lunedì 4 aprile 2022

Rileggere Pinocchio - Fiaba per Burattini o Discesa agli Inferi? - VI parte

Dal Pinolo al Ragazzino perbene.

Dante, dopo il viaggio nella cavità della Terra che lo conduce fino a Lucifero. Il Cristo, che dalla grotta della sepoltura discende agli Inferi. Giona, che è rigettato dal pesce mostruoso dopo tre giorni. Il fuggitivo della caverna platonica, già incatenato alle pareti dell’illusione. Il monaco buddhista Bodhidharma, che medita in silenzio per nove anni seduto di fronte alla parete di una caverna (i nove mesi della gestazione nel grembo materno umano). Pinocchio, che percorre fino al fondo il cammino nel ventre del Pesce-cane. 

Nessuno degli Eroi che discendono nelle viscere della Terra, o del mostro, ne esce poi eguale a se stesso. Dante inizia l’ascesa del Purgatorio, per giungere al Paradiso. Cristo il terzo giorno risorge, per poi salire al Padre. Giona obbedisce al volere di Dio, e i Niniviti gli prestano ascolto. Il fuggitivo di Platone giunge alla contemplazione del Bene. Bodhidharma perviene al Satori, il Risveglio. Essi trovano il tesoro, la perla, la luce, la salvezza, il Bene, l’autentico Sé, Dio. Divengono, o si manifestano per ciò che veramente sono: il Secondo Adamo, il Salvatore (del padre, o dell’intera umanità), il Jivanmukta, il Liberato-in-vita, il Buddha…

Si guardi anche al percorso alchemico, nigredo-rubedo-albedo, che si riassume in un solo termine: V-I-T-R-I-O-L, ovvero l’acrostico che descrive il cammino di colui che cerca la pietra, la vera medicina: Visita / Interiora / Terrae / Rectificando / Invenies / Occultum / Lapidem.


    Quanto a Pinocchio, incontra per l’ultima volta la Fata, in quello che pareva essere un sogno (“nel dormire gli parve di vedere in sogno la Fata”), e si risveglia trasformato in un “ragazzino perbene”: “andò a guardarsi allo specchio, e gli parve d’essere un altro. Non vide più riflessa la solita immagine della marionetta di legno, ma vide l’immagine vispa e intelligente di un bel fanciullo coi capelli castagni, cogli occhi celesti e con un’aria allegra e festosa come una pasqua di rose”. Forse le stesse rose che permisero a Lucio di abbandonare le sembianze dell’asino?

   E il Burattino?

   Ma Pinocchio pone ancora una domanda, molto significativa, l’ultima di tutto il racconto: “E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?

  Nonostante sia accanto a lui, Pinocchio non lo trova, lo vede solo dopo che Geppetto glielo indica: “Eccolo là, – rispose Geppetto; e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato sur una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto”.

Ma la risposta introduce un altro quesito, non secondario: Pinocchio “diventa un ragazzo”, “era diventato un ragazzo come tutti gli altri”, era “diventato un ragazzino perbene”. Collodi usa il verbo divenire, il che farebbe supporre che il diveniente, l’essere di legno, non compaia più. Allora, chi/che cosa è il burattino appoggiato alla seggiola? Un “corpo-di-legno” privo di vita? Una sorta di “fantasma”, difficile a vedersi?

  Non sono proponibili nemmeno qui risposte esaustive, definitive. Ma solo, come tutta l’opera insegna, suggestioni, rimandi, accostamenti. Frammenti di sogni.

  Il primo, a noi più vicino: Giovanni XII,24. “In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. La morte come condizione necessaria, come premessa del pieno compimento dell’uomo. La morte dell’uomo vecchio che conduce alla nascita del frutto abbondante.

Un tema ripreso ed ampliato da Paolo in Corinzi, 1: “Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore; e quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco, di grano per esempio o di altro genere”.

Si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale”.

 Un passo in più: non si tratta del “divenire” comunemente inteso, poiché, come detto nel testo fondamentale del Buddhismo Zen, lo Shobogenzo del già citato maestro Dogen (XIII sec.), “una volta che la legna da ardere sia stata ridotta in cenere, non può ritornare legna; ma non dovremmo considerare le ceneri come lo stato potenziale della legna da ardere, o viceversa. La cenere è completamente cenere, la legna da ardere è legna da ardere. Esse hanno un loro proprio passato, futuro, e una loro propria esisten­za indipendente.

