mercoledì 30 maggio 2018

Enfants prodige!


Nel X capitolo del Lalitavistara Sūtra si è letto di come il giovane principe Siddhārtha, colui che sarebbe poi divenuto il Buddha Śākyamuni, sia stato condotto, preceduto da un corteo di diecimila donne e in compagnia di diecimila bambini, presso la scuola di scrittura, e di come abbia stupito l’insegnante elencandogli sessantaquattro tipi di scrittura, molti dei quali ignoti allo stesso docente. E di come Siddhārtha abbia poi recitato tutto l’alfabeto sanscrito, facendo corrispondere ad ogni lettera un preciso insegnamento di Dharma [http://zenvadoligure.blogspot.com/p/blog-page_20.html].

Più o meno nello stesso periodo in cui il Sūtra veniva composto, in un paese molto lontano dall’India del Nord un anziano padre di nome Giuseppe mandava presso la scuola di rabbi Zaccheo il giovanissimo figlio adottivo, di nome Gesù, del quale non aveva ancora compreso le reali qualità, affinché imparasse l’alfabeto.


 La vicenda è narrata in uno dei testi noti come Vangeli apocrifi, ovvero non autentici, erronei, esclusi dal canone, anche se il termine apocrifo deriva dal greco apokrutpto, e significa quindi più precisamente nascondere, occultare. Si tratta del Vangelo dello Pseudo-Tommaso, più noto con il titolo I fatti dell’infanzia del Signore, un testo apparentemente sconcertante, crudo, favolistico, ma in realtà molto profondo, oltre che di piacevole lettura.
L’incontro tra Gesù e rabbi Zaccheo è leggibile nella bellissima versione dello Pseudo-Tommaso pubblicata dall’Editore Einaudi alle pagine 34-36 di un dotto volume della collana I Millenni, curato da M. Craveri, che raccoglie molti testi apocrifi, tra i quali la Natività di Maria, la Storia di Giuseppe il falegname, il Vangelo di Pietro, i Vangeli gnostici di Tommaso, di Filippo, della Verità…, tutte opere senza le quali la letteratura e l’arte cristiana sarebbero infinitamente più povere. Ed anche, ci permettiamo di suggerire, ne sarebbero sminuiti anche molti aspetti della stessa devozione cristiana, nelle sue forme più popolari, ma non per questo meno sincere e significative.

Ha scritto Origene (185-254) in una sua omelia che “Ecclesia quattuor habet evangelia, haeresis plurima”. Ma per noi, questo non è che un ulteriore buon motivo per avvicinarsi anche a questi scritti…

La narrazione riportata nello Pseudo-Tommaso è molto breve, si tratta di poche righe.

Ma a partire da qui, in maniera del tutto fedele, il noto studioso di miti e simboli Robert Graves (1895-1985) ha sviluppato la vicenda all’interno del suo romanzo Io, Gesù, già pubblicato in Italia con il titolo Jesus Rex, nel quale ha raccontato la vita di Gesù-uomo mantenendo un perfetto equilibrio tra storia, mito, finzione letteraria, religione e filosofia, cultura ebraica, greca e latina.
Riportiamo, proponendone la lettura in parallelo con la vicenda “scolastica” di Siddhārtha, i passi del romanzo di Graves dedicati a Gesù studente dell’alfabeto ebraico (pag. 219 e seg.):

