giovedì 26 febbraio 2015

Adversus Buddham - atto II

Sugli stessi temi del post precedente, un'altra interessante intervista a Roberto Del Bosco (autore del volume Contro il buddismo), a cura di Daniele Di Luciano, apparsa nel 2013 sul sito www.losai.eu


"Roberto Dal Bosco, Lei ha scritto un libro sul buddismo e sull’oriente. Come è nato l’interesse per questi temi?

Sono interessi che coltivo da sempre, perché sono sempre stato affascinato dalle religioni e le credenze. La mia tesi di laurea fu sui rapporti tra la mitologia e la struttura narrativa dei film… Poi, quando cominciai a viaggiare, l’interesse si acuì. Tanti popoli, tanti costumi, tante tradizioni, tante storie, tanti pensieri… impossibile cercare di trovare delle categorie per spiegarsi una terra e il suo popolo senza passare per lo spazio più profondo, quello dove gli uomini si domandano e si rispondono sulle cose più importanti: la religione. Capii presto che è vero quello che scrive Arnold Toynbee in “Civiltà al Paragone”: un uomo del futuro che guardasse alla storia, troverebbe risibili quelle spiegazioni storiografiche – come il materialismo marxista, dico io – che non vedono la religione come chiave principale della Storia. E questo è vero da moltissimi punti di vista. Punto primo, perché i popoli si muovono a seconda del loro cuore profondo, dove c’è, come dicevamo prima, la religione – «Blood is thicker than water» mi hanno ripetuto spesso in India, quando notavo che da qualche moschea locale i musulmani indiani al termine di un derby infernale di cricket tra India e Pakistan (un avvenimento per cui l’intero paese si blocca…) tirano timidamente (capita, non sempre) qualche petardo se a vincere è la squadra di Islamabad: il Pakistan è musulmano interamente, l’India solo al 15%. Qualcuno di questi sente il suo sangue ribollire ad una vittoria dei fratelli sia pur di un paese verso cui sono puntati i propri missili atomici…
Punto secondo, la religione è importante perché, da fedele, ritengo che sia la mano divina a guidare la Storia. E questo è vero soprattutto se si guarda alla storia di Fatima, (una profezia che a suo modo riguardando la Russia riguarda direttamente l’Asia), al tricolore russo che va a sostituire la bandiera rossa il giorno del nostro Natale… Quella cristiana, è per antonomasia, la religione in cui Dio interviene nella storia, la guida, la corregge.
Sull’interesse per il buddismo in particolare – che non è mai stato il mio interesse principale – posso menzionare un sogno che feci da adolescente: sognai un treno che viaggiava attraverso il deserto diretto verso l’Himalaya, ai bordi della ferrovia vedevo migliaia di cadaveri di soldati cinesi. Il treno aumentava la velocità, sino a fare volare la mia vista sopra le montagne, dove ai bordi di un dirupo un monaco sorrideva guardando il sole. Da allora cominciai a interessarmi della questione del Tibet. Negli anni mi ritrovai a ridefinire la mia posizione sul Tibet in particolare e sul buddismo in generale sino alle prospettive che ho descritto nel libro.

Ci sei stato in oriente?

Sì, molte volte. E non appena ho l’occasione, ci ritorno. Ho studiato un po’ le lingue orientali, ne parlo pure qualcuna, ma tutte male. Ho viaggiato in vari paesi, senza essere uno di quei “turisti professionali” che stanno in viaggio anni e mettono una bandierina su tutti i paesi del globo terracqueo. Sono stato, oramai tanti anni fa, in India a fare il DJ e il VJ. Sono stato in Cina varie volte. Ho passato l’estate più bella della mia vita in Giappone. Sono stato in Xinjiang, la regione cinese turcofona ai confine con il Kazakhstan, nei giorni della più grave rivolta uigura dal dopoguerra. Ho percorso in moto la strada che attraversa l’Himalaya. Ho guidato per le montagne dell’Iran, per i deserti del Turkmenistan, nelle superstrade degli Emirati Arabi. Non dimentico le Russie, che sono tecnicamente parte dell’Asia, e che ritengo fondamentali per l’evoluzione geopolitica e spirituale dell’umanità. Ovunque, a qualsiasi latitudine, l’Asia mi ha dato delle sensazioni forti, stupende – in Asia sento come di avere una enorme libertà, e questa cosa non la so spiegare, è un sentimento che ho cercato di definire varie volte senza mai riuscirci, forse una versione di quello che chiamano “Mal d’Africa”, però per quest’altro continente. Posso dire che amo profondamente l’Asia. E sento, per quanto la cosa possa sembrare paradossale detta da uno che ha scritto un libro che si intitola “Contro il Buddismo”, che ne sono riamato.

Quali sono le differenze principali tra induismo e buddismo?

Per come ce l’hanno spiegato gli orientalisti, il buddismo nasce dall’induismo, in quanto il fondatore Gautama non poteva che provenire da una famiglia hindu. Alcuni hanno cercato di creare delle analogie tra Cristo e l’ebraismo e Budda e l’Induismo; altri invece sono tentati dall’idea che Budda sia il Lutero dell’Induismo (che invece in questo caso farebbe le veci della Chiesa Cattolica). L’Induismo ha un pantheon di divinità ben definito; il buddhismo riduce tutto al proprio cosmo interiore, quindi molti buddisti diranno che nella loro religione non ci sono dei e spiriti, anche se negli scritti buddisti e la vita di Budda è piena di divinità. Entrambe le religioni sono moniste, considerano il bene e il male sullo stesso piano, così come i paganesimi europei prima di Cristo.
La cosa che trovo interessante è come il tra le due religioni vi siano stati nel corso dei millenni vari reciproci travasi. L’India era induista, poi divenne buddista a seguito delle conquiste – cruente – del Re Ashoka il grande, l’imperatore buddista che costruì più di 84.000 stupa (templi buddisti) in tutta l’Asia. Poi l’India, per dei motivi storici non ancora completamente chiariti dalla storiografia, tornò sorprendentemente induista. E ciò avvenne non senza portare in sé delle tracce evidenti della religione del Budda. Un industriale che produce sari (gli eleganti abiti femminili indiani), un uomo di casta brahmina a cui però piaceva un po’ il whisky e la carne, mi spiegò un giorno qualcosa che non avevo mai letto in nessun testo di indologia: il principio della “civiltà dharmica” (lui la chiamava così). L’India segue placidamente il suo ciclo storico-cosmico, assorbe qualsiasi cosa e poi la rigetta, trattenendovi però le cose migliori. Dal buddismo, avrebbe trattenuto per esempio (in teoria) la “ahimsa” (non violenza) e il vegetarianesimo. Dalla dominazione musulmana dei moghul, avrebbe trattenuto l’organizzazione statale-territoriale. Dagli inglesi, avrebbe preso il sistema giudiziario, la lingua, l’idea di nazione, e pure qualcuna delle pochissime strutture che gli inglesi lasciano nelle terre colonizzate. In questo senso quindi, in India è ben visibile una impronta buddista, quasi quanto sono visibili le corti di giustizia inglesi in stile coloniale…
In occidente il buddismo pare avere più presa rispetto alle sette induiste, le quali però pure stanno raccogliendo numerosi adepti, specie grazie ai corsi di Yoga.
In India il livello di integrazione tra le due religioni è tale che la cosiddetta destra induista – quella che fomenta i continui pogrom contro cristiani e musulmani – vede il buddismo come un alleato, come una religione sorella: il credo di partiti hindu come il BJP o l’RSS è l’hindutva, “l’induità”. Tutto quello che nasce in India, è passibile di essere unito nella lotta contro le religioni “straniere”. Noto en passant che l’India fu uno dei primi paesi a conoscere il Vangelo, per merito dell’Apostolo Tommaso, martirizzato dai pagani e tuttora sepolto a Madras.

