venerdì 28 settembre 2012

UNISABAZIA 2005/06 - 3 - L’Insegnamento: la sofferenza, le sue cause, la Via che va al di là

La ruota dell'esistenza ciclica condizionata
“In passato come adesso ho spiegato solo questo: la sofferenza e la fine della sofferenza”. Queste parole del Buddha chiariscono quale sia l’ambito della sua esperienza e del suo insegnamento: il dolore, la conoscenza delle sue cause e la fine del dolore per gli esseri senzienti.

Il termine sanscrito che viene di norma tradotto con “sofferenza” o “dolore” è duhkha. Il significato etimologico può essere d’aiuto per la comprensione degli insegnamenti del Buddha: il prefisso DU(S) indica un “cattivo funzionamento” (diverrà in greco dys e in italiano dis, ad es. disfunzione). KHA si riferisce invece alla cavità centrale di una ruota. Quindi, si ha l’immagine di una ruota che gira in modo anomalo sul proprio asse.
E la ruota rimanda subito alla concezione ciclica, circolare, dell’esistenza, tipica delle tradizioni orientali. E’ il samsara, il ciclo di nascita, morte e rinascita, regolato e alimentato dal karma (che non è il “destino”, bensì l’effetto delle azioni, virtuose o negative, compiute nelle esistenze passate e suscitate dalle passioni nate dall’ignoranza).
Duhkha è quindi più del dolore comunemente inteso, non è solo una assenza più o meno momentanea di gioia. E’ frustrazione, disagio, imperfezione, insoddisfazione. E’ dolore, in tal senso, anche la stessa felicità, in quanto fondata sull’impermanenza dei fenomeni. “Tutto ciò che è impermanente è duhkha”, ha detto il Buddha. E nel 1233 il M° zen Dogen ha scritto: “i fiori cadono proprio mentre per affetto li vorremmo trattenere, le erbacce crescono proprio mentre noi con disgusto le rifiutiamo”.
Ma la Via del Buddha non è la Via del pessimismo o della rassegnazione come spesso si dice: è invece permeata dalla compassione e dalla superiore gioia della liberazione. “In ambito cristiano – ha scritto il monaco zen Giampietro Sono Fazion – sarebbe come considerare la crocifissione senza la risurrezione”.
Lo dimostra il Sutra (= filo di una collana, ma qui significa discorso) al quale si farà ora riferimento per compiere un ulteriore passo di avvicinamento agli insegnamenti originari del Buddha.
E’ il Dharmachakrapravartanasutra, il Discorso della messa in moto della Ruota del Dharma, che riporta il primo sermone tenuto dal Buddha, 49 giorni dopo il Risveglio, nel Parco dei Daini di Sarnath, ai 5 asceti con cui aveva praticato in precedenza. Il Sutra è anche conosciuto come il Discorso delle Quattro Nobili Verità, laddove per Verità si intendono delle conoscenze di ordine superiore che, solo se praticate e non accettate dogmaticamente, possono portare l’uomo alla liberazione. Come ha detto il Maestro Zen vietnamita Thich Nhat Hanh, “un Sutra non costituisce di per sé un’intuizione profonda…è un mezzo per presentare quell’intuizione, utilizzando parole o concetti”. Non è la luna, è solo il dito che la indica.
Dopo aver chiarito ai 5 asceti che “coloro che hanno abbandonato la vita mondana non devono indulgere ai due estremi”, cioè “dedicarsi al godimento dei piaceri sensuali” oppure “dedicarsi alla mortificazione di se stessi”, il Buddha inizia ad esporre le Quattro Nobili Verità.

La Prima Nobile Verità è la Verità della Sofferenza: “la nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore, l’unione con ciò che non si ama è dolore, la separazione da ciò che è caro è dolore, il non ottenere ciò che si desidera è dolore. In breve, i cinque aggregati dell’attaccamento [che costituiscono la persona e danno origine alla falsa idea del sé] sono dolore”.
Duhkha può essere visto sotto tre aspetti:
a) la comune sofferenza (detta sofferenza della sofferenza)
b) la sofferenza del cambiamento: ogni fenomeno composto è impermanente, e questo genera sofferenza
c) la sofferenza onnipervasiva, legata ai 5 aggregati.
Quest’ultimo punto corrisponde alla natura profondamente insoddisfacente dell’esistenza condizionata (samsara). Per capirlo, è necessario ricordare che nel buddhismo l’io, l’individuo (come tutti i fenomeni composti nell’universo) non ha una esistenza propria, autonoma, permanente. Esso è solo una combinazione temporanea e mutevole, un flusso, di energie fisiche e mentali, appunto i “cinque aggregati dell’attaccamento”, che sono:
1) la forma (il corpo e i fenomeni di ordine fisico)
2) le sensazioni (esperienze sensibili)
3) le percezioni (riconoscimento delle cose di cui si fa esperienza)
4) le formazioni karmiche o della volizione (automatismi di pensiero, abitudini, che condizionano il presente e il futuro)
5) la coscienza (riunisce le informazioni degli altri aggregati).
In quanto fenomeno composto, l’io è soggetto a nascita e distruzione, e l’attaccamento all’idea di un io autonomo e permanente è causa di sofferenza.

La Seconda Nobile Verità è l’Origine della Sofferenza. Essa “è questa sete che produce la rinascita, che è legata al godimento delle passioni, che cerca sempre nuovi piaceri ovunque, ossia la sete dei piaceri dei sensi, quella dell’esistenza e quella della non-esistenza”. Le sofferenze hanno quindi origine nel desiderio insaziabile, ma non solo, anche nelle passioni, nate dall’ignoranza, nel desiderio di rinascite superiori o di auto-annullamento. Il Buddha paragonò tutto questo ad un fuoco: “O monaci, vi sono questi tre fuochi: il fuoco della brama, il fuoco dell’avversione, il fuoco dell’ignoranza”. Sono i Tre Veleni, attraverso cui accumuliamo il karma che ci proietta nel ciclo del samsara.

Come un medico attraverso l’osservazione dei sintomi (Prima Verità) cerca l’origine della malattia (Seconda Verità) per trovare la cura, così il Buddha espone la Terza Nobile Verità, la Cessazione della Sofferenza: “La cessazione del dolore è l’estinzione, il completo svanimento l’abbandono, il rifiuto di questa brama, la liberazione e il distacco da essa”. E’ il nirvana, l’estinzione della fiamma. Non un “paradiso” cui accedere, bensì una realtà etica e psicologica, una condizione radicalmente trasformata di pacificazione, di gioia, di consapevolezza, di compassione (“Io sono nato per il bene delle creature”). Non una entità distinta ed autonoma, bensì nirvana e samsara come due facce di una unica medaglia. Non si “lascia” il samsara per “entrare” nel nirvana. Scrisse il grande Maestro indiano Nagarjuna: “Non vi è la minima differenza tra samsara e nirvana”. E pochi decenni dopo, dai deserti dell’Egitto, gli faceva eco il monaco cristiano Antonio Abate: “La morte, per chi sa comprenderla, è immortalità”.

Infine, nella Quarta Nobile Verità, la Verità del Sentiero, il Buddha espone la cura per sradicare la sofferenza. “Questa, o monaci, è la Nobile Verità che conduce alla cessazione del dolore: esso è il Nobile Ottuplice Sentiero, ovvero retta visione, retto pensare, retta parola, retta azione, retto mezzo di sussistenza, retto sforzo, retta attenzione e retta concentrazione”.