Robert Graves

Il rabbi [disse a Gesù]: “Affrettiamoci a iniziare insieme il nostro studio. Ti insegnerò tutto sull’alfabeto.”
Prese uno stampino di legno dalla cassetta dell’alfabeto e impresse una lettera su una tavoletta d’argilla. “Questa è la Alef, ragazzo, la prima lettera; di’ con me: Alef.”
Gesù ripeté docilmente: “Alef”.
“Esamina attentamente il carattere. È la Alef, ripeti la parola. “
E Gesù ripeté: “Alef”.
“Ancora una volta, per essere ben sicuri. “
“Alef.”
“Eccellente. Ora possiamo passare alla lettera successiva, che è la Bet. “
“Ma, rabbi – esclamò Gesù con disappunto –, non mi hai ancora insegnato la. Alef. Qual è il significato del carattere? Lo scrivano mi ha detto che certamente tu l’avresti saputo.”
L’insegnante fu sorpreso. “Alef significa. Alef vale a dire bue.”
“Sì, rabbi. So che Alef significa bue, ma perché il carattere ha la forma che ha? Somiglia alla testa di un bue con il giogo sul collo, ma perché è inclinato con un angolo così strano?”
Il rabbi sorrise e disse: “Pazienza, figliolo. Prima impara a conoscere le lettere e poi, se vorrai, a discuterne la forma. Ti dirò, tuttavia, una cosa a proposito dell’Alef. Si tramanda la leggenda che agli albori del tempo ci fu una disputa tra le lettere dell’alfabeto, ciascuna delle quali pretendeva il diritto di precedenza sulle altre. Perorarono la propria causa al cospetto del Signore, dilungandosi prolissamente. Soltanto Alef non disse nulla e non avanzò rivendicazioni. Il Signore si compiacque dell’Alef e promise che avrebbe iniziato i Dieci Comandamenti proprio con quel carattere; e così fece con ANOKHI ADONAI, “Io sono il Signore”. E una lezione, fanciullo, di modestia e silenzio. Allora, questa è la lettera Bet. Ripeti: Bet”.
 “Se mi ordini di dire Bet, dirò Bet. Ma io già conosco le ventisei lettere dell’alfabeto e so scriverle nell’ordine esatto, sia nei caratteri antichi sia in quelli moderni. Non hai intenzione di rispondere alla mia domanda sull’Alef? Perché sicuramente ogni carattere dell’alfabeto, se è davvero un’invenzione ingegnosa, deve rappresentare una qualche verità che con tale lettera è collegata. Forse il bue scuote la testa spazientito? Oppure è morto sul colpo?”
Il rabbi sospirò e disse con fermezza: “Torna a casa in pace da tuo padre, piccolo Gesù, prima che arrivino gli altri scolari, e digli da parte mia che deve mandarti da un insegnante più dotto di me”.
Gesù tornò tristemente da Giuseppe col messaggio del rabbi. Domandò Giuseppe: “Ma perché mai il rabbi ti ha rimandato a casa così presto?”
“Perché gli ho domandato il motivo per cui la lettera Alef ha la forma che ha, e lui non ha saputo dirmelo.”
Giuseppe si consultò con Maria e decise di mandare Gesù da un altro rabbi che godeva di grande fama di erudito e che insegnava all’altro capo della città.
Il giorno seguente Gesù si recò dal secondo insegnante al quale, nel frattempo, il primo aveva riferito cos’era accaduto; il secondo maestro era ben deciso a impedire al ragazzino di turbare le normali attività scolastiche ponendo domande impertinenti, come le definiva lui.
“E chiaro come il sole” disse il secondo insegnante. “Quel bambino ti ha preso in giro. Dev’essere stato quel furfante di scrivano ad aizzarlo.”
“Può darsi che tu abbia ragione, ma sembra un fanciullo innocente e non posso attribuirgli intenzioni così maliziose.”
Entrato nella nuova aula e salutato il maestro con reverenza, Gesù unì la sua voce al coro in risposta alla benedizione e poi si sedette sul tappeto a gambe incrociate assieme agli altri ragazzi, ma si sentì ordinare seccamente di alzarsi.
Si alzò.
“Sei venuto a imparare da me?” domandò il maestro. “Sì, rabbi.”
 “Ho saputo dal tuo precedente insegnante, il dotto rabbi Osea, che conosci già l’alfabeto. “E’ vero, rabbi.”
“Sei davvero un fanciullo istruito! Sei forse già un esponente della letteratura sacra?”
“Per grazia del nostro Dio ho mosso i primi passi, rabbi.”
“I primi passi, e come?”
“Ho iniziato con la lettera Alef.”
“Splendido, splendido! E senza dubbio avrai scoperto perché quel carattere ha la forma che ha?”
