lunedì 4 aprile 2022

Rileggere Pinocchio - Fiaba per Burattini o Discesa agli Inferi? - VI parte

Dal Pinolo al Ragazzino perbene.

Dante, dopo il viaggio nella cavità della Terra che lo conduce fino a Lucifero. Il Cristo, che dalla grotta della sepoltura discende agli Inferi. Giona, che è rigettato dal pesce mostruoso dopo tre giorni. Il fuggitivo della caverna platonica, già incatenato alle pareti dell’illusione. Il monaco buddhista Bodhidharma, che medita in silenzio per nove anni seduto di fronte alla parete di una caverna (i nove mesi della gestazione nel grembo materno umano). Pinocchio, che percorre fino al fondo il cammino nel ventre del Pesce-cane. 

Nessuno degli Eroi che discendono nelle viscere della Terra, o del mostro, ne esce poi eguale a se stesso. Dante inizia l’ascesa del Purgatorio, per giungere al Paradiso. Cristo il terzo giorno risorge, per poi salire al Padre. Giona obbedisce al volere di Dio, e i Niniviti gli prestano ascolto. Il fuggitivo di Platone giunge alla contemplazione del Bene. Bodhidharma perviene al Satori, il Risveglio. Essi trovano il tesoro, la perla, la luce, la salvezza, il Bene, l’autentico Sé, Dio. Divengono, o si manifestano per ciò che veramente sono: il Secondo Adamo, il Salvatore (del padre, o dell’intera umanità), il Jivanmukta, il Liberato-in-vita, il Buddha…

Si guardi anche al percorso alchemico, nigredo-rubedo-albedo, che si riassume in un solo termine: V-I-T-R-I-O-L, ovvero l’acrostico che descrive il cammino di colui che cerca la pietra, la vera medicina: Visita / Interiora / Terrae / Rectificando / Invenies / Occultum / Lapidem.


    Quanto a Pinocchio, incontra per l’ultima volta la Fata, in quello che pareva essere un sogno (“nel dormire gli parve di vedere in sogno la Fata”), e si risveglia trasformato in un “ragazzino perbene”: “andò a guardarsi allo specchio, e gli parve d’essere un altro. Non vide più riflessa la solita immagine della marionetta di legno, ma vide l’immagine vispa e intelligente di un bel fanciullo coi capelli castagni, cogli occhi celesti e con un’aria allegra e festosa come una pasqua di rose”. Forse le stesse rose che permisero a Lucio di abbandonare le sembianze dell’asino?

   E il Burattino?

   Ma Pinocchio pone ancora una domanda, molto significativa, l’ultima di tutto il racconto: “E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?

  Nonostante sia accanto a lui, Pinocchio non lo trova, lo vede solo dopo che Geppetto glielo indica: “Eccolo là, – rispose Geppetto; e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato sur una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto”.

Ma la risposta introduce un altro quesito, non secondario: Pinocchio “diventa un ragazzo”, “era diventato un ragazzo come tutti gli altri”, era “diventato un ragazzino perbene”. Collodi usa il verbo divenire, il che farebbe supporre che il diveniente, l’essere di legno, non compaia più. Allora, chi/che cosa è il burattino appoggiato alla seggiola? Un “corpo-di-legno” privo di vita? Una sorta di “fantasma”, difficile a vedersi?

  Non sono proponibili nemmeno qui risposte esaustive, definitive. Ma solo, come tutta l’opera insegna, suggestioni, rimandi, accostamenti. Frammenti di sogni.

  Il primo, a noi più vicino: Giovanni XII,24. “In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. La morte come condizione necessaria, come premessa del pieno compimento dell’uomo. La morte dell’uomo vecchio che conduce alla nascita del frutto abbondante.

Un tema ripreso ed ampliato da Paolo in Corinzi, 1: “Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore; e quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco, di grano per esempio o di altro genere”.

Si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale”.

 Un passo in più: non si tratta del “divenire” comunemente inteso, poiché, come detto nel testo fondamentale del Buddhismo Zen, lo Shobogenzo del già citato maestro Dogen (XIII sec.), “una volta che la legna da ardere sia stata ridotta in cenere, non può ritornare legna; ma non dovremmo considerare le ceneri come lo stato potenziale della legna da ardere, o viceversa. La cenere è completamente cenere, la legna da ardere è legna da ardere. Esse hanno un loro proprio passato, futuro, e una loro propria esisten­za indipendente.

Allo stesso modo, quando gli esseri umani muoiono non posso­no tornare alla vita; ma nell'Insegnamento del Buddha non si dice mai che la vita si trasforma in morte. Questo è un insegnamento consolidato del Dharma del Buddha. Lo chiamiamo il non-diveni­re. Similmente, la morte non può mutarsi in vita. Questo è un altro principio della Legge del Buddha. Esso è chiamato la non-distru­zione. Vita e morte hanno un'esistenza assoluta come il rapporto tra inverno e primavera. Ma non pensate che l'inverno si trasformi in primavera, o la primavera in estate”.

  Il Burattino non si è quindi trasformato nel Ragazzino perbene, e il Ragazzino non è un Burattino trasformato.

  Rileggiamo ancora una volta le parole del maestro Dogen precedentemente citate:

Studiare la Via del Buddha è studiare se stessi. / Studiare se stessi è dimenticare se stessi. / Dimenticare se stessi è percepire se stessi come tutte le cose. / Realizzare questo è lasciar cadere mente e corpo di se stessi e degli altri.”