Gli otto fattori del Nobile Ottuplice Sentiero sono chiamati “retti” in quanto propongono una via mediana (la “Via del Mezzo”) tra soddisfazioni materiali e totale austerità. Possono essere letti attraverso il loro raggruppamento nei cosiddetti “Tre Addestramenti”, ovvero:

sila, la disciplina morale:
retta parola: non mentire, non parlare duramente o futilmente, non calunniare..
retta azione: non uccidere, non rubare, avere una corretta sessualità, non intossicarsi…
retti mezzi di sussistenza: non trarre guadagno da attività nocive..

samadhi, il raccoglimento meditativo:
retto sforzo: sbarazzarsi di abitudini negative, generare stati mentali benefici
retta attenzione: al corpo, alle sensazioni, ai pensieri, ai concetti…
retta concentrazione: ad es. usando il respiro come supporto per la concentrazione

prajna, la conoscenza superiore, la saggezza:
retto pensiero: rinunzia, assenza di egoismo, non-violenza (ahimsa), amore per tutti gli esseri…
retta comprensione: conoscenza delle Quattro Nobili Verità e comprensione delle cose così come esse realmente sono.

Ciò che importa osservare è che gli otto fattori del Sentiero sono strettamente e mobilmente correlati tra loro. Colui che pratica la Via è chiamato ad applicarli tutti insieme, e per sempre. Non sono stadi o tappe intermedie da raggiungere e superare. E’ una disciplina del corpo, della parola e della mente che può essere praticata da chiunque. Corrisponde anche ai Tre Precetti Puri della scuola Soto Zen: - astenersi dalle azioni malevole, - praticare la virtù, - domare la mente (il che “riassume” gli insegnamenti del Buddha).

m. Mauro Ton Ko, novembre 2005

UNISABAZIA 2005/06 - 2 - Siddhartha Shakyamuni, il Buddha: storia e mito

Il futuro Buddha nasce nel 566 a.C. (data più comunemente adottata) a Lumbini, nei pressi di Kapilavasthu, capitale della repubblica degli Shakya (al confine, attualmente, tra India e Nepal).
Il suo nome, alla nascita, è Siddhartha Gautama Shakyamuni: Siddhartha significa “Colui che ha raggiunto lo scopo”, Gautama deriva dal nome di un antico saggio indiano, Shakyamuni vuol dire “Il saggio degli Shakya”, e si ricollega alla sapienza cui perviene chi fa il voto del silenzio (muna). Il termine Buddha è invece un aggettivo, che significa Risvegliato, Illuminato, e gli è attribuibile in realtà solo a partire dal momento dell’esperienza del Risveglio, all’età di circa 36 anni.
Nell’India antica la biografia come genere letterario non era praticata, e quindi molte delle “notizie” relative alla vita del Buddha si ricavano da testi molto più recenti (ad es. il Buddhacharita, ovvero Le gesta del Buddha, di Asvaghosa, del I sec. d.C.), oppure all’interno dei discorsi dello stesso Buddha (i Sutra), e quindi in un contesto di insegnamenti che non hanno finalità storiche o biografiche. O meglio, anche le notazioni biografiche sono esse stesse insegnamenti.
Inoltre, una vera biografia del Buddha non potrebbe prescindere dalle sue passate vite, alla cui piena conoscenza egli giunse nel momento del Risveglio!
Padre di Siddhartha è Suddhodana, Raja eletto degli Shakya. La madre è Maya, o Mayadevi, o Mahamaya. È interessante osservare che Maya, nel mondo hindu, significa “illusione”, e indica un potere sovrannaturale, in contrasto con la norma (cfr. in italiano “magìa”). Mayadevi è il nome della dea che personifica tale potere di creare illusione. Il “velo di Maya” è ciò che oscura all’uomo la visione delle vera natura del mondo, dei fenomeni.
La notte del concepimento, Maya vede in sogno un elefantino bianco con 6 zanne, simbolo di regalità, che penetra nel suo corpo, senza dolore. Scrive Asvaghosa: “Ella ricevette senza impurità il frutto del suo grembo, così come dà frutto la conoscenza unita alla contemplazione” (BCh. I,3).
Dieci mesi dopo, Maya è colta dai segni del parto mentre, come di tradizione, si reca presso la propria casa paterna. Così, nel parco di Lumbini, fuori dalla città e dal palazzo, nasce, ancora senza dolore, Siddhartha. Subito, egli compie sette passi sicuri, dietro ai quali spuntano fiori di loto, ed afferma: “Per conseguire l’Illuminazione io sono nato, per il bene delle creature; questa è la mia ultima esistenza nel mondo” (BCh. I,15).
 
Nascita di Siddhartha
Si narra che alla nascita la Terra abbia tremato, che fiori siano caduti dal cielo e che schiere di divinità si siano affollate nel bosco per vederlo. Come i brahmani spiegano al padre, tutti questi segni ed altri ancora indicano che Siddhartha diverrà o un grande monarca universale o un “Santo conoscitore della verità”, un Risvegliato.
Sette giorni dopo il parto, Mayadevi muore, e il piccolo è affidato alle cure della sorella della madre, Mahaprajapati. Le profezie dei veggenti preoccupano Suddhodana, che teme l’estinzione della sua casata. Poiché gli era stato detto che Siddhartha avrebbe lasciato il palazzo per ricercare la via della liberazione dal dolore, il Raja fa in modo di allontanare dalla vita del figlio ogni traccia di sofferenza, escludendo dalla sua vista persone malate, vecchi, morti, ogni tipo di difficoltà, e lo circonda di giovani, di servitori, di danzatrici, di feste, di musica, sempre all’interno dei suoi palazzi. A 16 anni gli dà in sposa una bellissima cugina, Yasodhara, e a 29 anni Siddhartha diviene padre di un maschio, Rahula. Il nome significa “eclisse” (infatti nasce durante un’eclisse), ma vuole anche dire “nodo, impedimento, ostacolo”, ed è quindi molto significativo.
Ma la vita di palazzo non soddisfa il bisogno di Siddhartha di una maggiore realizzazione sul piano spirituale. Egli vuole conoscere il mondo reale, ed ottiene il permesso di compiere delle visite fuori dalla reggia. Nonostante gli sforzi del padre, che fa allontanare dalle strade i vecchi, i mendicanti, i sofferenti…, Siddharta incontra, nel corso delle sue uscite, un vecchio, un malato, un cadavere portato alla cremazione ed un asceta mendicante, un samana.
A questo punto, Siddhartha decide di abbandonare la vita famigliare e di corte, per dedicarsi alla ricerca spirituale, avendo sviluppato questo pensiero altruistico: “E’ ben misera cosa che l’uomo, soggetto lui stesso e contro la sua volontà alla legge di malattia, vecchiaia e morte, reso cieco dalla passione, non si curi, nella sua ignoranza, degli altri che sono tormentati dalla vecchiaia, sono malati o morti. Se, io stesso essendo tale in questo mondo, non mi curassi degli altri che hanno una natura come la mia, ciò non sarebbe confacente o conforme a me che conosco questa suprema legge” (BCh V,12-13). Quindi, si allontana dal palazzo, mentre tutti sono indotti dagli dei in un sonno profondo, lascia tutti i suoi ornamenti, si rade i capelli e indossa un saio color ocra, unendosi ai gruppi di asceti ed eremiti che già vivono nelle foreste.
Suoi primi maestri nella ricerca spirituale sono Alara Kalama e Uddaka Ramaputta. Ne realizza in breve tempo gli insegnamenti e si rivolge ad altre tecniche meditative, a digiuni, a pratiche ascetiche talmente estreme che, dopo sei anni, è ridotto allo stremo delle forze.