“Ho riflettuto sulla questione tutta la notte, pregando, rabbi, e stamattina mi è stata data la risposta.”
“Degnati di illuminarci con la tua prodigiosa rivelazione.”
Gesù aggrottò le sopracciglia, pensieroso, e poi disse: “Eccola. La Alef è la prima delle lettere, e la Alef è il bue che è il sostegno dell’uomo, il primo e il più onorevole dei suoi beni a quattro zampe”.
“Giustifica questa tua asserzione. Perché il più onorevole non è l’asino?”
“Il bue è menzionato prima dell’asino nel Comandamento contro il ricorso al malocchio.”
“Che impudenza! E perché non la pecora? Hai preso in considerazione la pecora?”
“Ho preso in considerazione la pecora, sebbene non sia menzionata nel Comandamento; e chiaramente il bue è più onorevole, come si arguisce dall’allegoria dei due matrimoni di Giacobbe: per prima ha sposato Lia, che sarebbe la vacca, e per seconda Rachele, che sarebbe la pecora.”
L’insegnante frenò la collera crescente e disse: “Prosegui, Hiram di Tiro!”
“La Alef, per come vedo io il carattere, è un bue offerto in sacrificio, col giogo ancora sul collo; ciò significa che lo studio della letteratura deve iniziare col sacrificio. Dobbiamo consacrare al Signore il nostro primo e più prezioso bene, che è simboleggiato dal bue aggiogato, vale a dire la nostra docile fatica finché non crolliamo morti. Ecco la risposta che mi è stata data.”
“Dimmi, sei venuto in questa scuola in qualità di allievo o in qualità di dottore della Legge?” esclamò l’insegnante parlando con il lento e cantilenante tono ironico che i suoi allievi avevano imparato a temere più dei suoi scoppi di rabbia.
Ribatté Gesù in tutta semplicità: “Ho sentito dire: ‘Chi semina raccoglie’. Mi hai domandato perché la prima lettera dell’alfabeto ha la forma che ha e ti ho fornito la spiegazione che mi è stata data in risposta alla mia preghiera. E questa è stata la mia semina. Quanto al raccolto, vorrei sapere, se sei disposto a seminare a tua volta, spiegandomi perché l’ultima lettera dell’alfabeto ha la forma che ha”.
Il maestro afferrò la verga di storace e avanzò verso Gesù bofonchiando in tono minaccioso. Domandò, pallido per la collera: “L’ultima lettera dell’alfabeto! Alludi alla lettera Tau, rabbi Gesù?”
“Non sono io il rabbi, tu sei il rabbi; ed è alla Tau che alludo.”
“La Tau è l’ultima lettera dell’alfabeto e la ragione della sua forma non è difficile da intuire. La Tau ha la forma di una croce, e la croce vergognosa è la fine alla quale sono destinati gli scolari impudenti che presumono di spaccare un capello in quattro col loro maestro. Gesù, figlio del falegname, attento! Poiché la sua ombra già incombe sul tuo cammino!”
Gesù balbettò: “Se ti ho offeso, rabbi, ne sono veramente dispiaciuto. Chiederò a mio padre di mandarmi a un’altra scuola”.
“Non prima che ti abbia punito come meriti, rampollo di stoltezza. Infatti sta scritto: ‘La stoltezza risiede nel cuore di un fanciullo, ma la verga del castigo l’allontanerà’. Col fanciullo stolto e presuntuoso non ho pazienza; e il fanciullo assennato ha timore della mia verga.”
Rispose audacemente Gesù: “Rabbi, considera bene ciò che ci stai dicendo. Non conosci l’opinione del dotto Hillel: ‘Un maestro iracondo non sa insegnare, né un fanciullo impaurito può imparare?’”
Era più di quanto il maestro potesse tollerare. Calò la verga con tutta la sua forza sul capo di Gesù, e la verga volò in mille pezzi.
 Gesù non batté ciglio né tentò di difendersi, ma rimase a fissare l’uomo adirato, il quale tornò al suo scranno e cercò di riprendere la lezione. Ma all’improvviso si portò le mani all’altezza del cuore e stramazzò in avanti, morto.
Così si concluse l’istruzione scolastica di Gesù, poiché nessun altro rabbi di Leontopoli lo voleva come allievo. Nei mesi che seguirono, i passanti lo segnavano a dito per strada, scuotendo il capo e borbottando: “Ecco il ragazzo che ha ucciso il suo maestro facendo domande impudenti! Eppure dicono che quel dotto gli abbia risposto per le rime prima di morire e gli abbia predetto che sarebbe finito sulla croce dei criminali”.



