lunedì 26 ottobre 2015

Ancora il buddhismo psichedelico?

Riportiamo qui il testo di un colloquio, apparso sul quotidiano La Repubblica del 24 ottobre a cura di Anais Ginori, tra lo scrittore Emmanuel Carrère e Hervé Clerc, autore del volumetto Le cose come sono - Una iniziazione al buddhismo comune, appena pubblicato presso Adelphi, nel quale Clerc racconta di aver avuto “un fugace incontro con il nirvana da giovane”, durante il Maggio ’68. Nel colloquio Clerc afferma tra l'altro: “Mi sono avvicinato al nirvana non perché ho fatto degli sforzi o perché sono qualcuno di straordinario. Ero giovane, ho preso un allucinogeno. Le lenti dello spazio-tempo attraverso cui vediamo il mondo si sono tolte. Vedevo le cose come sono. Poi sono tornato nel samsara. Aspettando (senza ansia...) di leggere la sua opera, non si può però fare a meno di notare il legame da lui stesso asserito tra la sua esperienza del “nirvana” (qualunque cosa intenda con questo termine..) e l’assunzione di una sostanza psicotropa. Una affermazione che, al di là di ogni altro tipo di giudizio, è in totale contraddizione con gli insegnamenti del Buddha e con la pratica del Dharma, come chiunque può verificare da sé studiando e praticando una Via che non conosce scorciatoie. Inoltre, l’A. si è assunto una grande responsabilità karmica, nei suoi stessi confronti e soprattutto nei confronti di quanti potrebbero avere del Dharma una visione deformata, propria di un certo periodo della storia del buddhismo occidentale che pensavamo chiuso.


Nell'ultimo romanzo di Emmanuel Carrère, "Il Regno", è citato più volte, amico da una vita, compagno di lunghe camminate in montagna ma anche interlocutore privilegiato di riflessioni e confidenze. Hervé Clerc ha viaggiato il mondo per l'Agence France Presse ma, dice ora che ha lasciato l'agenzia, non si è mai sentito "giornalista dentro". La sua inesauribile curiosità e sete di conoscenza si è concentrata invece sul buddismo che analizza nel libro "Le cose come sono". Clerc narra di una fugace esperienza del nirvana, che ha sperimentato durante il Maggio Sessantotto, dal quale si dipana un viaggio erudito ma sempre di facile accesso dentro a quello che definisce il "buddismo comune". Sullo sfondo, "Il Regno" e "Le cose come sono" (Adelphi), le origini del cristianesimo e del buddismo, possono apparire come una conversazione a distanza tra Carrère e Clerc. Li abbiamo incontrati per capire il loro rapporto.

