sabato 30 gennaio 2016

Spirito di-vino


Pubblichiamo qui l’Introduzione al volume L’esprit du vin selon un moine zen di Sando Kaisen (Alain Krystaskek), monaco Zen, discepolo del Maestro Deshimaru, il quale da 40 anni trasmette la pratica dello zazen in Francia e in altri paesi europei. Il libro di Sando Kaisen (autore anche di La Vision pure e L’esprit de la pétanque) è stato pubblicato nel 2013 dalle éditions Tarma.
Un breve testo (160 pagine) che parla del vino, dello zen, ma soprattutto del nostro rapporto col mondo, con l’intero cosmo. Da assaporare sorso dopo sorso, come si fa con un bicchiere di buon vino, come dovremmo fare con la nostra vita, istante dopo istante.

Gli esseri umani sono i frutti della Terra, del Cielo e di tutti gli uomini che li hanno preceduti. Tutti hanno come radice un fondo comune che è il passato. Il loro futuro, che ne è il frutto incessantemente rinnovato, non è mai separato dalla memoria del passato.
Non ci si fa da soli, non si nasce da se stessi. Ciò che è fondamentalmente “io”, è l’insieme delle esistenze e il corpo dell’intero Universo.
È per questo che non soltanto è l’uomo che fa il vino, è anche il vino, composto dai quattro elementi della natura, che fa l’uomo.
Non sono un grande specialista del vino. Sono un semplice monaco zen che da quarant’anni si reca regolarmente a riposare in una sala di meditazione, come un buon vino sul fondo della sua bottiglia. Un buon vino che finirà tuttavia in una bara…
Ad ogni conferenza o al termine di ogni pratica uomini e donne mi pongono delle domande. Io do loro delle risposte, che talvolta vanno nella loro stessa direzione, talvolta in direzione opposta. Ma poco importa ciò che dico e a chi lo dico. Ciò che conta, è che così come sono io sia maturo, e che così come sono mi si apprezzi o non mi si apprezzi… Per il vino è la stessa cosa.


Ho creato spesso delle cantine e, come molti giovani, ho vendemmiato, tagliato la vite, partecipato alla vinificazione e lavorato nelle cooperative. Nondimeno rimango un neofita e un semplice amatore, anche se è stato molto piacevole incontrare i viticoltori e apprezzare il vino che producono. Bevo poco e di rado, ma so che bere un buon vino significa assaporare un’intera esistenza in un sorso…
Il linguaggio utilizzato dai viticoltori, che non è privo né di immagini né di poesia, prova che per fare del buon vino e coltivare nel modo giusto è necessario essere coltivati. Ci si coltiva coltivando… La cultura che si acquisisce passando del tempo in vigna è quella grande capacità di cogliere l’essenza della bellezza e di saperla definire. Poter dare un nome ed affinare le proprie sensazioni e il proprio pensiero offre la possibilità di migliorare ciò che si fa migliorando se stessi.
Nella vita il punto non è essere “buono” o non essere “buono”. Si tratta soltanto di essere intimo con la propria natura fondamentale. Lo stesso accade con il vino, che non è né “questo” né “quello”. Semplicemente è o non è l’espressione della vita che esso ingloba nella sua totalità.
Poco importa sapere se è giusto mettere insieme vitigni provenienti da terreni diversi. Sappiamo che accostare pesce, finocchio, melanzane e olio d’oliva costituirà un’ottima pietanza. Sappiamo anche che se si sostituisce il pesce con del manzo del Limousin a manifestarsi sarà un altro piatto, un’altra visione. Nondimeno, il terreno o il vitigno unico costituiscono l’affermazione di una identità, di una lunga tradizione e di una capacità ancestrale che è importante veder continuare nel tempo. Se la natura del mondo fosse di essere vuoto o unico, non cercherebbe di rivestire le innumerevoli forme che popolano il nostro Universo. Noi abbiamo bisogno di una identità, di fare riferimento al passato e di essere i successori di lignaggi che vengono da lontano. Vivere a partire dalla radice, dalla tradizione, evita di agire a caso e di credersi dei creatori onnipotenti. Il denaro e il potere non hanno creato l’uomo, è l’uomo che li ha creati. Tuttavia l’uomo è divenuto loro schiavo. In questo stato di schiavitù, il senso della vita gli sfugge…
Certamente, è l’uomo che pianta la vite, ma se quest’uomo non coglie l’occasione e la possibilità che gli sono offerte per trovare un senso alla sua comparsa sulla terra, allora si rischia che sia la vite a piantare lui!

Quando l’acino scricchiolò sotto i miei denti,
Il giorno si levò,
abbagliante di luce e di profumi.

