Per comprendere lo
tsunami di retorica patriottarda di queste settimane; la melassa buonista dei
“social”; lo pseudo-egualitarismo del populismo xenofobo e l’anti-elitarismo
ignorante dell’uno vale uno (cioè nulla); il fallimento dell’ottimismo
scientista e del dogma materialista del “progresso”; l’apparente neutralità e
sacralità dei numeri quotidiani: il PIL, lo spread, i tamponi, i morti con o
senza virus; la chiusura delle chiese e la ripartenza dei meccanismi del “produci-consuma-crepa”…
Uno scritto del
1927 duro, tagliente e doloroso, che mette in discussione il tabù del
democraticismo ridotto ad un mero conteggio di alzate di mano o di crocette su
una scheda. Uno scritto da leggere, da cui farsi scandalizzare, e poi da
rileggere ancora. E da usare, per capire, oppure da gettar via, magari
definendolo fascista, indossando la consueta, consolatoria, rassicurante foglia
di fico, per sentirsi degni eredi di ciò che alcuni furono, ma che noi non siamo.
Il caos sociale -
critica del democraticismo
di René Guénon
In
questo studio non intendiamo trattare in modo speciale il punto di vista
sociale, punto di vista che ci interessa solo assai indirettamente, non
rappresentando che un’applicazione alquanto lontana dei princìpi fondamentali.
Così, non è nel dominio sociale che in ogni caso potrebbe prendere inizio
un’essenziale rettificazione del mondo moderno. Se questa rettificazione
venisse infatti attuata a rovescio, partendo dalle conseguenze anziché dai
princìpi, essa mancherebbe per forza di una base seria e sarebbe affatto
illusoria. Nulla di stabile potrebbe mai risultarne e bisognerebbe cominciar
sempre di nuovo per aver trascurato d’intendersi anzitutto circa le verità
essenziali. Per cui, non ci è possibile concedere alle contingenze politiche,
anche dando a questa parola il suo senso più ampio, altro valore se non quello
di semplici segni esteriori della mentalità di un’epoca. Ma per ciò stesso non
possiamo nemmeno passar del tutto sotto silenzio le manifestazioni del
disordine moderno nel dominio sociale propriamente detto, nelle loro forme più
caratteristiche, che giungono fino al periodo dell’immediato dopoguerra 1: i
fenomeni politico-sociali più recenti, in parte di “reazione” o
“controrivoluzione”, per ora li lasceremo fuori di considerazione, anche perché
finora essi non hanno sviluppato tutte le loro possibilità fino a dar materia
ad un giudizio definitivo dal punto di vista in cui noi qui ci poniamo
esclusivamente, cioè da un punto di vista universale e superpolitico.
Come
si è detto poco fa, allo stato attuale del mondo occidentale quasi nessuno si
trova nel posto che normalmente gli spetterebbe in base alla sua natura
propria. Ciò si vuole esprimere dicendo che le caste non esistono più, poiché
la casta, intesa nel suo senso vero e tradizionale, altro non è che la stessa
natura individuale con l’insieme delle attitudini speciali che essa implica e
che predispongono ogni uomo all’adempimento di una data funzione e non di
un’altra. Quando l’accesso a qualsiasi funzione non è più controllato da alcuna
regola legittima, il risultato inevitabile è che ognuno sarà portato a fare
qualunque cosa e spesso ciò per cui egli è meno dotato. La funzione che egli
avrà nella società sarà determinata, se non dal caso, giacché il caso in realtà
non esiste, da qualcosa che può sembrare il caso, cioè da un intreccio di
circostanze accidentali d’ogni specie. L’ultimo ad intervenire, sarà proprio il
solo fattore che dovrebbe contare in un simile caso, cioè la differenza di
natura esistente fra gli uomini. La causa di siffatto disordine è la
denegazione di una tale differenza, denegazione che implica quella di ogni
gerarchia sociale. E una tale negazione, che forse a tutta prima può essere
stata appena cosciente e più pratica che teorica, perché la confusione delle
caste ha preceduto la loro completa soppressione, o, in altre parole, perché si
è disconosciuta la natura dei singoli prima di finire col non tener alcun conto
di essa – una tale negazione, diciamo, è stata costituita dai moderni in uno
pseudo-principio sotto il nome di “eguaglianza”.
