mercoledì 19 novembre 2014

Su alcune fonti della vita del Buddha - III


Le opere di Asvaghosa e la letteratura Kavya e Mahakavya


Il passaggio dai Jataka del Canone Pali al Jatakamala di Arya Sura, testo che del Canone non fa parte, segna il definitivo manifestarsi dell’interesse del mondo buddhista nei confronti della biografia del Buddha, che continua ancora ad essere visto come un essere umano (le vite passate non sono una particolarità dei Risvegliati, lo è semmai la capacità di ricordarle), ma che diviene sempre più oggetto di venerazione quasi come una divinità, un oggetto devozionale, cosa che indubbiamente è lontana dalla lettera e dallo spirito dei suoi ultimi insegnamenti, anche se lo spirito di compassione deve sempre spingere a comprendere i bisogni degli uomini, i quali non si trovano tutti ad uno stesso grado di maturazione spirituale (anche qui, la legge del karma è in opera!).

Tale fenomeno ha comunque contribuito, dal punto di vista letterario, alla nascita di quello che probabilmente è il testo classico più conosciuto e più bello sulla vita di Siddhartha Gautama Shakyamuni, il Buddhacarita ("Le gesta del Buddha") di Asvaghosa.

È difficile attribuire una esatta datazione alla vita e alle opere di Asvaghosa (in effetti non esiste una vera e propria storiografia per quanto riguarda l’India fino a circa l’anno 1000 d.C.): visse nell’India del Nord all’epoca della dinastia

Asvaghosa nell'iconografia cinese
Kushana, una popolazione indoeuropea che dal I al III sec. d.C. dominò le terre dall’Afghanistan alla Valle del Gange e a nord fino al Pamir, e che ebbe molti contatti con i mondi romano, greco-ellenistico e cinese, assorbendone importanti elementi culturali (si pensi all’arte del Gandhara). Asvaghosa visse probabilmente tra il 50 a.C. e il 100 d.C., apparteneva sicuramente alla casta brahmanica, conosceva infatti molto bene il sanscrito e la tradizione vedica. Solo in tarda età, si dice perché sconfitto in un pubblico dibattito, si convertì e prese i voti, divenendo discepolo di colui che lo aveva battuto, come tradizionalmente accadeva. Forse, divenne poi poeta di corte al seguito del re Kaniska. Viene ricordato tradizionalmente come uno dei “padri fondatori” del buddhismo Mahayana.

La sua opera principale è il Buddhacarita, “Le gesta del Buddha(1), una biografia del Buddha Shakyamuni che si differenzia nettamente dalla letteratura precedente relativa alla vita del Buddha (cioè i singoli episodi riportati nei sutra o negli altri testi del Canone Pali), in quanto non è discontinua né frammentaria nella narrazione, ed è priva altresì della ripetitività tipica dei testi canonici. Si distacca inoltre dalle altre “vite” sanscrite ormai perdute e risalenti ai primi anni della nostra era “in quanto opera unitaria, completa [..], colta e scritta in un sanscrito estremamente curato rispetto alla lingua mista delle altre produzioni coeve” (2).

La traduzione italiana del testo, pubblicata nella Biblioteca Adelphi, comprende i canti I-XIV, ovvero dalla nascita di Siddhartha fino al Risveglio sotto l’albero pipal. I canti successivi (da XV a XXVIII) non sono stati inclusi in quanto l’originale sanscrito è andato perduto e ancora non esistono traduzioni critiche delle versioni cinese e tibetana.