Allo stesso modo, quando gli esseri umani muoiono non posso­no tornare alla vita; ma nell'Insegnamento del Buddha non si dice mai che la vita si trasforma in morte. Questo è un insegnamento consolidato del Dharma del Buddha. Lo chiamiamo il non-diveni­re. Similmente, la morte non può mutarsi in vita. Questo è un altro principio della Legge del Buddha. Esso è chiamato la non-distru­zione. Vita e morte hanno un'esistenza assoluta come il rapporto tra inverno e primavera. Ma non pensate che l'inverno si trasformi in primavera, o la primavera in estate”.

  Il Burattino non si è quindi trasformato nel Ragazzino perbene, e il Ragazzino non è un Burattino trasformato.

  Rileggiamo ancora una volta le parole del maestro Dogen precedentemente citate:

Studiare la Via del Buddha è studiare se stessi. / Studiare se stessi è dimenticare se stessi. / Dimenticare se stessi è percepire se stessi come tutte le cose. / Realizzare questo è lasciar cadere mente e corpo di se stessi e degli altri.”

 Pinocchio ha profondamente studiato se stesso, da quando Geppetto iniziò ad intagliarlo a quando fu indotto in tentazione dal Gatto e dalla Volpe. Dalla sua morte per impiccagione agli incontri con la Fata. Dai giochi nel Paese dei Balocchi al ventre del Pesce. Dal duro lavoro al pozzo alla fabbricazione dei canestri e allo studio sul vecchio libro.

  Ha imparato lentamente, con fatica e con sofferenza, a dimenticare il suo piccolo Io, da quando salvò dal fuoco Arlecchino a quando protesse il ricordo del fido Melampo, ormai morto, a quando donò i soldi per gli abiti nuovi per la Fatina malata.

  Con egual fatica ha ricercato, ha riconosciuto, ha compreso l’autentico Sé, quello che solo la Fata vedeva e verso il quale lo aveva sempre indirizzato.

È così finalmente giunto a scorgere il suo vecchio Io – nella forma del suo corpo di legno – in un angolo, appoggiato a una seggiola, e del quale si era spogliato.

Ma non possiamo fare a meno di chiederci: tutto questo, è per sempre?

 Divagazioni sulla soglia

 Troviamo il tema della visione del proprio vecchio corpo, abbandonato dopo la morte, o meglio, nel corso di una fase di passaggio, di transizione, da una fase ad un’altra del ciclo della vita, in un testo classico del Buddhismo tibetano, il Bardo Thodol, il cosiddetto Libro dei morti tibetano (VIII-IX sec., scoperto nel XIV sec.), il cui titolo è più precisamente da tradursi come la Suprema Liberazione tramite l'Ascolto negli stadi intermedi.

Si tratta di un testo che fa parte di un più vasto ciclo di insegnamenti e che ha colpito profondamente l’immaginario dell’Occidente, a partire dalle traduzioni di Evans-Wentz (del 1927) e, in italiano, di Giuseppe Tucci (del 1949). In esso è descritto dettagliatamente il processo di dissoluzione della morte e le esperienze che la coscienza vive dopo il decesso, o meglio nell'intervallo di tempo che, secondo molte visioni tradizionali dell’esistenza, sta fra la morte e la successiva rinascita. Questo intervallo si chiama, in tibetano, bardo (tra-due). Il libro include anche capitoli riguardanti i simboli di morte, i rituali da intraprendere quando la morte si avvicina, o quando ormai è avvenuta.

Nella tradizione, il Bardo Thodol viene recitato presso il corpo del defunto in un periodo di tempo dopo la morte in cui si ritiene possa ancora essere ricettivo, per rammentare la dottrina della vacuità ed aiutarlo ad evitare il ciclo di rinascita. Nel libro si ripercorrono tre fasi progressive, che si susseguono in seguito al possibile fallimento nella fase che precede.

Qualora il morente giunga fino alla terza fase (il Bardo del Divenire), che precede la rinascita, gli verranno recitate queste parole:

“Oh figlio, con questo corpo di sogno vedrai la tua casa, incontrerai parenti e amici, parlerai ai tuoi ­cari ma non riceverai risposta. Vedrai piangere le persone amate e penserai: "Sono morto, che posso fare?" e soffrirai come un pesce gettato sulla sabbia ardente… A niente serve questo dolore… A nulla servirà la no­stalgia per i tuoi cari. Dimenticali!...  A quelli che vedrai in lacri­me dirai: "Non piangete, sono qui". Nessuno potrà sentirti e penserai: "Sono morto" e sarai disperato. Lascia questa disperazione. Ora sorgerà un'alba gri­gia come tenue lucore autunnale senza notte né gior­no. In questo stato del Bardo potrai restare per una, due, tre, quattro, cinque, sei o sette settimane fino al quarantanovesimo giorno”.