Il Buddha "ascetico"

 Ma non ha raggiunto ciò che cerca, una soluzione permanente, definitiva, al problema della sofferenza di tutti gli esseri senzienti.
Come era insoddisfacente la sua precedente vita di piaceri, così lo è ora la via ascetica, estrema, che sta percorrendo. Più appropriata è una “Via del Mezzo”, nella quale i desideri non vengono né soddisfatti smodatamente né repressi. Torna quindi a nutrirsi regolarmente, e ricomincia la pratica della meditazione così come già la conosceva, anche se per questo viene abbandonato dai cinque asceti con cui vive nella foresta. Prende dell’erba appena tagliata, ne fa una specie di cuscino ai piedi di un grande albero pipal (ficus religiosa), e lì siede a gambe incrociate, dopo aver fatto voto di non rialzarsi senza aver prima conseguito lo scopo della sua ricerca.
Ovvero la Conoscenza che libera dalla sofferenza. Entrato in profonda meditazione, affronta le schiere del dio Mara, il Tentatore, che cerca prima di sedurlo con le sue bellissime figlie e poi di terrorizzarlo con il suo esercito di mostri e demoni. Conosce tutte le sue precedenti esistenze, osserva il ciclo di nascita, morte e rinascita di tutti gli esseri in rapporto alle loro azioni positive e negative (il karma), diviene consapevole della sofferenza, delle sue cause, del modo di guarirne, è cosciente di aver definitivamente sradicato cupidigia e ignoranza. È il nirvana, la fine del ciclo delle rinascite, il Risveglio. Ancora una volta Mara lo attacca, mettendo in dubbio il conseguimento del Risveglio. Ma il Buddha, toccando la Terra con la mano destra, ne chiede la testimonianza. E la Terra conferma l’Illuminazione del Buddha.
È l’alba, e il Buddha (che sarà anche chiamato il Beato, il Sublime, il Perfetto, il Vittorioso, il Beneandato, il Compiuto..) alza gli occhi verso la Stella del mattino.
Per sette giorni rimane seduto sotto l’albero del Risveglio, dubitando se sia possibile divulgare ciò che ha realizzato, poiché vede “che il mondo si perdeva dietro alle false opinioni e agli sforzi vani e che le sue passioni erano grossolane” (BCh XIV, 96). Poi, spinto dalla compassione, decide di donare al mondo i suoi insegnamenti, il Dharma.
Dopo aver lasciato Bodh Gaya, luogo del Risveglio, il Buddha inizia una vita di insegnamento e di predicazione, continuando nel contempo la pratica della meditazione, che terminerà solo con la morte, il Parinirvana, l’estinzione definitiva, all’età di 80 anni.
Suoi primi uditori e discepoli sono i cinque asceti che lo avevano lasciato, e che egli ritrova a Sarnath, a 6 km. da Varanasi (Benares). Ad essi, nel Parco dei Daini, egli rivolge il primo sermone, sulle Quattro Nobili Verità, noto anche come il Primo Giro della Ruota del Dharma. I cinque asceti ricevono l’ordinazione e divengono i primi monaci (bhikku) del Samgha, la Comunità dei praticanti. Cinque anni dopo, il Buddha, dopo molte insistenti richieste, acconsente alla formazione di un ordine di monache (bhikkuni), del quale entrano a far parte anche la zia e madre adottiva, Mahaprajapati, e la moglie Yasodhara. Lo stesso figlio Rahula era divenuto discepolo del Buddha e monaco. Questa ordinazione aveva provocato una volta di più l’incomprensione di Suddodhana, il quale aveva accettato a fatica, e solo dopo molto tempo, le scelte del figlio. Quando il Buddha era rientrato per la prima volta a Kapilavasthu, e qui mendicava il cibo, come era tradizione per i monaci, il padre lo aveva accusato di disonorare il clan degli Shakya, dicendo “Nessuno dei nostri antenati ha mai mendicato il suo cibo”. Ma il Buddha gli aveva risposto: “O re, tu discendi dalla successione dei re, ma io discendo dalla successione dei Buddha, e ognuno di loro ha mendicato il cibo giornaliero”. Alla fine, sarà però il Buddha stesso ad accompagnare verso l’Illuminazione il padre morente.
Su questa seconda parte della vita del Buddha non si hanno molte notizie storiche. Sicuramente viaggia da una città all’altra dell’India di Nord Est, insegnando a qualsiasi tipo di persona: uomini e donne, re e prostitute, mandriani e brahmani.
Intanto il numero dei discepoli laici e dei monaci continua a crescere, e nascono così dei centri di residenza, soprattutto per la stagione delle piogge. Sono i primi monasteri, detti vihara, che vengono donati al Samgha dai raja o da ricchi protettori.
Molti sono gli episodi della sua vita raccontati nei Sutra a mo’ di insegnamenti. Una volta scongiura una guerra, ricordando che la vita degli uomini ha un valore molto più elevato di quello delle terre e delle acque. Un’altra, converte il brigante Angulimala, il quale lo rincorre per ucciderlo ma non riesce a raggiungerlo, nonostante il Buddha cammini tranquillamente. Alla fine, stremato, il brigante si ferma e il Buddha gli dice: “Siediti, e ascolta il Dharma”. Moltissime parabole, che hanno anche profondamente ispirato la letteratura, la pittura, la scultura, di tutta l’Asia.
Le ultime fasi della vita del Buddha sono invece narrate nel Mahaparinirvanasutra, il Sutra del Nirvana Definitivo. Ormai vicino agli ottanta anni, il Buddha viene avvicinato dal dio Mara, il quale gli chiede di estinguersi, e il Buddha acconsente, dicendo: “Sarai soddisfatto, o Maligno, tra non molto vi sarà l’estinzione del Compiuto, tra tre mesi il Compiuto si estinguerà” (III, 10). Si dice infatti che un Buddha abbia il potere di decidere il momento della propria estinzione, abbandonando gli impulsi karmici che tengono in esistenza il corpo degli esseri viventi.
Poco tempo dopo, il Buddha e i monaci vengono ospitati dal fabbro Cunda, il quale offre loro una pietanza di funghi (o forse di carne di maiale). Il Buddha la accetta per sè, ma prega Cunda di seppellire il resto di quel cibo, e di dare invece ai monaci altre cose da mangiare. A causa di quella pietanza il Buddha si ammala gravemente. Viene portato a Kusinara e lì, in un boschetto, nella posizione del leone, cioè steso sul fianco destro, circondato dai monaci e da schiere di divinità, si avvicina al momento dell’estinzione.
Dà ai monaci gli ultimi insegnamenti, ad es. sul comportamento più consono per un monaco nei confronti delle donne. Ananda, uno dei monaci più importanti del Samgha, chiede: “Quale deve essere il nostro comportamento con le donne?”. “Non vederle”. “Ma, vista, o Sublime, una buona donna, quale è il comportamento?”. “Non rivolgersi a lei”. “E di colui che le si deve rivolgere, quale il comportamento?”. “Consapevolezza, o Ananda, è da usare” (V, 9).
Poi spiega loro cosa fare del suo corpo e dei suoi resti dopo la cremazione. Consola Ananda, dicendogli di non piangere, poiché come potrebbe “ciò che è nato, divenuto, nominabile, elemento dissolubile, non essere dissolto?”. Infatti “di tutte le cose piacevoli, gradevoli, è naturale il mutare, è naturale il separarsi, è naturale il diversificarsi” (V, 14).
Infine, pronuncia le sue ultime parole: “Ora, o monaci, io vi esorto: tutti i dharma condizionati sono destinati a decadere. Continuate ad esercitarvi, instancabilmente” (VI, 7).
Quindi, abbandona il corpo ed entra nel nirvana definitivo. E’ il 486 a.C. Secondo la tradizione, è lo stesso giorno in cui il Buddha era nato, a Kapilavasthu, ed era pervenuto al Risveglio, a Bodh Gaya. Il cadavere viene cremato ed i resti sono divisi tra i capi dei popoli che abitano quei territori. Tutte le reliquie vengono custodite nei monumenti funerari, detti stupa (in tibetano chorten). Si narra che il Buddha stesso abbia insegnato come costruire uno stupa, piegando più volte il suo mantello (la base quadrata), sovrapponendole la ciotola per il cibo rovesciata (la parte centrale, semisferica), e sopra a tutto il bastone (la parte terminale).
Alla morte del Buddha, il monaco Anuruddha aveva recitato questi versi:

“Senza inspirare ed espirare, sereno, con mente risoluta,
il Saggio, libero dai desideri, ha finito il suo tempo.
Con mente stabile ha sopportato ogni dolore:
come l’estinguersi di una lampada fu la liberazione della sua mente” (VI, 10).


                          
Schema-base di uno stupa
m. Mauro Tonko, settembre 2005                                                                                 

giovedì 27 settembre 2012

UNISABAZIA 2005/06 - 1 - L'uomo e il mondo nella tradizione indiana

A partire da qui, verranno pubblicati tutti i testi che dal 2005 in poi sono stati utilizzati nei corsi tenuti presso l'Unisabazia, in un primo tempo sotto forma di appunti e schede, successivamente come vere e proprie dispense di lunghezza variabile dalle 3 alle 6 cartelle ciascuna.


Il Buddhismo, "eresia" dell'Induismo



Il mondo del Buddha

Già nel titolo del corso, e lo si farà in tutto il suo svolgimento, si è usato, per comodità di esposizione, il termine “buddhismo”.
E’ bene precisare che tale termine è però inesatto e fuorviante (e la stessa cosa vale per “induismo”).
Inesatto, perché la parola “buddhismo” non è esistita in India se non a partire dall’età del colonialismo inglese, francese e portoghese. Infatti, è nata in Europa nel periodo dell’Illuminismo ed è stata poi esportata proprio nelle terre di origine di quella stessa tradizione!
Fuorviante, in quanto tutti gli “-ismi” che sono fioriti in Occidente dal 1800 in poi indicano o delle ideologie, cioè false coscienze che velano la reale conoscenza delle cose così come sono, oppure forme culturali, spirituali, religiose, ormai sclerotizzate, cristallizzate, rispetto alla vitalità ed alla freschezza delle esperienze originarie da cui sono scaturite.
Per indicare l’insegnamento del Buddha (e non solo) si usava, e si usa tuttora, la parola Dharma, (dalla radice dhar = mantenere, sostenere), che nella cultura indiana ha un’immensa importanza. Essa non è traducibile in italiano o in altre lingue occidentali con un unico termine, e richiede sempre lunghe precisazioni, a partire dal contesto in cui è inserita.
In sanscrito (l’antica lingua dotta dell’India tradizionale, che, come il greco e il latino, trae origine dal ceppo linguistico indo-ariano) il termine dharma riveste molteplici significati:

- dottrina, insegnamento, specialmente di tipo spirituale, religioso
- legge, giustizia, retto comportamento, dovere, Legge Cosmica
- i fenomeni
- la Realtà Ultima (la Verità intesa come la Realtà così come essa è), ecc.

Si dovrebbe pertanto parlare di Dharma, o Buddhadharma, o anche Buddhayana (yana = veicolo). Ma è bene non attaccarsi troppo alle parole, per cui, una volta chiariti i suoi limiti, il termine “buddhismo” andrà benissimo!


La vicenda del Buddha storico si svolge nel VI secolo a.C. Il territorio è quello dell’attuale Nord-Est dell’India, nella pianura del Gange, ai confini tra il Nepal e quella che gli abitanti di quel tempo non chiamavano India (nome molto più recente), bensì Jambudvipa (il Continente dell’albero che esaudisce i desideri), oppure Bharata (il nome di una grande tribù ariana), o anche Prithivi (la Terra).
Sotto tutti gli aspetti, è un periodo di grandi mutamenti. Dal punto di vista sociale si assiste al passaggio da “repubbliche” agrarie fondate sui clan, con importanti gruppi di elites aristocratiche e religiose, alla formazione di monarchie assolute, di grandi centri urbani, di economie monetarie, e alla nascita di classi sociali di tipo mercantile e di proprietari terrieri.
Infatti, nei Veda, i testi fondamentali della tradizione religiosa e culturale indiana, si trovano soprattutto descrizioni di vita rurale, mentre nei Sutra (raccolte di discorsi) buddhisti si hanno in prevalenza immagini della civiltà urbana.
Fulcro della vita cittadina è il Raja (il re, il sovrano - latino: rex) che è a sua volta legato al suo superiore, il Maha Raja (il grande sovrano – latino: magnus).
Nei vasti territori dell’India di quel tempo troviamo quindi sia i regni, sia le repubbliche (in cui il raja è una carica elettiva), sia le tribù (in cui il raja è designato dagli anziani).
Il futuro Buddha nasce in una repubblica, quella dei Sakya, all’interno della “casta” dei guerrieri.
Quello delle “caste” è un elemento fondamentale della vita dell’India antica (e non solo antica), anche se il sistema castale, nel VI sec. a.C., non è ancora così rigido e strutturato come nei secoli successivi, fino all’indipendenza dell’India.
L’organizzazione sociale delle caste è un riflesso dell’ordine cosmico. Quella che in origine è una spiegazione mitico-religiosa della creazione, diviene anche la base di un sistema sociale. Nei Veda, le caste si originano dalle diverse parti del corpo dell’Uomo Cosmico:
- dalla testa nascono i brahmani (i sacerdoti, gli intellettuali)
- dalle braccia nascono gli ksatriya (i militari, i politici)
- dalle gambe nascono i vaisya (i commercianti, gli agricoltori)
- dai piedi nascono gli shudra (i servi).
Questa identità tra macro-cosmo (l’Uomo cosmico, l’ordine universale) e micro-cosmo (il corpo dell’individuo, il corpo della società) è uno dei punti basilari della cultura tradizionale indiana.
Scrive Sarvepali Radhakrishnan, filosofo indiano, già Presidente della Repubblica dell’India: “La vita esteriore dell’uomo deve esprimere il suo essere interiore: la superficie deve esprimere la realtà profonda. Ogni individuo ha la sua natura che si è formata con lui ed è suo dovere renderla di valore attuale nella vita”.
A proposito della parola “casta” (dal latino “castus” = puro, da cui casto, castità…), si deve osservare che il termine è stato usato dai Portoghesi, ma non è molto corretto, e non è da intendersi nel senso di “classe sociale” come spesso avviene in Occidente. Il termine corretto, in sanscrito, è varna, che significa colore, o anche lettera dell’alfabeto, e che indica, più che una gerarchia, una organizzazione della società (come i colori all’interno dell’arcobaleno).
Infatti, i brahmani sono associati al colore bianco, gli ksatriya al rosso, i vaisya al giallo, gli shudra al nero.
E’ molto probabile che, in origine, varna indicasse il diverso colore della pelle, più scura quella degli abitanti autoctoni del Nord, spinti verso il Sud dagli invasori ariani, di carnagione chiara.
Per quanto riguarda i quattro varna, si legge nella Bhagavad Gita (“Il Canto del Beato”, uno dei testi più importanti dell’Induismo), al cap.XVIII :