Hervé Clerc: La vera amicizia è provvidenziale. Come Emmanuel racconta nel Regno, abbiamo una madrina in comune, una donna molto cattolica che ha pregato a lungo per farci incontrare.
Carrère: Sono abbastanza d'accordo anche se non credo, come te, che tutto ciò che vale la pena di vivere accade senza il nostro contributo, indipendentemente da noi.
Clerc: Per me è ciò che Barthes chiama il "non voler cogliere" alla fine di Frammenti di un discorso amoroso. Tu sei più nietzscheano, hai fede nella forza della volontà, del controllo.
Carrère: La nostra amicizia funziona in modo misterioso. Non abbiamo quasi mai vissuto nella stessa città, ci vediamo solo per brevi periodi, una o due volte l'anno. Se dovessi riassumere direi che sono venticinque anni che giriamo intorno a una domanda: Che ci faccio io qui? È un quesito che ho incominciato a pormi frequentando Hervé.
Clerc: Emmanuel è fondamentalmente un agnostico. Sa di non sapere. A me non stupisce perché si può essere buddisti e non credenti. Dirò di più: vale lo stesso per il cristianesimo.
Carrère: Lo credo anche io. Anzi mi definisco come un non credente piuttosto cristiano. Esiste un nocciolo duro del cristianesimo al quale si può attingere senza avere la fede in Dio.
Clerc: Nel cristianesimo c'è una magnifico cammino dell'amore che purtroppo è stato sepolto da una visione dogmatica, in contraddizione con l'intelligenza. Da qui sono scaturiti la Riforma, il secolo dei Lumi e la volontà da parte dell'uomo occidentale di non credere a ciò che non appare credibile. Il fatto che l'approccio dogmatico abbia prevalso fa sì che ci sia un progressivo allontanamento dal cristianesimo. E di pari passo ci sia un interesse crescente per il buddismo.
Carrère: In un periodo della mia vita ho avuto un conversione al cristianesimo più dogmatico, come racconto nel Regno. Superata questa fase, ho sviluppato un interesse per il buddismo attraverso Hervé ma senza mai pensare di convertirmi. E d'altronde neanche Hervé si definisce buddista, giusto?
Clerc: No, penso che il buddismo sia una scuola di libertà. Mi ricordo di un pranzo con Emmanuel, vent'anni fa. All'epoca ero già interessato alle idee del buddismo, affascinato da una visione di vita mutevole, non solida. Emmanuel mi disse allora con una battuta: "Ma la Croce non è impalpabile. Auschwitz non è impalpabile". È vero: la sofferenza è reale, esiste, si può toccare.
Carrère: È la grandezza del cristianesimo: prendere sul serio la sofferenza, facendola diventare un tema centrale attraverso la crocifissione.
Clerc: Il buddismo non ignora la sofferenza ma la pone all'interno di un mondo che non basta a se stesso. È la formula di Rimbaud: "La vera vita è assente". Il buddismo non parla di paradiso ma indica un cammino per arrivare alla vita vera, il nirvana. Nel mio caso ho avuto un fugace incontro con il nirvana da giovane, come racconto nel libro.
Carrère: Ti sei avvicinato a qualcosa che io non ho mai conosciuto. Amo molto una sutra che parla del samsara, ovvero della vita per come la conosciamo, fatta di gioie e sofferenze, in un moto continuo. "Finché si riesce a fare una differenza tra il nirvana e il samsara - dice la sutra - significa che siamo ancora nel samsara. Quando non c'è più differenza, allora siamo nel nirvana".
Clerc: Mi sono avvicinato al nirvana non perché ho fatto degli sforzi o perché sono qualcuno di straordinario. Ero giovane, ho preso un allucinogeno. Le lenti dello spazio-tempo attraverso cui vediamo il mondo si sono tolte. Vedevo le cose come sono. Poi sono tornato nel samsara.
Carrère: Comunque la nozione di paradiso, come vita ultraterrena ed eterna, non è ciò che mi seduce nel cristianesimo. Credo molto più facilmente al fatto che esiste un inferno sulla Terra. Il Regno, per come lo intendo a partire dalle parole di Gesù, è un'aspirazione al presente. È qui e adesso, non qualcosa per dopo.
Clerc: Se spingiamo all'estremo buddismo e cristianesimo arriviamo alla stessa cosa. Ci sono mistici cristiani che hanno vissuto la stessa cosa dei saggi buddisti.
Carrère: Sono esperienze assolute che probabilmente si assomigliano. È un luogo comune dire che tutte le religioni portano a Dio.
Clerc: La parola saggezza in Occidente ha un connotato ambiguo. Non si tratta di comportarsi bene o di prendere la vita con distacco. La migliore definizione rimane quella di Socrate: "Nessuno capisce che la saggezza è separata dal resto". La filosofia è un tentativo di raggiungere questo stato. Seneca aggiungeva: "S'incontra un saggio ogni cinquecento anni".
Carrère: Il libro di Hervé è interessante perché parte da un'esperienza personale per proporre una spiegazione limpida e fruibile del buddismo, vissuto in una forma ordinaria, semplice, senza dover indossare tuniche arancioni. Esiste un valore universale, alla portata di tutti, del buddismo, come pure la meditazione che sta prendendo il posto della preghiera in Occidente, forse perché i benefici sono immediati.
Clerc: La meditazione non entra in contraddizione con lo spirito dei Lumi che impregna ancora tutta l'intellighenzia francese, ancor più che in Italia.
Carrère: La meditazione è più compatibile della preghiera con una società secolarizzata.
Clerc: Il buddismo è allo stesso tempo una filosofia e una religione. In fondo è più una questione semantica che di sostanza. Resta l'idea di un cammino impervio. Facendo sforzi disumani, si avanza solo di qualche millimetro.
Carrère: In montagna noi due preferiamo le tranquille camminate, all'alpinismo. È uguale per la conoscenza o la religione: preferisco una strada meno ripida, non massimalista.
Clerc: Ma un po' di strada comunque l'abbiamo fatta. Emmanuel oggi ha più coscienza degli altri. Forse non riscriverebbe più La vita come un romanzo russo sapendo che può ferire persone a lui vicine. Ha più coscienza del karma.
Carrère: Spero che tu abbia ragione. I libri che scriviamo sono anche mezzi per progredire. Anzi, nel mio caso servono principalmente a questo. È un lavoro di coscientizzazione. In un certo senso è una pratica buddista anche se rimangono tante domande senza risposta. Diversamente da Hervé non sono convinto che dietro ad ogni interrogativo ci sia sempre una frase affermativa.