 Pinocchio ha profondamente studiato se stesso, da quando Geppetto iniziò ad intagliarlo a quando fu indotto in tentazione dal Gatto e dalla Volpe. Dalla sua morte per impiccagione agli incontri con la Fata. Dai giochi nel Paese dei Balocchi al ventre del Pesce. Dal duro lavoro al pozzo alla fabbricazione dei canestri e allo studio sul vecchio libro.

  Ha imparato lentamente, con fatica e con sofferenza, a dimenticare il suo piccolo Io, da quando salvò dal fuoco Arlecchino a quando protesse il ricordo del fido Melampo, ormai morto, a quando donò i soldi per gli abiti nuovi per la Fatina malata.

  Con egual fatica ha ricercato, ha riconosciuto, ha compreso l’autentico Sé, quello che solo la Fata vedeva e verso il quale lo aveva sempre indirizzato.

È così finalmente giunto a scorgere il suo vecchio Io – nella forma del suo corpo di legno – in un angolo, appoggiato a una seggiola, e del quale si era spogliato.

Ma non possiamo fare a meno di chiederci: tutto questo, è per sempre?

 Divagazioni sulla soglia

 Troviamo il tema della visione del proprio vecchio corpo, abbandonato dopo la morte, o meglio, nel corso di una fase di passaggio, di transizione, da una fase ad un’altra del ciclo della vita, in un testo classico del Buddhismo tibetano, il Bardo Thodol, il cosiddetto Libro dei morti tibetano (VIII-IX sec., scoperto nel XIV sec.), il cui titolo è più precisamente da tradursi come la Suprema Liberazione tramite l'Ascolto negli stadi intermedi.

Si tratta di un testo che fa parte di un più vasto ciclo di insegnamenti e che ha colpito profondamente l’immaginario dell’Occidente, a partire dalle traduzioni di Evans-Wentz (del 1927) e, in italiano, di Giuseppe Tucci (del 1949). In esso è descritto dettagliatamente il processo di dissoluzione della morte e le esperienze che la coscienza vive dopo il decesso, o meglio nell'intervallo di tempo che, secondo molte visioni tradizionali dell’esistenza, sta fra la morte e la successiva rinascita. Questo intervallo si chiama, in tibetano, bardo (tra-due). Il libro include anche capitoli riguardanti i simboli di morte, i rituali da intraprendere quando la morte si avvicina, o quando ormai è avvenuta.

Nella tradizione, il Bardo Thodol viene recitato presso il corpo del defunto in un periodo di tempo dopo la morte in cui si ritiene possa ancora essere ricettivo, per rammentare la dottrina della vacuità ed aiutarlo ad evitare il ciclo di rinascita. Nel libro si ripercorrono tre fasi progressive, che si susseguono in seguito al possibile fallimento nella fase che precede.

Qualora il morente giunga fino alla terza fase (il Bardo del Divenire), che precede la rinascita, gli verranno recitate queste parole:

“Oh figlio, con questo corpo di sogno vedrai la tua casa, incontrerai parenti e amici, parlerai ai tuoi ­cari ma non riceverai risposta. Vedrai piangere le persone amate e penserai: "Sono morto, che posso fare?" e soffrirai come un pesce gettato sulla sabbia ardente… A niente serve questo dolore… A nulla servirà la no­stalgia per i tuoi cari. Dimenticali!...  A quelli che vedrai in lacri­me dirai: "Non piangete, sono qui". Nessuno potrà sentirti e penserai: "Sono morto" e sarai disperato. Lascia questa disperazione. Ora sorgerà un'alba gri­gia come tenue lucore autunnale senza notte né gior­no. In questo stato del Bardo potrai restare per una, due, tre, quattro, cinque, sei o sette settimane fino al quarantanovesimo giorno”.

E ancora:

“Oh figlio, ora ponti, templi, monasteri, reliquiari o capanne potranno darti riparo ma solo per un istante perché la mente separata dal corpo non si quieta in alcun luogo.

Ti sentirai turbato e pieno d'angoscia, avrai fred­do e fame e la tua coscienza sarà confusa, frenetica, indecisa. Allora penserai: "Sono morto. Che posso fare?" Questo pensiero ti gelerà nel cuore con infinita tristezza. Non desiderare alcun luogo, non lo desi­derare perché non vi potrai restare. Non ricordare nulla, non pensare ma lascia che la mente torni al suo stato primordiale. Non avrai altro cibo se non quello offerto nell'ultimo rituale. I tuoi affetti diverranno sempre più incerti e lon­tani… Traverserai il tuo paese, vedrai la tua casa, i tuoi cari, i tuoi amici, il tuo cadavere e penserai: "Sono morto, che posso fare?" Oppresso da una profonda tristezza, sorgerà nel tuo corpo mentale questo desiderio: "Cosa non farei per posse­dere un corpo" e ti convincerai di doverne cercare uno. Ma se anche tu provassi per nove volte a entra­re nel tuo cadavere, nel tempo che hai trascorso nel Bardo, l'inverno quel corpo l'avrà ormai gelato o l'e­state putrefatto. I tuoi parenti l'avranno bruciato, sepolto, gettato nell'acqua o dato in pasto agli av­voltoi o ai predatori. 