Può essere interessante, dal punto di vista letterario, sottolineare come l’opera di Asvaghosa possa essere definita come un kavya, uno stile usato dai poeti di corte indiani e caratterizzato dall’uso di metafore, similitudini ed altre figure letterarie, con un esplicito intento estetico. Il Buddhacarita è anzi un mahakavya (un “gran poema”), secondo la codifica del critico indiano Dandin (VII sec.): infatti un mahakavya deve essere diviso in canti, è “sorto da una narrazione storica o è comunque munito di verità; è aderente al quadruplice vantaggio (3), ha un eroe ingegnoso e nobile. È adornato da descrizioni di città, oceani, montagne [..], da bevute e feste d’amore, da separazioni, da matrimoni, da descrizioni dei successi di un principe [..] e dal trionfo dell’eroe(4). Un ulteriore importante requisito è il rasa, il gusto, il sapore, ovvero l’esperienza estetica che l’opera suscita nello spettatore/lettore. E il rasa prevalente del Buddhacarita nel suo complesso è lo shanta rasa, il “gusto” della pace interiore, mentre in singoli passi si può riscontrare il rasa della compassione (Siddhartha che conosce le sofferenze degli esseri umani), o del disgusto (le donne addormentate) ecc.
Una apsara, ninfa celeste
Un’altra famosa opera di Asvaghosa, che dimostra ulteriormente l’interesse del mondo buddhista della sua epoca per le vite dei Santi e che rientra anch’esso nella “categoria” letteraria del mahakavya, è il Saundarananda (“Nanda il Bello”), nel quale si narra la vicenda di Nanda, un fratellastro del Buddha Shakyamuni (5): “fonte di gioia senza fine in famiglia. Lungo di braccia e ampio di petto, leonine le spalle, taurino lo sguardo, egli, per il sublime aspetto era noto col soprannome di Bello. Come l’inizio del mese di Madhu (6), come il sorgere della luna nuova, come il dio disincarnato reincarnato (7), egli splendeva di maestà graziosa(8).
Nanda è profondamente tormentato: ha scelto di seguire il Buddha ed è divenuto monaco, ma il ricordo e il desiderio della bellissima moglie Sundari lo perseguitano. Allora il Buddha, ricorrendo alla sua capacità di usare gli abili mezzi, lo porta al cospetto delle meravigliose ninfe celesti, le Apsaras, al cui confronto la bellezza della moglie scompare. Nanda rivolge allora il proprio desiderio verso le ninfe e approfondisce la sua pratica del Dharma, unico mezzo, gli viene detto, per conquistarle. Ma proprio la pratica stessa fa sì che il desiderio si estingua, e Nanda può quindi ottenere il Risveglio.

La presenza delle caratteristiche kavya e mahakavya nell’opera di Asvaghosa spiega certamente la fortuna che ebbe nel suo tempo, nonché il fatto che tuttora il lettore rimanga affascinato e meravigliato dalla sua narrazione. Non per nulla, diceva il critico Dandin, un mahakavya è una “delizia per l’umanità e [..] dura per più di un’epoca cosmica(9).


NOTE
(1) Asvaghosa, Le gesta del Buddha, Ed. Adelphi.
(2) A. Passi, Il Buddhacarita e il suo autore, in: Asvaghosa, Le gesta del Buddha, pag. 232. Due sono le “vite” a cui si fa qui riferimento: il Mahavastu (la “Grande Storia”, tra il II sec. a.C. e il IV d.C.) e il Lalitavistara Sutra (il “Sutra dei Giochi”), di poco posteriore.
(3) I “quattro vantaggi” corrispondono alle quattro finalità della vita umana secondo la tradizione hindu: il piacere, l’amore (kama), il lavoro, il benessere materiale (artha), il dovere civile, morale, religioso (dharma), la liberazione dal ciclo delle rinascite (moksha). Nel caso del kavya buddhista, solo il quarto elemento ha valore, la liberazione dalla sofferenza, il Nirvana. Gli altri tre possono anzi divenire un ostacolo. Cfr. A. Passi, Il Buddhacarita e il suo autore, pagg. 236-237.
(4) Id., pag. 236.
(5) Asvaghosa, Nanda il Bello, Ed. Adelphi.
(6) In sanscrito madhu indica il miele, forse il riferimento è all’inizio della primavera.
(7) È Kama, dio dell’amore, incenerito dallo sguardo di Shiva.
(8) Asvaghosa, Nanda il Bello, pag.25.
(9) A. Passi, Il Buddhacarita e il suo autore, pag. 236.