Nel tuo libro parli molto di tantrismo, di Tibet (ingiustamente occupato dai cinesi) e del Dalai Lama …

Il tantrismo rappresenta un punto di contatto, tra induismo e buddismo.
I tantra sono testi che trasmettono tecniche magiche createsi in India in ambienti shivaiti (ossia, gli adoratori del dio Shiva, che è anche dio della distruzione e protettore dei criminali) che agli occhi degli occidentali sanno di magia nera (sacrifici animali, magia sessuale, consumi di sostanze invereconde, sacrifici umani, stupri etc.) in molti casi anche perfettamente aderenti a precetti di sette gnostiche europee, come i frankisti, per esempio. Il tantrismo shivaita ha profondamente influenzato il buddismo tibetano, che è in massima parte tantrico – tanto che alcuni lo chiamano “tantrayana”, veicolo del tantra. Il buddismo del Dalai Lama è un buddismo tantrico.
Il giovane XIV Dalai Lama e Mao Zedong
Su questa cosa, un po’ inopportuna diciamo, nessuno aveva mai sollevato un’obiezione, in quanto il Dalai Lama gode di questa aura di purezza assoluta, e mai si penserebbe che la religione che professa nel dettaglio contenga simili ripugnanti pratiche. È un effetto del restyling che gli hanno fatto ad Hollywood: invece che apparire con i classici paramenti del monarca del suo popolo – vestiti variopinti arzigogolati come nemmeno alla sfilate di alta moda di Parigi – ora se ne va in giro per il mondo scalzo, fasciato solo della immancabile tunica colorata. Ci vuole poco a capire come il modello che gli ha consigliato Hollywood sia in verità un modello nostrano: San Francesco. Eppure vi è ancora qualche foto che lo ritrae con i vestiti del superlusso clericale tibetano: in una in particolare, lo si vede mentre sorride a fianco di Mao Tse-tung.

Ad un certo punto, proprio in seguito a queste esperienze, lei ha riscoperto la fede cattolica. Ci spiega come e quando?

È stato nel 2005, era uno dei primi giorni di dicembre. Mi trovavo a Calcutta. Ero lì per fare una serata da DJ-VJ. Sapevo che a Calcutta c’era il Kalighat, uno dei pochissimi grandi templi dedicati alla dea Kali. Un altro credo che sia nascosto tra le foreste del Nagaland, una terra turbolenta al confine con la Birmania. Gli indiani non amano dare pubblicità al culto della dea Nera. È la divinità preposta allo sterminio (come visibile dalla collana di teste mozzate di cui si avvinghia) e alla fine del mondo (questa ultima fase del ciclo cosmico è appunto chiamata Kali Yuga, l’era di Kali, l’era della corruzione e della bassezza, dove l’uomo non dice più il vero). È una dea il cui culto compare durante guerre, come ad esempio quella in Sri Lanka: si dice che le Tigri Tamil induiste preghino Kali. Conscio di tutte queste belle cose, volevo vedere il Kalighat, perché a mio modo, narcotizzato dal narcisismo turistico, mi definivo non un semplice turista ma un esploratore, un turista esoterico, “cratolatrico”: quel turismo che va in cerca di emozioni assistendo a culti e possessioni… molti lo fanno a Cuba con la Santeria o in Brasile con il Candomblé… il turismo cratolatrico, è pericoloso e indegno quanto il turismo sessuale.
Così, in un pomeriggio libero in attesa del mio volo che da Calcutta mi avrebbe riportato a Madras, andai al Kalighat. Venni accolto da un sacerdote hindu che mi fece fare il giro completo. Vidi lo sgozzatoio, dove quotidianamente si macellano dei capretti neri – topi e mosche banchettano ininterrottamente con le viscere dei sacrifici continui. Vidi la gente urlare all’ingresso della cripta dove è posta la statua della dea, che è l’effigie più spaventosa che abbia mai visto, anche perché per qualche motivo inspiegabile non assomiglia per nulla alla iconografia classica di Kali, è un monumento nero stilizzato, mai visto da nessun’altra parte. Feci il giro con sacerdote, lo seguii in tutto, mangiai i “biscotti sacri” che mi offrì, bevvi l’acqua “sacra”, mi feci legare un braccialetto al polso, legai io stesso un anello ad uno strano alberello dentro al tempio, recitai dei mantra a Kali in sanscrito, infine mi lasciai convincere persino a dargli dei soldi: ero un pollo, in tutto e per tutto. Uscii frustrato, e mi misi a cercare un taxi per l’aeroporto. Nella piazza principale c’era un capannello di persone che, come spesso accade in India, stava guardando qualcosa a terra, senza intervenire. Mi avvicinai. Era un cucciolo di cane gettato a terra con gli occhi sbarrati e la lingua di fuori. Non era ancora morto. Ogni tanto, il suo corpo era percorso da un tremito.
Fu allora che sentii quel suono.
Kali
Era un urlo, un latrato agghiacciante, come mai ne avevo sentiti. Mi voltai, e vidi quattro bambini, che al massimo avevano dieci anni, inseguire un cane randagio e bastonarlo. Ad ogni colpo che assestavano, il cane emetteva quel suono orrendo e indimenticabile.
La piazza cominciava ad interessarsi di questa scena. Molti ragazzi si fermavano e ridevano a crepapelle. Dei poliziotti pure stavano lì a ridere, disinteressati del turbamento dell’ordine pubblico che quella scena rappresentava. Il cane scappava, ma si capiva subito che era nato e cresciuto nel microcosmo di quella piccola, lurida piazza. Non scappava, semplicemente tentava di nascondersi, ma non troppo, quasi volesse chiedere perdono invece che fuggire lontano. Finiva sotto le bancarelle, e i ragazzi continuavano, tra urla e risate del pubblico, a bastonare il cane anche danneggiando le stesse bancarelle, incredibilmente senza che i negozianti avessero da ridire. Vidi persino la bambina di uno di questi negozianti, neanche 5 anni, appoggiata sopra un bancale, che con un ramo tentava di infilzare gli occhi del cane che se ne stava lì sotto in cerca di riparo.
Compresi che mi trovavo finalmente davanti a quello che cercavo: stavo vedendo Kali agire in tutta la sua crudeltà, in tutto il suo potere di contagio. Tutta la piazza era concentrata nell’uccisione di quel cane… a mio modo mi sentivo fortunato, riflettevo sul come in guerra, in Europa sotto la svastica o in Bosnia qualche anno fa, si debba sentire la medesima elettricità.
Comparve quindi una donna, molto elegante nel suo sari colorato, ma al contempo visibilmente “Paria”, appartenente alla casta degli intoccabili, i morti di fame che si assiepano attorno al tempio e che di Calcutta sono il trademark più evidente. La donna arrivò al capannello dove stava il cagnolino semi-vivo, lo prese e lo gettò con un unico gesto in un cumulo di spazzatura lì accanto. Si strofinò le mani, si diresse verso l’altro cane, che era sotto l’ennesimo bancale con i quattro bambini a cercare di colpirlo con il bastone. La donna prese un bastone, allontanò i bambini, e si mise a picchiare il cane con una violenza che mai avevo immaginato in una donna.
Ad ogni colpo, il cane lanciava dei latrati che non ho mai dimenticato. Stavo lì davanti ad osservare la scena, in teoria pago del fatto che avevo visto il mio piccolo evento preternaturale… e ora a giudicare dall’intensità colpi e dalle urla il cane stava per essere finalmente sacrificato.
Successe qualcosa che mi è difficile spiegare, perché il modo in cui mi comportai sorprese anche me. Successe di un tratto, senza che mi potessi rendere conto di cosa stavo facendo.
Partii, mi misi tra il cane e la signora che lo stava uccidendo. Lei fermò il bastone a mezz’aria, imprecando in bengalese.
“If you wanna beat someone, beat me” “Se vuoi picchiare qualcuno, picchia me”, le dissi. Non era una minaccia, lo dicevo veramente, come se sapessi che prendendomi quella bastonata forse avrei posto fine a tutto quel teatro di sofferenza. La piazza si ammutolì. Tutti stavano guardando la scena, il “sacerdote” che mi aveva fatto il tour nel tempio incluso. Un venditore delle bancarelle venne verso di me, ricordo ancora gli occhi lucidi – mi disse “dog will be hurt no more”, “il cane non sarà più ferito”. La gente aveva smesso di ridere. I poliziotti fecero sgombrare tutto, i bambini si dileguarono.
Tutto quella cosa tremenda che era montata, in un secondo era sparita.
Immagine di Kali in Nepal
Mi girai, vidi il Kalighat, e a fianco, il centro di Madre Teresa. Davanti a me c’erano i palazzi di una dea che sacrifica l’altro (il cane, il nemico, il prossimo tuo, quello che è) è di una santa che sacrificava se stessa per l’altro.
Era come se davanti a me improvvisamente avessi visto che c’erano due squadre. Non ho avuto mai più dubbi sulla squadra nella quale volevo giocare.
Ripeto: non sapevo quello che stavo facendo, è stato un gesto totalmente incosciente, la ragione non c’entrava nulla, non avevo pensato. Un qualcosa mi aveva trascinato lì, a difendere il cane – e bada, io non sono animalista, anzi.
Sono stato fortunato, a poche persone che conosco è stata data una rappresentazione così plastica, così evidente della lotta tra il Bene e il Male. Io ho scelto, per sempre.