E ancora:

“Oh figlio, ora ponti, templi, monasteri, reliquiari o capanne potranno darti riparo ma solo per un istante perché la mente separata dal corpo non si quieta in alcun luogo.

Ti sentirai turbato e pieno d'angoscia, avrai fred­do e fame e la tua coscienza sarà confusa, frenetica, indecisa. Allora penserai: "Sono morto. Che posso fare?" Questo pensiero ti gelerà nel cuore con infinita tristezza. Non desiderare alcun luogo, non lo desi­derare perché non vi potrai restare. Non ricordare nulla, non pensare ma lascia che la mente torni al suo stato primordiale. Non avrai altro cibo se non quello offerto nell'ultimo rituale. I tuoi affetti diverranno sempre più incerti e lon­tani… Traverserai il tuo paese, vedrai la tua casa, i tuoi cari, i tuoi amici, il tuo cadavere e penserai: "Sono morto, che posso fare?" Oppresso da una profonda tristezza, sorgerà nel tuo corpo mentale questo desiderio: "Cosa non farei per posse­dere un corpo" e ti convincerai di doverne cercare uno. Ma se anche tu provassi per nove volte a entra­re nel tuo cadavere, nel tempo che hai trascorso nel Bardo, l'inverno quel corpo l'avrà ormai gelato o l'e­state putrefatto. I tuoi parenti l'avranno bruciato, sepolto, gettato nell'acqua o dato in pasto agli av­voltoi o ai predatori. 

Non trovando un corpo dove entrare, ti sentirai infelice e una massa di piombo verrà a stritolarti il cuore. Questa sofferenza è il Bardo del Divenire e finché cercherai un corpo non potrai evitarlo. Lascia ogni nostalgia per il corpo e riposa senza distrarti nella calma immota della mente”.

 Colui che attraversa il bardo, separato dal proprio corpo ormai distrutto, dissolto, contemplando il proprio cadavere, prova profonda tristezza, si sente infelice, soffre invano come un pesce gettato sulla sabbia ardente. E se è incapace di abbandonare i suoi desideri, i suoi attaccamenti, andrà cercando un nuovo corpo, fino a che rinascerà. E la rinascita sarà causa di ulteriori sofferenze, in un ciclo apparentemente infinito.

 Con parole talvolta molto diverse viene raccontato l’abbandono del corpo da alcuni di coloro che lo hanno sperimentato. Ne parla Raymond Moody nelle sue ricerche sui fenomeni di pre-morte. Alcuni esempi:

 “Circa un anno fa venni ricoverata in ospedale in seguito a scompensi cardiaci e la mattina successiva al ricovero, mentre ero a letto, cominciai ad avvertire un violento dolore al petto… Il cuore cessò di battere. Le infer­miere gridarono: «Emergenza! Emergenza!», e intanto io mi sentii uscire dal corpo e scivolare tra il materasso e la sponda laterale del letto… Poi cominciai a innalzarmi, lentamente. Mentre mi innalzavo vidi altre infermiere che entravano corren­do nella stanza…Continuai a salire fino al punto dove era fissato l'im­pianto della luce - lo vidi di fianco, con assoluta chiarezza - e più su ancora, poi mi fermai, galleggiando lentamente appena sotto il soffitto e continuando a guardare giù… Li vidi rianimarmi stando lassù! Il mio corpo era steso sul letto, bene in vista, e tutti gli stavano radunati attorno. Sentii un'infermiera dire: «Mio Dio, è morta!», mentre un'altra si curvava per farmi la respirazione bocca a bocca. Mentre lei era curva su di me, io guardavo la sua nuca…Mentre vedevo tutta quella gente laggiù che mi martellava il petto e mi strofinava le braccia e le gambe, pensavo: «Perché si danno tanto da fare? Adesso sto bene»”.

 “Mi ammalai gravemente e il dottore mi fece ricoverare in ospedale. Una mattina, mi avvolse una nebbia grigia e solida, e uscii dal mio corpo. Mi sentivo galleggiare mentre uscivo dal corpo, e mi voltai a guardare e mi vidi sul letto e non provai paura. Avvertivo invece quiete, una quiete serena e piena di pace. Non ero sconvolto né spaventato. Era una sensazione di tranquillità, qualcosa che non temevo. Sentii che probabilmente quella era la morte, che forse stavo morendo e che se non rien­travo nel mio corpo, sarei morto, morto sul serio”.