Da leggere:

M. Craveri (a cura di), I Vangeli Apocrifi, Ed. Einaudi
R. Graves, Io, Gesù, Ed. Longanesi
R. Graves, I miti ebraici, Ed. Longanesi
R. Graves, I miti greci, Ed. Longanesi

giovedì 24 maggio 2018

Di radici, di Papi, di islam


Alcuni dei temi del precedente post (http://zenvadoligure.blogspot.it/2018/04/segnali-di-kali-yuga-dal-belgio.html) erano già stati oggetto di una intervista all’attuale Pontefice Francesco, raccolta nella residenza vaticana di Santa Marta il 9 maggio 2016 e pubblicata il 19 maggio 2016 sullo storico quotidiano francese La Croix con il titolo: Quale Cristianesimo per l’Europa.
Qui di seguito è riportato il testo dell’intera intervista, leggibile sul sito Internet di La Croix in traduzione italiana (https://www.la-croix.com/Religion/Pape/Papa-Francesco-intervistato-dalla-Croix-Quale-cristianesimo-Europa-2016-05-19-1200761293).

Quale Cristianesimo per l’Europa

Nei suoi discorsi sull’Europa, lei ricorda le “radici” cristiane del continente, senza però mai qualificarle come cristiane. Definisce piuttosto “l’identità europea” come “dinamica e multiculturale”. Secondo lei, l’espressione “radici cristiane” è inappropriata per l’Europa?

Bisogna parlare di radici al plurale perché ce ne sono tante. In tal senso, quando sento parlare delle radici cristiane dell’Europa, a volte temo il tono, che può essere trionfalista o vendicativo. Allora diventa colonialismo. Giovanni Paolo II ne parlava con un tono tranquillo. L’Europa, sì, ha radici cristiane. Il cristianesimo ha il dovere di annaffiarle, ma in uno spirito di servizio come per la lavanda dei piedi. Il dovere del cristianesimo per l’Europa è il servizio. Erich Przywara, grande maestro di Romano Guardini e di Hans Urs von Balthasar, ce lo insegna: l’apporto del cristianesimo a una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della vita. Non deve essere un apporto colonialista.

Lei il 16 aprile ha compiuto un gesto forte portando con sé da Lesbo a Roma alcuni rifugiati. Ma l’Europa può accogliere tanti migranti?