mercoledì 5 novembre 2014

Su alcune fonti della vita del Buddha - II

Dalla letteratura dei Jataka al Jatakamala di Arya Sura

Nel Maha Saccaka Sutta (Il discorso maggiore a Saccako) il Buddha narra al giovane Saccako la propria esperienza sotto l’albero del Risveglio. Quando giunge a parlare del quarto livello della meditazione, afferma: “Diressi il mio spirito alla contemplazione delle mie vite anteriori: una nascita, due nascite, tre nascite, quattro... cinque... dieci... venti... trenta... quaranta... cinquanta... cento... mille... cinquemila nascite, dieci epoche di riproduzione del mondo, dieci epoche di distruzione del mondo, dieci epoche di distruzione e riproduzione del mondo. Tutto ricordai con precisione: in un certo luogo mi trovavo, avevo un certo nome, appartenevo ad una certa stirpe e a una certa famiglia, un mestiere esercitavo; provai gioia e dolore, e così terminai la mia esistenza, per nascere di nuovo in un’altra vita… Così richiamai alla mia memoria un gran numero delle mie vite anteriori, contemplando ciascuna di esse in tutti i suoi caratteri e fin nei suoi più piccoli dettagli(1).

Il processo della reincarnazione
 Come è noto, Siddhartha Gautama era nato all’interno di un contesto culturale (l’India del VI sec. a.C.) per il quale la dottrina della reincarnazione era un dato di fatto (quasi) universalmente accettato. Ma la reincarnazione presuppone l’esistenza di un “sé” individuale e permanente (atman) che passa da un corpo all’altro, vita dopo vita. Questa nozione del sé venne però nettamente rifiutata dal Buddha, per il quale il sé esiste solo in dipendenza dei cinque aggregati (corpo, sensazioni, percezioni, volizioni, coscienza), che a loro volta sono fenomeni composti, impermanenti, soggetti alla causalità e alla distruzione. Per il buddhismo, “non esiste anima immortale e [..] tutto il mondo fenomenico compare e scompare in un flusso perennemente mutevole(2).
Il buddhismo accetta però la realtà del processo di rinascita, negando nel contempo che esso sia sostenuto da una sostanza soggiacente (l’atman, un’anima immortale). E’ come una fiamma, si dice, che è trasmessa da una fonte (es. una torcia) ad un’altra: la fiamma non è identica alla fonte, ma non ne è nemmeno totalmente differente. Nello stesso modo, l’eredità karmica delle azioni passate origina formazioni psicofisiche sempre nuove. “Non è quindi la stessa ‘persona’ a fare ritorno(3), bensì un “continuum”, un flusso di coscienza, privo di sostanza autonoma, una serie di istanti psichici collegati tra loro da rapporti causali, in continuo e ininterrotto divenire, e privo altresì di una origine, di una “causa prima”, in quanto ogni istante è causato da un istante precedente, in una catena senza inizio.

In un contesto di cultura “popolare”, cioè all’interno delle modalità con cui veniva comunemente interpretata e vissuta la nozione di “rinascita”, si innesta la concezione secondo la quale la natura di Buddha, la natura del Risveglio, è sì presente in tutti gli esseri, ma la sua piena manifestazione è il risultato di una progressiva evoluzione spirituale, che si compie attraverso la pratica delle sei “perfezioni” (la generosità, l’etica, la pazienza, l’energia, la concentrazione, la saggezza) e dei quattro “incommensurabili” (l’equanimità, l’amore, la compassione, la gioia compartecipe).