sabato 24 ottobre 2015

La Trimurti - Brahma, il creatore


TRIMURTI, “dalla triplice forma”

Il termine “Trimurti” è in lingua sanscrita un aggettivo, e significa letteralmente “dalla triplice forma[1], che possiede tre aspetti”.
 Ciò a cui tale aggettivo si riferisce può essere una specifica divinità: ad esempio l’aspetto del dio Vishnu detto Trivikrama, cioè “Colui che con tre immensi passi forma i tre mondi” (cielo, terra e mondo intermedio)[2].
Oppure si può ricercarne l’origine nella triade delle antiche divinità vediche: Agni, Vayu e Surya (che rappresentano terra, mondo mediano e cielo).
Nella comune accezione odierna del termine, trimurti diviene in pratica un sostantivo, la Trimurti – come è nota in lingua italiana – e va ad indicare, dal medioevo indiano in poi, la triade degli dei principali dell’India post-vedica, ovvero Brahma, Vishnu e Shiva, ognuno dei quali è associato ad una funzione cosmica, è la personificazione di tale funzione: creazione (Brahma), conservazione (Vishnu), dissoluzione (Shiva) dell’Universo.

Dopo la profonda crisi attraversata dal Brahmanesimo antico a causa del suo irrigidirsi in formule cerimoniali e a causa altresì di profonde trasformazioni sociali intervenute nell’India dell’epoca, con la conseguente affermazione del Buddhismo, si assistette nei secoli successivi ad una rinascita delle tradizioni religiose e filosofiche (due aspetti mai separabili nell’India tradizionale) di quello che viene genericamente chiamato Induismo. Ciò avvenne in epoca medioevale nelle correnti vishnuite e in quelle shivaite (soprattutto nel Sud), nelle quali tornava in primo piano la figura (preistorica, si può dire) di Pashupati – Rudra – Shiva.
All’epoca della scomparsa del Buddhismo dall’India, saranno queste correnti, insieme con il Brahmanesimo che fa “da sottofondo concettuale-ritualistico[3], a comporre il grande sincretismo induista di cui la Trimurti è il simbolo più noto anche in Occidente.
La Trimurti non è il frutto di una astratta speculazione teologica (e già a partire di qui è bene abbandonare ogni tentazione di fare confronti con la Trinità cristiana), ma piuttosto dell’osservazione diretta del mondo e delle modalità del suo manifestarsi, che avviene necessariamente attraverso le tre fasi di nascita-vita-morte. In tal senso, la Natura è Triforme, trimurti, l’Essere è Uno.
Nella concezione ciclica del tempo che è caratteristica dell’Induismo (e di tante altre culture tradizionali di ogni luogo), creazione/manifestazione, conservazione e dissolvimento sono i tre fondamentali aspetti dell’Essere, ed ognuno è indissolubilmente legato agli altri: Shiva il distruttore è indispensabile al creatore Brahma, e questi lo è per Vishnu il conservatore, e così via, all’interno di quell’Unico, il centro della Ruota, che è l’Essere.