Non trovando un corpo dove entrare, ti sentirai infelice e una massa di piombo verrà a stritolarti il cuore. Questa sofferenza è il Bardo del Divenire e finché cercherai un corpo non potrai evitarlo. Lascia ogni nostalgia per il corpo e riposa senza distrarti nella calma immota della mente”.

 Colui che attraversa il bardo, separato dal proprio corpo ormai distrutto, dissolto, contemplando il proprio cadavere, prova profonda tristezza, si sente infelice, soffre invano come un pesce gettato sulla sabbia ardente. E se è incapace di abbandonare i suoi desideri, i suoi attaccamenti, andrà cercando un nuovo corpo, fino a che rinascerà. E la rinascita sarà causa di ulteriori sofferenze, in un ciclo apparentemente infinito.

 Con parole talvolta molto diverse viene raccontato l’abbandono del corpo da alcuni di coloro che lo hanno sperimentato. Ne parla Raymond Moody nelle sue ricerche sui fenomeni di pre-morte. Alcuni esempi:

 “Circa un anno fa venni ricoverata in ospedale in seguito a scompensi cardiaci e la mattina successiva al ricovero, mentre ero a letto, cominciai ad avvertire un violento dolore al petto… Il cuore cessò di battere. Le infer­miere gridarono: «Emergenza! Emergenza!», e intanto io mi sentii uscire dal corpo e scivolare tra il materasso e la sponda laterale del letto… Poi cominciai a innalzarmi, lentamente. Mentre mi innalzavo vidi altre infermiere che entravano corren­do nella stanza…Continuai a salire fino al punto dove era fissato l'im­pianto della luce - lo vidi di fianco, con assoluta chiarezza - e più su ancora, poi mi fermai, galleggiando lentamente appena sotto il soffitto e continuando a guardare giù… Li vidi rianimarmi stando lassù! Il mio corpo era steso sul letto, bene in vista, e tutti gli stavano radunati attorno. Sentii un'infermiera dire: «Mio Dio, è morta!», mentre un'altra si curvava per farmi la respirazione bocca a bocca. Mentre lei era curva su di me, io guardavo la sua nuca…Mentre vedevo tutta quella gente laggiù che mi martellava il petto e mi strofinava le braccia e le gambe, pensavo: «Perché si danno tanto da fare? Adesso sto bene»”.

 “Mi ammalai gravemente e il dottore mi fece ricoverare in ospedale. Una mattina, mi avvolse una nebbia grigia e solida, e uscii dal mio corpo. Mi sentivo galleggiare mentre uscivo dal corpo, e mi voltai a guardare e mi vidi sul letto e non provai paura. Avvertivo invece quiete, una quiete serena e piena di pace. Non ero sconvolto né spaventato. Era una sensazione di tranquillità, qualcosa che non temevo. Sentii che probabilmente quella era la morte, che forse stavo morendo e che se non rien­travo nel mio corpo, sarei morto, morto sul serio”.

 Altre persone hanno espresso timore, estraneità, rimpianto. Oppure hanno mostrato di andare oltre l’attaccamento al loro stesso corpo:

 “Non guardai affatto il mio corpo. Sì, sapevo bene che era là e se avessi guardato lo avrei visto. Ma non volevo guardare, non volevo proprio, perché sapevo di aver fatto del mio meglio in vita e ora volgevo la mia attenzione verso il nuovo regno. Mi pareva che voltarmi a guardare il mio corpo fosse come voltarmi a guardare il passato, e ero decisa a non farlo”.

 “Vedevo il mio corpo ripiegato su se stesso nella macchina, in mezzo a tutti quelli che si erano radunati, ma, vede, non provavo niente per il mio corpo. Era come se fosse una persona completamente diversa, o forse soltanto un oggetto ... sapevo che era il mio corpo, ma non provavo niente”.

 Visse per sempre felice e contento?

 Anche Pinocchio, si è detto, osserva il proprio vecchio Io-corpo, il burattino di legno. Non prova alcuna sofferenza né nostalgia, e nemmeno indifferenza. Nemmeno timore per ciò che verrà. Al contrario. Non è affatto stupito di vederlo, anzi non vedendolo lo cerca, chiede dove si sia nascosto. Avendolo trovato grazie al padre-demiurgo, lo definisce buffo e prova, in silenzio, grande compiacimento e contentezza. È giunto al di là del corpo vegetale, del piccolo Io-mio.

Ma, torniamo a chiedere, è per sempre?

Spesso i racconti terminano con una positiva certezza: …e vissero per sempre felici e contenti. Dove il per sempre rinvia ancora una volta al tempo del mito, il tempo del c’era una volta in cui non vi è inizio… né fine. Dove il principio non è un inizio, e il sempre è ogni singolo istante.

Non sappiamo quale sarà il destino del corpo-vegetale di Pinocchio: sarà legna da ardere? O finirà in un negozio di antiquariato, o in baule dei ricordi d’infanzia? O tornerà a correre e sgambettare e saltare come una lepre?

Non è dato saperlo. Né Pinocchio né Collodi lo dicono.

Pinocchio-ragazzino-perbene non si dilunga ulteriormente, non usa altre parole.

Anzi, esprime “dentro di sé”, non verbalmente, le sue emozioni di fronte al vecchio corpo-vegetale.

