giovedì 16 novembre 2023

INTRODUZIONE AL PENSIERO TRADIZIONALE CINESE - 4 - Il Daoismo.1: il Dao De Ching, Laozi, Zhuangzi

 

Lezione 4 – Il Daoismo _ 1: il Dao De Ching, Laozi, Zhuangzi

Lo storico Sima Qian narra che un giorno Laozi e Confucio si incontrarono. Laozi chiese: “Hai scoperto il Tao?”. Confucio rispose: “L’ho cercato per ventisette anni e non l’ho trovato”. Laozi gli consigliò allora: “Il saggio predilige l’oscurità, non si concede al primo che passa, valuta i tempi e le circostanze. Se il momento è propizio egli parla, altrimenti tace”. Al suo ritorno, Confucio raccontò: “Ho visto Laozi, assomiglia al dragone. Quanto al dragone, ignoro come possa, portato da venti e vapori, elevarsi fino al cielo”.

Già questo breve aneddoto, appartenente al mito più che alla storia, ci fornisce molti elementi per avvicinarci ad una sia pure superficiale comprensione del Taoismo nonché del suo rapporto con il Confucianesimo.

È indispensabile per questo studiare soprattutto un testo, il Dao De Ching, e un uomo, Laozi.

Il Dao De Ching, l’opera più antica e più profondamente speculativa di tutta la letteratura cinese, risale probabilmente al III secolo a.C., ma la dottrina che in esso si esprime esisteva sotto altre forme già dall’antichità, si sviluppò nei secoli successivi e raggiunse il suo pieno sviluppo all’epoca di Laozi. Non fu certamente Laozi il “creatore” degli insegnamenti presenti nel testo: il Dao, lo Yin e lo Yang erano già ben conosciuti nelle epoche anteriori all’apparizione di Laozi, anche se con sfumature diverse. Laozi è comunque riconosciuto come autore del Dao De Ching: Sima Qian ed altri raccontano che Laozi, ormai ottantenne, disgustato dalla decadenza in cui era caduto il Regno, montò in groppa ad un bufalo d’acqua e partì verso Occidente, per vivere come gli eremiti dei tempi antichi. Giunto ad un valico di frontiera la sentinella lo riconobbe e gli chiese di lasciare alla Cina una traccia scritta della sua saggezza. Laozi scrisse allora il Dao De Ching, in circa cinquemila parole, quindi si avviò, insieme al soldato di guardia divenuto suo discepolo, e raggiunse l’India dove, si dice, divenne il Maestro di colui che fu poi conosciuto come il Buddha.

Le datazioni del testo sono quindi storicamente incerte; la sua redazione, come quella dello Yi Ching, è probabilmente avvenuta nel corso di epoche diverse; gli insegnamenti che contiene sono rintracciabili nelle tradizioni sciamaniche (nel I secolo d.C. i daoisti erano chiamati Fang shih, maghi) e nello stesso Yi Ching; l’esistenza storica di Laozi (nome che significa letteralmente Vecchio Maestro) è tutt’altro che certa, e la sua figura è avvolta nel mito. Ma tutto questo non ne diminuisce affatto il valore e l’attualità, nella civiltà cinese e nel patrimonio spirituale dell’umanità intera.

La traduzione del titolo dell’opera (che nell’antichità era semplicemente noto come Laozi) comporta, come spesso avviene con le lingue orientali, alcune difficoltà.

Il termine Ching (si trova anche King, o Jing) è generalmente reso con “libro”, il che è corretto, se però applicato a testi classici o con un senso spirituale, religioso.

Dao (o Tao) e De (o Te) rinviano invece immediatamente ai contenuti del testo, al cuore del pensiero daoista.

Dao è la Via, il Cammino. Molto spesso viene lasciato in originale, anche nelle versioni occidentali dell’opera.

De è reso sovente con Virtù, ma alcuni commentatori ne indicano diversi significati: - la Virtù del Dao, con la quale esso governa le sue manifestazioni, le sue “creature”; - lo stato virtuoso superiore in cui il Saggio si trova nella completa conformità con il Dao; - la virtù in senso comune, ordinario.

 

Secondo René Guénon, che si attiene coerentemente ad una visione metafisica che ben si confà alla tradizione daoista, è da accantonare l’interpretazione morale del termine De, che è invece “una specificazione del Tao rispetto a un dato essere, ad esempio l’essere umano: è la direzione che quell’essere deve seguire perché la sua esistenza, nello stato in cui attualmente si trova, sia conforme alla Via”, ossia al Principio. Dal piano universale, quindi si discende all’applicazione, ma non in un’ottica sociale o morale: ciò a cui si guarda è sempre e solo il ricongiungimento al Principio supremo.

 

Dao è la Via, il Sentiero, ma è nel contempo la mèta. È anche metodo, disciplina, dottrina, padronanza di un’arte.

