giovedì 31 dicembre 2020

Trump, le meteore e l'Alchimia

In questi ultimi mesi, ovviamente sommersa dallo tsunami mediatico scatenato dalla pandemia, è passata quasi inosservata la notizia secondo la quale l’ormai ex-Presidente degli Stati Uniti Donald Trump avrebbe dato il via allo sfruttamento delle risorse presenti sulla Luna e sugli altri corpi celesti.

Si possono leggere ulteriori dettagli nel sito www.globalscience.it/18334/usa-si-allo-sfruttamento-dello-spazio-extraterrestre, pubblicati da Fulvia Croci il 7 Aprile 2020:

 “Trump dà il via libera allo sfruttamento delle risorse della Luna e degli altri corpi celesti. Lo scorso 6 aprile il presidente ha firmato un ordine esecutivo, lo “Executive Order On Encouraging International Support for the Recovery and Use of Space Resources” che stabilisce la politica degli Stati Uniti sullo sfruttamento delle risorse extraterrestri.  Tale politica sottolinea che l’attuale regime normativo – in particolare il Trattato sullo Spazio Extra Atmosferico del 1967 – consente l’utilizzo di tali risorse ma vieta, ai quasi cento stati che l’hanno ratificato, di colonizzare i corpi celesti o di usarli per scopi militari. L’accordo ha assunto con il passare del tempo un ruolo sempre più decisivo per via del crescente interesse degli stati verso lo sfruttamento delle risorse di Marte, della Luna e degli asteroidi.

Sebbene gli Stati Uniti siano tra i firmatari del trattato del ‘67, non hanno mai ratificato un altro documento strategico: il Trattato sulla Luna del 1979. L’atto stabilisce che l’uso non scientifico delle risorse lunari sia regolato da un quadro normativo internazionale, ovvero dal Trattato sullo spazio extra atmosferico. In breve, la Luna è disciplinata totalmente dal documento del 1967 ed è pertanto considerata un luogo aperto all’uso di tutti, anche per uso commerciale. Basandosi su questi presupposti il Congresso americano ha approvato già nel 2015 una legge che consente alle società e ai cittadini americani di utilizzare le risorse lunari e degli asteroidi per fini commerciali.

L’ordine del 6 aprile sottolinea che gli Stati Uniti dichiara apertamente che il Paese si dedicherà alla ricerca di soluzioni per poter dare il via all’estrazione mineraria delle risorse situate su altri corpi celesti, senza la necessità di ulteriori accordi internazionali. Secondo quanto dichiarato dai funzionari dell’amministrazione Trump l’ordine vuole chiarire la posizione degli Stati Uniti sul tema mentre sono in corso i negoziati con i partner internazionali coinvolti nel programma Artemis. Il programma mira al ritorno di astronauti sulla Luna nel 2024 con l’obiettivo di stabilire una presenza umana permanente sulla sua superficie entro il 2028.”

Meteorite

  

Non rivestono qui alcun interesse gli aspetti geopolitici, economici o tecnologici della notizia – per quanto siano certo di fondamentale importanza.

È invece da segnalare, almeno per chi guarda un poco più lontano nel tempo e nei significati più profondi delle vicende umane, che lo sfruttamento delle risorse extra-terrestri, almeno quelle minerarie, non è un evento futuribile dovuto a Trump o alla NASA, ma è un fatto già verificatosi in epoche apparentemente molto lontane dal nostro presente, epoche semplicisticamente definite “preistoriche”, come se solo ciò che accade da poche migliaia di anni fosse degno di essere chiamato “storia”, mentre tutto ciò che lo precede non foss’altro che una sorta di preparazione, un Avvento dei miracoli dell’Età Contemporanea.

Ci racconta infatti il grande studioso Mircea Eliade che i cosiddetti “primitivi” lavoravano il ferro contenuto nelle meteoriti cadute sulla Terra ancor prima di utilizzare i minerali ferrosi della superficie.

