mercoledì 28 marzo 2018

Buddha, Francesco, Dante e il Papa - II parte


Il saggio di Silvia Ronchey è stato pubblicato su la Repubblica del 30 novembre 2017 con il titolo:

Buddha, Dante e il segreto di Francesco

Francesco e Buddha. Un accostamento logico, per chi si interessa anche solo un po' di storia delle spiritualità e delle religioni, eppure inusuale, almeno in apparenza, quello tracciato da papa Bergoglio nel suo viaggio in Birmania, davanti al consiglio supremo sangha dei monaci buddisti a Rangoon, tra le parole del Buddha e di san Francesco. Un riferimento a quella che non a caso Bergoglio ha chiamato la “sapienza” francescana, a indicare una volta di più una profonda conoscenza del francescanesimo nel papa che per primo ha scelto il nome di Francesco, unita a una altrettanto profonda aderenza, nel primo papa gesuita, alla tradizione della Compagnia di Gesù. Come sempre dietro le sue parole solo in apparenza semplici c’è una sofisticata cultura e uno strato molteplice di rimandi e significati destinati ad essere intesi, per dirla coi vangeli, da chi ha orecchie per intendere. Spesso, e specie di questi tempi, si sono accostati Buddha e Cristo. Un accostamento non solo legato alla crescente diffusione del buddismo in occidente, ma collegato a un sincretismo antico, che dalla predicazione nestoriana e manichea attraverso il culto medievale, bizantino, poi occidentale, di “san Buddha” (Ioasaf, metamorfosi cristiana del bodhisattva venerato nel sinassario costantinopolitano e poi incluso da Baronio e Bellarmino nei Martirologio Romano, al tempo della Controriforma) arriverà a Tolstoj, a Hesse, a Thomas Merton. Non si era invece mai sentito, almeno nella cultura diffusa, né certo dalle labbra di un papa, accostare direttamente Buddha e Francesco. Eppure anche questo è un accostamento antico, che si trova, come la lettera rubata di Poe, sotto gli occhi di tutti. Lo si può scorgere, a guardare bene, nel testo più noto e diffuso della letteratura italiana in particolare e medievale in generale, la Commedia di Dante. Nell’undicesimo canto del Paradiso, in quello che viene di solito chiamato l’Elogio di Francesco (vv. 43 sgg.), là dove Dante prende a narrarne la storia a partire da una descrizione geografica minuziosa e visionaria, quasi aerea, del luogo di nascita tra la “fertile costa” che digrada verso la valle di Spoleto e verso Perugia e il “grave giogo” montano del Subasio che incombe opprimente (“e di retro le piange”) su Nocera e Gualdo Tadino, due terzine hanno fatto riflettere quanto meno per la stranezza e ricercatezza delle rime che precedono l'affiorare, nella toponomastica umbra, di un nome inaspettato: quello del Gange. Dalla cortina di monti appena evocata (“Di questa costa”), nel punto dove si fa meno ripida (“là dov’ella frange / più sua rattezza”), scrive Dante, “nacque al mondo un sole, /come fa questo tal volta di Gange” (vv. 48-51). L’evocazione improvvisa del fiume indiano, folgorante quanto l’epifania di un nuovo sole, annunciata dai verbi “piange” e “frange”, ha dato da pensare agli studiosi, che l’hanno in genere interpretata, non senza esitazioni, come mera espressione di un punto cardinale: l’oriente, da cui appunto sorge il sole. Non fosse che la parola Oriente ricorre due versi dopo, a identificare il borgo stesso di nascita di Francesco: Assisi, che Dante denomina direttamente “Ascesi”, ma che, aggiunge drastico, è limitativo chiamare con questo nome e non denominare invece tout court Oriente (“Perché chi d'esso loco fa parole / non dica Ascesi, che direbbe corto, / ma Oriente, se proprio dir vole”).

