostro recinto di uomini, non esca fuori, ma stia là dentro in silenzio al lavoro”.
Così disse: e a lei la parola restò senz'ali.
Ella chiuse la porta della stanza.
In silenzio Filezio andò svelto fuori della sala e serrò il portone della corte. C'era là sotto il portico una fune da nave, fatta di papiro: e con questa appunto legò la porta e tornava dentro.
Andava a sedere, il bovaro, sullo scanno di dove s'era prima alzato, e guardava Odisseo. Questi già maneggiava il suo arco: lo girava e rigirava, lo provava di qua e di là nel timore che i tarli avessero roso il corno mentre era lontano.
 E qualcuno diceva volgendo lo sguardo al vicino: “Certo è un intenditore, lo si vede bene, un esperto di archi: o ne ha di uguali anche lui a casa, o pensa di farsene uno così. Guarda come se lo rigira fra le mani, di qua e di là, quel vagabondo! È capace di tutto”.
E un altro diceva, di quei giovani prepotenti: “Oh, gli auguro tanta fortuna a costui! Proprio come gli può riuscire di tendere qui l'arco”.

 Così dicevano i Proci. E Odisseo, dopo che ebbe tastato e riguardato il grande arco da ogni parte - come quando un uomo esperto di cetra e di canto facilmente tende la corda intorno alla chiavetta nuova, fermando da un lato e dall'altro il budello di pecora, ben ritorto - così appunto, Odisseo, tese senza fatica il grande arco.
Con la mano destra prendeva la corda: la tentò. Ed essa cantò bene, parve uno strido di rondine.
I Proci allora ebbero grande dolore e sbiancarono tutti in volto. E Zeus tuonò forte, mostrando un segno di augurio.
Gioiva in cuore l'eroe, il divino paziente Odisseo, che gli avesse mandato un prodigio, il figlio di Crono, del dio dai tortuosi pensieri.
Prese la freccia che gli stava vicino, nuda, sulla mensa: le altre erano dentro, nel cavo della faretra. E ben presto gli Achei le dovevano assaggiare!
La prendeva e posava sul gomito dell'arco: tirava la corda e la cocca di lì, dal suo scanno, stando seduto.
Lanciò la freccia mirando diritto. Di tutte le scuri, non sbagliò l'anello del manico: da parte a parte andò fuori la freccia di pesante bronzo.
Ed egli disse a Telemaco: “Telemaco, non ti reca vergogna questo straniero che siede nella tua casa. Non sbagliai la mira, né faticai a lungo a tendere l'arco. Ho ancora salda la mia forza. Non sono come i Proci insultandomi mi rimproverano. E ora è tempo che si prepari agli Achei una cena in piena luce, e che ci si diverta in altri modi con musica e cetra: esse sono ornamento del banchetto”.
Disse e con le ciglia fece un cenno. Ed egli cinse la spada acuta, Telemaco, il caro figlio del grande Odisseo, e impugnò la lancia. E accanto a lui si piantò presso a un alto seggio. Era armato di bronzo scintillante.
 Ed egli si spogliò dei cenci, Odisseo, e balzò sulla grande soglia tenendo in mano l'arco e la faretra piena di frecce: ne versò fuori i veloci dardi proprio lì, davanti ai piedi, e disse ai Proci: “Questa gara ben dura ormai è finita. Ora voglio vedere se raggiungo un altro bersaglio che mai nessun uomo colpì, e se Apollo mi concede questo vanto”.
Disse, e contro Antinoo drizzava la freccia aguzza.
Lui stava per alzare una bella coppa d'oro, a due anse, e già la teneva tra le mani. Voleva bere vino: non si dava certo pensiero della morte. E chi mai poteva immaginare tra i convitati che uno solo in mezzo a tanti, anche se era gagliardo, gli avrebbe procurato la mala morte e il nero destino?
E Odisseo lo prendeva di mira e lo colpì alla gola con la freccia: da parte a parte andò la punta attraverso il tenero collo.
Si piegò da un lato, il principe: la coppa gli cadde di mano appena fu colpito, e subito un grosso fiotto di sangue gli andò su per le narici. Prontamente spinse via da sé la mensa urtandola col piede e rovesciò le vivande a terra. Il pane e le carni arrostite s'imbrattavano.
Si misero a vociare i Proci per la sala quando videro cadere un uomo, e balzarono su dai loro seggi, eccitati, guardando intorno alle pareti, da ogni parte. Ma non c'era uno scudo in nessun posto né una robusta lancia a portata di mano.
E sgridavano Odisseo con parole di collera: “Forestiero, ti costerà caro, vedrai, colpire così con l'arco uomini. Mai più prenderai parte ad altre gare. Ora per te la morte è certa. Ecco, tu uccidesti poco fa un uomo che era il più nobile e valente tra i giovani d'Itaca. Perciò ti mangeranno qui gli avvoltoi. “
Così diceva ognuno di loro, poiché credevano che senza volere avesse ucciso un uomo. E non avvertirono, quegli stolti, che per loro tutti stavano annodati i lacci della morte.

Il passo dell’Odissea è tratto dalla versione in prosa di G. Tonna, pubblicata da Garzanti Editore nel 1968.