In oriente hai mai assistito a riti magici, possessioni, etc?

Ho visto molti riti, ma è inutile dire che soprattutto da quando sono tornato alla Chiesa ho cercato di tenermene lontano. Ho visto le persone urlare e dimenarsi davanti alla cripta di Kali, come ho raccontato.
Ho la mia buona dose di storie strambe, coincidenze, cose paurose, da raccontare… su alcune non ho ancora in verità davvero riflettuto a fondo. C’è per esempio una volta in cui in India, nell’ora della morte di un personaggio religioso locale cui era legato un amico, caddi senza ragione dalla moto ferma, rischiando di essere trafitto da una cancellata molto bassa… ci sono tanti racconti, ma temo sempre di finire in quel narcisismo spirituale di cui parlavo prima, e del quale gli appassionati di Oriente sono in genere inebriati («Quella volta che ero… capitò incredibilmente che…etc.»).
Posso dire con mio grande rammarico, di non aver mai visto una cerimonia oracolare Tibetana. La politica Tibetana è tuttora decisa dagli oracoli, che sono né più e né meno dei posseduti. Le decisioni del Dalai Lama sono prese solo dopo aver consultato questi indemoniati: e sono decisioni anche importanti, a quanto si dice, come scappare dal Tibet o mettere al bando e perseguitare i seguaci del demone Shugden, che a sua volta era un demonio oracolare di cui prima si fidava. Digitando su Youtube “Tibet” e “Oracle” compaiono video che mostrano quanto dico; anche il “cattolico” Scorsese nell’agiografia del Dalai Lama “Kundun” mostra questo rito orripilante. Laddove i cattolici chiamano gli esorcisti, i buddisti invece fanno festa: parlano con l’Inferno, se ne fanno guidare…
Sono cose che mi è capitato di incrociare anche in Africa, dove vive mia sorella. In Africa è abbastanza comune che a messa una serie di persone diano segni di possessione.
Detto questo, le possessioni più incredibili che ho visto, le ho viste in Italia. Mi è capitato di partecipare alle messe di Milingo quando era in comunione con Roma. Altri casi di possessione li ho visti, come tantissimi credo, agli incontri dei carismatici.
Ho vissuto per un periodo in Spagna a casa di un sacerdote esorcista, che mi raccontò di un esorcismo che gli capitò improvvisamente di fare non lontano da Firenze. Una storia che, oltre che raccapricciante nei dettagli, è particolarmente interessante perché mostra che l’Inferno ha una sua lucidissima intelligenza, anzi una “intelligence”. La ragazza indemoniata sarebbe arrivata in qualche modo vicina ad un prelato, in quanto ne avrebbe sposato il segretario… mi disse il sacerdote che il demonio ammise che era stata la madre della ragazza a consacrarla a Satana quando era ancora una bambina. Sette e massoneria in Toscana sono fortissime, lo sapevo, ma una storia del genere mi ha lasciato interdetto – una vera e propria forma di infiltrazione della gerarchia ecclesiastica. Una operazione di intelligence militare, in tutto e per tutto. La storia è scritta anche in un libro edito da Edizioni Ancora. Crederci è difficile, lo so bene, ma tanti testimoni me la hanno confermata.

Quale è il rapporto dei tibetani con il regno degli spiriti?

Molti ritengono che il buddismo tibetano abbia solo rivestito il sostrato pagano che vi era prima.
Di fatto, quando colui che convertì il paese al buddismo non scacciò i demoni, al modo in cui fa Gesù e fanno tuttora i nostri esorcisti: li sottomise, come usano suggerire i libri di magia nera europea.
Srinmo, la grande dea del Tibet, è stata come ingabbiata dai templi – ogni tempio è un chiodo che ne trattiene la forza. Un’immagine certo affascinante, anche quando pensiamo al valore spirituale delle nostre chiese.
Di fatto i demòni hanno una certa libertà di movimento in Tibet, tanto che per i sentieri del Tibet remoto è costume mostrare la lingua quando ci si saluta, perché mostrando che non la si ha verde si prova che si è umani e non spiriti malvagi. Alcuni hanno una valenza prettamente politica essendo degli spiriti protettivi (chiamati dharmapala); c’è poi il demone della protezione nazionale (Mahakala), il demone che protegge la setta dei Gelugpa (Palden Lahmo, una demonessa che cavalca fra le fiamme sopra un mare di sangue che bolle; i Gelugpa sono la setta del Dalai Lama, il quale originariamente si chiama pure Lhamo); c’è lo spirito che protegge il sacro palazzo del Potala a Lhasa, c’è Shugden, detto anche Dolgyal, che è lo spirito di un monaco ucciso dal V Dalai Lama quattrocento anni fa, che adesso è in guerra con gli altri spiriti e con il Dalai Lama, una guerra che produce in Europa picchetti di protesta dei suoi seguaci contro le visite del Dalai Lama mentre in India produce discriminazioni e veri e propri assassinii rituali… Di fatto comunque, in un paese retto dal buddismo lamaista, i demòni sono al potere.

Leggendo la vita di Madre Teresa si scopre che la misericordia buddista è solo un nome. Gli ospedali, in oriente, li hanno portati i missionari cristiani.
Esiste un concetto di carità verso il prossimo in oriente?

Posso dire, dal mio limitato punto di vista, che il concetto di carità e di amore in Asia è totalmente diverso dal nostro. In Asia, per lo meno questo è quello che percepisco io, ognuno è un po’ a sé, anche se ognuno è parte di una immane massa brulicante che si riversa ogni giorno nello spazio e nella vita.
C’è per esempio la storia della parola “amore”, in Giappone. In giapponese si dice “ai”, ma è una acquisizione relativamente recente. Nei film e nelle canzoni ora la parola è sempre presente, ma qualche giapponese mi ha confermato che non è molto in uso dirsi “ti amo” neanche fra innamorati, si preferisce una perifrasi che tradotta in italiano suonerebbe più come “mi piaci tanto”, “mi fai impazzire”. Qualcuno ha anzi azzardato che la fortuna della parola “ai”, amore, è cominciata quando è stata adottata, e ripetuta all’infinito, dai vari missionari cristiani giunti in Giappone tra il sedicesimo e diciassettesimo secolo, molti dei quali finiti martiri. Non c’era infatti una parola che definisse bene l’amore filiale, l’amore materno, l’amore fra prossimi… “ai” fu un ripiegamento.
Con questo non voglio dire in nessun modo che le persone sono senza cuore… ogni essere umano sente in qualche modo il bisogno di aiutare il prossimo, e in Asia tante volte mi hanno offerto gentilezze che in Europa non ho ricevuto mai. Così come la vita interiore dei Giapponesi è in realtà mediamente molto più ricca e profonda di quella degli occidentali. Detto questo, se la tua religione non prevede l’aiuto del prossimo come precetto, be’ la situazione si complica. Quando ci fu lo tsunami, i missionari cristiani erano in prima linea negli aiuti, lo stesso non credo si possa dire dei buddisti.
Possiamo parlare di “legge del non intervento”. Prendo in prestito questa formula da una fonte profana, diciamo così. La scrittrice belga, ma cresciuta in Giappone, Amélie Nothomb. In “Metafisica dei tubi”, una bizzarra autobiografia dei suoi primissimi anni di vita a Kobe, racconta di un episodio in cui infante e totalmente incapace di nuotare finì dentro una vasca di pesci in giardino. Una delle domestiche, che era in realtà una donna d’alto lignaggio costretta dalle sfortune familiari del dopoguerra a lavorare come fantesca, guardava la scena senza muovere un dito. È in questa pagina che la scrittrice parla della “regola asiatica del non intervento”. Il tuo male è il tuo karma, te lo sei meritato, lo devi esperire interamente tu, al massimo il budda può darti qualche consiglio… siamo millenni lontani dalla bontà materiale del cristianesimo, dall’atto stesso di Dio che si sacrifica con la carne e il sangue per i suoi figli…


Grazie Roberto, per il tuo libro, coraggioso, frizzante, imperdibile…"


lunedì 23 febbraio 2015

Adversus Buddham

Quella che segue è una intervista di Arrigo Muscio a Roberto Dal Bosco, autore del volume “Contro il buddismo”, recentemente pubblicato dalla Casa Editrice Fede & Cultura.
Il testo dell’intervista è presentato qui come apparso sul sito www.genitoricattolici.org, nella sua versione integrale e senza alcuna modifica, tranne nel caso del nome dell’autore di “La violenza e il sacro”, (citato al punto 6) che per un probabile refuso è divenuto Réné Girad anziché René Girard.
Il termine “buddista” viene riportato così come lo si trova in tutta l’intervista, anche se è ormai invalso l’uso tra gli studiosi di scrivere “buddhismo”, in quanto la lettera “h” è in questo caso aspirata (si veda:
http://bifrost.it/Lingue/Sanscrito.html).