 Possiamo dire che in questa elaborata evocazione del manifestarsi al mondo di un illuminato, che sorge all’umanità come “fa a volte” dal Gange, in un luogo il cui nome già evoca la disciplina ascetica degli antichi monaci orientali, ma che di fatto è di per sé un Oriente, si avverte l’eco della profezia della venuta di quel nuovo Buddha, la cui rinascita è attesa nella letteratura canonica di tutte le scuole buddhiste? La questione è più complessa. Il canto XI del Paradiso è stato costruito da Dante in maniera simmetrica al XII, quello su san Domenico. Il comune riferimento al sole e il ricorrere dell'espressione “tal volta” eliminano ogni dubbio sul fatto che i due passi vadano letti insieme. Ma, facendolo, non si può non concludere che, dei due pilastri della cristianità, uno, Francesco, è considerato da Dante “orientale”. Quanto al Gange, ricorre altre due volte nella Commedia, in due passi del Purgatorio (II, 5 e XXVII, 4). Paragonando le tre occorrenze, non si può non concludere che per Dante l’origine della particolare illuminazione portata all’umanità dal “sole” Francesco è l’Oriente e che con Francesco ha inizio un nuovo ciclo. Sarebbe quindi certamente troppo dire che l'intenzione di Dante è indicare in Francesco un Maitreya, un “re del mondo” che tramite l’illuminazione completa moltiplicherà i suoi discepoli unendo tutte le scuole. Ma nelle due terzine dell’undicesimo del Paradiso non si può non avvertire almeno un’eco di quella tradizione orientale, almeno una remota conoscenza della dottrina buddista, che non stupirebbe troppo in Dante e si aggiungerebbe alle sue sorprendenti conoscenze della mistica medievale globale.
Una sterminata letteratura è stata dedicata dai dantisti al rapporto di Dante con le tradizioni mistiche orientali: a volte in un filone quasi fantasy come quello del Dante di Guénon, preceduto e seguito da una pletora di altri studi e letture esoteriche della Commedia; a volte in saggi rigorosamente accademici, come ad esempio, in Italia, quelli di Marco Ariani, o in studi particolari sul rapporto tra Commedia, buddismo e induismo. Una altrettanto sterminata letteratura è stata dedicata dai francescanisti al rapporto privilegiato e intenso dei francescani con l’oriente, vicino ed estremo. Un fenomeno di portata colossale, di cui solo una pallida traccia affiora dai meravigliosi frammenti bizantini della predica di Francesco agli uccelli della Kalenderhane Camii, oggi al Museo Archeologico di Istanbul. Sappiamo che già nel XIII secolo i francescani tornarono dall'oriente con repertori accurati di preghiere buddhiste ed elenchi dei bodhisattva. Pensiamo a un personaggio come Giovanni da Montecorvino, vissuto a Pechino dal 1294 al 1328, fatto dal papa vescovo di Khan Baliq. I francescani dei primi del Trecento avevano probabilmente più informazioni sul buddismo degli intellettuali di epoche successive. Il punto è cosa fecero di queste informazioni. Certamente la messe di materiali circolò per via orale, nei cenacoli intellettuali italiani ed europei. Ma non innescò alcun orientalismo. Bisognerà aspettare, per questo, i gesuiti del Seicento.
Ed ecco, il cerchio si chiude. Che un papa gesuita, devoto di Francesco tanto da prenderne il nome, sette secoli dopo la stesura della Commedia e il circolare in Italia e in Europa di una visione che, se non assimilava direttamente Francesco al Buddha, certamente usava per descriverne la statura mistica categorie e immagini vividamente orientali, decida di avvicinare esplicitamente i due sapienti, di presentarli contigui, è un fatto storico. Chi ha orecchie per intendere, intenda.

Di Silvia Ronchey si legga il recente libro:

La cattedrale sommersa. Alla ricerca del sacro perduto, Ed. Rizzoli


Buddha, Francesco, Dante e il Papa - I parte


Il 29 novembre 2017, nel corso di un suo viaggio in Myanmar, Papa Francesco ha incontrato il Consiglio Supremo dei monaci buddhisti di Yangon (Rangoon) ed ha tenuto il discorso che qui di seguito è interamente riportato:

È una grande gioia per me essere con voi. Ringrazio il Ven. Bhaddanta Kumarabhivamsa, Presidente del Comitato di Stato Sangha Maha Nayaka, per le sue parole di benvenuto e per il suo impegno nell'organizzare la mia visita qui oggi. Nel salutare tutti voi, esprimo il mio particolare apprezzamento per la presenza di Sua Eccellenza Thura Aung Ko, Ministro per gli Affari Religiosi e la Cultura.
Il nostro incontro è un'importante occasione per rinnovare e rafforzare i legami di amicizia e rispetto tra buddisti e cattolici. E' anche un'opportunità per affermare il nostro impegno per la pace, il rispetto della dignità umana e la giustizia per ogni uomo e donna. Non solo in Myanmar, ma in tutto il mondo le persone hanno bisogno di questa comune testimonianza da parte dei leader religiosi. Perché, quando noi parliamo con una sola voce affermando i valori perenni della giustizia, della pace e della dignità fondamentale di ogni essere umano, noi offriamo una parola di speranza. Aiutiamo i buddisti, i cattolici e tutte le persone a lottare per una maggiore armonia nelle loro comunità.
In ogni epoca, l'umanità sperimenta ingiustizie, momenti di conflitto e disuguaglianza tra le persone. Nel nostro tempo queste difficoltà sembrano essere particolarmente gravi. Anche se la società ha compiuto un grande progresso tecnologico e le persone nel mondo sono sempre più consapevoli della loro comune umanità e del loro comune destino, le ferite dei conflitti, della povertà e dell'oppressione persistono, e creano nuove divisioni. Di fronte a queste sfide, non dobbiamo mai rassegnarci. Sulla base delle nostre rispettive tradizioni spirituali, sappiamo infatti che esiste una via per andare avanti, una via che porta alla guarigione, alla mutua comprensione e al rispetto. Una via basata sulla compassione e sull'amore.
Esprimo la mia stima per tutti coloro che in Myanmar vivono secondo le tradizioni religiose del Buddismo. Attraverso gli insegnamenti del Buddha, e la zelante testimonianza di così tanti monaci e monache, la gente di questa terra è stata formata ai valori della pazienza, della tolleranza e del rispetto della vita, come pure a una spiritualità attenta e profondamente rispettosa del nostro ambiente naturale. Come sappiamo, questi valori sono essenziali per uno sviluppo integrale della società, a partire dalla più piccola ma più essenziale unità, la famiglia, per estendersi poi alla rete di relazioni che ci pongono in stretta connessione, relazioni radicate nella cultura, nell'appartenenza etnica e nazionale, ma in ultima analisi radicate nell'appartenenza alla comune umanità. In una vera cultura dell'incontro, questi valori possono rafforzare le nostre comunità e aiutare a portare la luce tanto necessaria all'intera società.
La grande sfida dei nostri giorni è quella di aiutare le persone ad aprirsi al trascendente. Ad essere capaci di guardarsi dentro in profondità e di conoscere sé stesse in modo tale da riconoscere le reciproche relazioni che le legano a tutti gli altri. A rendersi conto che non possiamo rimanere isolati gli uni dagli altri. Se siamo chiamati ad essere uniti, come è nostro proposito, dobbiamo superare tutte le forme di incomprensione, di intolleranza, di pregiudizio e di odio. Come possiamo farlo? Le parole del Buddha offrono a ciascuno di noi una guida: “Sconfiggi la rabbia con la non-rabbia, sconfiggi il malvagio con la bontà, sconfiggi l'avaro con la generosità, sconfiggi il menzognero con la verità” (Dhammapada, XVII, 223). Sentimenti simili esprime la preghiera attribuita a San Francesco d'Assisi: “Signore, fammi strumento della tua pace. Dov'è odio che io porti l'amore, dov'è offesa che io porti il perdono, [...] dove ci sono le tenebre che io porti la luce, dov'è tristezza che io porti la gioia”.
Possa questa Sapienza continuare a ispirare ogni sforzo per promuovere la pazienza e la comprensione, e per guarire le ferite dei conflitti che nel corso degli anni hanno diviso genti di diverse culture, etnie e convinzioni religiose. Tali sforzi non sono mai solo prerogative di leader religiosi, né sono di esclusiva competenza dello Stato. Piuttosto, è l'intera società, tutti coloro che sono presenti all'interno della comunità, che devono condividere il lavoro di superamento del conflitto e dell'ingiustizia. Tuttavia è responsabilità particolare dei leader civili e religiosi assicurare che ogni voce venga ascoltata, cosicché le sfide e i bisogni di questo momento possano essere chiaramente compresi e messi a confronto in uno spirito di imparzialità e di reciproca solidarietà. Mi congratulo per il lavoro che sta svolgendo la Panglong Peace Conference a questo riguardo, e prego affinché coloro che guidano tale sforzo possano continuare a promuovere una più ampia partecipazione da parte di tutti coloro che vivono in Myanmar. Questo sicuramente contribuirà all'impegno per far avanzare la pace, la sicurezza e una prosperità che sia inclusiva di tutti.
Certamente, se questi sforzi produrranno frutti duraturi, si richiederà una maggiore cooperazione tra leader religiosi. A tale riguardo, desidero che sappiate che la Chiesa Cattolica è un partner disponibile. Le occasioni di incontro e di dialogo tra i leader religiosi dimostrano di essere un fattore importante nella promozione della giustizia e della pace in Myanmar. Ho appreso che nell'aprile scorso la Conferenza dei Vescovi Cattolici ha ospitato un incontro di due giornate sulla pace, al quale hanno partecipato i capi delle diverse comunità religiose, insieme ad ambasciatori e rappresentanti di agenzie non governative. Tali incontri sono indispensabili, se siamo chiamati ad approfondire la nostra reciproca conoscenza e ad affermare le relazioni tra noi e il comune destino. La giustizia autentica e la pace duratura possono essere raggiunte solo quando sono garantite per tutti.
Cari amici, possano i buddisti e i cattolici camminare insieme lungo questo sentiero di guarigione, e lavorare fianco a fianco per il bene di ciascun abitante di questa terra. Nelle Scritture cristiane, l'Apostolo Paolo chiama i suoi ascoltatori a gioire con quelli che sono nella gioia e a piangere con coloro che sono nel pianto (cfr Rm 12,15), portando umilmente i pesi gli uni degli altri (cfr Gal 6,2). A nome dei miei fratelli e sorelle cattolici, esprimo la nostra disponibilità a continuare a camminare con voi e a seminare semi di pace e di guarigione, di compassione e di speranza in questa terra.
Vi ringrazio nuovamente per avermi invitato ad essere oggi qui con voi. Su tutti invoco le benedizioni divine di gioia e di pace.