41. “Gli atti dei brahmani, degli ksatriya, dei vaisya e degli sudra, (…) sono distinti a seconda delle qualità che hanno origine nella natura particolare di essi.

42. La serenità, il controllo di sé, la vita ascetica, la purezza, la tolleranza e la rettitudine sincera, la sapienza, la conoscenza e la compassione, tale è l’agire proprio del brahmano e che trae origine dalla sua stessa natura.

43. L’eroismo, il vigore, la fermezza, la destrezza, il non fuggire nemmeno nel pieno della mischia, la generosità, avere l’orgoglio del comando, questo è l’agire dello ksatriya, che nasce dalla dalla sua natura stessa.

44. L’agricoltura, l’aver cura del bestiame, la mercatura, costituiscono l’agire di un vaisya, agire che nasce dalla sua natura stessa; l’operare che ha il carattere del servire è proprio dello shudra e nasce dalla sua stessa natura”.

Gli insegnamenti del Buddha si muoveranno, come si vedrà, nella direzione di una severa critica nei confronti di queste concezioni. Già in questo senso si può affermare che il buddhismo nasce e si sviluppa come “eresia” dell’induismo.
Altrettanto codificata dalle concezioni della tradizione vedica è la vita umana, che è classificata secondo quattro finalità, da non considerare (le prime tre) secondo un ordine gerarchico né temporale:
1) Artha, il benessere, il possesso dei beni materiali, gli affari, il lavoro. Esiste, di quell’epoca, un vero e proprio trattato scientifico su tale argomento, l’Arthashastra, il “Trattato della scienza della ricchezza”.
2) Kama, l’amore, il piacere dei sensi, il godimento estetico. Molto famoso anche in Occidente (ma poco letto per intero) è il Kamasutra, un vero e proprio trattato sull’amore, sulla sessualità, sul rapporto uomo/donna, sulla famiglia,… E’ interessante notare che il dio hindu dell’amore, Kama, è raffigurato con arco e frecce, come il Cupido latino.
3) Dharma, i doveri religiosi e morali, le prescrizioni sociali, rituali,… Dharma è la dottrina dei diritti e dei doveri di ogni membro della società, è la legge e lo specchio di tutte le azioni morali.
4) Il quarto scopo della vita umana si pone al di fuori, e certamente al di sopra, dei primi tre. Esso è moksha, la liberazione spirituale, il fine ultimo, il massimo bene umano. E’ liberazione dall’ignoranza, dalle passioni del mondo, visto come illusione.
A proposito della moksha, non si può non aggiungere che in epoche più vicine a quella del Buddha la moksha stessa (o mukti) indica non solo liberazione dai limiti del rapporto corpo/mente, ma anche il conseguimento dell’immortalità. Essa consiste nel riassorbimento dell’atman, il Sé individuale dell’uomo, con il Brahman, il Sé cosmico, universale.
In realtà, i due aspetti, atman e Brahman, non sono mai separati, distinti. La distinzione è il frutto dell’ignoranza, degli offuscamenti della mente umana, annebbiata dal velo di Maya, l’illusione cosmica. Atman e Brahman sono come le onde dell’oceano: i sensi le percepiscono, erroneamente, come separate, laddove invece vi è identità, rivelata da una mente libera dall’illusione. La vera conoscenza, vidya, si identifica quindi con la liberazione, che è cessazione del ciclo vita-morte-rinascita (il samsara), a cui tutti gli esseri viventi sono soggetti. E’ la dottrina della reincarnazione, regolata dalla famosa e spesso mal compresa legge del karma (legge di causa ed effetto delle azioni, parole e pensieri umani). Dottrina che sarà anch’essa oggetto di critica e riformulazione negli insegnamenti del Buddha.
A partire dai quattro scopi della vita vengono istituiti nelle dottrine vediche i quattro ashrama, gli stadi della vita dell’uomo:
1) il brahmacharya ashrama, quello dello studente
2) il grihasta ashrama, il capo famiglia che vive nella società
3) il vanaprastha ashrama, il capo famiglia che vive appartato dal mondo sociale
4) il samnyasa ashrama, l’abbandono del mondo e il ritiro nella contemplazione.
Da quanto esposto si rende evidente la primaria importanza attribuita dalla filosofia, dalla religione, dalla cultura tradizionale indiana ai problemi pratici, ed il suo carattere soteriologico. Scrive S. Radhakrishnan: “In India la filosofia è per la vita; la verità deve essere vissuta. La mèta dell’indiano non è di conoscere soltanto la realtà ultima, ma di realizzarla e diventare uno con essa”. Questo carattere essenzialmente pratico, esperienziale, soteriologico, delle dottrine hindu, farà assolutamente parte dell’insegnamento del Buddha.
Si noti però che la liberazione, la moksha, non è la negazione di un negativo: il mondo non è eticamente negativo, non è il Male. La liberazione è una migliore presa di consapevolezza. Fu questo uno degli errori che commise il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer (1788/1861) nel presentare la filosofia indiana ed il buddhismo all’Europa.
Il dualismo bene/male è estraneo alla filosofia indiana. Le dottrine indiane hanno invece un profondo senso dell’unità, che viene cercato nell’interiorità dell’uomo.
La stessa ricerca di unità è visibile anche nella suddivisione della filosofia indiana classica nelle sei scuole “ortodosse” (astika) dell’Induismo:
1) Vaisesika
2) Nyaya
3) Samkhya
4) Yoga
5) Purva Mimamsa
6) Vedanta.