Inoltre, si è volutamente scelto di non accompagnare il testo con alcun commento, per vari motivi.
Innanzitutto perché le argomentazioni esposte nel ridotto spazio di una intervista non possono certo avere l’ampiezza e la profondità del contenuto di un intero libro, con il quale ci si potrà eventualmente confrontare in altra occasione.
Inoltre, sembra a mio parere ben più interessante – invece di entrare nell’inutile spirale polemica di uno scontro di opinioni – proporre la lettura del testo come fosse uno “specchio” per il praticante del Dharma: uno strumento di verifica della propria pratica e dei suoi rischi – compreso quello di una qualche forma di “fondamentalismo buddhista” –, e delle modalità del proprio rapportarsi agli altri.

“1) Lei ha scritto il libro “Contro il buddismo” che fa stecca nel coro del politicamente corretto. Secondo il comune sentire infatti il buddismo viene considerato una filosofia di vita improntata alla pace e all’amore e non una religione; come mai quindi ha sentito il bisogno di scrivere tale volume?

La nascita del libro ha una sua storia. Quando non avevo neppure diciotto anni, feci un sogno.
Sognai che ero su un treno nel deserto, diretto verso delle montagne altissime all’orizzonte.
Come il treno aumentava la velocità indefinitamente, mi accorgevo che ai lati della ferrovia vi erano centinaia di corpi di soldati cinesi morti. La visione del sogno poi mi portava in cima ad un dirupo, dove un monaco lamaista guardava il sole e sorrideva. Questo sogno mi toccò profondamente, portandomi ad interessarmi alla questione del Tibet e alle tematiche buddiste.
La ferrovia Pechino-Lhasa
Seppi solo anni dopo che i cinesi stavano costruendo la contestatissima ferrovia Pechino-Lhasa... Così, negli anni crebbe in me il desiderio di scriverne, così iniziai un romanzo, i cui primi capitoli rimasero nel cassetto. Passarono gli anni, e vidi le mie posizioni sul Tibet e sul buddismo in generale mutare completamente. Così, quando accennai al romanzo ad un amico che aveva contatti con un editore importante, lui mi disse che se invece di un romanzo avessi voluto scrivere un saggio sul lato oscuro del buddismo, lui lo avrebbe fatto pubblicare subito.
Così fu, ma l’importante editore, che non nominerò, si tirò indietro all’ultimo, dopo avermi inviato il contratto: d’improvviso, avevano paura. Dovetti aspettare ben due anni prima di trovare un editore coraggioso come Fede&Cultura che mi pubblicasse...
Ciò detto, mi sono sempre chiesto perché il bisogno di scrivere un libro del genere non lo abbia sentito nessuno prima. Che il buddismo non sia una religione di pace e amore, ma un culto che ha le sue storie di sangue - come tutti gli altri - è uno di quegli stereotipi totalmente errati che ha invaso la nostra cultura e che ora è impossibile da scrostare. Una recente raccolta di saggi accademici, “Buddist Warfare”, si chiede la medesima cosa che mi sono chiesto io: come è possibile che la gente pensi che la storia del buddismo sia priva di fatti cruenti? I vari cattedratici, forse con le mani legate dal politicamente corretto, non danno una risposta efficace...
Le sette buddiste la fanno da padrone ovunque oramai, ammantate di quella insopportabile aura di innocenza e bontà. Il fatto che la società, gli stati ma ancor di più le nostre istituzioni religiose, non trovino il modo di reagire a questa situazione, è di per sé un indice del tremendo stato di disorientamento che stiamo vivendo.
Il fatto che il libro stia vendendo abbastanza bene mi dice però che una scintilla da qualche parte ancora cova.

2) Perché, secondo lei, vi sono personaggi dello spettacolo che si prodigano attivamente a favore del sorriso del Budda?

Il sinologo Orville Schell ha analizzato il buddismo hollywoodiano in modo molto perspicace, utilizzando categorie geopolitiche. Nel caso del buddismo tibetano, il Dalai Lama - che aspira a divenire un sovrano temporale - necessita di ambasciate in giro per il mondo. La pattuglia di divi buddisti e filotibetani funziona dunque come una sorta di “ambasciata” del governo tibetano in esilio. L’idea non è priva di un suo strategico genio: Hollywood, la mecca del cinema, ha rappresentato per decenni la seconda fonte di entrata dell’export americano, essendo la prima l’industria aerospaziale. Un ganglio economicamente vitale, e ancor di più la fabbrica dei modelli antropologici a cui buona parte dell’umanità si assoggetta - dal taglio dei capelli al modo di sorridere, i divi di Hollywood da più di un secolo oramai dettano legge sul globo terracqueo. Un vero ineffabile soft-power, non di rado pienamente accordato con la volontà politica del Dipartimento di Stato USA e del grande ordine cavalleresco che regna sugli affari degli USA, la CIA. La quale ha con il Dalai Lama un filo diretto, come un mese fa ha sostenuto la Sueddeutsche Zeitung. Il Dalai Lama - che ha ammesso i finanziamenti CIA, e il cui fratello è risaputamente un agente di Langley - è stato per anni un residuo della Guerra Fredda. Ora che la Cina fa davvero paura, ecco che lo ritirano fuori per destabilizzare la regione, che è ricca di acqua, e, più a nord in Xinjiang, di petrolio.
Per quanto invece riguarda altri movimenti buddisti e la loro propensione alla conversione delle star, la loro operazione ha lo stesso scopo. Va forte, nel mondo dello spettacolo e della moda in Italia ma ora pure nel cinema USA, la giapponese Soka Gakkai. Quante persone possono decidere di vincere le proprie diffidenze rispetto ad un invito ad entrare nel movimento quando ti viene presentato con il volto sorridente di Roberto Baggio o di Orlando Bloom?
La tecnica non è diversa da quella usata da Scientology: prima converti le star, poi gli altri verranno. Noto che il narcotraffico ai suoi albori pure ebbe la stessa idea: dare prima la cocaina alle star (come visibile in un film sull’argomento, Blow) per poi attrarre nel disastro della droga l’uomo della strada.

3) Nel suo scritto si accenna anche a scandali sessuali che hanno coinvolto “religiosi buddisti”; come mai tali scandali, diversamente da quelli che accadono in campo cattolico, non sono ampiamente pubblicizzati?

I casi di abuso sessuale perpetrati dal clero buddista - per lo meno da quello di scuola tantrica - presentano una situazione ben più preoccupante, in quanto l’abuso, e talvolta persino il femminicidio, è prescritto in alcuni testi sacri per i buddisti vajrayana - la tradizione del Dalai Lama per intenderci. Gli abusi quindi, in questi casi non sarebbero da ascriversi all’opera perversa di un “prete” peccatore che va contro i suoi voti, ma anzi, sono da leggersi come un tentativo di andare sino in fondo agli insegnamenti dei suoi maestri. L’abuso come “preghiera”, in sostanza - qualcosa di assolutamente attinente alla magia nera.
Quanto al clamore degli scandali sessuali presso i cattolici, sposo in pieno la teoria dello studioso protestante Philip Jenkins, che dati statistici alla mano ha dimostrato che gli abusi presso i cattolici sono percentualmente quasi la metà di quelli commessi nelle altre confessioni.
Sposo anche la teoria che vuole che la questione dei preti pedofili sia solo uno dei tanti volti dell’immane attacco portato contro Benedetto XVI, perpetrato mezzi di propaganda già ingegnati orrendamente dal grande stratega della comunicazione del III Reich Goebbels, che montando una campagna identica a quella che vediamo oggi voleva screditare la Chiesa Cattolica dopo l’enciclica Mit brennender Sorge con la quale Pio XI condannava il pensiero nazista. Davanti a Benedetto XVI che mette sotto accusa il relativismo, gli si risponde allo stesso modo, anzi con ancora più violenza. Il fatto che abbiano copiato un vecchio piano nazista però ci dice anche che i nemici della Chiesa stanno esaurendo fantasia e creatività. A suo modo, un buon segno.