Ora,
sarebbe troppo facile dimostrare che l’eguaglianza non può esistere in nessun
caso, per la semplice ragione che è impossibile che due esseri siano realmente
distinti eppure simili sotto ogni riguardo. Non meno facile sarebbe mettere in
rilievo tutte le conseguenze assurde che derivano da questa idea chimerica, in
nome della quale si è preteso di imporre dappertutto un completo uniformismo,
ad esempio impartendo a tutti un identico insegnamento, come se tutti fossero
egualmente capaci di capire le stesse cose e come se, per farle comprendere,
gli stessi metodi fossero adatti per tutti indistintamente. D’altronde, ci si
può chiedere se non si tratti più di “apprendere” che non di veramente
“comprendere”, cioè se non si sia sostituita la memoria all’intelligenza nella
concezione affatto verbale e “libresca” del moderno insegnamento, il quale mira
solo ad accumulare nozioni elementari e eteroclite e nel quale la qualità resta
interamente sacrificata alla quantità, come accade dappertutto nel mondo
moderno per ragioni che chiariremo in seguito: si tratta sempre di una
dispersione nel molteplice. Nel riguardo, vi sarebbe molto da dire sui misfatti
democratici dell’“istruzione obbligatoria”: ma non è questo il luogo
d’insistervi e, per non uscire dallo schema che ci siamo proposto, dobbiamo
limitarci a segnalare di passata questa conseguenza speciale delle teorie
“egualitarie” come uno di quegli elementi di disordine, che son divenuti troppo
numerosi per poterli enumerare tutti senza omissioni.
Naturalmente,
quando noi ci troviamo di fronte ad una idea, come quella dell’ “eguaglianza”,
o del “progresso”, o di fronte ad altri “dogmi laici” che quasi tutti i nostri
contemporanei hanno accettato ciecamente e la maggior parte dei quali han
cominciato già a formularsi nettamente durante il XVIII secolo, non ci è
possibile ammettere che tali idee siano nate spontaneamente. Si tratta, in
fondo, di autentiche “suggestioni”, nel senso più stretto della parola, che
peraltro poterono produrre un effetto solo in un ambiente già preparato a
riceverle. Se dunque esse non hanno creato lo stato d’animo complessivo che
caratterizza l’epoca moderna, hanno tuttavia contribuito ad alimentarlo e a
svilupparlo fino ad un punto, che altrimenti non sarebbe stato di certo
raggiunto. Se queste suggestioni venissero meno, la mentalità generale sarebbe
assai vicina a cambiar d’orientamento: per questo esse vengono così
accuratamente favorite da tutti coloro che hanno un qualche interesse a
protrarre il disordine, se non pure ad aggravarlo – e tale è anche la ragione
per cui in tempi, nei quali si pretende di tutto sottoporre alla discussione,
queste suggestioni sono le sole cose che non si debbono mai discutere. Del
resto è difficile determinare esattamente il grado di sincerità di coloro che
si fanno i propagandisti di simili idee, e sapere in che misura certe persone
finiscono con l’essere prese dalle loro stesse menzogne e col suggestionarsi
all’atto di voler suggestionare gli altri. Spesso in una propaganda del genere
gli ingenui sono anzi gli strumenti migliori, perché vi portano una convinzione
che agli altri sarebbe alquanto difficile fingere, e che è facilmente
contagiosa. Ma dietro a tutto questo, almeno inizialmente, occorre che vi sia
stata un’azione assai più cosciente, una direzione che può venir soltanto da
uomini sapienti perfettamente il fatto loro in ordine alle idee fatte circolare
in tal guisa. Noi abbiamo parlato di “idee”, ma una tale parola qui calza assai