Si legge nel Vangelo di Giovanni 14,6: “Io sono la Via, la Verità e la Vita”.

 

Il Dao è il Principio Primo, nonché il Sostentatore, opera che svolge attraverso la Virtù De. È l’Assoluto privo di origine che di tutto è l’Origine. È la Realtà Ultima nella sua totalità, è privo di connotazioni antropologiche. È trascendente, ma anche immanente, poiché è il corso naturale delle cose: è la Via, ed è anche le vie, nella loro specificità. 

L’ideogramma Dao può aiutare a comprendere quanto si è detto:

 


Esso è composto da due parti: una, chuò (camminare), raffigura un piede che lascia delle orme:


 

L’altra parte, shou (testa), è a sua volta composta da due elementi.

Il primo è (occhio) ovvero ciò che rende riconoscibile un volto, la consapevolezza di sé.



  Il secondo, sulla sommità, è composto da due segni che richiamano delle ciocche di capelli raccolti sul capo, così come erano portati da persone di alto rango:

 


 L’insieme raffigura quindi una persona che ha piena consapevolezza di sé (mostra il suo volto) e cammina speditamente sulla strada che ha scelto, lasciando delle tracce per chi intende seguire lo stesso sentiero.

Il Daoista è quindi colui che studia, pratica, percorre la Via del Dao, incamminandosi verso l’Origine, verso l’Armonia con la Sorgente del Tutto. In tal senso il Dao costituisce sia il cammino sia la meta.

 

Il testo del Dao De Ching, piuttosto breve, è suddiviso in 81 capitoli ed è composto da “una serie di versi ritmati e rimati, di estrema concisione e connotati da uno stile singolare, che risulta oscuro a forza di semplicità”. Non è però un trattato filosofico in versi, anzi procede “per aforismi, metafore, salti di palo in frasca, accostamenti folgoranti… È alla ricerca di una forma di linguaggio adatta se non a cogliere l’indicibile, quanto meno ad accostarvisi” (Anne Cheng).

Il suo stile corrisponde perfettamente a quanto espresso da Laozi nei primi versi dell’opera:

Il Tao di cui si può parlare / non è l’eterno Tao

Il nome che può essere nominato / non è l’eterno nome

Il senza nome è l’inizio del cielo e della terra / il nominato è la madre di tutte le cose.

        

Il Daoismo può dunque considerarsi una Via mistica, nel senso etimologico del termine (muein, tacere), una Via del Silenzio. Come disse il grande filosofo daoista Zhuangzi, “chi conosce non parla, chi parla non conosce”.

 

Se il linguaggio verbale non può esprimere il Dao, in quanto Principio ineffabile, non riducibile ad un concetto o ad una categoria della mente, il linguaggio dei simboli può comunque aiutare la mente umana ad approssimarvisi.

E niente potrebbe rappresentare visivamente questo aspetto della dottrina daoista meglio del simbolo denominato T’ai Chi T’u, ormai universalmente conosciuto nella sua forma più recente, e spesso semplicemente chiamato “il Dao”, o “Yin e Yang”:


 

T’ai Chi T’u è traducibile come Diagramma del Fondamento Supremo. Il termine T’ai Chi (che si ritrova nel nome dell’arte marziale nota come T’ai Chi Ch’uan, dove ch’uan = pugno) si riferisce originariamente al tronco orizzontale situato alla sommità di un tetto, dove si incontrano le due parti inclinate. La trave centrale del tetto, quindi l’elemento veramente superiore e assolutamente fondamentale di una casa o di un tempio.

Si ritiene tradizionalmente che il T’ai Chi T’u già nell’antica Cina raffigurasse il cielo nella sua metà superiore e la terra in quella inferiore. Nella sua interezza avrebbe rappresentato l’uomo, che è costituito da luminosità ed oscurità ed è il tramite tra il cielo e la terra.

Nella sua forma più nota – che richiama alla mente i mandala indiani ed analoghi simboli circolari appartenenti ad altre culture tradizionali – il T’ai Chi T’u è composto da due figure a forma di pesce all’interno di una circonferenza. La figura nera, che rappresenta la condizione di riposo, è detta Grande Yin; l’altra, bianca, il Grande Yang, rappresenta il movimento. All’interno di ogni porzione si trova un cerchio di minori dimensioni, di colore opposto, una sorta di “occhio del pesce”: quello nero è il Piccolo Yin, quello bianco il Piccolo Yang. Questo significa che ciascuna delle due polarità, lo Yin e lo Yang, contiene entro di sé il suo proprio opposto, da cui origina continuamente in un ciclo uniforme senza fine.