Il bodhisattva della compassione
Il combinato delle concezioni di un processo nascita-morte-rinascita e di una evoluzione spirituale verso la piena realizzazione del Risveglio attraverso un “accumulo” dei meriti di azioni virtuose, diede origine all’interno delle comunità del buddhismo indiano ad un vero e proprio “genere” letterario, centrato sulla figura del Bodhisattva (4), cioè colui che diverrà, vita dopo vita, il Buddha dell’era presente, Siddhartha Shakyamuni. Sono i Jataka (le “Nascite”), ovvero le narrazioni delle grandi gesta (in senso etico) compiute dal Buddha nelle sue vite precedenti, sotto forme non solo umane, ma anche divine e animali.
I racconti dei Jataka provengono quindi direttamente dalla bocca del Buddha, sono i ricordi delle sue esistenze precedenti da lui stesso raccontate ai discepoli. Ed infatti i 547 racconti dei Jataka fanno parte integrante del Canone Pali (nel Khuddaka Nikaya, la Raccolta dei Testi Brevi del Sutta Pitaka). Benché la raccolta sia stata redatta nei secoli successivi, gli episodi che la costituiscono risalgono ad epoche precedenti, probabilmente al periodo della vita del Buddha storico (VI sec. a.C.).
I Jataka, come si è detto, non sono esposizioni sistematiche degli insegnamenti del Buddha, come i Sutra, e non contengono dissertazioni filosofiche. Sono invece racconti semplici, di facile lettura, con una forte valenza di edificazione, di insegnamento etico; sono volti ad infondere negli ascoltatori e nei lettori sentimenti di devozione e di fiducia nel valore del compimento del bene in vista della liberazione finale. I Jataka infatti “racchiudono una psicologia e un sistema etico raffinati, basati sulle intuizioni del Buddha riguardo alle leggi naturali che governano tutto l’esistente. [..] Sono una efficacissima rappresentazione del funzionamento del karma, così come esso si dispiega nell’arco di vite successive(5).
Il Buddha insegna che il karmanon si dispiega in una semplice progressione lineare(6) di causa-effetto; è difficile rintracciare l’evolversi del karma nella vita di tutti i giorni (propria e altrui), vedere le connessioni tra le azioni di corpo, parola e mente ed i loro effetti. Si può perfino giungere a pensare che tale relazione nemmeno esista, credendo nell’idea che le azioni non abbiano conseguenze morali o psicologiche. Oppure, mal comprendendo il karma, si può cadere nell’estremo opposto, per cui tutte le azioni sarebbero predeterminate (dal destino, dai condizionamenti sociali, ambientali, biologici), negando ogni possibile libertà all’agire umano. In entrambi i casi, non avremmo nessun controllo sulla vita, nessuna responsabilità etica. E questa forma di ignoranza darebbe origine – come in effetti accade – a nuove sofferenze.
La lettura dei Jataka era – ed è tuttora – una occasione per riflettere sulle scelte morali, aprire gli occhi alla realtà del karma, ripensare ad un’autentica qualità della vita, capire le conseguenze delle azioni umane, liberare la mente da schemi distruttivi di comportamento consolidati nel tempo e divenuti veri e propri automatismi (7).
I Jataka esprimono pertanto, a partire dai primi secoli dell’era presente, un primo autentico interesse da parte dei praticanti, monaci e laici, per la vita del Buddha, per la sua “biografia” in quanto bodhisattva. Parallelamente, cresce all’interno del “movimento” buddhista l’importanza dei laici, ai quali fino ad allora era solo attribuita la possibilità di acquisire meriti attraverso il sostentamento della comunità monastica, le donazioni, la costruzione di templi e monasteri. Fino ad allora, l’Illuminazione era rimasta invece a coronamento della vita monastica, ma non di quella laicale.
In altre parole, nasce, anche a partire di qui, il grande movimento riformatore noto come Mahayana, il Grande Veicolo (in – apparente – contrapposizione con lo Hinayana, il Piccolo Veicolo, ma più correttamente Theravada, la Via degli Anziani), nel quale la figura del bodhisattva, l’essere autenticamente compassionevole alla ricerca della liberazione dalla sofferenza per tutte le esistenze e non solo per se stesso, è assolutamente centrale.
Per questi motivi i Jataka ebbero da subito una grandissima diffusione in tutti i territori dell’Asia in cui si irradiò il buddhismo, influenzando profondamente anche le letterature locali. Addirittura in molte zone nacquero altre storie, che si aggiunsero alle raccolte originarie provenienti dall’India attraverso il Tibet o la Cina.
A partire dai Jataka, vennero composte opere poetiche e si allestirono rappresentazioni sceniche, sia per edificazione delle persone, sia per puro senso estetico, ed anche per alleviare la sofferenza durante le veglie funebri. Tradizioni tuttora vive in molte aree dell’Asia.

Le grotte di Ajanta
Inoltre, scene ed episodi tratti dai Jataka vennero scolpiti o dipinti sui monumenti e nei siti buddhisti, ad es. in India (le grotte di Ajanta, i reliquiari di Sanci, Amaravati ecc.), a Giava (il famoso Borobudur), in Birmania.

