giovedì 17 aprile 2014

L'elefante e il calmo dimorare

In lingua tibetana, SHI-NE (zhi-gnas) traduce il termine sanscrito śamatha (cinese zhi, giapponese shi), che indica la meditazione che consiste nel calmare la mente. Śama significa “pace, quiete”, tha è “dimorare, riposare”. Quindi: dimorare nella tranquillità, calmo dimorare, pratica della calma mentale. Uno stato in cui la mente riposa tranquilla, concentrata su un solo oggetto. I pensieri e le passioni perdono la loro consueta intensità, la mente si stabilizza senza soccombere alle distrazioni.

Śamatha deve necessariamente essere accompagnato dalla pratica di vipaśyana (vipassana, in pali), la “visione profonda”, nella quale la vigilanza mentale consente di riconoscere l’autentica natura dei fenomeni. Vipaśyana senza śamatha è instabile, śamatha senza vipaśyana è privo di chiarezza. Le modalità di pratica di entrambi variano a seconda delle scuole a cui si fa riferimento.

Qui viene presentata una immagine, appartenente alle scuole del buddhismo tibetano, nella quale lo sviluppo di Shi-Ne nei suoi vari stadi è illustrato per mezzo della figura di un elefante e del suo accompagnatore, unitamente ad un breve testo che chiarisce il significato delle immagini. Volutamente, non viene riportata la parte del testo che descrive, sia pure molto concisamente, la pratica di Shi-Ne, in quanto riteniamo che gli aspetti pratici debbano essere oggetto di insegnamenti rilasciati da maestri qualificati e nel contesto di un rapporto diretto tra insegnante e studente.


"Nel disegno che descrive lo sviluppo di SHI-NE c'è un elefante. L'elefante rappresenta la mente del meditatore.
Una volta che l'elefante è domato, non rifiuterà più di obbedire al suo padrone e sarà in grado di svolgere ogni tipo di lavoro. La stessa cosa si applica alla mente.
Un elefante selvaggio è pericoloso, spesso causa terribili distruzioni.
Allo stesso modo la mente non controllata può causare ogni genere di sofferenza.

Nel primo stadio del sentiero che illustra lo sviluppo della concentrazione, l'elefante è completamente nero.
Questo perché, nello stadio iniziale dello viluppo di SHI-NE, il torpore pervade la mente.
Di fronte all'elefante c'è una scimmia, che rappresenta l'agitazione mentale.
La scimmia non può restare ferma un solo istante ma è attratta da ogni cosa, e si distrae in continuazione.
La scimmia conduce l'elefante.
Nel primo stadio della pratica l'agitazione mentale conduce la mente in ogni direzione. Dietro l'elefante c'è il meditatore, che cerca di ottenere il controllo della propria mente.
In una mano tiene una corda, simbolo dell'attenzione, e nell'altra tiene un uncino, simbolo della vigilanza.
In questa fase il meditatore non ha alcun controllo sulla propria mente. L'elefante segue la scimmia senza porre la minima attenzione al meditatore.

Nel secondo stadio il meditatore ha quasi raggiunto l'elefante.

Al terzo stadio il meditatore getta la corda sul collo dell'elefante.
L'elefante si volta e guarda indietro, per indicare il fatto che ora la mente può in qualche modo essere trattenuta dal potere dell'attenzione.
In questo stadio, sul dorso dell'elefante, appare un coniglio. Il coniglio rappresenta il torpore mentale sottile, che in precedenza era troppo lieve per essere riconosciuto, ma che adesso appare evidente al meditatore.
In queste prime fasi dobbiamo applicare più forza nell'attenzione che nella vigilanza, poiché l'agitazione mentale deve essere eliminata prima di poter agire sul torpore.

Nel quarto stadio l'elefante è molto più obbediente. Solo raramente dobbiamo usare la corda dell'attenzione.

Nel quinto stadio la scimmia segue l'elefante.
L'elefante sottomesso segue la corda e l'uncino del meditatore.
L'agitazione mentale non disturba più, in modo pesante, la mente.

Nel sesto stadio l'elefante e la scimmia seguono docilmente il meditatore. Il meditatore non ha più bisogno di voltarsi per controllarli. Non deve più focalizzare la sua attenzione allo scopo di controllare la sua mente. Il coniglio è ora sparito.

Nel settimo stadio il meditatore lascia proseguire l'elefante da solo.
Il meditatore non deve più usare la corda dell'attenzione o il gancio della vigilanza.
La scimmia dell'agitazione mentale ha completamente lasciato la scena. Agitazione e torpore non si presenteranno mai più in forma grossolana ma solo occasionalmente in forma sottile.

All'ottavo stadio l'elefante è diventato completamente bianco.
Segue l'uomo perché la mente è ora completamente ubbidiente.
Nondimeno un po' di energia è ancora richiesta per sostenere la concentrazione.