Trasumanar significar per verba non si poria, aveva detto Dante.

Oltrepassata la soglia, le parole divengono inutili, impossibili. Collodi depone la penna, Pinocchio non dice più nulla, e noi con lui.

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 Testi

C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, Ed. BUR

P. Citati, Una fiaba esoterica, introduzione a Pinocchio, Ed. Bur

G. Biffi, Contro Maestro Ciliegia, Ed. Jaca Book

M. Carosi, Pinocchio, un Messaggio Iniziatico, Ed. Mediterranee

G. Agamben, Pinocchio, Ed. Einaudi

E. Zolla, Uscite dal mondo, Ed. Adelphi

S. Ronchey, Il burattino framassone, intervista a “La Stampa”, in: www.gianfrancobertagni.it

G. Marchianò, Pinocchio come sistema metafisico virtuale, in “Conoscenza Religiosa” n. 3/80

D. Riboli, Da Giasone a Cenerentola, in: www.academia.edu.it

A. Orlandi, Zoppi, Iniziati e Diavoli, in: www.expartibus.it

R. Graves, I miti greci, Ed. Longanesi

J.M. Vivenza, Dizionario guénoniano, Ed. Arkeios

J.E. Cirlot, Dizionario dei simboli, Ed. SIAD

Ph. Cornu, Dizionario del Buddhismo, Ed. Bruno Mondadori

Ch. Humphreys, Dizionario buddhista, Ed. Ubaldini

M. e J. Stutley, Dizionario dell’Induismo, Ed. Ubaldini

Bardo Thodol, Ed. Einaudi

Eihei Dogen, Shobogenzo, Ed. Pisani

R. Moody, La vita oltre la vita, Ed. Mondadori

C.G. Jung, Simboli della trasformazione, Ed. Boringhieri

I Vangeli apocrifi, Ed. Einaudi

 

 

Rileggere Pinocchio - Fiaba per Burattini o Discesa agli Inferi? - V parte

 Dal vegetale all’animale – Melampo – Il Ciuchino

 Poi il burattino ritorna a correre, ha esaurito la sua realtà vegetale e prosegue il suo percorso evolutivo entrando nel mondo dell’animalità.

Per prima cosa, facendo la guardia alle faine per un contadino, al posto del cane Melampo, morto da alcuni giorni.

Melampo, ovvero un personaggio della mitologia greca il cui nome significa “dal piede nero”: fu un grande veggente, capostipite di una dinastia di indovini, guaritore, possedeva il potere di comprendere il linguaggio degli animali.

Se qui Pinocchio interpreta il ruolo di un animale (e lo fa con coscienza e diligenza, rifiutando il compromesso), nel proseguimento della narrazione diventerà egli stesso un animale, un ciuchino, quale conseguenza della sua scelta di cedere alla seconda, definitiva tentazione: vivere per sempre nel Paese dei Balocchi, dove l’intera esistenza rappresenta il compimento del progetto, delle promesse contenute nella prima tentazione, la moltiplicazione delle risorse (le monete). E, particolare da non trascurare, Pinocchio-ciuchino rimarrà azzoppato durante il tentativo di saltare nel cerchio, durante uno spettacolo circense…

L’origine mitico-letteraria della narrazione delle avventure del burattino-asino è molto antica, si trova nella cultura latina, nel romanzo in XI libri intitolato Le Metamorfosi ma più conosciuto come L’asino d’oro. Ne fu autore Lucio Apuleio, scrittore e filosofo del II secolo d.C., originario dell’Africa del Nord, fortemente influenzato dalle scuole di pensiero mistiche ed esoteriche greche e studioso di rituali magici e misterici.


 Apuleio subì anche un processo per magia, con l’accusa di aver sedotto con incantesimi una ricca vedova che aveva sposato e di praticare costantemente la magia. Rischiò la pena di morte, ma venne assolto grazie alla sua stessa autodifesa, pubblicata col titolo di Apologia o Pro se de magia.

 Nel romanzo (autobiografico) di Apuleio, il protagonista Lucio si reca in Tessaglia e trova ospitalità presso Milone, la cui moglie Panfila è una maga. Lì conquista il favore della servetta Fotide e la convince a farlo assistere a qualche incantesimo della padrona.
Lucio vede Panfila per virtù di un unguento trasformarsi in gufo e chiede di potersi trasformare in gufo anche lui. Ma Fotide sbaglia unguento e Lucio diventa asino, pur conservando sentimenti e coscienza umani. Apprende che riacquisterà forma umana solo mangiando un cespo di rose.

Rapito però durante la notte da alcuni briganti entrati in casa di Milone, Lucio è condotto nella loro caverna, dove si trova in ostaggio una fanciulla, alla quale per distrarla una vecchia racconta la favola di Amore e Psiche (un re e una regina avevano tre figlie. Della bellissima Psiche s'innamora Amore che la fa condurre da Zefiro nel suo palazzo. Ogni notte, al buio per non essere visto, il dio va a trovarla. Psiche non resiste alla curiosità e con una lucerna illumina il volto di Amore, che fugge. Psiche tenta in ogni modo di riaverlo, finché Amore le viene in aiuto e ottiene per lei da Giove l'immortalità). Sconfitti i briganti dal fidanzato della fanciulla, Lucio cambia molti padroni, affronta molte disavventure e pericoli, è testimone dei più abietti vizi umani.