Raffigurazione dei Jataka ad Ajanta
Anche le letterature non buddhiste ne furono influenzate: diverse opere composte successivamente nella tradizione hindu si fondarono sui Jataka o ne riportarono alcuni. Basti ricordare il Pancha-tantra, un’opera in cinque sezioni (pancha = cinque, tantra = capitoli) attribuita a Vishnusharman, redatta nel V sec. d.C. perché servisse all’educazione dei figli del re Amarashakti (i Jataka erano invece destinati a tutta la popolazione). Si tratta di una raccolta di fiabe, che a sua volta divenne la base delle narrazioni favolistiche medio-orientali, e che influenzò anche le letterature del Medio Evo europeo. Ai Jataka (attraverso il “filtro” del Pancha-tantra tradotto in arabo, siriano, persiano) attinsero scrittori come Boccaccio, Ariosto, Matteo Bandello, La Fontaine, Chaucer.

Tra le diverse raccolte di Jataka pubblicate nel tempo, al di fuori del Canone Pali, riveste particolare importanza quella attribuita ad un grande poeta indiano, Arya Sura, vissuto nel III – IV sec. d.C., di cui non si sa quasi nulla. Alcuni lo identificano con Asvaghosa, l’autore del Buddhacarita (“Le gesta del Buddha”), ma pare un’ipotesi non sostenibile. Arya Sura compose una raccolta di 34 Jataka, conosciuta come Jatakamala, la “Ghirlanda delle nascite” (mala = rosario, ghirlanda, corona). Egli non fu un semplice compilatore, infatti rielaborò le storie scelte in uno stile estremamente raffinato che fece di lui uno dei maggiori scrittori indiani, e del suo Jatakamala una delle opere più importanti e più amate di tutta la letteratura sanscrita.
Nel Jatakamala, come si è già detto a proposito dei Jataka del Canone Pali, è efficacemente rappresentato il funzionamento della legge del karma, termine sanscrito che significa “azione”, ma in un senso molto ampio, che va a comprendere le connessioni causali tra le azioni umane e i loro effetti. Dal punto di vista buddhista studiare e comprendere la natura del karma e il suo modo di operare può realmente trasformare il corso della propria vita. Il meccanismo delle leggi karmiche è estremamente complesso, come il Buddha stesso affermava, non sempre esso si manifesta in maniera lineare e immediatamente comprensibile: molto spesso possiamo vedere come chi opera il male prosperi tranquillamente nella propria esistenza, mentre operatori di bene altrettanto spesso soffrono in povertà e malattie o sono vittime di violenza. Il che ci pare ingiusto e incomprensibile, e rende scettici sulla reale operatività del karma. Ciò che i Jataka ed il Jatakamala insegnano è che il nostro sguardo deve essere il più possibile ampio e proiettarsi su interi cicli di esistenze. In questa prospettiva nulla va perduto, nulla si crea dal nulla, nulla avviene in maniera casuale. “Ogni azione mette in moto forze che produrranno risultati in preciso accordo con la natura dell’azione stessa(8). Il fatto stesso di nascere in un corpo umano è uno dei frutti preziosi (non a caso nel buddhismo si parla di “preziosa rinascita umana”) di azioni positive compiute nelle passate esistenze.

Il bodhisattva offre se stesso alla tigre affamata (dai Jataka)


NOTE
(1)    Cit. in V. Cucchi (a cura di) La vita di Buddha nei testi del Canone Pali, pag. 48.
(2)    V. la voce Karman in: M. Eliade (a cura di), Enciclopedia delle Religioni, Ed. Jaca Book, vol. 10 – Buddhismo, pag. 318.
(3)    P. Cornu, Dizionario del buddhismo, Ed. Bruno Mondadori, pag. 685.
(4)    Alla lettera “Essere la cui essenza è il Risveglio”; colui che rinuncia al Nirvana per aiutare gli altri esseri a raggiungerlo.
(5)    Introduzione a: Arya Sura, Le vite passate del Buddha, Ed. Ubaldini, pag. 9.
(6)    Id..
(7)    Id., pagg. 10-11.
(8)    Introduzione a: Arya Sura, Le vite passate del Buddha, pag. 10.