OM, il simbolo dello Yoga

Sono i sei Darshana (dalla radice drsh = osservare), i sei “punti di vista”, punti di osservazione della realtà diversi, distinti, ma non antagonisti tra loro (si osservi la differenza con le scuole filosofiche e teologiche dell’Occidente, in perenne conflitto tra loro).
Accanto a queste scuole “ortodosse” vi erano poi le scuole materialistiche, quelle jaina e quelle buddhiste, considerate non-ortodosse (nastika), ma in un ambito di tolleranza e pacifica convivenza. In questo senso gli insegnamenti del Buddha erano considerati eretici, in quanto, a differenza dei sei darshana, non accettavano l’autorità dei Veda.
Nel VI secolo, parallelamente alle trasformazioni in atto nella società, si assiste ad una crisi della religione vedica, che di quella società è radice ed espressione.
Si parla di religione vedica in quanto l’origine dell’induismo si trova nei testi sacri chiamati Veda, parola che significa conoscenza, sapienza, visione, e che nasce dalla radice “vid” (= sapere).
Da tale radice hanno avuto origine, attraverso la lingua latina, termini come vedere, visione, video ecc., e questo conferma ancora una volta il carattere esperienziale, pratico, delle tradizioni filosofico-religiose dell’India, e dell’Oriente in generale.
L’origine dei Veda si situa storicamente a partire da circa 2000 anni avanti Cristo (alcuni studiosi parlano di 3000, altri solo di 1000). Secondo la tradizione, i Veda sono stati “uditi” dai Rishi, gli antichissimi veggenti, in profondi stati di assorbimento meditativo. Non sono quindi “rivelazioni” da parte di divinità, bensì pre-esistono alle divinità stesse, e la loro conoscenza è il risultato dello sforzo umano. Sono poi stati tramandati oralmente per secoli in sanscrito, la lingua sacra (Devanagari, la lingua degli dei) che con le sue 50 lettere copre tutti i suoni possibili. I Veda sono in numero di quattro (Rig Veda, Yajur V., Sama V., Atharva V.) e sono raccolte di inni, preghiere, canti, formule, prescrizioni, ecc., anche di altissimo valore letterario e poetico.
La religione dei Veda consiste in una elaborata mitologia, con un certo numero di divinità (33, ma anche migliaia), ripartite in tre classi: della terra, del cielo, dello spazio intermedio. Al di là di questa molteplicità, l’Universo è in realtà costituito da una unica Realtà Ultima. E’ a causa dell’ignoranza (avidya, il contrario di vidya, la conoscenza) che l’uomo percepisce la molteplicità come permanente e non vede l’unità delle cose. Le divinità stesse sono diverse manifestazioni dell’unica realtà divina. Ad es. il dio Brahma, il “creatore”, è la personificazione del Brahman impersonale. Quindi, parlare dell’induismo come di una religione politeista è quantomeno impreciso ed insufficiente.
Altra divinità, centrale nei Veda, è Indra, signore degli dèi, la cui caratteristica principale è il vigore, la potenza. E’ personificazione del principio dell’energia che permette ai pensieri e alle azioni di manifestarsi. Agni è invece il “dio del fuoco” (in latino il fuoco è “ignis”, ed in italiano esistono parole come ignifugo, ignizione). Per questo è legato ai sacrifici, in quanto è personificazione del principio stesso del potere del sacrificio. Divinità più nota in Occidente è Vishnu, che rappresenta il principio della conservazione dell’universo, mentre richiederebbe un discorso più lungo ed articolato, qui non possibile, Shiva, signore della danza che distrugge e ricrea il mondo, dio delle creature animali, signore dello Yoga. E lo stesso vale per Ganesha, il dio dal corpo umano e la testa di elefante, che compare più tardi nel pantheon indù. E per le figure femminili, per nulla secondarie rispetto a quelle maschili, delle potenzialità rappresentano l’attualizzazione: Parvati, Durga, Kali, Laksmi, Radha,….


Shiva, Signore dello Yoga
Centro della religione vedica è il sacrificio (ad es. il sacrificio del fuoco), durante il quale vengono offerti alla divinità riso, latte, burro, animali, anche in gran numero. L’offerta è accompagnata da recitazioni di inni e formule, in maniera assolutamente precisa. Un solo accento sbagliato rende inutile il rito. Con il sacrificio, la volontà del dio è propiziata, ma anche piegata. Il sacrificio supera la potenza del dio. Il sacrificio vedico è diverso da quello dei Greci e dei Romani, che è ringraziamento o richiesta al dio. Qui il sacrificio è un atto di “magìa”, in cui le manipolazioni, le recitazioni delle formule ecc. sono in relazione alle potenze cosmiche dell’universo, ed anche (unità di macro-cosmo e micro-cosmo) con le forze fisiche e spirituali dell’uomo.
Nel VI secolo, il secolo del Buddha, la religione vedica si è ormai ridotta a riti sacrificali meccanici, sempre più lunghi e complicati, e sempre più costosi a causa degli onorari dei sacerdoti, i soli ad essere in grado di compierli con la dovuta perfezione. Il contenuto della religione è quindi soffocato dalla proliferazione delle pratiche rituali. Ciò che conta non è più il sentimento di chi fa l’offerta, ma l’osservanza della forma. Per questo i sacerdoti, i brahmini, diventano sempre più importanti ed arroganti.
Inizia quindi un movimento spirituale non organizzato, in contrapposizione tollerante alla religione del sacrificio. Nascono quattro gruppi:
1) i seguaci delle Upanishad, testi più o meno segreti che andranno poi a far parte del canone vedico (la parola significa “stare seduti accanto” a chi rivela verità esoteriche).
2) I materialisti, la cui influenza nella cultura indiana è sempre stata molto marginale.
3) Gli asceti, che si fondano sullo sforzo di dare forma al futuro attraverso la rinuncia alla sessualità (non come penitenza, ma anzi per creare energia, forza spirituale), ai beni materiali, alla famiglia. Caratteristiche della vita ascetica sono i capelli incolti, la nudità anche totale (i “vestiti di vento”), gli eremi nelle foreste, i digiuni, il voto del silenzio, le posture del corpo… Spesso essi cercano però di ottenere, attraverso l’ascesi, delle facoltà sovrannaturali, o addirittura si pongono finalità di ordine materiale, in totale contraddizione con le loro stesse motivazioni originarie.
4) I mendicanti nomadi (samana), che abbandonano il lavoro e la famiglia, spinti dal desiderio di libertà e di conoscenza, rifiutando la tradizione vedica.
Con tutti questi gruppi “eretici”, o quantomeno critici nei confronti dell’ortodossia vedica, verrà in contatto Siddhartha Gautama Shakyamuni, il futuro Buddha, allorquando abbandonerà la reggia paterna ed un destino di potere, di gloria, di ricchezza, per cercare la Via che porta ad una autentica e definitiva guarigione dalla sofferenza per tutti gli esseri senzienti.

m. Mauro Ton Ko, Ottobre 2005

SEDERE NELLA QUIETE

Concentrazione ed attenzione

"Egli [Shakyamuni] assunse allora la somma, incrollabile postura, che è raccolta come le spire del serpente addormentato, e disse: Io non mi scioglierò da questa posizione in terra fin quando non sarò giunto a compiere ciò che devo compiere".
(Asvaghosa, Buddhacarita)

"Per praticare lo yoga occorre andare in un luogo appartato e preparare uno strato di erba kusha sul terreno, poi coprirlo con una pelle di daino e un panno di tessuto soffice... Lo yogi deve sedersi immobile e praticare lo yoga controllando la mente e i sensi, purificando il cuore e fissando la mente su un unico punto".
(Bhagavad Gita)