È una domanda giusta e responsabile perché non si possono spalancare le porte in modo irrazionale. Ma la domanda di fondo che bisogna porsi è perché ci sono tanti migranti oggi. Quando sono andato a Lampedusa, tre anni fa, questo fenomeno cominciava già. Il problema iniziale sono le guerre in Medio Oriente e in Africa e il sottosviluppo del continente africano, che provoca la fame. Se ci sono guerre è perché ci sono fabbricanti d’armi — il che si può giustificare per la difesa — e soprattutto trafficanti di armi. Se c’è tanta disoccupazione è per la mancanza d’investimenti che possono creare del lavoro, di cui l’Africa ha tanto bisogno. Ciò solleva in senso più ampio la domanda su un sistema economico mondiale caduto nell’idolatria del denaro. Più dell’80 per cento delle ricchezze dell’umanità sono in mano a circa il 16 per cento della popolazione. Un mercato completamente libero non funziona. Il mercato di per sé è una cosa buona ma gli occorre, come punto di appoggio, una parte terza, lo Stato, per controllarlo ed equilibrarlo. È ciò che chiamiamo economia sociale di mercato. Ritorniamo ai migranti. L’accoglienza peggiore è di ghettizzarli quando al contrario occorre integrarli. A Bruxelles i terroristi erano belgi, figli di migranti, ma venivano da un ghetto. A Londra, il nuovo sindaco ha prestato giuramento in una cattedrale e senza dubbio sarà ricevuto dalla regina. Ciò mostra all’Europa l’importanza di ritrovare la sua capacità d’integrare. Penso a Gregorio Magno che ha negoziato con quanti venivano chiamati barbari, che si sono poi integrati. Questa integrazione è oggi tanto più necessaria in quanto l’Europa sta vivendo un grave problema di denatalità, a causa di una ricerca egoistica del benessere. Si crea un vuoto demografico. In Francia tuttavia, grazie alle politiche familiari, questa tendenza è attenuata.

Il timore di accogliere migranti è alimentato in parte dal timore dell’islam. Secondo lei, la paura che questa religione suscita in Europa è giustificata?

Non credo che oggi ci sia una paura dell’islam in quanto tale, ma di Daesh e della sua guerra di conquista, tratta in parte dall’islam. L’idea di conquista è inerente all’anima dell’islam, è vero. Ma si potrebbe interpretare, con la stessa idea di conquista, la fine del vangelo di Matteo, dove Gesù invia i suoi discepoli in tutte le nazioni. Dinanzi all’attuale terrorismo islamico, converrebbe interrogarsi sul modo in cui è stato esportato un modello di democrazia troppo occidentale in Paesi in cui c’era un potere forte, come in Iraq. O in Libia, dalla struttura tribale. Non si può avanzare senza tener conto di quella cultura. Come ha detto un libico un po’ di tempo fa: «Un tempo avevamo Gheddafi, ora ne abbiamo cinquanta!». In linea di principio, la convivenza tra cristiani e musulmani è possibile. Io vengo da un Paese in cui convivono in buona familiarità. I musulmani vi venerano la Vergine Maria e san Giorgio. Mi è stato detto che in un Paese dell’Africa per il giubileo della Misericordia, i musulmani fanno a lungo la fila davanti alla cattedrale per varcare la porta santa e pregare la Vergine Maria. Nella Repubblica Centrafricana, prima della guerra, cristiani e musulmani vivevano insieme e oggi devono reimparare a farlo. Anche il Libano mostra che ciò è possibile.
Uno Stato deve essere laico. Gli Stati confessionali finiscono male. Ciò va contro la storia. Credo che una laicità accompagnata da una solida legge che garantisca la libertà religiosa offra un quadro per andare avanti. Noi siamo tutti uguali, come figli di Dio o con la nostra dignità di persone. Ma ognuno deve avere la libertà di esteriorizzare la propria fede. Se una donna musulmana vuole portare il velo, deve poterlo fare. Lo stesso se un cattolico vuole portare una croce. Si deve poter professare la propria fede non accanto, ma in seno alla cultura. La piccola critica che rivolgerei alla Francia a tale riguardo è di esagerare la laicità. Ciò deriva da un modo di considerare le religioni come una sottocultura e non come un cultura a pieno titolo. Temo che questo approccio, che si comprende come eredità dell’illuminismo, persista ancora. La Francia dovrebbe fare un passo avanti a tale proposito per accettare che l’apertura alla trascendenza è un diritto per tutti.