4) Nel suo libro viene evidenziato il fatto che all’interno del buddismo si agitano molti demoni. Può spiegare per quali ragioni tale religione è intrisa di magia nera e di adorazioni diaboliche?

C’è da dire che l’intero edificio del buddismo lamaista, per esempio, si basa su antichi riti prebuddisti, di cui ha salvato tutto il pantheon di esseri preternaturali.
La locandina del film di Scorsese
La leggenda della conversione del Tibet, per esempio, è illuminante. Il “santo” Padmasambhava affrontò i demoni locali ma non li scacciò, come ad esempio si legge nei Vangeli: li sottomise, come peraltro insegnano a fare i grimori della magia nera nostrana. Il buddismo tibetano coabita con i demoni, che anzi sono destinatari di preghiere e riti, o ancora di più, sono veri motori di azione politica: non è noto infatti, anche se visibile in film come Kundun, che importanti decisioni del governo tibetano sono prese dagli “oracoli”, che altro non sono che persone che, durante apposite cerimonie, vengono possedute dai vari demoni del Tibet che fanno così saper cosa consigliano di fare.
In buona sostanza, una “demoniocrazia”.
Queste pratiche non sono da considerarsi come degli aspetti folcloristici: da queste cerimonie di possessione sono sorte numerose decisioni importanti per la storia della compagine del Dalai Lama, come la decisione di riparare in India o la “guerra” contro i compagni lamaisti seguaci del demone Shugden, che ora nella capitale in esilio Dharamsala sono privati dei diritti civili.
Al di là del caso tibetano, c’è da dire che in tutto il buddismo, ad attirare i demòni è sicuramente il vuoto. Perché il vuoto è di per sé un concetto antitetico al creato. Laddove noi pensiamo vi sia il vuoto, si può infilare il demonio, e continuare ad agire indisturbato. Per questo, sostengo che il Nulla buddista sia una “maschera”. Una maschera che può indossare chi vuole la distruzione del creato e dell’umanità. Lo stesso concetto di nirvana - cioè di estinzione - è di per sé il precipuo programma dell’Inferno: lo sterminio della razza umana, il fratello minore cui il Signore ha dedicato tutto il suo amore e la sua attenzione. Di qui le corrispondenze tra buddismo e la cultura dell’aborto, che ho tentato di indagare nel libro in un capitolo dedicato alla questione dell’aborto in Giappone.

5) Lei ha scritto che il buddismo rappresenta un pericolo per l’intera umanità. Come mai?

Il Buddismo è un pericolo per l’umanità perché vuole la sua estinzione. Perché non vive la vita come un dono unico ed irripetibile, ma come una dolorosa prigione da cui sfuggire. L’uomo non è posto da Dio al centro del Creato, anzi, è vissuto come un ostacolo da superare verso uno stadio superiore, in cui nulla più esiste - uno stato in cui il creato è distrutto per sempre. La fortuna del buddismo odierno viene tutta da qui: dalla sua facile integrazione con tutte le teorie anti-umane che sono oramai pacificamente nell’aria. Decrescita, Zero-Growth, riduzione della popolazione terrestre, e tutte le altre culture della morte più o meno legate all’ecofascismo oramai imperante, pensato dai potenti (in primis il Club di Roma) per liberarsi del fastidio dell’umanità e abbracciato gioiosamente adesso dai movimenti cosiddetti ambientalisti. Il Buddismo è la religione giusta per ridurre la popolazione terrestre: la rende docile, poco attaccata alla vita, e non troppo desiderosa di riprodursi (il seme, nelle varie pratiche tantriche, è infatti ritenuto, sprecato). La religione ideale per rendere i figli di Dio una serqua di lemming imbecilli. Questo, almeno secondo me, è un grande problema. Il buddismo non è l’avversario maggiore, è solo un valvassino di quello che è il vero nemico dell’uomo, che oggi più che mai chiede di scatenarsi sulla razza umana.

6) Come la mettiamo, secondo lei, con i raduni religioni in cui si prega Gesù Cristo e, accanto, si innalzano preghiere ad un dio ben diverso da nostro Signore Gesù Cristo?

Sono un puro effetto, e neanche il peggiore, del disorientamento che vivono le nostre comunità religiose. Un segno dei tempi. Il filosofo René Girard, nel suo studio «La violenza e il sacro» parlava del periodo che precede il sacrificio del capro espiatorio, un periodo che chiama “crisi sacrificale”, dove regna l’indistinzione: in una società in preda alla crisi sacrificale non v’è differenza tra alto e basso, maschio e femmina, giusto e sbagliato, bene e male. È il grande Carnevale del relativismo, di cui tanto ci ha parlato il nostro Papa. Sta scritto “E quale accordo fra Cristo e Beliar?” (Seconda lettera ai Corinzi, capitolo 6 versetto 15). Io rispondo, certo, che nessun accordo è possibile. Nessuno. Che qualcuno immagini che questo accordo sia possibile è effetto di questa orribile “crisi sacrificale”, che solo appunto con un grande sacrificio potremo cacciar via. La posta in gioco, lo sappiamo tutti, è altissima.

7) Il suo libro, che riporta testimonianze di missionari e che si conclude con un invito alla preghiera, come viene giudicato dai cattolici? E da tutti gli altri?

Il libro ha subito molto attacchi ad intra da parte di cattolici. Si tratta a volte di cattolici tiepidi, altre volte da cattolici progressisti. Non è mancato anche qualche attacco di qualche sparuto cattolico tradizionalista perché vede stupidamente nel buddismo una Chiesa conservatasi pura, oppure è legato a trascorsi culturali di estrema destra, e sulla fascinazione dell’estrema destra per il buddismo ho scritto un intero capitolo del libretto.
Quanto agli extra ecclesiam, ho registrato diversi attacchi da parte di buddisti, che in molti casi hanno dimostrato bellamente l’attitudine nichilista e finanche violenta di cui parlo nel libro e che loro vorrebbero invece negare. In diversi forum, come quello di Costanza Miriano che mi ha dedicato un post o in quello del mio editore, spesse volte si è dovuto rimuovere commenti perché pieni di insulti e perfino di bestemmie. L’anticristianismo dei buddisti nostrani, lungi dall’immagine di pace che si vorrebbe trasmettere, è emerso in tutti i casi con estrema evidenza.
Quanto a me personalmente, certo c’è qualche amico che non mi rivolge più la parola... Ma questo a parte, l’interesse verso il libro è stato ampio anche in persone totalmente estranee alla vita spirituale. Molti mi hanno detto di aver comprato il libro perché stressati dagli amici buddisti che pressano per convertirli nel giro di una cena: la lettura del libro, mi dicono, ora ha fornito qualche utile argomento per dire “no, grazie”.

8) Che cosa pensa della recente visita del Dalai Lama, accolto con tutti gli onori ed acclamato dalla folla, ai terremotati dell'Emilia? Una signora di una certa età ha affermato di essere devota al Dalai Lama ed un'altra, sempre di una certa età, si è commossa dichiarando d'aver percepito serenità.