poco, essendo evidente che nella fattispecie non si tratta per nulla di idee
pure e nemmeno di alcunché che appartenga come che sia all’ordine
intellettuale. Si tratta, se si vuole, di idee false, ma sarebbe ancor meglio
chiamarle “pseudo-idee”, destinate soprattutto a provocare reazioni
sentimentali, questo essendo il mezzo più efficace e più facile per agire sulle
masse. Del resto, in questo ambito, le parole hanno una importanza maggiore dei
concetti che esse dovrebbero esprimere e la gran parte degli “idoli” moderni
non sono, invero, che parole, e noi ci troviamo dinanzi al curioso fenomeno
noto sotto il nome di “verbalismo”: la sonorità delle parole basta a dare una
illusione di pensiero. L’influenza che gli oratori demagogici esercitano sulle
folle è, a tale riguardo, assai caratteristica e non occorre studiarla da
presso per rendersi conto che si tratta di un procedimento di suggestione
paragonabile in tutto e per tutto a quello degli ipnotizzatori.
Ma
senza soffermarci ulteriormente su queste considerazioni, torniamo alle
conseguenze della negazione di ogni vera gerarchia e notiamo che allo stato
attuale delle cose non solo ogni uomo adempie alla sua funzione propria solo
eccezionalmente e quasi accidentalmente, mentre è proprio l’opposto che in via
normale dovrebbe essere l’eccezione; ma accade altresì che uno stesso individuo
sia chiamato a esercitare successivamente funzioni affatto diverse, quasi come
se le sue attitudini potessero venir cambiate a volontà. In un’epoca di
“specializzazione” ad oltranza, ciò può sembrare paradossale, ma pure così è, specie
nel mondo politico obbediente alle ideologie democratiche e liberali.
Se
la competenza degli “specialisti” è spesso illusoria e in ogni caso ristretta
ad un dominio limitatissimo, la fede in una tale competenza è tuttavia un
fatto, per cui ci si può chiedere come è che questa fede non abbia più parte
alcuna quando si tratta della carriera degli uomini politici, ove, in regime
parlamentare, l’incompetenza più completa ben di rado ha costituito un
ostacolo. Tuttavia, pensandoci sopra, ci si accorge facilmente che non v’è da
stupirsi, che si tratta insomma di un risultato naturalissimo della concezione
“democratica”, in virtù della quale il potere viene dal basso e poggia
essenzialmente sulla maggioranza, cosa che ha per necessario corollario
l’esclusione di ogni vera competenza, dato che la competenza è sempre una
superiorità, anche se relativa, e può esser solo di pertinenza di una
minoranza. Qui qualche spiegazione non sarà inutile per mettere in rilievo, da
un lato, i sofismi nascondentisi dietro l’idea “democratica”, dall’altro, i
legami che connettono tale idea con tutto l’insieme della mentalità moderna.
Dato il punto di vista in cui ci poniamo, è quasi superfluo far rilevare che
queste osservazioni saranno formulate fuor da ogni quistione di partito e da
ogni disputa politica. Noi consideriamo queste cose in modo assolutamente
disinteressato, come si farebbe per qualsiasi altro oggetto di studio, cercando
solo di renderci conto il più chiaramente possibile di quel che vi è al fondo
di tutto ciò; il che è del resto la condizione necessaria e sufficiente per
dissipare tutte le illusioni che i moderni si sono fatte nel riguardo. Se, come
è stato detto poco fa circa le idee un po’ diverse, si tratta proprio di
“suggestione”, basterà accorgersene e comprendere come la suggestione agisca,
per impedire senz’altro a quelle illusioni di svilupparsi e di attecchire.