 Altre persone hanno espresso timore, estraneità, rimpianto. Oppure hanno mostrato di andare oltre l’attaccamento al loro stesso corpo:

 “Non guardai affatto il mio corpo. Sì, sapevo bene che era là e se avessi guardato lo avrei visto. Ma non volevo guardare, non volevo proprio, perché sapevo di aver fatto del mio meglio in vita e ora volgevo la mia attenzione verso il nuovo regno. Mi pareva che voltarmi a guardare il mio corpo fosse come voltarmi a guardare il passato, e ero decisa a non farlo”.

 “Vedevo il mio corpo ripiegato su se stesso nella macchina, in mezzo a tutti quelli che si erano radunati, ma, vede, non provavo niente per il mio corpo. Era come se fosse una persona completamente diversa, o forse soltanto un oggetto ... sapevo che era il mio corpo, ma non provavo niente”.

 Visse per sempre felice e contento?

 Anche Pinocchio, si è detto, osserva il proprio vecchio Io-corpo, il burattino di legno. Non prova alcuna sofferenza né nostalgia, e nemmeno indifferenza. Nemmeno timore per ciò che verrà. Al contrario. Non è affatto stupito di vederlo, anzi non vedendolo lo cerca, chiede dove si sia nascosto. Avendolo trovato grazie al padre-demiurgo, lo definisce buffo e prova, in silenzio, grande compiacimento e contentezza. È giunto al di là del corpo vegetale, del piccolo Io-mio.

Ma, torniamo a chiedere, è per sempre?

Spesso i racconti terminano con una positiva certezza: …e vissero per sempre felici e contenti. Dove il per sempre rinvia ancora una volta al tempo del mito, il tempo del c’era una volta in cui non vi è inizio… né fine. Dove il principio non è un inizio, e il sempre è ogni singolo istante.

Non sappiamo quale sarà il destino del corpo-vegetale di Pinocchio: sarà legna da ardere? O finirà in un negozio di antiquariato, o in baule dei ricordi d’infanzia? O tornerà a correre e sgambettare e saltare come una lepre?

Non è dato saperlo. Né Pinocchio né Collodi lo dicono.

Pinocchio-ragazzino-perbene non si dilunga ulteriormente, non usa altre parole.

Anzi, esprime “dentro di sé”, non verbalmente, le sue emozioni di fronte al vecchio corpo-vegetale.

Trasumanar significar per verba non si poria, aveva detto Dante.

Oltrepassata la soglia, le parole divengono inutili, impossibili. Collodi depone la penna, Pinocchio non dice più nulla, e noi con lui.

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 Testi

C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, Ed. BUR

P. Citati, Una fiaba esoterica, introduzione a Pinocchio, Ed. Bur

G. Biffi, Contro Maestro Ciliegia, Ed. Jaca Book

M. Carosi, Pinocchio, un Messaggio Iniziatico, Ed. Mediterranee

G. Agamben, Pinocchio, Ed. Einaudi

E. Zolla, Uscite dal mondo, Ed. Adelphi

S. Ronchey, Il burattino framassone, intervista a “La Stampa”, in: www.gianfrancobertagni.it

G. Marchianò, Pinocchio come sistema metafisico virtuale, in “Conoscenza Religiosa” n. 3/80

D. Riboli, Da Giasone a Cenerentola, in: www.academia.edu.it

A. Orlandi, Zoppi, Iniziati e Diavoli, in: www.expartibus.it

R. Graves, I miti greci, Ed. Longanesi

J.M. Vivenza, Dizionario guénoniano, Ed. Arkeios

J.E. Cirlot, Dizionario dei simboli, Ed. SIAD

Ph. Cornu, Dizionario del Buddhismo, Ed. Bruno Mondadori

Ch. Humphreys, Dizionario buddhista, Ed. Ubaldini

M. e J. Stutley, Dizionario dell’Induismo, Ed. Ubaldini

Bardo Thodol, Ed. Einaudi

Eihei Dogen, Shobogenzo, Ed. Pisani

R. Moody, La vita oltre la vita, Ed. Mondadori

C.G. Jung, Simboli della trasformazione, Ed. Boringhieri

I Vangeli apocrifi, Ed. Einaudi