 La mia modesta e forse errata opinione è che una Chiesa debole, e un complesso civile religioso (ad applaudire il Dalai Lama al comune di Milano, è bene ricordarlo c’erano anche dei politici cattolici) che permetta al Dalai Lama di venire a fare proseliti speculando sulla disgrazia, sia un grosso problema non solo per i giovani, sempre più privi di riferimento, ma anche per gli anziani. Personalmente, in molte chiese mi capita, durante le messe, di osservare delle signore anziane sempre più indifferenti alla routine della cerimonia. È un problema madornale, perché è su di loro che si compone l’ossatura del cristianesimo: le famose “vecchiette” che si trovano a recitare il rosario... tutto questo sta sparendo perché, come dicevo prima, dalle nostre parti sta sparendo il senso del sacro. Il sacro è affogato nell’indistinzione... è quindi quasi naturale che guardino al Dalai Lama come ad un qualcosa che - così si vuol credere - possa ancora ammantarsi di una qualche sacralità. Questo in fondo è il vero segreto della proliferazione delle non-religioni in Europa: il nostro inesorabile svuotamento.
E, come dicevo prima, nel vuoto amano insinuarsi i diavoli.”

sabato 21 febbraio 2015

Rudyard Kipling e le storie del British Raj


Nel 1901, l’anno della morte della regina Vittoria, in Inghilterra viene pubblicato Kim[1], il romanzo capolavoro di Rudyard Kipling, premio Nobel per la letteratura nel 1907, autore di opere famose quali Il Libro della giungla, Il secondo Libro della giungla, Capitani coraggiosi, L’uomo che volle essere re[2] ecc., nonché di innumerevoli articoli e raccolte di poesie.
Rudyard Kipling
La coincidenza delle date non è casuale né secondaria, e va tenuta presente per capire il lavoro di Kipling e quella che ancora oggi può essere la sua importanza dal punto di vista letterario e non solo: infatti testi come Kim e L’uomo che volle essere re ci possono aiutare a guardare con occhio critico alle vicende politiche di quella “area di faglia” – come la definirebbe Huntington[3] –, l’area del “Grande Gioco”, che comprende attualmente l’India occidentale, il Pakistan l’Afghanistan e i territori meridionali dell’ex impero zarista-sovietico, e che vede ormai da decenni una costante presenza, anche militare, delle maggiori potenze mondiali.
Kipling – e Kim – nascono infatti nel cuore, storico e geografico, del grande impero anglo-indiano.
Nel 1876 la regina Vittoria (1837-1901) assume il titolo di imperatrice dell’India, che rimarrà appannaggio dei reali inglesi fino all’indipendenza dell’India, nel 1947. Viene così formalizzata una situazione di dominio sull’India che aveva iniziato a delinearsi dai primissimi anni del ‘600, con la sempre più forte presenza della Compagnia delle Indie Orientali, e che si era progressivamente consolidata nei secoli successivi.
Quando il British Raj vede la luce, Kipling ha circa dieci anni: era nato infatti il 30 dicembre 1865 proprio in India, a Bombay, da genitori inglesi (il padre era un ufficiale). A sei anni viene inviato in Inghilterra per completare la sua educazione. I suoi insegnanti dicono che non è abbastanza intelligente per ottenere una borsa di studio per Oxford, così torna in India dove lavora come Direttore della Collezione Nazionale di Arte di Lahore (oggi in Pakistan) e come giornalista. Nel 1882 si trasferisce a Bombay, quindi, nel 1889, viaggia attraverso la Birmania, la Cina, il Giappone e gli Stati Uniti e giunge a Londra, dove scrive diari di viaggio, molti articoli e i primi romanzi.
Si trasferisce quindi negli Stati Uniti e lì risiede per quattro anni, pubblicando i due volumi del Libro della giungla.
Infine ritorna in Inghilterra, dove, tra l’altro, dà alle stampe Kim, ottenendo un successo sempre maggiore, fino al premio Nobel del 1907. Agli inizi del XX secolo la sua popolarità è al massimo e, salvo brevi periodi, tale rimane fino alla morte (avvenuta nel 1936) ed oltre, anche grazie al cinema, che adatta per lo schermo molti suoi scritti, traendone film molto noti al grande pubblico. Basti citare Capitani coraggiosi, del 1937, con Spencer Tracy; Gunga Din, del 1939, con Cary Grant; Kim, del 1950, con Errol Flynn; Il Libro della giungla, famoso cartoon Disney del 1967; L’uomo che volle farsi re, del 1975, con Sean Connery e Michael Caine; Mowgli, del 1994, con Jason Scott Lee.

Kim

La storia di Kim si svolge all’epoca dell’aspro conflitto politico tra il Raj e l’impero russo conosciuto come “Grande Gioco”, verso la fine del XIX secolo.
La trama del romanzo può essere così riassunta.

Kim (Kimball O'Hara), un ragazzino tredicenne orfano di un sergente irlandese e povero, vive vagabondando nelle strade delle città e nella campagne indiane, mendicando o svolgendo piccole commissioni a Lahore; occasionalmente si trova a lavorare anche per Alì, un commerciante di cavalli pashtun, il quale è in realtà una delle spie indigene al servizio degli Inglesi.
Avendo fatto amicizia con un Lama tibetano, che è alla ricerca della liberazione finale dalla ruota della vita, Kim parte con lui in direzione del leggendario "Fiume della Freccia", le cui acque permettono di giungere al Nirvana. Kim diventa così il suo discepolo personale, accompagnandolo nel pellegrinaggio e dando spesso dimostrazione della propria astuzia ed abilità.
Lungo la strada il ragazzino incomincia incidentalmente ad imparare spezzoni del "Grande Gioco" tra Russi e Inglesi; viene reclutato dall'amico Alì per portare un messaggio al capo dei servizi segreti britannici ad Ambala. Il viaggio di Kim in compagnia dell'anziano monaco buddhista lungo la Grand Trunk Road[4] è la prima grande avventura raccontata nel romanzo.
I due continueranno a vagabondare fino a che Kim non verrà rintracciato per caso dal cappellano militare dell'antico reggimento a cui apparteneva il padre; il ragazzo sarà riconosciuto dal certificato massonico[5] che porta appeso al collo. Tolto dalla strada, forzosamente separato dall'amato Lama, viene adottato e mandato a scuola a Lucknow.
Durante il periodo della scuola Kim rimane in contatto col monaco, che considera ormai un vero santo; ma anche con i conoscenti che lavorano come collegamenti sul territorio per i servizi segreti di Sua Maestà. Viene addestrato ad essere un agente dei servizi: come parte della formazione deve imparare a guardare un vassoio pieno d'oggetti e saperli ricordare perfettamente.
Dopo tre anni al giovane viene affidato il suo primo vero compito all'interno del "Grande Gioco": prima però gli viene concesso un periodo di vacanza. Kim si ricongiunge col vecchio Lama e, per volere del suo superiore, parte col monaco in direzione dell'Himalaya; qui le vicende più prettamente spirituali e quelle spionistiche della narrazione si intersecano sempre più.
Il ragazzo riuscirà ad ottenere mappe, documenti ed altri importanti elementi riguardanti il lavoro sotterraneo svolto dai Russi nel tentativo di minare l'effettivo controllo britannico della regione. La storia sembra concludersi col Lama che si rende conto d'essersi smarrito, la ricerca del "Fiume della Freccia" dovrebbe infatti svolgersi in pianura, non in montagna dove invece si trovano lui e Kim: intanto il ragazzo è riuscito a consegnare i documenti trafugati ai Russi in mani sicure. Il Lama infine trova il suo fiume e raggiunge l'Illuminazione.
Rimane incerta la strada che perseguirà in futuro il giovane Kim, se d'ora in poi entrerà ufficialmente a far parte delle spie al soldo degli Inglesi, oppure se seguirà la via spirituale mostratagli dall'amatissimo maestro, o una combinazione delle due cose insieme[6].

Già dalla lettura del sunto si intuisce che Kim non è affatto un “romanzo per l’infanzia” – ammesso che ne esistano –, bensì un complesso punto d’incontro tra la letteratura, l’ideologia politica del Raj britannico e una certa immagine della religiosità buddhista.
Kipling può essere infatti considerato come “la voce dell’Impero”, e non a caso la sua popolarità entrò in crisi – salvo riprendere quota negli anni ’20 – proprio nel periodo della Grande Guerra, quando l’ideologia colonialista mostrò il suo vero volto portando l’umanità intera verso uno dei conflitti più feroci e sanguinosi della storia.
In tal senso è significativo il rapporto che lega Kim al Lama Teshoo: il giovane diviene il chela, il discepolo del monaco, ma il rapporto guru/chela che ne deriva non è quello che le tradizioni hinduiste e buddhiste hanno tramandato nei secoli. Anzi, si assiste ad un rovesciamento dei ruoli: mano a mano che Kim – il quale, non lo dimentichi, non è un anglo-indiano, bensì un bianco – acquista il senso della sua identità e quindi acquista forza, non solo si prende cura del Lama – da sempre compito di un chela –, ma lo aiuta nella sua Ricerca, diventa la sua guida.
È la missione civilizzatrice del Raj, che Kim incarna nel ruolo che ricopre all’interno dei servizi segreti, nei confronti di un Oriente dedito alla ricerca spirituale, ma debole, vecchio. Una ricerca spirituale che per Kipling, per una parte della cultura anglosassone, è sì assolutamente rispettabile, ma che alla fin fine consiste nella vocazione del Lama ad aiutare Kim.
Le ultime parole del romanzo sono in questo molto chiare. La Ricerca è terminata, Lama Teshoo ha trovato il Fiume, la liberazione, e dice a Kim: “Figlio della mia Anima, ho strappato la mia Anima dalle Soglie della Libertà per liberare te da ogni peccato… come libero e senza peccato sono io. Giusta è la Ruota[7].
La liberazione dell’Oriente, secondo Kipling, consiste in definitiva nell’aiutare l’Occidente a svolgere la sua missione: civilizzare l’Oriente stesso, ovvero occidentalizzarlo, all’interno di un rapporto che non sarà mai tra pari, ma di continua subalternità.