Leggiamo nel capitolo I, Meteoriti e metallurgia, del volume Arti del metallo e alchimia pubblicato da Boringhieri nel 1980:

  I “primitivi” hanno lavorato a lungo il ferro meteoritico prima di imparare a utilizzare i minerali ferrosi di superficie. Si sa, d’altronde, che prima di scoprire il procedimento di fusione, i popoli preistorici trattavano alcuni minerali come pietre; li consideravano, cioè, materiali grezzi per la fabbricazione degli utensili litici. Una tecnica simile era applicata, fino a epoca recentissima, da alcune popolazioni che ignoravano la metallurgia e lavoravano il ferro meteoritico con martelli silicei, foggiando oggetti la cui forma riproduceva perfettamente modelli litici. Allo stesso modo, gli Eschimesi della Groenlandia fabbricavano i loro coltelli con ferro meteoritico. Quando Cortez domandò ai capi aztechi da dove ricavassero i coltelli, essi gli indicarono il cielo. Come i Maya dello Yucatan e gli Incas del Perù, gli Aztechi utilizzavano unicamente il ferro meteoritico, che per questo stimavano più dell'oro. Anch’essi ignoravano la fusione dei minerali. Gli archeologi non hanno trovato traccia di ferro terrestre nei giacimenti preistorici del Nuovo Mondo. Nell’America centrale e meridionale, la metallurgia propriamente detta è, molto probabilmente, di origine asiatica: le ultime ricerche tendono a metterla in relazione con la cultura della Cina meridionale d’epoca Chou media e tarda, tra l’ottavo e il quarto secolo a.C.; essa sarebbe, in definitiva, di origine danubiana, poiché è danubiana la metallurgia che, intorno al nono-ottavo secolo a.C. giunse, attraverso il Caucaso, fino in Cina.

Con grande probabilità, i popoli dell'Oriente antico condividevano idee analoghe. Il termine sumerico AN-BAR, il vocabolo più antico che designi il ferro, è costituito dai segni pittografici “cielo” e “fuoco”. Lo si traduce generalmente con “metallo celeste” o “metallo stella”. Campbell Thompson lo traduce “lampo celeste (della meteorite)”. L'etimologia dell'altro nome mesopotamico del ferro, l'assiro parzillu, resta controversa. Secondo alcuni studiosi deriverebbe dal sumerico BAR.GAL, il “grande metallo”, ma è più diffusa la tesi di una sua origine asiatica, a causa della terminazione in -ill. Forbes, Bork e Gaertz hanno proposto, peraltro, un’origine caucasica.

Noi non intendiamo affrontare il complesso problema della metallurgia del ferro nell'antico Egitto. Per molto tempo, gli Egiziani conobbero solamente il ferro meteoritico. Pare che il ferro dei giacimenti non sia stato utilizzato, in Egitto, prima della diciottesima dinastia e del Nuovo Impero. E’ vero che oggetti in ferro terrestre sono stati rinvenuti tra i massi della Grande Piramide (2900 a.C.) e in una piramide della sesta dinastia, ad Abido, ma la provenienza egizia di questi oggetti non è stata ancora stabilita con certezza. Il termine biz-n.pt, “ferro del cielo”, o, più esattamente, “metallo del cielo”, rinvia chiaramente a un’origine meteoritica. E’ d'altronde possibile che il termine sia stato originariamente applicato al rame. Identica la situazione presso gli Ittiti: un testo del quattordicesimo secolo precisa che i re ittiti utilizzavano “il ferro nero del cielo”. Il ferro meteoritico era noto a Creta fin dall'epoca minoica (2000 a.C.), e oggetti di ferro sono stati rinvenuti nelle tombe di Cnosso. L’origine “celeste” del ferro è, forse, attestata dal vocabolo greco sideros, che è messo in rapporto con il latino sidus, -eris, “stella”, e con il lituano svidu, “brillare”, svideti, “brillante”.