Alla fine, nel corso di una cerimonia dedicata alla dea Iside mangia le rose che adornano il sistro di un sacerdote, riprendendo così forma umana. In segno di riconoscenza si consacra devotamente alla dea, entrando nel ristretto numero di adepti al culto dei misteri isiaci.

Dal punto di vista di una lettura “orizzontale”, il romanzo di Apuleio rientra nel genere erotico-satirico, ma, come lo stesso Apuleio invita a fare, esso possiede (come Pinocchio) anche un profondo significato simbolico-allegorico: è la storia di un’anima, del suo cammino evolutivo. Lo dimostra in particolare l’epilogo, il libro XI, nel quale Lucio si risveglia, in un meraviglioso notturno, e rivolge una preghiera alla luna, che riconosce come presenza divina a cui chiedere la salvezza ritornando umano o la morte. Dopo la preghiera gli si fa incontro qualcosa, in un modo misterioso per cui non riusciamo a capire se si tratta di un sogno o una visione o qualche cosa che vede da sveglio. E’ la dea Iside, figura assolutamente centrale del pantheon egizio, figlia del cielo e della terra, madre di Horus, sposa e sorella di Osiride, sorella altresì di Seth, il dio dalla testa di asino. Dea della magia e della saggezza, simbolo dell’eterno femminile e della maternità, Iside (o Isis) divenne oggetto di culti misterici ed iniziatici per vari secoli anche al di fuori dell’Egitto, nel mondo greco e latino. Alla sua figura si ispirano tuttora varie correnti dell’esoterismo (nel Flauto Magico di Mozart Sarastro / Zoroastro è un sacerdote di Iside).

Per tre volte Lucio, tornato in forma umana, è iniziato al culto isiaco, poi la vicenda si sposta dalla Grecia a Roma dove Lucio vive esercitando il mestiere del foro, grazie alle sue abilità di retore.

Non a caso quindi E. Zolla identifica esplicitamente la Fatina di Collodi con la dea Iside di Apuleio. E il sogno finale di Pinocchio è dunque il sogno/visione di Lucio, presagi entrambi di redenzione e salvezza.

 La Caprettina turchina

 Il ritorno di Pinocchio dalla sua forma asinina a quella di burattino precede un suo strano ma significativo e determinante incontro con la Fata turchina. Strano, in quanto molto breve. Ma soprattutto strano perché la Fata ha assunto qui l’aspetto di una bella Caprettina dal vello color turchino sfolgorante, che rammentava moltissimo i capelli della bella Bambina.

Un incontro importante, che avviene dopo un rovesciamento dei rispettivi aspetti in cui la Fata e Pinocchio si manifestano: quando Pinocchio è nella sua veste animale, la Fata appare in forma di donna (che assiste allo spettacolo nel circo); quando Pinocchio è tornato burattino, ella si manifesta in forma di animale.

L’incontro è apparentemente inutile, la Fata non riesce infatti a salvare Pinocchio dalle fauci del Pesce-cane. Ma proprio nel fallimento consiste la sua rilevanza nell’economia del racconto, in quanto esso fa sì che Pinocchio e il suo creatore-padre possano finalmente ricongiungersi.

Nel Capitolo XXXIV Collodi ci dice esplicitamente che la Caprettina è la Fata dai capelli turchini. Una delle manifestazioni di quella “femminilità eterna, epurata d'ogni traccia temporale” (morta, nelle parole di Collodi) di cui parla Elémire Zolla.

Ma perché una capra?

Zolla spiega che la capra è un animale simbolico centrale nella cultura tradizionale indiana. Il protagonista di uno dei più importanti riti sacrificali del mondo induista, ashvameda, era il cavallo, ma il capro, aja, era associato al cavallo nel rito, in quanto lo precedeva, lo guidava verso l’altro mondo.

Il termine sanscrito aja ha molteplici significati in sanscrito, la sua radice indoeuropea è la stessa del latino agere: “pascere, guidare”; indica l'avanzare d’una squadra e il capo che la sospinge.

A-ja (con l’alfa privativo) è anche il non-nato, il non (ancora) manifestato, ciò che esiste prima della manifestazione. Al di fuori del tempo, come il femminile che la Fata rappresenta, eterno, a-temporale.

Ciò che non nasce non è soggetto a morte: la Bambina appare per la prima volta nel testo come morta, poi veniamo a sapere che giace, morta di dolore, sotto ad una pietra di marmo, poi come Caprettina si trova in cima ad uno scoglio che pareva di marmo bianco (come le lapidi), e successivamente la sappiamo gravemente ammalata in un fondo di letto allo spedale!...

  Ma si è già visto “che la Bambina dai capelli turchini non era altro, in fin dei conti, che una buonissima Fata, che da più di mill’anni abitava nelle vicinanze di quel bosco” (Il Grillo Parlante, si rammenterà, abitava nella casa di Geppetto da più di cent’anni – nulla, rispetto alla Fata).

Mille anni, numero simbolico che indica un tempo senza inizio e senza fine, l’eternità, appunto. Ciò che perennemente si trasforma sono le modalità del suo manifestarsi.