D’altra parte, fu lo stesso Kipling che, all’inizio della sua Ballata dell’Est e dell’Ovest, scrisse: “Oh, l’Est è Est, e l’Ovest è Ovest, e mai i due si incontreranno, finché il Cielo e la Terra si presenteranno infine al Grande Seggio del Giudizio di Dio”.
Anche se a dire il vero proseguiva con un verso che si presta, alla luce della storia, a diverse interpretazioni: “Ma non c’è né Est né Ovest, non Confine, non Razza, non Nascita, quando due uomini forti si affrontano faccia a faccia, arrivando dai lati opposti del mondo”.




[1] La migliore edizione in italiano è: R. Kipling, Kim, a cura di O. Fatica, Ed. Adelphi
[2] R. Kipling, L’uomo che volle essere Re, Ed. Sellerio
[3] Si veda: S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Ed. Garzanti
[4] La GTR è l’arteria stradale lunga oltre 2500 km che ancora oggi collega il Bangladesh con Peshawar in Pakistan
[5] Kipling fu iniziato alla Massoneria nel 1886 nella loggia "Hope and Perseverance" di Lahore. Nel 1900 entrò nella Società dei Rosacroce, fondò inoltre la loggia “Authors”. I temi massonici sono costantemente presenti nelle sue opere.
Tra i tanti siti Internet che ne parlano, si vedano:
http://www.heredom1224.it/it/index.php?pg=5&op=4&id=78
e: http://www.montesion.it/_esterni/_Uno/_Kipling/Kipling1.htm
[6] Da: http://it.wikipedia.org/wiki/Kim_%28romanzo%29
[7] Kipling, Kim, cit., pag. 349


venerdì 20 febbraio 2015

Sir Edwin Arnold e "La luce dell’Asia"


È stato detto che “nella cultura inglese influenzata dal buddhismo si riflettono le due tendenze contrapposte dell’orientalismo occidentale: la strumentalizzazione di tipo colonialistico, e di per sé mistificatoria, e il desiderio di conoscenza, frutto di empatia e curiosità intellettuale[1]. Un esempio di quest’ultimo tipo di atteggiamento verso il buddhismo lo si trova nella figura di Sir Edwin Arnold. Egli non è un autore di rilievo nella storia della letteratura inglese, anzi non lo si può considerare un poeta “di professione”.
Nato nel 1832, dopo la laurea conseguita ad Oxford e dopo aver insegnato a Birmingham si recò in India e lì diresse il Sanskrit College di Poona. Nel 1861 tornò in Inghilterra e si dedicò al giornalismo, divenendo la firma più importante del Daily Telegraph, dove lavorò per 40 anni. Morì a Londra nel 1904. Fu traduttore di diversi testi filosofici e letterari indiani, ma è noto soprattutto per un suo poema pubblicato nel 1879, La Luce dell’Asia, ovvero La Grande Rinuncia, un testo che ebbe all’epoca un grande successo in patria e negli Stati Uniti, anche se oggi è conosciuto solo nella cerchia degli studiosi del buddhismo.
Sir Edwin Arnold
 Nell’opera, un poema in 8 libri, l’A. ha cercato “di dipingere la vita ed il carattere e d’indagare la filosofia di quel nobile eroe e riformatore che fu Gautama, Principe d’India, il fondatore del Buddhismo[2].
Suo intendimento è quello di presentare la vita del Buddha e il suo insegnamento liberandoli dalle “corruzioni, [dalle] invenzioni e [dalle] false interpretazioni[3] che inquinano i testi buddhisti. Secondo Arnold “le stravaganze che sfigurano la memoria e la pratica del Buddhismo sono da imputarsi a quella inevitabile degradazione che il clero spesso infligge alle grandi idee affidate al suo ministerio. Il potere e la sublimità della dottrina originale di Gautama devono essere considerati alla stregua della loro influenza, e non da quello che ne dicono gli interpreti, non da quella innocente, ma pigra, cerimoniosa Chiesa che è sorta sulle rovine delle fondamenta della fratellanza buddhistica o Sangha[4].
Per fare questo utilizza un piccolo stratagemma letterario, ovvero fa parlare un devoto buddhista: “ho messo il mio poema in bocca a un buddhista, perché per apprezzare lo spirito del pensiero asiatico esso deve essere considerato dal punto di vista orientale[5].
L’opera di Sir Arnold – della quale Gandhi disse che una volta iniziata non aveva più potuto smettere di leggerla – si inserisce a pieno titolo nell’atteggiamento, tipico degli intellettuali dell’età vittoriana (1837-1901), di una “autentica fascinazione per la figura del Buddha, che sottopongono a un trattamento epicizzante, in conformità con un’idea della storia come biografia di personalità illustri[6], in antitesi quindi “con l’immagine di un’India incolta, moralmente degenerata, socialmente immobile e dunque bisognosa della rinascita culturale promossa dall’impero britannico[7].
Già nella Prefazione l’A. sembra proporre l’idea che l’India non sia un paese privo di cultura non tanto grazie alla sua tradizione millenaria, bensì solo per l’influenza del buddhismo, sebbene questo fosse ormai sparito dal suo luogo d’origine: “L’India per se stessa potrebbe bene includersi nel magnifico impero di fede, perché sebbene non faccia professione di Buddhismo nella sua terra d’origine, l’impronta dei sublimi insegnamenti di Gautama è profonda nel moderno Brahmanesimo e le più caratteristiche abitudini e considerazioni degli Hindù sono chiaramente dovute alla benefica influenza dei precetti di Buddha[8].

La forma del poema ricalca taluni elementi tipici del Romanticismo: il protagonista, come espressamente affermato dall’A., è un eroe all’interno di un dramma. Ama la bellezza, non disdegna affatto i piaceri della vita, ma è un inquieto, un essere insoddisfatto nonostante le (e a causa delle) protezioni erette dal padre per impedire al giovane principe di conoscere il mondo con le sue sofferenze.
A tale proposito si leggano questi passi del poema di Arnold: “Ogni cosa [nella campagna in primavera] parlava di pace e d'abbondanza e il principe ne gode­va. Ma, guardando profondamente, egli vide le spine che cresco­no sulle rose della vita: vide l'abbronzato lavoratore sudare per la sua mercede e lottare penosamente per amore alla vita, vide come patiscono i buoi, dai grandi occhi, all'ardore del sole che ne brucia i fianchi vellutati. Osservò come la lucertola si nutre della formica, il serpente di quella, per essere ambedue divorati dall'avvoltoio. Vide il nibbio che ruba la preda all'airone, il cac­ciatore che uccide gli usignuoli e questi che divorano le vario­pinte farfalle. Notò, infine, come ognuno uccide un uccisore ed a sua volta viene ucciso, poiché la vita vive della morte, e così il bello apparente cela una vasta, selvaggia, crudele opera di cospi­razione e di mutuo assassinio, dal verme fino all'uomo che uc­cide i suoi simili. […]
È questo, egli disse, con profondo angoscioso sospiro, è que­sto dunque il mondo felice che mi si promette? Ahi! con quanto sudore è acquistato il pane del contadino! Come è duro il servag­gio dei buoi! Nei boschi quale guerra feroce fra deboli e forti! Nell'aria quale battaglia furiosa! Nell'acqua stessa non v'è pace! Lasciatemi solo per meditare su quanto mi avete mostrato[9].