Contro cose del genere un esame un po’ approfondito e puramente “oggettivo” –
come oggi si dice nel gergo speciale preso in prestito dai filosofi tedeschi –
è assai più efficace che non tutte le dichiarazioni sentimentali e le polemiche
partigiane, che non provano nulla e sono l’espressione di mere preferenze
individuali.
L’argomento
più decisivo contro la “democrazia” si riduce a due parole: il superiore non
può promanare dall’inferiore, perché il più non può trarsi dal meno. Ciò è di
un rigore matematico assoluto, contro cui non v’è cosa che possa. Importa
notare che proprio lo stesso argomento, applicato ad un altro ordine, vale
anche contro il “materialismo”: concordanza per nulla fortuita, giacché le due
attitudini sono assai più connesse di quanto possa sembrare a prima vista. E’
fin troppo evidente che il popolo non può conferire un potere che esso non
possiede. Il vero potere può solo venire dall’alto, ed è per questo, diciamolo
di passata, che esso può divenire legittimo solo attraverso la sanzione di
qualcosa di superiore all’ordine sociale, cioè di una autorità spirituale:
altrimenti è solo una contraffazione di potere, uno stato di fatto ingiustificato
perché mancante di un principio, e tale da dar luogo solo a disordine e
confusione. Questo capovolgimento di ogni gerarchia comincia non appena il
potere temporale vuole rendersi indipendente dall’autorità spirituale, e poi
subordinarla a sé, pretendendo di asservirla a finalità materialisticamente
politiche. Questa è la prima usurpazione che apre la via a tutte le altre, e si
potrebbe mostrare ad esempio che la regalità francese, a partire dal XIV
secolo, ha lavorato inconsciamente a preparare la Rivoluzione che poi doveva
rovesciarla. E’ un punto che noi abbiamo sviluppato in un altro lavoro, per cui
qui ci limitiamo a questo accenno sommario.
Definita
come l’autogoverno del popolo, la “democrazia” è una vera impossibilità,
qualcosa che non può nemmeno esistere come un fatto bruto, né nell’epoca
nostra, né in un’altra qualsiasi. Non bisogna farsi giocare dalle parole: è
contradditorio ammettere che stessi uomini possano essere ad un tempo governati
e governanti perché, usando il linguaggio aristotelico, uno stesso essere non
può essere in “atto” e in “potenza” simultaneamente e sotto lo stesso riguardo.
La relazione suppone necessariamente la presenza di due termini: non possono
esservi dei governati se non vi sono anche dei governanti, siano pur essi
illegittimi e non aventi altro diritto al potere oltre quello che essi stessi
si sono arrogato. Ma la grande abilità dei dirigenti democratici del mondo
moderno sta nel far credere al popolo che esso si governi da sé. E il popolo si
lascia persuadere volentieri, tanto più che così esso si sente adulato, mentre
è incapace di riflettere quanto occorre per accorgersi di una simile
impossibilità. Per creare questa illusione, si è inventato il “suffragio
universale”: è l’opinione della maggioranza come presunto principio della
legge. Ciò di cui non ci si accorge, è che l’opinione pubblica è qualcosa che
si può facilissimamente dirigere e modificare. Per mezzo di adeguate
suggestioni in essa si possono sempre provocare delle correnti nell’uno o
nell’altro senso. Non ricordiamo più chi ha parlato di “fabbricare l’opinione”:
espressione giustissima, benché bisogna dire, da un lato, che i dirigenti
apparenti non sono sempre coloro che dispongono dei mezzi necessari per venire
a tanto. Quest’ultima osservazione spiega anche perché l’incompetenza degli
uomini politici più in vista sembra non aver avuto che un peso assai relativo
nel periodo demo-liberale cui alludiamo e là dove concezioni del genere ancor
oggi persistono. Ma poiché qui non ci siamo proposti di analizzare
l’ingranaggio di ciò che si potrebbe chiamare la “macchina per governare”, ci
limiteremo a segnalare che questa stessa incompetenza offre il vantaggio di
alimentare la illusione in discorso: effettivamente solo in tali condizioni gli
uomini politici in quistione possono sembrare l’emanazione della maggioranza,
apparendo quasi come un’immagine di essa, giacché la maggioranza, quale si sia
la materia su cui è chiamata a pronunciarsi, sarà sempre costituita dagli
incompetenti, il cui numero è incomparabilmente più grande di quello degli
uomini capaci di decidere con piena cognizione di causa.