"Nel luogo dove normalmente ci si siede, stendete un materassino e sopra di esso mettete un cuscino. Potete mettervi nella posizione del loto intero o nella posizione del mezzo loto. La posizione del loto consiste nel mettere innanzitutto il piede destro sulla coscia sinistra e il piede sinistro sulla coscia destra. La posizione del mezzo loto consiste nell’appoggiare soltanto il piede sinistro sulla coscia destra. Indossate un vestito e una cintura che non stringa e sistemateli (appropriatamente). Poi, ponete (il dorso della) mano destra sopra il piede sinistro e il palmo della mano sinistra nel palmo della mano destra. Premete i due pollici uno contro l’altro. Quindi, raddrizzate il corpo e sedete eretti, non pendete né a sinistra né a destra, non piegate il corpo in avanti e neppure indietro. E necessario che orecchie e spalle siano allineate, e anche naso e ombelico siano allineati. La lingua appoggi sul palato e le labbra e i denti stiano chiusi. Gli occhi devono restare sempre aperti. Il respiro nasale sia leggero. Dopo aver regolato la postura del corpo, esalate un respiro profondo e oscillate a sinistra e a destra. Sedete stabilmente e con determinazione".
(Eihei Dogen, Fukanzazengi)

 "È così che sedevano i Buddha e i patriarchi. Potete sedervi nel loto o nel mezzo-loto; nel loto, si mette il piede destro sulla coscia sinistra e il piede sinistro sulla coscia destra. Allentate i vostri abiti e metteteli in ordine; poi, mettete la vostra mano destra sul piede sinistro e la mano sinistra sulla mano destra, i vostri pollici si toccano e sono all’altezza dell’ombelico. Rimanete seduti ben diritti, senza pendere a sinistra o a destra, in avanti o all’indietro – le orecchie e le spalle sono sulla stessa verticale, come pure il naso e l’ombelico. La lingua è contro il palato e si respira attraverso il naso. La bocca è chiusa, gli occhi aperti, né troppo aperti né troppo chiusi. Dopo aver assunto questa postura, respirate profondamente con la bocca per alcune volte. Poi, seduti ben diritti, inclinate il vostro corpo da sinistra a destra sette o otto volte, con dei movimenti di ampiezza decrescente. Quindi, rimanete seduti ben diritti e vigili."
(Keizan Jokin, Zazen Yojinki)

"Lo Zen è semplicemente sedersi. Lo Zen è semplicemente zazen... Meditazione, giusto assetto del corpo seduto. E' ricreare se stessi e comprendere il proprio vero sè: non è nè mortificazione nè austerità, ma soltanto l'autentico accesso alla pace e alla libertà".
"Se qualcuno vi chiede
che cos'è il vero buddhismo
non aprite la bocca per spiegare.
Indicate, per favore, tutti gli aspetti
della vostra postura di zazen.
S'alzerà allora il vento della primavera
e sbocceranno i meravigliosi fiori del pruno".
(Taisen Deshimaru, L'anello della via)


Lo zazen del Maestro Kodo Sawaki
                                                                              
"Onde dei pensieri, onde del mare
Quando si osserva il mare, si possono vedere onde di ogni tipo, che arrivano da non si sa dove, sono innumerevoli, si susseguono le une alle altre, proprio come i nostri pensieri in zazen. Osservando tutto questo, ho notato che il mio sguardo si volgeva sempre sul momento in cui le onde si infrangevano, sul punto in cui andavano ad infrangersi. È nel momento in cui si infrangono, che esse sono belle. Nell’istante in cui si frangono sulla riva, è come se fossero in un colpo solo liberate dalla loro forma, nell’istante del ritorno alla loro origine.
Nello stesso modo durante zazen le onde dei nostri pensieri, delle nostre illusioni, si formano ed appaiono senza sosta. Ed è quando giungono ad infrangersi sulla postura di zazen, sulla concentrazione nella postura di zazen, che divengono belle. Non belle nel senso di ciò che potrebbe farci attaccare ad esse, ma belle perché in quel momento si manifesta la loro essenza, ciò che esse hanno di impermanente, di non sostanziale, di non separato dall’oceano, dal mare.
È nella loro fragilità, nella loro impermanenza, che la loro autentica natura si manifesta. Le onde che si frangono sulla riva, sono come l’istante di shin jin datsu raku, il momento in cui l’attaccamento al corpo e allo spirito è abbandonato.
Il momento in cui l’autentica natura del nostro corpo e della nostra mente si realizza. Al di là della forma particolare che questo corpo e questa mente hanno potuto assumere in un dato momento. Ognuno ha le proprie particolari illusioni. Ce ne sono di grandi, di piccole, la loro forma è diversa, ma nel momento in cui si infrangono, tale differenza scompare. Se si osservano le onde solo da lontano, si può avere l’impressione della loro esistenza reale, della loro individualità, ma praticare zazen è rimanere sulla riva, e posare lo sguardo sul punto in cui le onde si frangono, in cui i loro elementi ritornano alla semplicità, in cui non è più questione di grande, di piccolo, di lungo, di corto.
La postura
Nel dojo, i gesti si compiono senza precipitazione, non si pensa ad altro se non a ciò che si sta per fare e per praticare; non si lasciano a lungo i pugni sulle ginocchia, si oscilla da destra a sinistra in un movimento di ampiezza decrescente. Quindi si fa gassho, si uniscono le mani all’altezza del viso, con gli avambracci orizzontali. Tutti questi gesti fanno integralmente parte della pratica di zazen.
Fare una sesshin, è imparare a concentrarsi completamente in ogni istante della vita. Concentrarsi, ovvero ritornare al centro della nostra esistenza. Il centro della nostra esistenza è il fatto di essere lì, corpo e spirito in unità. Unità interiore e unità con il proprio ambiente. Non perdersi nei pensieri, non vivere nella propria testa, ma attraverso il corpo intero.
Certamente, all’inizio bisogna fare un certo sforzo di attenzione, di concentrazione. Ma alla fine, la pratica è al di là dello sforzo cosciente. Sono entrambi necessari, concentrarsi coscientemente e dimenticare, lasciar cadere lo sforzo cosciente.
Concentrarsi coscientemente significa all’inizio di zazen ritornare ai punti importanti della postura e portarvi l’attenzione, osservare il proprio corpo, ruotare bene il bacino in avanti. Bisogna appoggiare bene le ginocchia sul suolo. Non lasciare che la postura si infiacchisca. Avere sempre una rotazione del bacino sufficiente a far sì che l’ano non tocchi lo zafu, distendere bene il ventre in modo che il peso del corpo gravi bene su un punto, sorgente di energia, che si trova al centro del perineo.
È importante in zazen sentirsi ben radicati nel terreno; non ondeggiare sul proprio zafu. A partire dalla vita, si estende bene la colonna vertebrale rilassando tutte le contrazioni della schiena. Si estende la nuca, si spinge il cielo con la sommità del capo, e tutto questo senza tendersi, senza divenire rigidi nella propria postura. Le spalle sono ben rilassate, la fronte distesa, come pure le mascelle. Il tono del corpo è così in completo equilibrio: né troppo teso, né troppo rilassato. L’energia circola bene e si può continuare la pratica seduta con uno sforzo minimo. Il corpo non pende né in avanti, né all’indietro, né di lato.
L’equilibrio è ciò che consente di continuare con un minimo dispendio di energia. Se si è entrati bene nella postura, non è più necessario pensare alla postura. Si fa completamente tutt’uno con zazen. A quel punto, non ci sono più io, non c’è più un ego che fa zazen da una parte, e lo zazen dall’altra. Non c’è più alcuna separazione tra il soggetto che pratica e la pratica stessa. Si diviene completamente, unicamente, solamente zazen.