Il tema della rinascita poi, così come proposto da Arnold, “enfatizza il motivo del rovescio di fortuna profondamente radicato nella sensibilità protestante[10] (si rammenti anche come Marco Polo, nel Milione, avesse parlato dello stesso tema con un simile approccio: il legame tra storia sociale della persona e rinascite).
D’altra parte, già verso la metà del 1800 la figura del Buddha era stata messa a confronto con quella di Lutero: il buddhismo sarebbe stato per l’hinduismo ciò che il protestantesimo era stato per il cattolicesimo; il Buddha come “riformatore” del brahmanesimo. Ma in realtà tale raffronto è stato spesso criticato dagli studiosi, in quanto il buddhismo aveva rivolto nei confronti della tradizione hinduista una critica ben più radicale di quella luterana verso il cattolicesimo, ad esempio rifiutando, e non solo da un punto di vista teorico, la fondamentale dottrina dell’atman. Ed è proprio su questo punto che il poema di Arnold dimostra la sua maggiore debolezza: gli insegnamenti del Buddha sul non-sé (l’an-atman, la vacuità dei fenomeni, shunyata) vengono lasciati nel vago, in quanto la nozione di un sé privo di esistenza intrinseca sarebbe stata in netto contrasto con la tradizione cristiana (cattolica e protestante) e occidentale in genere, nella quale l’individuo come tale, l’ego, non è messo in discussione nella sua sostanzialità, né dal punto di vista filosofico o teologico, né da quello politico ed economico, dove è anzi sempre più centrale con l’affermarsi della figura del produttore-consumatore di merci (che proprio in quel secolo trova la sua origine).
In definitiva, con Arnold si assiste nuovamente – anche se in forme completamente diverse –ad una cristianizzazione del Buddha, come già avvenuto col romando di Barlaam e Joasaf. La sua lettura del buddhismo è essenzialmente di carattere etico, l’insegnamento del Buddha si riduce ad una critica dell’egocentrismo umano, dei comportamenti egoistici; una critica “che non tocca la dimensione filosofica e metafisica[11], che non arriva cioè al cuore dell’approccio buddhista al problema della sofferenza, della sue vere cause e della liberazione da essa.
Nel poema, il Buddha diviene così “un ideale gentlemen vittoriano caratterizzato da integrità [e] comprensione umana[12].
La conferma di quanto detto si trova nel libro VIII del poema, dedicato ad una necessariamente sintetica esposizione dell’insegnamento buddhista. Dopo aver esortato gli ascoltatori allo studio della dottrina del karma, il Buddha afferma: “Non dite ‘io sono’, ‘io ero’, ‘io sarò’. Non crediate di passare di dimora in dimora corporea, come viandante che ricorda o dimentica se fu bene o male alloggiato. Il compendio, l’essenza della recente ultima vita ritorna nuovamente nell’Universo, nel Tutto. Si forma di nuovo la sua abitazione, come il baco da seta, e vi dimora[13]. Ma nessuno spazio viene poi dato al tema della non-sostanzialità dell’io, e il discorso prosegue sulla scia di una esposizione del karma da un punto di vista esclusivamente moralistico, fondato sul binomio – di impronta cristiana – di colpa e merito.
Lo stesso accade poco oltre, nell’esposizione della seconda Nobile Verità: “Vedete un Io falso, nel centro, e conformate ad esso il mondo[14], ma il discorso si ferma ancora qui, senza dire altro su quella falsa visione dell’io.
Ugualmente, l’ignoranza, che è fondamentalmente ignoranza della vera natura dei fenomeni, acquista una valenza quasi esclusivamente etica, perdendo il suo senso metafisico: “Che cosa vi trattiene, o fratelli [dal seguire la legge dell’amore]? Le tenebre che nascono dall’ignoranza. Guidati da esse, voi prendete per vero l’inganno: anelate al possesso, e ottenendo, vi aggrappate al piacere che poi genera dolore[15].

Infine, ancora dal punto di vista della forma letteraria, è interessante la lettura, che qui si propone per intero, di un passo del libro V, nel quale sono descritte nel dettaglio le pratiche ascetiche di taluni yogi indiani, con i quali Siddhartha inizia a praticare dopo aver abbandonato il Palazzo.
È particolarmente interessante il fatto che vengono qui ripresi i temi e i toni della letteratura gotica (Frankenstein di Mary Shelley del 1818, Il vampiro di John William Polidori del 1819, e poi Edgar Allan Poe e Louis Stevenson, fino a Conan Doyle):
Nel mezzo del tranquillo boschetto di Ratnagiri, al di là della città giù nelle caverne, dimoravano quelli che ritenevano il corpo qual nemico dell'anima, la carne quale bestia pericolosa che si deve tenere in ceppi e domare col dolore, finché sia an­nientato il senso del soffrire, fin quando i nervi fiaccati non ri­sentano più le torture!
Jogis e Brahmacharie, Bhikshus erano i capi di una sparuta e lugubre genia di eremiti penitenti. Taluni restavano con le brac­cia levate in alto finché, prive di sangue e consunte, le articola­zioni si disfacevano e quelle braccia scheletrite sporgevano dalle spalle magre come un morto ramo biforcuto da un tronco del­la foresta. Altri tenevano serrate strettamente le mani, con tan­ta forza e così lungamente che le unghie crescevano come chio­di attraversando le palme delle mani marcite. Ve n'erano di quelli che camminavano coi sandali riempiti di spine. Taluni, con ciottoli acuminati, si pestavano e tagliuzzavano fronte e pet­to e anche, e poi bruciavano al fuoco le ferite, bucavano con spi­ne le loro carni, o con un ferro a punta s'imbrattavano con fan­go e cenere, e avviluppando le loro ossa in stomachevoli cenci di cadaveri, strisciavano al suolo. Se ne vedevano altri fermarsi dove fumavano i roghi e poi s'accoccolavano nel fango, presso ca­daveri circondati da avvoltoi che stridevano intorno per divorar­li. Altri invocavano cinquecento volte al giorno il nome di Shi­va, avviticchiandosi al collo bruciato dal sole e ai magri lombi nidiate di vipere velenose e sibilanti. E negli spasmi convulsi es­si torcevano il piede e lo stiravano in su fino alle cosce.
Cosi erano riuniti in lugubre compagnia! Dall'ardore del so­le il loro cranio era ricoperto di bolle, la vista indebolita, i ten­dini e i muscoli raggrinziti, i visi cerei scarni e deformati, come di uomini morti da cinque giorni. Qui strisciava a fatica nella polvere uno che, da mezzodì a mezzodì, contava mille granelli di miglio e mangiava granello a granello, con pazienza da mo­rirne di fame, e così s'adusava alla morte. Ve n'erano anche di quelli che mescolavano foglie amare nel cibo, per tormentare il palato. Vedevasi perfino un santo che si era mutilato, gemebon­do, cieco, muto e privo di sesso. Lo spirito, essi pensavano, di­struggeva la carne per gloriarsi di tanto martirio e della felicità che si deve conquistare, secondo i libri santi, con tormenti da fare onta agli stessi Dei che ci fanno soffrire. Felicità che rende gli uomini pari agli Dei perché li fa più forti nel dolore che non sia l'inferno nel martoriare[16].





[1] G. Orofino e F. Sferra (a cura di), Introduzione a Ponti magici. Buddhismo e letteratura occidentale, Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, 2009, pag. 12. L’opera è consultabile e scaricabile gratuitamente qui:
http://www.unior.it/userfiles/workarea_233/Ponti%20Magici%281%29.pdf
[2] E. Arnold, Prefazione a Buddha. La Luce dell’Asia, Giulio Perrone Editore, pag. 7
[3] Ibid.
[4] Id. pag 9
[5] Ibid.
[6] E. Spandri, The Light of Britain. Orientalismo e illuminazione nella letteratura britannica, 1769-2004, in Orofino – Sferra, Ponti magici, cit., pag. 41
[7] Ibid.
[8] Arnold, Prefazione, cit., pag. 7
[9] Arnold, Buddha. La Luce dell’Asia, cit., pag. 20-21
[10] Spandri, The Light of Britain, cit., pag. 43
[11] Id., pag. 44
[12] Id., pag. 44-45
[13] Arnold, Buddha. La Luce dell’Asia, cit. pag. 135
[14] Id., pag. 137
[15] Id., pag. 136
[16] Id., pag. 75-76