Ciò
permette senz’altro di dire che il principio, secondo cui la maggioranza
dovrebbe dettar legge, è essenzialmente sbagliato. Anche se un tale principio,
per la forza stessa delle cose, è solo teorico e non può corrispondere a
nessuna realtà effettiva, resta tuttavia da spiegare come è che esso abbia
potuto far presa sullo spirito moderno, resta da vedere quali sono le tendenze
di quest’ultimo alle quali esso corrisponde, e che esso almeno in apparenza,
soddisfa. L’errore più visibile è proprio quello or ora indicato: il parere
della maggioranza non può essere che l’espressione dell’incompetenza, la quale
poi risulta dalla mancanza d’intelletto o dall’ignoranza pura e semplice. Qui
si potrebbero fare intervenire alcune osservazioni in fatto di “psicologia
collettiva” ricordando soprattutto il fatto ben noto, che in una folla
l’insieme delle reazioni mentali producentisi negli individui che ne fanno
parte forma una risultante che non corrisponde nemmeno al livello medio, bensì
a quello degli elementi più bassi. D’altra parte, vi sarebbe anche da rilevare
che certi filosofi moderni hanno voluto trasportare nell’ordine intellettuale
la teoria “democratica” che fa prevalere il parere della maggioranza, facendo
di quel che essi chiamano il “consenso universale” un preteso “criterio di
verità”. Anche supponendo che vi siano effettivamente cose su cui tutti gli
uomini siano d’accordo, questo accordo, in sé stesso, non proverebbe proprio
nulla. Inoltre anche se questa umanità esistesse – cosa dubbia già per il fatto
che vi saranno sempre uomini che non hanno opinioni di sorta circa una data
quistione e che tale quistione non se la son mai posta – sarebbe impossibile
verificarla praticamente, per cui quel che si invoca in favore di una opinione
come segno della sua verità si riduce ad esser soltanto l’assenso del maggior
numero, riferentesi, per di più, ad un ambiente necessariamente limitato nello
spazio e nel tempo. In questo dominio appare in modo ancor più chiaro che la
teoria in quistione è priva di base, perché qui è più facile isolarla
dall’influenza del sentimento, che invece ha quasi inevitabilmente una parte
non appena si entri nel campo politico. Proprio questa influenza è uno dei
principali ostacoli per la comprensione di certe cose, perfino in coloro la cui
capacità intellettuale sarebbe già più che sufficiente per pervenire senza
fatica a tale comprensione. Gli impulsi emotivi inibiscono la riflessione e una
delle abilità più volgari della politica demagogica moderna è quella che
consiste nel trar partito da tale incompatibilità.
Ma
andiamo più in fondo alla quistione: che cosa è propriamente cotesta legge del
maggior numero invocata dai governi moderni più o meno democratici come unica
loro giustificazione? E’ semplicemente la legge della materia e della forza
bruta, la legge stessa in virtù della quale una massa trasportata dal proprio
peso schiaccia tutto quel che incontra sulla sua via. Proprio qui si ha il punto
d’interferenza fra la concezione “democratica” e il “materialismo” e ciò che fa
sì che quella concezione sia intimamente legata alla mentalità attuale. E’ il
completo capovolgimento dell’ordine normale, giacché è la proclamazione della
supremazia della molteplicità come tale, supremazia che effettivamente esiste
soltanto nel mondo materiale 2. Invece nel mondo spirituale, e ancor più
semplicemente nell’ordine universale, l’unità sta al sommo della gerarchia,
essendo il principio donde procede ogni molteplicità 3; ma quando il principio
viene negato o viene perduto di vista, non resta più che la molteplicità pura,
identificantesi alla stessa materia.