In quanto Capretta ritta su uno scoglio in mezzo al mare rinvia immediatamente all’immagine simbolica della capra più nota in Occidente, il segno zodiacale del Capricorno, metà capra e metà pesce, come Ea, il Signore degli abissi nel pantheon babilonese. Il suo inizio coincide con il solstizio d’inverno, con la nascita di Cristo e del Sole (Sol Invictus). Simbolicamente rappresenta l’uscita dalla manifestazione (ciò che è comunemente detto morte) e l’entrata negli stati superiori dell’Essere. È la “porta degli dei” che si apre dal mondo del visibile a quello dell’invisibile, al cammino potenzialmente ultimo ed irreversibile verso il divino, la liberazione, la salvezza. L’ascesa dall’abisso (il mare) alla sommità (lo scoglio, la montagna).

Per questo la Fatina si manifesterà ancora una volta a Pinocchio, in sogno, in una dimensione al di fuori del tempo e dello spazio ordinario, come era apparsa Iside a Lucio nell’Asino d’oro, per condurlo alla sua rinascita dal ventre-caverna del Pesce-cane allo stato superiore di ragazzino perbene.

 Il ventre del Pesce-cane e la Caverna

 Subito dopo l’incontro con la Capra, avviene quello con l’altra metà del segno zodiacale che apre la porta degli dei, il Pesce. Sotto le sembianze di un Pesce-cane, e non, come solitamente si dice, di una balena.

“E Pinocchio a nuotar più lesto che mai, e via, e via, e via, come andrebbe una palla di fucile. E già era presso lo scoglio, e già la Caprettina, spenzolandosi tutta sul mare, gli porgeva le sue zampine davanti per aiutarlo a uscire dall’acqua!

Ma oramai era tardi! Il mostro lo aveva raggiunto: il mostro, tirando il fiato a sé, si bevve il povero burattino, come avrebbe bevuto un uovo di gallina: e lo inghiottì con tanta violenza e con tanta avidità, che Pinocchio, cascando giù in corpo al Pesce-cane, batté un colpo così screanzato, da restarne sbalordito per un quarto d’ora.”

Il Pesce, uno dei simboli più importanti nelle diverse tradizioni, da quella indiana (Vishnu come Matsyu, il pesce-salvatore che spiega all’uomo come costruire un’arca per sopravvivere al diluvio universale) a quella cristiana, dove il Cristo stesso è ichthys, (Iēsous Christos, Theou Yios, Sōtēr), Gesù Cristo, Figlio di Dio, il Salvatore. Il Pesce, indissolubilmente connesso alle acque, luogo insieme simbolico e materiale di origine e di gestazione.

La vicenda di Pinocchio inghiottito dal pesce ha origine nel mondo giudaico-cristiano, in particolare nel libro vetero-testamentario del profeta Giona, scritto intorno al V-IV sec. a.C. La storia è nota: il Signore comanda a Giona di andare a predicare a Ninive. Giona invece fugge a Tarsis su una nave che durante il viaggio è investita da un temporale e rischia di colare a picco per la violenza delle onde. Giona allora ritrova improvvisamente il proprio coraggio e svela ai compagni di viaggio che la colpa dell'ira divina è sua, poiché ha rifiutato di obbedire al Signore. Così Giona è gettato in mare, ma un "grande pesce" (il testo greco usa il termine ketos, mostro marino, da cui cetaceo) lo inghiotte. Dal ventre del pesce, dove rimane tre giorni e tre notti, Giona rivolge a Dio un'intensa preghiera. Allora, dietro comando divino, il pesce vomita Giona sulla spiaggia. Quindi Giona ottempera la sua missione e va a predicare ai niniviti, i quali gli credono e si salvano.

La vicenda di Giona è altresì citata nel N.T., in Matteo 12,40 (Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così il Figlio dell'uomo starà nel cuore della terra tre giorni e tre notti) e in Luca 11,29, dove è vista come un segno profetico della Resurrezione di Gesù.

C.G. Jung, nel suo testo sui “Simboli della trasformazione” riporta un paio di esempi dai quali si comprende come la mistica ebraica abbia interpretato la vicenda di Giona: “Allorché Giona fu ingoiato dalla balena, non si trovò semplicemente imprigionato nel ventre del mostro, ma (..) vide "straordinari misteri". Quest'opinione deriva probabilmente dal Rabbi Eliezer, ove è detto: [Giona] penetrò nella sua bocca come un uomo penetra in una grande sinagoga e si arresta. I due occhi del pesce erano come due lucernari che davano luce a Giona. Rabbi Meir disse: "Una perla era sospesa nelle viscere del pesce dando luce a Giona come il sole a mezzogiorno, consentendogli di vedere tutto quello che c'era nel mare e negli abissi."

Secondo Jung, che a sua volta rilegge in chiave psicanalitica il mito di Giona e le parole dei maestri ebraici, “nelle tenebre dell'inconscio è nascosto un tesoro, quello stesso "tesoro difficile da raggiungere" che nel nostro testo, come anche in molti altri luoghi, viene descritto come perla luminosa”.

Per Jung, la parabola di Giona descrive l’inabissarsi “nei ricordi d'infanzia sfuggendo cosi al mondo del presente. Si cade apparentemente nelle tenebre più fitte, ma si hanno poi visioni inaspettate di un mondo ultraterreno. Il "mistero" che si percepisce rappresenta quel depo­sito d'immagini primordiali che ognuno porta con sé nel mondo sin dal momento della nascita, come retaggio insito nella propria condi­zione d'uomo, somma di forme innate che sono proprie degli istinti. A questa psiche "potenziale" (ha) dato il nome di inconscio collettivo”.