Un ulteriore significato della Trimurti lo si trova nella Maitri Upanishad, una delle Upanishad “medie” (probabilmente di epoca post-buddhista). La V parte inizia con una invocazione a Brahma, del quale viene detto:
Tu sei Brahma, invero, tu sei Vishnu, tu sei Rudra e sei Prajapati! Tu sei Agni, Varuna, Vàyu, tu sei Indra e la Notturna Face; [..] tu sei la Terra ed il Tutto e tu sei anche l'Indecadibile; [..] Salve a te, Signore del Tut­to! Spirito dell'Universo, Creatore dell'Universo![4].
E subito dopo si legge:
All'inizio, invero, solo tenebra era. Essa nel Supremo stava: indi, mossa dal Supremo, di­versa si fece. E questa forma fu Rajas [azione]. E questo Rajas, messo in moto, diverso si fece. E fu forma di Sattva [luce, essenzialità, bene]. Allora il Sattva fu messo in moto e sapore [rasa] ne venne. Questa è la parte <del Sé> pura, in­telligibile, che, presente in ogni individuo, cono­sce il corpo ed è caratterizzata da volizione, rifles­sione ed egotismo. Prajapati, Visva, di già men­zionati, sono sue manifestazioni. Ed ora quella che è la sua parte di tenebra [tamas], o studiosi del Veda, questa è Rudra; quella che è la parte attiva [rajas], questa, o studiosi del Veda, è Brahma; quella parte che, invero, è la sua forma-sattva, o studiosi del Veda, questa è Vishnu; questo Unico è, invero, divenuto triplo, sviluppandosi <quindi> in otto, undici, dodici forme, in cento forme, in un numero illimitato di forme e, a cagione del suo sviluppo, esso diviene creatore; esso, essendosi introdotto, compie il suo movimento attraverso le creature. In tale modo Egli, lo Atman, è dentro, è fuori [immane e trascende], è dentro ed è fuori[5].
La Trimurti viene qui posta in relazione con i tre guna, gli attributi-sostanza che costituiscono il mondo secondo il sistema filosofico Samkya:
-          Brahma è raja-guna, la proprietà attiva, la volontà creatrice;
-          Vishnu è sattva-guna, la proprietà dell’equilibrio dell’essere;
-          Shiva è tamas-guna, la proprietà del dinamismo.
Nessuno dei guna è superiore all’altro, tutti – in equilibrio tra loro – concorrono all’esistenza del mondo. “Quando si verifica lo squilibrio, sopraggiunge la Pralaya-Distruzione[6].

Nonostante l’evidente importanza della nozione di Trimurti, “non esiste però un culto speciale della Trimurti in quanto tale; essa è la raffigurazione di un’idea generale[7] perpetuata in India fino ai nostri giorni, e che bene esprime la forza unificatrice che sta alla base dell’Induismo.
Ogni culto attribuisce al proprio dio le qualità, le caratteristiche, le potenze, degli altri. Ad esempio, la scultura che si trova nelle grotte di Elephanta, vicino a Bombay, rappresenta Shiva Mahesvara (Maha-Ishvara, il Supremo Signore), nei tre aspetti di creatore, preservatore e distruttore. Lo stesso accade con i culti legati a Vishnu, mentre il culto di Brahma è ormai sparito. Ma nessuno dei culti può fare a meno degli altri, all’interno di una visione unitaria che già da sé evidenzia quanto la definizione della tradizione religiosa indiana come “politeistica” sia del tutto erronea.
Come scriveva il poeta Kalidasa nel V secolo:
In queste Tre Persone fu manifesto il Dio uno,
al primo e all’ultimo posto ognuno, ma niuno da solo;
tra i Brahma, Vishnu e Shiva, ognuno può essere
il primo, il secondo, il terzo, nel sublime Tre.
E già nel Ŗgveda (II millennio a.C.) era detto:
Dio è Uno, ma i saggi lo chiamano con nomi diversi.


BRAHMA, il creatore

Secondo un antico mito (di evidente origine vishnuita), Bhrigu, uno dei sacerdoti del fuoco, si recò un giorno presso gli dei della Trimurti per stabilire chi fosse tra loro il più degno di adorazione: vide Shiva troppo assorbito dalla sua compagna Parvati, e Brahma troppo assorto in se stesso, ovvero, secondo un’altra versione, troppo intento ad ascoltare la musica della dea Sarasvati. Solo Vishnu era quindi veramente degno di adorazione.
Nonostante il mito, in India Shiva è tuttora, come Vishnu, una delle divinità più amate e venerate, ma è invece vero che, almeno a partire dal XIX secolo, il culto di Brahma è praticamente scomparso, e sono pochissimi i templi a lui dedicati. Anche se mantiene intatto il suo ruolo come dio “concettuale” dei filosofi e degli intellettuali fedeli alla tradizione.