D’altra
parte, l’accenno ora fatto al peso è più di un semplice paragone, perché il
peso, nel dominio delle forze fisiche nel senso più comune del termine,
rappresenta effettivamente la tendenza discendente e comprensiva, che crea
nell’essere una limitazione sempre più grande e che in pari tempo procede nella
direzione della molteplicità, figurata qui da una densità sempre maggiore 4; ed
è questa tendenza che indica il senso secondo cui l’attività umana si è
sviluppata a partir dall’epoca moderna. V’è inoltre da notare che la materia,
per via del suo potere di divisione e in pari tempo di limitazione, è quel che
la dottrina scolastica chiama “principio d’individuazione”, il che riallaccia
le considerazioni ora esposte a quanto abbiamo detto precedentemente circa
l’individualismo. Proprio la tendenza ora in quistione potrebbe dirsi la
tendenza “individualizzante”, quella secondo cui si attua ciò che la tradizione
giudeo-cristiana designa come la “caduta” degli esseri separatisi dall’unità
originaria 5. La molteplicità considerata fuor dal suo principio e come tale
insuscettibile ad essere ricondotta all’unità, nell’ordine sociale è la
collettività concepita come la mera somma aritmetica degli individui che la
compongono, e che essa non è più connessa a nessun principio superiore agli
individui. Da tale punto di vista la legge della collettività è proprio la
legge del maggior numero su cui si basano le varietà dell’idea “democratica”.
Su
ciò, bisogna fermarsi un istante per prevenire una possibile confusione.
Parlando dell’individualismo moderno abbiamo considerato quasi esclusivamente
le sue manifestazioni nell’ordine intellettuale. Si potrebbe credere che
nell’ordine sociale il caso sia ben diverso. Se infatti si prendesse il termine
“individualismo” nella sua accezione più ristretta si potrebbe esser tentati di
contrapporre la collettività all’individuo e di pensare che fenomeni, come la
parte sempre più invadente degli Stati collettivistici antiliberali e la
complessità crescente delle relative istituzioni sociali centralizzate, siano
il segno di una tendenza opposta all’individualismo. In realtà, non si tratta
di nulla di simile: la collettività altro non è che la somma degli individui e
come tale non è l’opposto di questi, come non lo è lo stesso Stato concepito
alla moderna, cioè come una semplice espressione della massa, in cui non si
riflette alcun principio superiore (caso-limite: lo Stato-massa autoritario del
sovietismo materialista). Ora, Proprio la negazione di ogni principio
super-individuale costituisce l’individualismo quale noi lo abbiamo definito.
Se dunque nel campo sociale si verificano dei conflitti fra varie tendenze
derivanti tutte e in egual modo dallo spirito moderno, tali conflitti non sono
tra l’individualismo e qualcosa d’altro, ma solo fra le varietà multiple o le
multiple conseguenze cui lo stesso individualismo dà luogo; ed è facile
rendersi conto che, finché mancherà ogni principio capace di unificare realmente
dall’alto la molteplicità, tali conflitti saranno sempre più numerosi e più
gravi nella nostra epoca che non in un qualsiasi tempo passato, giacché chi
dice individualismo dice necessariamente divisione – e questa divisione, con lo
stato di caos che essa ingenera, è la conseguenza fatale di ogni civiltà
soltanto materiale, la radice della divisione e della molteplicità essendo
propriamente la stessa materia.