In questo contesto laico, i cattolici come dovrebbero difendere le loro preoccupazioni su temi sociali quali l’eutanasia o il matrimonio tra persone dello stesso sesso?

È in Parlamento che bisogna discutere, argomentare, spiegare, ragionare. Così cresce una società. Una volta che la legge viene votata, lo Stato deve rispettare le coscienze. In ogni struttura giuridica deve essere presente l’obiezione di coscienza, perché è un diritto umano. Incluso per un funzionario del governo, che è una persona umana. Lo Stato deve anche rispettare le critiche. Questa è una vera laicità. Non si possono spazzar via gli argomenti dei cattolici dicendo loro: «Parlate come un prete». No, essi si fondano sul pensiero cristiano, che la Francia ha così notevolmente sviluppato.
La figlia maggiore della Chiesa... ma non la più fedele [ride]. Negli anni Cinquanta si diceva anche: “Francia, Paese di missione”. In tal senso, è una periferia da evangelizzare. Ma bisogna essere giusti con la Francia. La Chiesa possiede lì una capacità creatrice. La Francia è anche una terra di grandi santi, di grandi pensatori: Jean Guitton, Maurice Blondel, Emmanuel Lévinas (che non era cattolico), Jacques Maritain. Penso anche alla profondità della letteratura. Apprezzo pure il modo in cui la cultura francese ha impregnato la spiritualità gesuita rispetto alla corrente spagnola, più ascetica. La corrente francese, iniziata con Pierre Favre, pur insistendo sempre sul discernimento dello spirito, dà un altro sapore. Con i grandi padri spirituali francesi: Louis Lallemant, Jean-Pierre de Caussade. E con i grandi teologi francesi, che hanno aiutato tanto la Compagnia di Gesù: Henri de Lubac e Michel de Certeau. Questi ultimi due mi piacciono molto; due gesuiti che sono creativi. Insomma, ecco ciò che mi affascina della Francia. Da un lato questa laicità esagerata, eredità della Rivoluzione francese, e dall’altro tanti grandi santi.


Qual è quello o quella che preferisce?

Santa Teresa di Lisieux.

Lei ha promesso di venire in Francia. Quando sarà possibile un tale viaggio?

Ho ricevuto da poco una lettera d’invito del presidente François Hollande. Anche la conferenza episcopale mi ha invitato. Non so quando avrà luogo questo viaggio, perché il prossimo sarà un anno elettorale in Francia e, in generale, la prassi della Santa Sede è di non compiere visite in quel periodo. Lo scorso anno si è cominciato a formulare ipotesi su un simile viaggio, con una sosta a Parigi e nella sua periferia, a Lourdes e in una città in cui nessun Papa si è ancora recato, Marsiglia per esempio, che rappresenta una porta aperta sul mondo.

La Chiesa in Francia vive una grave crisi di vocazioni sacerdotali. Come fare oggi con così pochi preti?

La Corea offre un esempio storico. Questo Paese è stato evangelizzato da missionari venuti dalla Cina che poi sono andati via. Quindi, per due secoli, la Corea è stata evangelizzata da laici. È una terra di santi e di martiri con una Chiesa forte oggi. Per evangelizzare non c’è necessariamente bisogno di preti. Il battesimo dà la forza per evangelizzare. E lo Spirito Santo, ricevuto nel battesimo, spinge a uscire, a portare il messaggio cristiano, con coraggio e pazienza. È lo Spirito santo il protagonista di ciò che la Chiesa fa, il suo motore. Troppi cristiani l’ignorano. Al contrario, un pericolo per la Chiesa è il clericalismo. È un peccato che si commette in due, come il tango! I sacerdoti vogliono clericalizzare i laici e i laici chiedono di essere clericalizzati, per comodità. A Buenos Aires, ho conosciuto molti bravi preti che, vedendo un laico capace, esclamavano subito: “Facciamone un diacono!”. No, bisogna lasciarlo laico. Il clericalismo è importante soprattutto in America latina. Se la pietà popolare è forte lì è proprio perché è l’unica iniziativa dei laici a non essere clericale. Ed è incompresa dal clero.