Yangon

 Il discorso del Pontefice (che è stato tratto dal sito: http://w2.vatican.va) è ricolmo delle espressioni tipiche di queste occasioni: i legami di amicizia e rispetto, il comune impegno per la pace, i valori perenni, l’armonia, lo sviluppo integrale della società… Parole tanto scontate quanto probabilmente sterili “nella nostra epoca sentimentale in cui è di buon gusto mettere l’accento sulle convergenze” (H. Clerc, Le cose come sono, Ed. Adelphi).
Ma si deve andare al di là di queste ritualità politico-diplomatiche, cercando anche di superare lo sconcerto che si prova leggendo di un monaco buddhista che è Presidente del Comitato di Stato (!) Sangha Maha Nayaka (un Politburo del Dharma?).
È invece interessante rilevare – relativamente ai temi di questo blog – il fatto che nel suo discorso Papa Francesco ha proposto un accostamento "forte" tra Francesco di Assisi e il Buddha. Altrettanto degna di nota è la modalità con cui l’accostamento stesso è stato evidenziato.
Il Santo di Assisi e Śākyamuni Buddha: due illuminati, e – forse proprio per questo – due “eretici” rispetto all’ortodossia delle tradizioni di origine, anche se entrambi ben presto istituzionalizzati e santificati (nel senso di ridotti a santini).
Un accostamento affatto sorprendente, “normale” dal punto di vista della storia della spiritualità umana, ma che è difficile trovare se non nelle banalizzazioni sentimentali della sempre straripante letteratura (post)New-Age.
Il Pontefice – e questo è un elemento nuovo e rilevante – lo ha proposto ricorrendo direttamente alle parole attribuite al Buddha, citando uno dei testi più antichi e più amati del buddhismo, il Dhammapada. In particolare, ha riportato nel suo discorso il passo 223 del Kodha Vagga, il capitolo dell’ira (cap. XVII):

Sconfiggi la rabbia con la non-rabbia, sconfiggi il malvagio con la bontà, sconfiggi l'avaro con la generosità, sconfiggi il menzognero con la verità.