Il simbolismo del T’ai Chi T’u è quindi l’espressione visiva della concezione della polarità Yin/Yang più volte citata (ad esempio già nello Yi Ching). In effetti, i due spioventi del tetto, di cui la trave T’ai Chi è il colmo, rimangono alternativamente esposti alla luce e all’ombra, passando gradualmente dall’una all’altra col trascorrere delle ore, dal mattino al mezzogiorno alla sera, rappresentando così l’aspetto yang e quello yin che si scambiano e si trasformano vicendevolmente l’uno nell’altro. Così come accade per i versanti di una montagna, ora soleggiati, ora all’ombra.

Nella concezione daoista, che il diagramma sintetizza visivamente, yin e yang sono le due opposte manifestazioni del Dao, che possiedono una valenza universale e trovano applicazione nei fenomeni cosmici come nelle funzioni del corpo umano. Infatti anche qui vale il principio dell’analogia tra ciò che è in alto e ciò che è in basso, tra il Cosmo e l’Uomo – principio classico nelle culture tradizionali, al di là delle distinzioni tra Occidente e Oriente.

Così, il cielo e i monti sono yang; la terra, le valli, le acque sono yin. Il giorno, un tempo limpido, il maschile, lo spirito, sono yang; la notte, la luna, il tempo tempestoso, il femminile, il corpo, sono yin. E all’interno del corpo, le arterie e l’espirazione sono yang; le vene e l’inspirazione sono yin.

Il movimento è yang, principio attivo, forza creativa; il riposo è yin, il passivo, la forza ricettiva.

Yin e Yang rappresentano quindi per il Daoismo la sostanza originaria nella sua differenziazione, due aspetti inseparabili di un’unica forza, una polarità che non è però una dualità assoluta. Non si deve pertanto pensare la relazione tra le due polarità in termini di antagonismo (come ad esempio Male/Bene), bensì di complementarietà, di interazione, di cooperazione, anche se talvolta l’una esclude l’altra (es. luce/tenebre), ma sempre all’interno di una concezione ciclica dell’esistenza. In altre parole, yin e yang si autodefiniscono a vicenda da un punto di vista formale e strutturale ma si alternano dal punto di vista temporale poiché, quando uno dei due poli raggiunge il massimo, può solo declinare e trasformarsi nell’opposto.

Si dice infatti nel Dao De Ching (XL) che “il ritorno è il movimento della Via”.

 

Il modello yin/yang esprime quindi una visione unitaria del Tutto, fondata sulle due polarità. Polarità non significa però separazione, la quale è invece l’effetto di un pensiero dualista, dicotomico. Come dice Zhuangzi, “in realtà, non esiste né la verità né l’errore, né il sì né il no, né una qualsivoglia distinzione, dal momento che tutto – anche due cose fra loro opposte – è Uno”.

Il modello esprime dunque quella costante tensione verso l’equilibrio e l’armonia che costituisce il fondamento della cultura tradizionale cinese.

 

Il Daoista, si è detto, è colui che cammina sulla Via, che agisce secondo il Dao, che dedica la sua vita alla realizzazione del Dao.

Secondo il Dao De Ching, il Dao si attualizza mediante il non-agire (wu wei), ovvero l’agire che è non-agire (wei wu wei). Agire secondo il Dao, ovvero l’agire del Saggio, significa non cercare di trasformare il mondo, bensì essere ricettivo nei confronti delle leggi che ne guidano la trasformazione, non sforzarsi, essere spontaneo, e quindi in perfetta armonia col mondo.

Secondo Laozi il modo migliore di agire, a maggior ragione quando il Dao declina e si manifestano epoche di violenza, di confusione, di disgregazione dell’ordine cosmico, sociale ed umano, è non-agire, in quanto la forza finisce sempre per ritorcersi contro se stessa.

È detto nel Dao De Ching (64): “Chi opera fallisce / chi afferra perde / per questo il Saggio / non opera perciò non fallisce / non afferra perciò non perde / quando il volgare fa delle cose / sempre fallisce all’ultimo momento”. La violenza viene assorbita, quindi l’aggressione diviene inutile.

Si tratta di un paradosso, soltanto apparente, che Laozi spiega ricorrendo ad una metafora molto comune nel pensiero cinese: l’acqua. Un elemento umile, che riesce però ad avere la meglio su materiali più solidi non resistendo ad essi. Come il Dao, anche l’acqua scaturisce da una unica fonte, per poi manifestarsi in innumerevoli forme. È inafferrabile, in perenne mutamento, si adatta ad ogni situazione. Scorre sempre verso il basso, favorisce la vita, ed è perciò simbolo dell’energia Yin, il femminile, che conquista lo Yang. Ciò che è debole prevale sul forte: “Nel mondo non c’è cosa più molle e debole dell’acqua / eppure attacca il duro e il forte / nessuno può vincerla / nessuna cosa può sostituirla / il debole vince il forte / il molle vince il duro / nel mondo tutti lo sanno / ma non possono praticarlo” (78).

 

Laozi