Brahma deriva il suo nome (che è maschile) dalla radice sanscrita brih (espansione, sviluppo, crescita).
Il Brahma dio-persona non deve essere confuso con l’impersonale Brahman (nome di genere neutro), detto anche Brahman Nirguna (privo di attributi) o Parabrahman (para = al di là), concetto che esprime il Potere che esiste in sé, il non-manifesto, il Principio cosmico da cui tutto si manifesta.
Brahma, e con lui gli altri dei della Trimurti e tutte le divinità del pantheon induista, sono “compresi” nel Brahman, “quell’Uno nel quale si trova tutto ciò che esiste”, come è detto nel Ŗgveda. Essi costituiscono un tramite tra il Brahman e il mondo, tra il non-manifesto e il manifesto.
Brahman è il Principio non-manifesto di cui l’universo è la costante manifestazione ad opera di Brahma, il creatore, punto di equilibrio tra il principio centripeto (Vishnu) e quello centrifugo (Shiva).
In quanto principio impersonale ed immanifesto, il Brahman non può essere compreso appieno né tantomeno concettualizzato dalla mente razionale. È ciò che esprime con efficacia la famosa formula della filosofia vedanta “neti neti”, né-né, non questo non quello: il Brahman è al di là di ogni dualismo, non ricade in alcuna categoria mentale, nulla può essere detto a tale proposito.[8]
Quindi l’universo è sia il prodotto di una creazione (ha cioè un’origine e una fine), sia il risultato di un ininterrotto ed eterno processo di manifestazione.
Mentre il Brahman non può ovviamente essere raffigurato in alcun modo, Brahma è rappresentato come un uomo dal viso regolare, con barba e baffi, una sorta di modello ideale del Rishi, il sacerdote-veggente. Ha quattro teste incoronate (dalle quali recita i quattro Veda) e quattro braccia che reggono gli oggetti rituali: il mala (rosario), i Veda, un cucchiaio e una brocca per le abluzioni. Siede o è in piedi su un loto; oppure sul suo veicolo, l’oca selvatica Hamsa[9], simbolo di virilità ma anche di alte realizzazioni spirituali, in quanto in grado di camminare sulla terra, nuotare nell’acqua e volare nei cieli[10]. Compagna di Brahma è Sarasvati, la dea che presiede alle scienze e alle arti, in particolare alla musica.
In realtà le origini di Sarasvati, dal punto di vista della storia dei miti, sono ancora più antiche di quelle di Brahma, ma secondo uno dei Purana[11]Brahma formò dalla sua stessa immacolata sostanza una femmina che è celebrata con i nomi di Shatarupa [dalle mille forme], Sarasvati [le dolci acque], Gayatri [personificazione di un antico metro composto da ventiquattro sillabe disposte secondo una terzina di otto sillabe ciascuna] e Brahmani [o Brahmi, femminile di Brahma]”[12].