Dalle parole di Jung e dei maestri ebraici, laddove si parla di tesori e di perle, è facile comprendere come il simbolo del ventre del Pesce-cane, o della balena, o di altri esseri mitici (lupi, draghi, orchi) che ingoiano l’Eroe di turno, sia assimilabile al simbolo della Caverna. Così lo descrive il Dizionario guénoniano:

La Caverna occupa in tutte le tradizioni un posto impor­tante nell'immaginario simbolico e iniziatico; è pertanto normale in­contrarla negli episodi chiave della storia divina. Immagine della di­mora sotterranea, sinonimo di oscurità e di tenebre, essa è anche molto spesso il luogo della Rivela­zione, luogo santo, "Cuore del mondo" e "Centro" spirituale. La Caverna, luogo di sepoltura e di ri­nascita, esprime la matrice in cui si riassorbono e si rivelano le possibi­lità di manifestazione. A questo ri­guardo, oltre il suo legame ristretto e complementare con la montagna raffigurante l'Asse del Mondo, viene assimilata pure al ventre della balena, che, nella vicenda biblica della storia di Giona, svolge la stessa funzione”.

 Si vedano alcuni esempi del simbolismo della Caverna nelle tradizioni di epoche e culture diverse. Per primo, dal mondo greco antico, il mito della Caverna esposto da Platone nel libro VII della Repubblica (380 -370 a.C.):

 Immagina degli uomini chiusi in una dimora sotterranea a forma di caverna, il cui ingresso, aperto verso la luce, sia ampio quanto la caverna stessa; lì essi si trovano fin da fanciulli, con le gambe e il collo incatenati, sì, da non potersi muovere e da non poter guardare che davanti a sé. Dietro a loro, lontana, splende la luce di un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri, in alto, passa una strada, lungo la quale è costruito un muricciolo, simile ai sipari che i burattinai mettono tra sé e gli spettatori, e sopra i quali fanno vedere i loro burattini. Immagina ancora, lungo questo muricciolo, degli uomini che portino su di sé oggetti di ogni genere, che sporgano sopra il muro, e statue di uomini ed animali di pietra e di legno, d'ogni forma, e che alcuni parlino ed altri stiano zitti.

E prima di tutto, credi che essi, di sé e degli altri, vedano qualcosa oltre le ombre proiettate dal fuoco sulla parte della caverna che sta davanti a loro? E anche degli oggetti portati non vedranno che l'ombra. E allora, se potessero parlare tra loro, non pensi che riterrebbero cose reali le ombre che vedono? E se in questa prigione vi fosse un'eco che rimandasse le parole degli uomini che passano dietro il muricciolo, non pensi che le prenderebbero per parole dell'ombra che passa sul fondo? E d'altra parte, per loro l'unica realtà è quella delle ombre delle cose.

Pensa allora cosa succederebbe se fossero liberati dalle loro catene e guariti dalla loro ignoranza. Mettiamo che uno di loro fosse sciolto, e poi costretto ad alzarsi, a girare il collo, a camminare, a guardare verso la luce; e mettiamo che facendo tutto questo provasse dolore e a causa del bagliore non riuscisse a vedere le cose di cui prima vedeva le ombre: ebbene, se uno gli dicesse che fino ad allora ha visto solo ombre vane, ora invece, essendo più vicino alle cose più reali e rivolto verso di esse, vede con più esattezza, e gliele mostrasse ad una ad una chiedendogli di dire cosa è, cosa credi che risponderebbe? Non credi che cadrebbe in una grande incertezza e non riterrebbe più vere le cose che vedeva prima di quelle che gli mostrano? E se qualcuno lo costringesse a guardare la stessa luce, non pensi che gli farebbero male gli occhi e fuggirebbe indietro, verso le cose che riesce a guardare, e le riterrebbe davvero più chiare di quelle che gli vengono mostrate? E se qualcuno lo trascinasse per la salita aspra ed erta, e non lo lasciasse prima di averlo portato fuori alla luce, non credi che soffrirebbe, si ribellerebbe ad essere trascinato così, e una volta giunto in faccia al sole, con gli occhi pieni di bagliore, non riuscirebbe a vedere nemmeno una delle cose che diciamo vere?

Dovrebbe abituarsi, penso, se volesse vedere il mondo che sta fuori della caverna. E dapprima potrebbe vedere più facilmente le ombre, e poi le immagini degli uomini e delle altre cose riflesse nell'acqua, e alla fine le cose stesse. In seguito, alzando gli occhi alla luce degli astri e della luna, potrebbe vedere i corpi celesti e il cielo stesso, più facilmente che di giorno il sole e la sua luce. E per ultimo, credo, potrebbe vedere il sole, non l'immagine del sole nelle acque o in altri luoghi, ma il sole stesso, nel luogo in cui è, e contemplarlo quale esso è. Dopo di che, potrebbe trarre le debite conclusioni: che il sole produce le stagioni e gli anni, e governa tutto ciò che si trova nel mondo visibile, anzi è in qualche modo la causa anche delle cose che lui e i suoi compagni prima vedevano nella caverna.