Il Maestro Roland Yuno Rech

In quel momento, l’ego è dimenticato, ogni intenzione abbandonata. Non c’è più bisogno di sforzo per continuare, zazen continua da solo. È ciò che si chiama affidarsi a zazen con fiducia, con fede, senza esitazione. Non sono più io che faccio zazen, è zazen che mi porta al di là di me stesso. A quel punto la pratica diventa completamente libera, una autentica liberazione.
Concentratevi bene sulle vostre mani. Il taglio delle mani è in contatto con il basso ventre. Ci si concentra in particolare sul contatto dei pollici orizzontali, senza tensione. Quando si porta la propria attenzione sul contatto dei pollici, questo aiuta a trovare uno stato mentale equilibrato. L’agitazione si calma e non si cade nella sonnolenza. Il corpo e la mente divengono completamente risvegliati, ovvero in unità con la realtà di questo istante – né smarriti nei pensieri, nei sogni, né ottenebrati dal torpore.
Le mani in zazen non afferrano nulla, così come la mente in zazen non si aggrappa a nulla. Si inspira e si esala profondamente. La respirazione diventa fluida, non ristagna né a polmoni pieni né a polmoni vuoti. Se si nota che l’espirazione è troppo corta, si va fino al fondo dell’espirazione e lì la si può accompagnare con una spinta sulla massa addominale verso il basso. Si esala completamente senza trattenere nulla; si lascia che l’inspirazione avvenga naturalmente.
Concentrarsi periodicamente sulla verticalità della postura permette di ritornare completamente, costantemente, al “qui” della pratica. Riportare regolarmente la propria attenzione alla respirazione ci riconduce all’“ora” di zazen.
Sesshin significa essere intimi con tutto questo, con la mente che è in contatto con il “qui” del corpo e l’“ora” della respirazione. Realizzare questa intimità non vuol dire essere ripiegati su se stessi, ma al contrario rimanere in contatto con l’universo. “Qui” è legato a tutti i luoghi, “ora” a tutti i tempi. Se non si è concentrati qui ed ora, non si è da nessuna parte.
Praticare zazen è abbandonare completamente ogni fissità. È il fondamento stesso della pratica. Anche se il corpo è immobile, impercettibilmente si muove. C’è nel nostro corpo un costante movimento. In zazen non si è rigidi come una statua, in quanto il tono del nostro corpo è un continuo aggiustamento per evitare sia la rigidità sia la rilassatezza.
Gli occhi sono aperti, lo sguardo è posato davanti a sé, e non si fissa un punto particolare. Non si chiudono gli occhi, poiché non si cerca di estraniarsi dalle apparenze del mondo esterno. Le apparenze, i fenomeni, non ci disturbano. Ovvero non ci si lascia nemmeno attirare, sedurre, dalle apparenze. Non si osservano i propri vicini, non si guarda attraverso le finestre. In realtà, si vede chiaramente senza osservare, cioè senza l’intenzione di afferrare, di rincorrere alcunché. Se si è privi di intenzione, non c’è bisogno di estraniarsi dai fenomeni chiudendo gli occhi. Le apparenze esterne non disturbano zazen. Così, si può essere completamente liberi, in mezzo alle apparenze.
Si pratica insieme, si è in mezzo agli altri. Non si cerca di isolarsi. E nemmeno ci si mette in mostra. Nessuno può osservare i praticanti di zazen. Non si può che praticare insieme. Né esibirsi, né nascondersi. Essere liberi dalla propria apparenza. Essere giusto ciò che si è, così come si è. Non si pratica confrontandosi con lo sguardo degli altri. Talvolta, alcune persone vanno al dojo per essere viste, perché si sappia che fanno zazen, per paura di essere dimenticate, di essere criticate perché non sono lì. In tal caso, la pratica non è libera.
Il punto essenziale dell’insegnamento del Buddha è di aiutarci a liberarci dai nostri attaccamenti. E questo non separandoci dagli altri, troncando ogni relazione, ogni percezione, ma non attaccandoci all’oggetto delle nostre percezioni.
In zazen, si sentono chiaramente i suoni. Non si cerca di afferrarli o di trattenerli. Anche l’insegnamento, le parole del godo, le si lascia passare. Si vede chiaramente, senza osservare alcunché; nello stesso modo, si pensa senza pensare. Si osserva il sorgere dei pensieri, di istante in istante, senza provocare i pensieri. Ovvero, non si utilizza il tempo dello zazen per riflettere su un problema, su un koan a proposito dello zen o sulla propria vita personale. In questo senso, zazen non è una meditazione. Non ci si assorbe in profondi pensieri intorno al buddhismo o a qualsiasi altra cosa. Ci si accontenta di osservare l’impermanenza dei nostri pensieri, il loro andare e venire, come delle nuvole nel cielo. Non si sente il bisogno di respingerli, perché nei nostri pensieri non vi è nulla da afferrare. Non si può afferrare un pensiero più di quanto lo si possa fare con un’onda sulla superficie dell’oceano. Quando si osserva in questo modo, si può essere liberi dai pensieri anche in mezzo ai pensieri che appaiono. Libertà significa “non attaccarsi a nulla”. Soprattutto non identificarsi con nulla. Ci si limita a notare che ci sono dei pensieri che appaiono, che se ne vanno. E colui che osserva tutto questo è inafferrabile.
Praticare zazen è imparare ad armonizzarsi con la realtà fondamentale nella quale nulla permane. Nulla ha sostanza fissa. Bisogna trovare una mente completamente fluida, sciogliere tutte le nostre coagulazioni mentali. Se, quando appare un pensiero, ce ne impadroniamo e ci identifichiamo con quel pensiero, ad esempio: “questo mi piace”, diveniamo qualcuno a cui “questo piace”; oppure “io detesto quello”, e diventiamo qualcuno che “detesta quello”, entriamo nel processo della trasmigrazione, nel mondo limitato dai nostri desideri e dalle nostre avversioni, dalle nostre repulsioni, nel quale appare ogni sorta di conflitti, di opposizioni, non solo in noi stessi, ma anche con gli altri, con l’ambiente. Ma se, in un sol colpo, accorgendoci di tutto questo, smettiamo di identificarci con i nostri pensieri, cerchiamo di vederli come delle onde che si frangono sulla riva, allora l’incatenamento della nostra mente ai pensieri che appaiono, si spezza.
Possiamo divenire liberi da questo incatenamento, è ciò che significa “diventare Buddha”, diventare simili a Buddha. Cioè, senza abbandonare il mondo dei fenomeni, non essere più prigionieri del nostro mentale, funzionare in un altro modo, con leggerezza, con uno spirito che non ristagna su nulla. Se è questo spirito che ci anima, allora tutte le cause di sofferenza, di conflitti, di difficoltà, scompaiono. È il dono di zazen".
(Roland Yuno Rech, La postura di zazen)