La colonna in ferro meteorico a Delhi

 
Ulteriori considerazioni richiederebbero poi i significati profondi della metallurgia, i suoi legami con l’arte dell’Alchimia, la figura del fabbro nel mito e nella società, quanto il metallo coinvolga gli aspetti della vita umana in maniera sempre più crescente, segnando simbolicamente e fattualmente la discesa dell’umanità nell’età del ferro, l’era oscura del Kali Yuga. Sarà tutto questo oggetto di un prossimo intervento.

 

sabato 26 dicembre 2020

Rimanere in casa, essere casa

Sul periodico francescano “Voce Serafica” del dicembre 2020 possiamo leggere un significativo intervento di fra Pietro Maranesi, dal titolo “Natale – Fare abitare Dio in noi”, nel quale la problematicità dell’attuale momento storico, caratterizzato da una pandemia di dimensioni planetarie e da scelte di politica sanitaria difficili quanto discutibili, e la nozione di “casa” nei suoi significati più profondi vengono rilette e positivamente rovesciate attraverso gli insegnamenti di Francesco di Assisi.

Proponiamo qui il testo di fra Maranesi, quale attiva meditazione sul senso del nostro restare in casa, diventando noi stessi “casa”.

Lorenzo Costa - 1490

Il Coronavirus sembrerebbe spingerci di nuovo dentro casa, da sempre luogo di rifugio ma che in questi momenti avvertiamo come fastidioso e a volte anche come angoscioso. Per guardare ancora questo spazio con stupore e ringraziamento, ci vengono in aiuto non solo l'evento del Natale ma anche le parole di Francesco di Assisi.

Ricordiamoci che Egli non ha avuto una casa a sua disposizione per poter nascere: quanto sarebbe stato bello e consolante per Maria e Giuseppe, in affanno e nel bisogno di cercare rifugio e riparo, avere un'abitazione dove dare al mondo il loro figlio. Perché è dentro le case che nascono i bambini: lì è il luogo dove viene alla luce la vita e trova il suo luogo di crescita. Per fare Natale bisogna avere una casa!

E allora capiamo l'esortazione rivolta da Francesco ai suoi frati invitandoli in qualche modo a prepararsi al Natale: “Sempre costruiamo in noi un'abitazione e una dimora permanente a Lui, che è il Signore Dio onnipotente” (S. Francesco di Assisi, Regola non bollata XXII, FF 61). La prima casa a cui il Coronavirus ci obbliga a ritornare non è una casa in muratura, quella che è fuori di noi, ma è la casa dentro di noi; e lì preparare il luogo dove abitare insieme a Colui che è la vita. Solo dopo potremo tornare ad abitare le nostre mura domestiche, la nostra quotidianità, e farlo con quella disponibilità carica di stupore e ringraziamento che trasformerà in uno spazio pieno di luce un posto che, al tempo del Covid-19, sembrerebbe essere a volte e troppo spesso solo un buio, cupo e angusto luogo di rifugio. A questa immagine bellissima offertaci da Francesco voglio aggiungere qualcosa di simile presente in una famosa preghiera scritta da Etty Hillesum durante una domenica in cui la sua vita di donna ebrea era minacciata dall'arrivo dei nazisti, pericolo ben più tragico del Coronavirus: “L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi e anche l'unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio”. Salvare Lui in noi, dandogli un'abitazione permanente, è fare Natale, perché gli permettiamo di nascere dentro i nostri luoghi, dove oggi ci sentiamo costretti per la paura e lo sconcerto. E là dentro, dentro di noi, lasciamolo essere con noi, perché la sua nascita farà rinascere in noi la fiducia alla vita e la disponibilità ad essere l'uno per l'altro spazio ospitale e familiare. E solo allora il nostro rifugio - anche se minacciato e intaccato dalla pandemia - diventerà un luogo divino, diventerà davvero Natale.