 Esso viene giustapposto alla preghiera attribuita al Santo di Assisi che recita:

Dov'è odio che io porti l'amore, dov'è offesa che io porti il perdono, [...] dove ci sono le tenebre che io porti la luce, dov'è tristezza che io porti la gioia. 

Due mirabili esempi di quella che il Pontefice ha acutamente chiamato Sapienza, un termine affatto scontato, da leggere in profondità, di cui non accontentarsi: non è la conoscenza, il sapere, né la saggezza. E' parola che proietta al di là di ogni atteggiamento sentimentale nei confronti del Sacro e della Spiritualità, parola che gli antichi comprendevano molto più facilmente di noi.
A partire da Dante Alighieri… Ma per questo, si legga il breve saggio di Silvia Ronchey.

martedì 27 marzo 2018

Le cose come sono?


Un nuovo libro sul buddhismo. Ne è autore Hervé Clerc, un non-specialista – e, in questo caso, il fatto depone a suo favore. Un giornalista francese di 66 anni, al suo primo libro. Qui di seguito la 4^ di copertina:

Questo è un libro che l’autore non poteva non scrivere, e che si è portato dentro per quattro decenni. Perché fu più di quarant’anni fa che, reduce dai fervori e dai clamori del maggio '68, Hervé Clerc ebbe “un’esperienza incommensurabile rispetto a tutte quelle che avrebbe poi fatto nella sua vita e, ovviamente, a quelle fatte in precedenza”: scoprì il buddhismo nella sua essenza - nudo, immobile, vuoto. Allora non sapeva che cosa fosse. Oggi, riprendendo il filo della propria biografia, riesce a renderci partecipi di un insegnamento plurimillenario, e nella forma più semplice e spoglia possibile, scardinando cliché, tic accademici, gerghi, mode. Il tutto in un parlato ricco e saporoso, che invoglia alla lettura.


Al suo interno, già nelle prime pagine, alcune osservazioni che riscaldano il cuore – e dovrebbero schiarire la mente, soprattutto ai praticanti del sole calante:

Quando alla televisione vedo dei buddhisti occi­dentali vestiti con gli abiti gialli e rossi dei monaci tibetani rimango perplesso. Mi dico: c’è un malin­teso, siamo nel paese di Montaigne, Molière, Descartes, delle trecentosessantacinque varietà di for­maggi, dell’amor cortese, dei grandi vini, dove de­ve pur esistere un'altra maniera, meno esotica, meno clericale soprattutto, di presentare il buddhismo. Se continuiamo in questo modo, un insegna­mento così degno di essere conosciuto e così bene­fico verrà percepito dalla maggior parte della gen­te come un innesto estraneo e relegato, accanto agli extraterrestri, agli iperborei, ai millenaristi e al­la meditazione trascendentale, nel cassetto “New Age”, che le persone assennate evitano con cura di aprire. Non faranno la selezione. Pochi si prende­ranno la briga di farla. Un’occasione di riconosci­mento e di dialogo sarà andata perduta. Per presentare il buddhismo agli occidentali è ne­cessario un lavoro di adattamento.

Parole assolutamente condivisibili, anche per l’Italia, basta sostituire Montaigne e Molière con Vico, Croce e Goldoni, i formaggi con la pasta e lasciare l’amor cortese e i vini…
L’alternativa: continuare a dare del “buddhismo” l’immagine di un qualcosa di molto pittoresco, come il Festival dell’Oriente o il ristorante fusion o il capodanno cinese di Via Paolo Sarpi. Ma che non ha nulla a che vedere con noi. Ovvero: scavare la fossa al Buddhadharma. O allo Yoga. O allo Zen ecc.
Uccidere e Occidente non hanno la stessa etimologia. Il loro suono è però sinistramente simile. E fino ad ora l’occidente ha dimostrato molto bene di saper assorbire ed annichilire ciò con cui è venuto a contatto, dopo averlo fatto con il suo passato. 



Da leggere:

Hervé Clerc, Le cose come sono, Ed. Adelphi