La Chiesa in Francia, in particolare a Lione, è attualmente colpita da scandali di pedofilia che riguardano il passato. Che cosa deve fare davanti a questa situazione?

È vero che non è facile giudicare i fatti dopo decenni, in un altro contesto. La realtà non è sempre chiara. Ma per la Chiesa, in questo ambito, non ci può essere prescrizione. Attraverso questi abusi, un prete che ha il compito di guidare un bambino verso Dio lo distrugge. Dissemina il male, il risentimento, il dolore. Come ha detto Benedetto XVI, ci deve essere tolleranza zero. In base agli elementi di cui dispongo, credo che a Lione, il cardinale Barbarin abbia adottato le misure necessarie, abbia preso bene in mano la situazione. È un coraggioso, un creativo, un missionario. Ora noi dobbiamo attendere il prosieguo del procedimento davanti alla giustizia civile.

Il cardinale Barbarin non deve dunque dimettersi?

No, sarebbe un controsenso, un’imprudenza. Si vedrà dopo la conclusione del processo. Ma ora sarebbe dichiararsi colpevole.

Lei ha ricevuto, lo scorso 1° aprile, monsignor Bernard Fellay, superiore generale della Fraternità sacerdotale San Pio X. È di nuovo ipotizzabile la reintegrazione dei lefebvriani nella Chiesa?

A Buenos Aires ho sempre parlato con loro. Mi salutavano, mi chiedevano una benedizione in ginocchio. Si dicono cattolici. Amano la Chiesa. Monsignor Fellay è un uomo con cui si può dialogare. Non è così per altri elementi un po’ strani, come monsignor Williamson, o altri che si sono radicalizzati. Penso, come avevo detto in Argentina, che siano cattolici in cammino verso la piena comunione. In questo anno della Misericordia mi è parso di dover autorizzare i loro confessori a perdonare il peccato di aborto. Mi hanno ringraziato per questo gesto. Prima, Benedetto XVI, che rispettano molto, aveva liberalizzato la messa secondo il rito tridentino. Si dialoga bene, si sta facendo un buon lavoro.

Sarebbe pronto a concedere loro lo statuto di prelatura personale?

Sarebbe una soluzione possibile, ma prima bisogna stabilire un accordo fondamentale con loro. Il concilio Vaticano II ha la sua importanza. Si avanza lentamente, con pazienza.

Lei ha convocato due sinodi sulla famiglia. Questo lungo processo ha, a suo parere, cambiato la Chiesa?

È un processo iniziato al concistoro, introdotto dal cardinale Kasper, seguito da un sinodo straordinario nell’ottobre dello stesso anno, poi da un anno di riflessione e da un sinodo ordinario. Credo che tutti siamo usciti da questo processo diversi da come ci siamo entrati. Anch’io. Nell’esortazione post-sinodale ho cercato di rispettare al massimo il sinodo. Non vi troverete precisazioni canoniche su ciò che si può o si deve fare o meno. È una riflessione serena, pacifica, sulla bellezza dell’amore, su come educare i figli, prepararsi al matrimonio... Valorizza responsabilità che potrebbero essere accompagnate dal Pontificio Consiglio per i laici, sotto forma di linee guida. Al di là di questo processo, dobbiamo pensare alla vera sinodalità, quanto meno a ciò che significa sinodalità cattolica. I vescovi sono cum Petro sub Petro. Ciò differisce dalla sinodalità ortodossa e da quella delle Chiese greco-cattoliche dove il patriarca conta solo per uno. Il concilio Vaticano II offre un ideale di comunione sinodale ed episcopale. Lo si deve ancora far crescere, anche a livello parrocchiale rispetto a quanto viene prescritto. Ci sono parrocchie che non sono dotate né di un consiglio pastorale né di un consiglio per gli affari economici quando il Codice di diritto canonico le obbliga ad averli. La sinodalità si gioca anche lì.