Nel nono stadio il meditatore siede in meditazione e l'elefante dorme ai suoi piedi.
La mente può ora indulgere senza sforzo nella concentrazione per un lunghissimo tempo, anche per giorni, mesi, settimane.

Questi sono i nove stadi dello sviluppo di SHI-NE.

Il decimo stadio è l'ottenimento di SHI-NE.
Rappresentato dal meditatore che siede, in pace, sul dorso dell'elefante.

Oltre a questo c'è un undicesimo stadio, in cui il meditatore è rappresentato mentre cavalca l'elefante che ora cammina in una direzione diversa.
Il meditatore tiene una spada fiammeggiante.
Ora è entrato in un nuovo genere di meditazione chiamato 
vipaśyana o visione profonda (tibetano: Lhag-mthong).
Questa meditazione è simboleggiata da una spada fiammeggiante che attraverso la realizzazione della vacuità è in grado di tagliare e penetrare.

In vari punti del disegno c'è del fuoco.
Rappresenta l'energia necessaria alla pratica di Shi-Ne.
Ogni volta che il fuoco appare è più piccolo della volta precedente.
Alla fine sparisce.
Per sostenere la concentrazione, ad ogni successivo stadio di sviluppo, è richiesta sempre meno energia, e alla fine non è richiesto più alcuno sforzo.
Il fuoco riappare all'undicesimo stadio, quando il meditatore si impegna nella meditazione sulla vacuità.

Nel diagramma ci sono immagini di cibo, vestiti, strumenti musicali, profumi e uno specchio. Simbolizzano le cinque sorgenti sensoriali che alimentano l'agitazione mentale, cioè i cinque oggetti dei sensi: rispettivamente del gusto, del tatto, dell'udito, dell'odorato, della vista
".


mercoledì 9 aprile 2014

La pratica dello zen e l’esperienza del sacro nel quotidiano

In un classico testo del buddhismo ch’an, il Pi Yen Lu, noto come La raccolta della roccia blu, si racconta che un giorno l’imperatore Wu pose a Bodhidharma, primo patriarca cinese dello zen, nato nell’India meridionale intorno al 440 d.C., alcune cruciali domande. Una era la seguente: “Qual è il significato supremo delle sante verità?” Bodhidharma rispose: “Vuote, senza santità”. L’imperatore non comprese né questa né le altre risposte, e Bodhidharma se ne andò.
Bodhidharma

La risposta di Bodhidharma, che in altri testi è tradotta con un semplice “nulla di sacro”, e che contraddice evidentemente – e volutamente – il titolo stesso di questo intervento, costituisce un buon accesso al cuore della pratica dello zen Sōtō, cioè allo zazen, l’essere semplicemente seduti (shikantaza), in unità di corpo e mente nell’istante presente, avendo abbandonato ogni spirito di profitto (mushotoku), ogni attitudine mentale che guardi alla pratica di zazen come ad una tecnica, ad un mezzo per ottenere qualcosa d’altro, foss’anche il satori, il risveglio, il nirvana.

Senza santità, nulla di sacro: praticare zazen significa quindi abbandonare lo spirito che discrimina tra sacro e profano, tra pratica e realizzazione, tra spirituale e materiale, tra tempo della pratica e tempo delle attività quotidiane.

In un altro famoso testo, il Mumonkan, viene riportato un mondo, una sessione di domande e risposte, tra un monaco e il maestro Joshu: “Sono appena entrato nel monastero, – disse il monaco – per favore, insegnami”. Joshu chiese: “Hai mangiato il tuo budino di riso?”. Il monaco rispose: “Sì, l’ho mangiato.” “Allora – disse Joshu – faresti meglio a lavare la ciotola.”

Nello zen non vi sono attività “sante” che si contrappongono ad attività profane: che ci si trovi nella propria casa o nel proprio posto di lavoro o in monastero, gli atti quotidiani – lavarsi, nutrirsi, lavorare, fare le pulizie, ecc. – vengono compiuti con la stessa concentrazione della pratica seduta, con attenzione, portando il gesto fino in fondo. Non come azioni meccaniche, ripetitive ed obbligate, di cui sbarazzarsi al più presto, ma ogni volta come se fosse la prima volta che ci si lava, che si spazza il pavimento, che ci si siede in zazen. Come se fosse questione di vita o di morte, come amava ripetere il maestro Deshimaru, il monaco giapponese che per primo portò lo zen in Europa (1967).

In questo senso è detto: mente zen, mente di principiante.

In zazen si lascia cadere ogni opposizione tra i pensieri, le immagini mentali, le emozioni, i ricordi ecc. che si presentano alla mente. Non li si giudica, non ci sono pensieri buoni (il Buddha, il Dharma, la pratica…) e pensieri cattivi (le distrazioni, i desideri, i progetti per il giorno dopo…). Semplicemente non li si respinge né ci si attacca ad essi. Ci si accontenta di osservarli per un istante quando appaiono, divenendo consapevoli della loro natura impermanente, priva di esistenza intrinseca, e li si lascia tornare alla loro origine.