 Il significato del mito è duplice, ma le due letture non sono in opposizione tra loro, anzi sono complementari: Esso può essere letto, infatti, sia in chiave ontologica, sia gnoseologica: è una teoria della conoscenza, ed è altresì la storia della salvezza dell’uomo attraverso la conoscenza del vero (il Bene, il Sole). Il percorso dal fondo della caverna all’uscita dalla stessa è una allegoria della Via che conduce alla cessazione dell’ignoranza, all’illuminazione, al Risveglio.

 Divagazioni sulle rive del Gange

 Ce lo insegna l’antica sapienza indiana:

Asato mā sadgamaya,            conducimi dal non-essere all’essere

tamaso mā jyotirgamaya,      conducimi dall’oscurità alla luce

mṛtyormā'mṛtaṃ gamaya      conducimi dalla morte alla non-morte

E’ ciò che si legge nella Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad.

 Dal mondo cristiano, ecco la grotta della Natività di Gesù di cui è detto nel Protovangelo di Giacomo, XVII - XVIII (nei testi canonici è citata solo una mangiatoia, in greco fatne, in Luca 2): Quando giunsero a metà strada, Maria gli disse: "Calami giù dall'asino, perché quello che è in me ha fretta di venire fuori". La calò giù dall'asino e le disse: "Dove posso condurti per mettere al riparo il tuo pudore? Il luogo, infatti, è deserto". Trovò quivi una grotta: ve la condusse, lasciò presso di lei i suoi figli e uscì a cercare una ostetrica ebrea nella regione di Betlemme.

La grotta è descritta così nel Vangelo dello Pseudo-Matteo, XIII: L'angelo ordinò di fermare il giumento, essendo giunto il tempo di partorire; comandò poi alla beata Maria di discendere dall'animale e di entrare in una grotta sotto una caverna nella quale non entrava mai la luce ma c'erano sempre tenebre, non potendo ricevere la luce del giorno. Allorché la beata Maria entrò in essa, tutta si illuminò di splendore quasi fosse l'ora sesta del giorno. La luce divina illuminò la grotta in modo tale che né di giorno né di notte, fino a quando vi rimase la beata Maria, la luce non mancò. Qui generò un maschio, circondata dagli angeli mentre nasceva.

E nel Vangelo dell’Infanzia armeno, VIII, si legge: Stavano camminando in una fredda giornata d'inverno: era il 21 di Tebeth, cioè il 6 gennaio. Giunti in un luogo deserto, che era stato un tempo la città regia di Betlemme, alla sesta ora del giorno, che era un giovedì, Maria disse a Giuseppe: -Fammi scen­dere in fretta dalla cavalcatura; il bambino mi fa soffrire.

Giuseppe esclamò: - Ahimè! Sono proprio colto di sorpresa! La sua liberazione non avviene in un luogo abitato, ma in una zona deserta e incolta, dove non c'è alcuna possibilità di ricetto! Dove mi rivolgerò, dunque? Dove la condurrò per metterla in riposo? Qui non ci sono né case né ricoveri al coperto, al cui riparo essa possa nascondere la propria nudità.

Ma poi Giuseppe scorse una grotta, abbastanza grande, do­ve dei pastori e dei contadini, che lavoravano nei dintorni, si riu­nivano e mettevano al riparo le loro greggi. Essi vi avevano anche fabbricato una mangiatoia per il bestiame, in cui davano da man­giare ai loro animali. Ma in quel momento i pastori e i bovari non c'erano, perché era inverno. Giuseppe, pertanto, vi condusse Maria. La fece entrare. La­sciò con lei, sull'ingresso, il figlio José, ed egli usci per andare alla ricerca di una levatrice.

La vicenda umana di Gesù inizia in una grotta, ed ugualmente termina in una cavità scavata nel terreno, il Sepolcro, nel quale fu deposto dopo la morte e che fu ritrovato vuoto il terzo giorno.

Su questo tutti i testi concordano: Giuseppe di Arimatea avvolse il corpo in un lenzuolo e lo depose in un sepolcro scavato nella roccia, dove nessuno era mai stato sepolto, e fece rotolare una grande pietra davanti all’entrata. E’ ciò che si legge in Luca XXIII, Marco XV, Matteo XXVII, Giovanni XIX, e negli apocrifi che raccontano gli ultimi giorni di Gesù, prima della Resurrezione.

 Come nel mito platonico, anche qui la caverna è il luogo della nascita e della ri-nascita, della rivelazione, in cui risplende la perla della saggezza, la luce della conoscenza che trasforma.

Racconta Collodi: a Pinocchio, inghiottito insieme con un Tonno dal Pesce-cane, “parve di veder lontan lontano una specie di chiarore”. Dopo aver salutato il Tonno, “cominciò a camminare a tastoni dentro il corpo del Pesce-cane, avviandosi un passo dietro l’altro verso quel piccolo chiarore che vedeva baluginare lontano lontano… E più andava avanti, e più il chiarore si faceva rilucente e distinto: finché, cammina cammina, alla fine arrivò: e quando fu arrivato... che cosa trovò? Ve lo do a indovinare in mille: trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco, come se fosse di neve o di panna montata, il quale se ne stava lì biascicando alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte mentre li mangiava, gli scappavano perfino di bocca.”