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 Tra le tante, riteniamo particolarmente interessanti le affermazioni del Pontefice sulle radici religiose e culturali dell’Europa e sui rapporti con il mondo islamico, che si ritrovano non a caso nei primi passaggi dell’intervista, laddove – non si può non notarlo – dopo il riconoscimento del fatto che gli stati confessionali vanno contro la storia, egli afferma che la Francia esagera con la laicità [!!].
A questo proposito riportiamo qui, quale condivisibile commento critico nei confronti delle argomentazioni di Jorge Mario Bergoglio, alcuni passi tratti da 266., un agile libretto di Aldo Maria Valli, vaticanista del TG1, autore di diversi libri sulla Chiesa e sulla Santa Sede, pubblicato nel 2016 dalle edizioni Liberilibri.
Secondo Valli, il parallelo proposto dal Papa tra cristianesimo e islam quando interpreta come attività di conquista l’invio da parte di Gesù dei suoi discepoli in tutte le nazioni, è “quantomeno inquietante, perché profondamente sbagliato” (pag. 103). [Il riferimento è a Matteo, 28: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato”].
 Ogni religione può avere un problema con la violenza, può essere usata in modo fanatico, concede Valli. “Ma sostenere che il cristianesimo e l’islam siano in questo senso speculari non è corretto, perché il Nuovo Testamento e il Corano non sono la stessa cosa”. “L’islam – sostiene il vaticanista – ha un problema con la violenza di matrice religiosa, come aveva segnalato benedetto XVI a Ratisbona nel 2006” (pag. 105). [Si veda: http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/11/fede-e-ragione-la-lectio-magistralis-di.html]
Ugualmente discutibile è l’affermazione del Papa – già segnalata – secondo cui la Francia avrebbe una esagerata concezione della laicità dello Stato: “Ma Francesco ha presente che cosa sia la libertà? Per la donna musulmana spesso il velo non è una scelta, ma un’imposizione [..]. Non così per il cristiano, al quale nessuno impone, tanto meno dietro minaccia, di portare al collo la croce” (pag. 105).
Quanto alle parole del Papa sulla pluralità delle radici dell’Europa, esse sono certamente condivisibili, perfino ovvie. “Ma nessuno può negare – puntualizza Valli – che, fra le tante, ci sia una radice più decisiva e profonda: è quella giudaico-cristiana” (pag. 116). E tale affermazione non va nel senso della rivendicazione di una qualche supremazia o men che meno di una qualsiasi forma di esclusivismo, bensì costituisce il riconoscimento del fondamento dei valori di libertà dell’Europa.
L’Europa che riconosce le proprie radici non si comporta in modo colonialistico, come afferma Bergoglio nell’intervista. Parlare di colonialismo è quantomeno una esagerazione. “Francesco – conclude il vaticanista con parole che chi scrive ritiene del tutto condivisibili – aiuta noi europei a considerare i problemi da una prospettiva diversa dalla nostra, e va bene. Meno bene va quando le analisi sono sviluppate in modo superficiale o addirittura fuorviante” (pag. 118). Come disse Giovanni Paolo II, qui citato da Valli, “le radici cristiane non sono una memoria di esclusivismo religioso, ma un fondamento di libertà, perché rendono l’Europa un crogiuolo di culture e di esperienze differenti” (pag. 117), e sono queste parole alle quali non è certamente possibile attribuire alcuna valenza colonialista o esclusivista.


Da leggere:

Aldo Maria Valli, 266. Jorge Mario Bergoglio Franciscus P.P., Ed. Liberilibri
Aldo Maria Valli, Come la Chiesa finì, Ed. Liberilibri