Ugualmente, durante le attività quotidiane si esercita la propria concentrazione, la propria saggezza e la propria compassione, mettendo nelle nostre azioni tutta l’energia per il bene generale. Evitando ogni attaccamento al risultato dell’azione stessa, così come in zazen si abbandona progressivamente ogni motivazione centrata sul proprio piccolo ego, sull’ottenimento di qualche beneficio, materiale o spirituale. È la trappola del “materialismo spirituale”, nella quale cadono talora i praticanti di discipline di antica origine, ma spesso rielaborate, specialmente in Occidente, con eccessiva approssimazione, e riproposte in nuove confezioni nei “supermarket del sacro”.

Il “niente di sacro” di Bodhidharma non è quindi, in definitiva, un oggetto di meditazione, ma è al contempo un profondo insegnamento per una corretta pratica di zazen e un’esperienza che è possibile vivere nella propria quotidianità, ritornando costantemente all’unità di corpo, respiro e mente, al di là di ogni separazione tra sé e gli altri, tra samsara e nirvana, tra illusione e risveglio.

Abbandonare ogni possibile separazione tra la pratica formale, la pratica “sacra”, e la vita quotidiana: è ciò che insegna lo zen, a partire dall’esperienza del Buddha sotto l’albero del bodhi, attraverso Bodhidharma e i patriarchi cinesi, fino al maestro Dōgen, che nel 1223 si era recato proprio in Cina per riscoprire l’autentica pratica del Dharma. E lì intuì che l’autentico Dharma non è una teoria o una raccolta di testi filosofici: l’adesione alla Via passa attraverso gli atti concreti della quotidianità. È ciò che espresse in uno dei suoi insegnamenti più importanti, il Tenzo Kyokun, noto in Italia con il titolo di Istruzioni a un cuoco zen
Dogen
Lì Dōgen racconta il suo incontro con un monaco di nome Lu, tenzo (responsabile della cucina) di un monastero. Un giorno, Lu stava facendo essiccare al sole dei funghi. Era molto caldo, il sole faceva bruciare il terreno, ma Lu non aveva con sé nemmeno un cappello ed era coperto di sudore. Ad una domanda di Dōgen, Lu rispose di avere 68 anni. Gli chiese quindi perché non si servisse di assistenti. Lu rispose: “Gli altri non sono me”. “Hai ragione, – replicò Dōgen – posso capire che il tuo lavoro è l’attività del buddhadharma, ma perché lavori tanto duramente con questo sole ardente?”. Lu rispose: “Se non lo faccio ora, quando mai lo potrò fare?”

Scrive padre Luciano Mazzocchi, missionario saveriano: “La lettura del Tenzo Kyokun ci fa contemplare il vero comportamento della persona religiosa quando è impegnata in una qualsiasi attività. Essa è estremamente operosa, come il cuoco che sovrintende alla cucina. La sue mani non si stancano di lavorare e i suoi piedi di correre. Ma ad alimentare tanta attività non è il successo o il compiacimento; bensì l’energia vitale che fluisce dalla propria radice nascosta nel nulla divino da dove scaturisce la creazione”.

Dōgen ha scritto: “Maneggiate anche una singola foglia di verdura in modo tale che manifesti il corpo del Buddha. Ciò a sua volta permette al Buddha di manifestarsi attraverso la foglia. È un potere che non potete comprendere con la mente razionale. Opera liberamente, secondo la situazione, in modo naturalissimo. Allo stesso tempo, tale potere agisce nella nostra vita per purificare e stabilizzare le attività ed è vantaggioso per tutte le cose viventi”.

Ciò che Dōgen insegna a proposito della foglia di verdura può estendersi a tutte le esistenze della vita, oggetti inanimati o esseri senzienti, in ogni istante della nostra quotidianità, in quanto ogni singolo istante è un istante dell’eternità, il solo tempo che abbiamo a disposizione, essendo il passato ed il futuro reali solo nell’istante presente stesso.

Un altro famoso insegnamento di Dōgen ci fa infine comprendere come l’abbandonare ogni separazione costituisca uno dei punti essenziali della pratica dello zen. Dōgen scrisse infatti nel Genjōkōan (Realizzazione della realtà – 1233), il primo capitolo dello Shōbōgenzō (Il Tesoro dell’occhio del vero Dharma):

Studiare la Via del Buddha è studiare se stessi.
Studiare se stessi è dimenticare se stessi.
Dimenticare se stessi è percepire se stessi come tutte le cose.
Realizzare questo è lasciar cadere mente e corpo di se stessi e degli altri.

Abbandonare cioè ogni illusoria concezione di un sé separato dagli altri significa quindi ritrovare quell’unità con tutto il cosmo che non è mai andata perduta, entrare in totale armonia con tutti gli esseri, al di là di ogni separazione.