Ciò
detto, bisogna insistere ancora su di una conseguenza immediata dell’idea
“democratica” in generale, e in particolare di quella “collettivista”: è la
negazione dell’élite intesa nella sua sola accezione legittima. Non per nulla
“democrazia” si oppone ad “aristocrazia”, questa seconda parola, almeno quando
è intesa nel suo senso etimologico, designando precisamente il potere
dell’élite. La quale, quasi per definizione, non può essere che una minoranza,
e la sua potenza o, per dir meglio, la sua autorità, procedente dalla sua
superiorità intellettuale, non può avere nulla in comune con la forza numerica
su cui poggia la “democrazia”, il carattere essenziale della quale è di
sacrificare la minoranza alla maggioranza epperò, come dicevamo poco fa, la
qualità alla quantità e l’élite alla massa. La funzione dirigente di una vera
élite e la sua stessa esistenza (poiché per essa esistere e avere una tale
funzione fa tutt’uno), sono radicalmente incompatibili con la “democrazia”, che
è intimamente connessa alla concezione “egualitaria”, cioè alla negazione di
ogni gerarchia: al fondo dell’idea “democratica” sta la pretesa che un
qualunque individuo equivalga all’altro per il fatto del loro essere uguali
numericamente, benché non possono esserlo che numericamente. Una élite vera,
l’abbiamo già detto, può essere soltanto intellettuale nel senso superrazionalistico
da noi sempre dato a questo termine: per cui la “democrazia”, e con essa ogni
individualismo liberale e ogni collettivismo, possono farsi largo solo là dove
l’intellettualità pura non esiste più, come ne è appunto il caso del mondo
moderno. Solo che l’eguaglianza essendo impossibile di fatto, e essendo
praticamente impossibile sopprimere ogni differenza tra gli uomini, ad onta di
ogni opera di livellamento si finisce, con un curioso illogismo, con
l’inventare delle false élites, élites multiple, che pretendono sostituirsi
alla sola élite reale. E queste false élites si basano sulla considerazione di
superiorità varie, eminentemente relative e contingenti, e sempre d’ordine
materiale. Ci si può accorgere facilmente di ciò notando come quasi dappertutto
la distinzione sociale che oggi più conta è quella basantesi sulla fortuna, sui
beni, cioè su di una superiorità affatto esteriore e d’ordine esclusivamente
quantitativo; la sola, insomma, che sia conciliabile con la “democrazia” perché
procedente dal suo stesso punto di vista. Vi è però da dire che anche coloro
che attualmente si atteggiano ad avversari di un simile stato di cose, nella
misura in cui non facciano intervenire alcun principio d’ordine superiore,
restano incapaci di rimediare efficacemente ad un tale disordine, quand’anche
non rischiano di aggravarlo nel portarsi ancor più oltre nello stesso senso.
Queste
brevi riflessioni riteniamo che basteranno per caratterizzare quel che nel
mondo sociale contemporaneo ha agito in modo più distruttivo e, in pari tempo,
per mostrare che in questo campo, come in ogni altro, vi è un solo mezzo per
uscire decisamente dal caos: restaurare l’intellettualità e ricostituire quindi
una élite che, nell’accezione superpolitica e nettamente metafisica da noi data
a tale termine, attualmente in Occidente deve considerarsi inesistente, non
potendosi dare quel nome a degli elementi isolati e senza coesione, i quali
possono soltanto rappresentare delle possibilità non ancora sviluppate. Infatti
in tali elementi si possono in genere trovare solo tendenze o aspirazioni, che
li portano indubbiamente a reagire contro lo spirito moderno, senza però che
una corrispondente influenza abbia modo di esercitarsi in modo effettivo, Quel
che loro manca è la vera conoscenza, sono i dati tradizionali, dati che non si
improvvisano e ai quali, specie in circostanze così sfavorevoli sotto ogni