Brahma, come tutti gli dei e tutto l’universo, esiste nel tempo, non al di fuori di esso. La sua esistenza è legata alla concezione induista del tempo, un tempo ciclico, non lineare, in cui ogni cosa nasce, esiste, muore e rinasce, in cicli cosmici senza inizio e senza fine.
Secondo i miti, ogni ciclo del mondo si divide in 4 età (yuga), che prendono i loro nomi dai quattro colpi del gioco dei dadi: Krita (4 punti), Treta (3 p.), Dvapara (2 p.), Kali (1 p.), e che si susseguono nell’ordine sopra descritto.
Il Krita Yuga corrisponde al colpo vincente, quello che guadagna tutta la posta in gioco. È, secondo la terminologia della tradizione greco-romana, l’età dell’Oro: ogni cosa è completa in se stessa; l’ordine (Dharma) morale e sociale si regge sulle 4 zampe (spesso è raffigurato come una vacca), ed è quindi del tutto stabile; uomini e donne sono virtuosi, e vivono a lungo e in salute; la società è in perfetto equilibrio nelle sue componenti. Il Krita Yuga dura 1.728 mila anni.
Al suo termine, inizia il Treta Yuga, e con esso un periodo di progressiva decadenza. Tutto si regge su ¾ del Dharma, l’adempimento dei doveri etici, religiosi, sociali, familiari, non è più spontaneo, deve essere appreso. La durata di questo yuga è di 1.296 mila anni.
Il decadimento continua, e si approfondisce, con il Dvapara Yuga, un’era di instabile equilibrio tra perfezione e imperfezione, tra luce ed oscurità. L’ordine universale si regge su due sole zampe, gli esseri umani divengono avidi, avari, attaccati ai beni materiali. Tutto questo per 864 mila anni, la metà del primo yuga.
Infine, il Kali Yuga, l’età oscura. Nel mondo c’è solo egoismo, violenza, guerre, dolore. Il materialismo regna sovrano, il sacro scompare. È detto nei Vishnu Purana: “Quando la società raggiunge uno stadio in cui la proprietà determina il rango, la ricchezza diviene l’unica fonte di virtù, la passione il solo legame che unisce marito e moglie, la falsità la fonte del successo nella vita, il sesso l’unico mezzo per ottenere godimento”, allora siamo nel Kali Yuga. Che è infatti l’età attuale, iniziata venerdì 18 febbraio 3102 a.C., con la morte del corpo fisico del dio Krishna. La sua durata è di 432 mila anni, ¼ del Krita Yuga. Ora (2015) siamo nel 5117° anno del Kali Yuga, che terminerà quindi tra 426.883 anni, ed in questo lasso di tempo ogni aspetto dell’esistenza andrà volgendo al peggio.
Il totale dei 4 yuga è dunque di 4.320 mila anni. Tale periodo è detto Mahayuga (maha = grande).
Mille mahayuga (ovvero 4.320 milioni di anni umani) corrispondono ad un giorno di vita del dio Brahma, il creatore. La notte è di eguale durata.


Un giorno di Brahma (detto kalpa) inizia con l’emanazione di un universo, e termina con la dissoluzione e il riassorbimento dello stesso in Lui. Durante la notte, tutto sussiste come seme, come potenzialità della manifestazione che avverrà con il nuovo giorno, allorquando Brahma riemerge sul fiore di loto sbocciato dall’ombelico di Vishnu dormiente sulle spire del serpente Ananta.
Ma anche Brahma è soggetto al ciclo di manifestazione e dissolvimento: la sua vita dura infatti 100 anni, fatti di giorni e notti di Brahma, ed è quindi pari a 311.040 miliardi di anni umani (4.320 milioni [1 kalpa] x 2 [dì + notte] x 360 giorni x 100 anni). Attualmente, Brahma sta vivendo, secondo i calcoli dei Purana, il suo 51° anno di vita.
La vita di Brahma termina con una totale dissoluzione, nella quale svaniscono tutti gli stati dell’essere, fino a quelli più alti, più sottili. Nei 100 anni (di Brahma) successivi domina uno stato di assoluto riassorbimento, dopodiché l’intero ciclo ricomincia da capo, e ancora, e ancora….

Come si vede, si tratta di un mito cosmogonico (e di un calcolo) molto complesso, probabilmente il più articolato tra quelli delle culture tradizionali conosciute, e che può essere considerato come un tentativo, compiuto in epoche remote, di tradurre il tempo infinito in un tempo finito, calcolabile, in qualche modo pensabile. Il mito è quindi un linguaggio che consente alla mente umana, nei limiti della sua temporalità, di gettare uno sguardo sull’Eternità.






[1] M. Stutley, J. Stutley, Dizionario dell’Induismo, Ed. Ubaldini, pag. 441.
[2] Cfr. A. Morretta, Miti indiani, Ed. Longanesi, pag. 95.
[3] Id., pag. 96.
[4] P. Filippani Ronconi (a cura di), Upanișad, Ed. Boringhieri, pag. 562 segg.
[5] Id.
[6] Morretta, pag. 100.
[7] Id.
[8] Si pensi alla teologia negativa di Plotino e di Meister Eckhart, o all’apofatismo buddhista o taoista, secondo il quale “il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao” (Laozi, o Lao Tzu).
[9] Si rammenti che in latino l’oca selvatica è anser.
[10] Inoltre il suo nome, letto al contrario, Hamsasa ham, “questo io sono”, è espressione della sostanziale unità tra umano e divino, cuore degli insegnamenti delle Upanishad.
[11] I Purana, redatti a partire dal VI-V sec. a.C., sono raccolte di storie molto più antiche, utilizzate per far giungere gli insegnamenti dei Veda alle donne e alle caste inferiori.
[12] Morretta, pag. 217.