riguardo, una intelligenza abbandonata a sé stessa può supplire solo assai
imperfettamente e debolmente. Non esistono dunque che sforzi dispersi, spesso deviati
causa la mancanza di princìpi e di orientamento dottrinale. Si potrebbe dire
che il mondo moderno si difende per mezzo della sua stessa dispersione, a cui
perfino i suoi avversari non sanno sottrarsi. E così andranno le cose finché
costoro si terranno sul terreno “profano”, dove lo spirito moderno ha un
vantaggio evidente, essendo il suo terreno proprio e esclusivo: d’altronde, se
essi restano in questo campo, ciò non prova forse che un tale spirito, malgrado
tutto, conserva su di essi un notevole potere? Per questo tante persone, benché
animate di una buona volontà incontestabile, sono incapaci di comprendere che
occorre necessariamente cominciare dai princìpi e si ostinano a dissipare le
loro energie in questo o quel dominio relativo, sociale o simile, in cui in
tali condizioni nulla di durevole e di reale può esser compiuto. La vera élite
non dovrà invece intervenire direttamente in questi dominii, e nemmeno
mescolarsi all’azione esterna. Essa dirigerà tutto per mezzo di una influenza
impercettibile per l’uomo comune, tanto più profonda per quanto meno sarà
visibile. Se si pensa al potere di quelle suggestioni, di cui parlavamo poco
fa, le quali tuttavia non presuppongono nessuna vera intellettualità, si potrà
anche sospettare ciò che, a maggior ragione, sarebbe il potere di una influenza
come questa, esercitantesi in modo ancor più nascosto per via della sua stessa
natura, e traente la sua origine dall’intellettualità pura: potere che,
peraltro, invece di esser menomato dalla divisione inerente al molteplice e
dalla debolezza insita in tutto quel che è menzogna o illusione, sarebbe invece
intensificato dalla concentrazione nell’unità del principio e si
identificherebbe alla forza stessa della verità.
1 - Qui si allude
al primo dopoguerra 1918-1939. La frase che segue è di quelle che l’A. aveva
creduto opportuno aggiungere alla prima edizione italiana del presente libro
(La crisi del mondo moderno), uscita nel 1937. Ndt.
2 - Basta leggere
S. Tomaso d’Aquino per vedere che numerus stat ex parte materiae.
3 - Dall’un ordine
di realtà passando all’altro, l’analogia, qui, come in ogni caso consimile, si
applica strettamente in senso inverso.
4 - Una tale
tendenza è quella che la dottrina indù chiama tamas e che essa assimila
all’ignoranza e all’oscurità. Si noterà che, secondo quanto dicevamo poco fa
circa l’applicazione dell’analogia, la compressione o condensazione di cui si
tratta è l’opposto della concentrazione considerata nell’ordine spirituale o
intellettuale; per cui, benché ciò possa apparire singolare a tutta prima, essa
in realtà corrisponde alla divisione e alla dispersione nel molteplice. Lo
stesso si verifica per l’uniformità realizzata partendo dal basso, dal livello
del più inferiore, che costituisce l’estremo opposto dell’unità superiore e principale.
5 - Per questo
Dante pone la sede simbolica di Lucifero al centro della terra, cioè nel punto
in cui convergono da ogni parte le forze del peso. Da questo punto di vista,
esso è l’inverso del centro dell’attrazione spirituale o “celeste”, simbolizzato
dal sole nella gran parte delle dottrine tradizionali.
Avvertenze prima
dell’uso
Il
testo è da leggersi ovviamente nel contesto dell’intera opera guénoniana, ma in
particolare avendo presente il capitolo I del volume su La crisi del mondo moderno,
dedicato all’Età oscura, il Kali Yuga, che stiamo attraversando
sempre più inconsapevolmente. Il saggio sul Caos sociale costituisce infatti il
capitolo VI del volume.
Si
veda:
https://www.famigliafideus.com/wp-content/uploads/2017/10/LA-CRISI-DEL-MONDO-MODERNO-Rene-Guenon.pdf
http://www.gianfrancobertagni.it/autori/reneguenon.htm