Questo libro non è l’opera di un religioso che vorrebbe introdurre delle nozioni del buddhismo zen nell’universo degli amatori del vino. È un libro sul vino, o piuttosto sulla relazione tra l’uomo e il vino. Poiché il vino e l’uomo sono entrambi privi di limiti, se ne potrebbe parlare all’infinito.
Più metterò a fuoco il soggetto, più il vocabolario che userò tenderà ad avvicinarsi al mondo dello spirito, il che potrà forse dare l’impressione di una connotazione religiosa. Ma poiché il linguaggio è esso stesso l’espressione dell’unità fondamentale, come se ne può sfuggire?


  
La traduzione dal francese è opera di chi scrive, che è pertanto responsabile degli errori (e degli orrori…) che vi si possono riscontrare.
Si veda anche:



Draghi d'Oriente e d'Occidente


Se in una limpida notte di primavera-estate si volge lo sguardo verso l’Orsa Minore, è possibile osservare una delle costellazioni settentrionali più grandi della volta celeste, il Dragone, in latino Draco, chiamata Anguis dal poeta Virgilio: “Qui [nell’emisfero boreale] il Serpente striscia con un immenso giro, sinuoso a mo’ di fiume, intorno ed attraverso le due Orse: quelle Orse timorose di tuffarsi nelle acque di Oceano[1], ovvero intramontabili.

La testa del Dragone è formata da quattro stelle, il corpo si snoda attorno al Polo Nord celeste, tra l’Orsa Maggiore e l’Orsa Minore. Nella coda si trova la stella Thuban (nome arabo del Basilisco, mitico re dei serpenti), ovvero Alpha Draconis, che fino al 1793 a.C. era considerata la Stella Polare[2].
Il motivo per cui il Drago si trova nel cielo è narrato dai miti dell’antichità classica: un drago a cento teste, di nome Ladone, era stato posto a guardia del giardino curato dalle ninfe Esperidi, nel quale nascevano mele d’oro, dono di Gea, dea della Terra, alle nozze di Era e Zeus. Dalle bocche di Ladone uscivano grida di cento tonalità diverse, che terrorizzavano gli uomini.
Ma il drago, grazie anche all’aiuto di Atlante, fu ucciso da Eracle, che aveva ricevuto da Euristeo l’incarico di impadronirsi dei pomi d’oro. Era volle allora che Ladone fosse ricordato per l’eternità, e per questo lo pose in cielo tra le due Orse, come narra lo scrittore romano Igino nel De Astronomia[3].
Già il mito di Ladone e del giardino delle Esperidi fa intuire il legame che intercorre tra la figura del drago e l’oro o i tesori in genere.
L’etimologia può aiutare a comprendere tale legame: la parola “drago” deriva dal latino draco e dal greco drakon (drago, serpente), dalla radice DARC-, vedere (greco derkomai, guardo), che è nel sanscrito dṛç, occhio, vista. Così come anche un altro termine greco che significa serpente, ophis, nasce dalla radice OP-, vedere, da cui “ofidi”, serpenti, ma anche “ottico”. Infatti una diffusa credenza popolare riteneva che le serpi e i draghi, loro stretti parenti, avessero una vista eccezionale. In più, ai draghi era attribuita la forza dei leoni e l’agilità delle aquile. Infatti, pur essendo un animale mitologico, il drago è composto da parti di animali reali, che variano a seconda della cultura di origine: il corpo è quello di un rettile (ma a sangue caldo), ed è coperto da scaglie e squame (talvolta piume, come i draghi del Sud America); le ali, quando presenti, sono membranose, come quelle dei pipistrelli; le zampe (due o quattro, talvolta nessuna) sono quelle di un rapace, e come gli uccelli depone le uova…
Per queste loro caratteristiche, i draghi erano considerati ottimi guardiani di tesori, di oggetti preziosi, di luoghi speciali, soprattutto se posti sotto la superficie terrestre o nelle vicinanze di mari, laghi, paludi o sorgenti.
Come il drago Pitone, figlio di Gea, che viveva accanto ad una sorgente sul monte Parnaso e che fu ucciso da Apollo[4]. O quello che venne ucciso da Cadmo, fondatore di Tebe, e che era anch’esso custode di una sorgente.

Il legame tra i draghi e i tesori è ben documentato anche da una favola di Fedro (I sec. d.C.), evidentemente dedicata agli avari (“gioia degli eredi”, li chiama con ironia):
Una volpe, nello scavarsi la tana, mentre tirava via la terra e spingeva sempre più nel profondo vari cunicoli, arrivò nel recesso più interno della spelonca di un drago, che custodiva tesori nascosti. Non appena lo scorse: “Ti prego anzitutto di perdonare la mia sbadataggine; poi, se ben capisci quanto l’oro non si addica alla mia vita, rispondimi gentilmente: quale frutto ricavi da questo lavoro, ovvero quale ricompensa è tanto grande da privarti del sonno e farti trascorrere la vita nelle tenebre?” “Proprio nessuna – disse – ma questo compito mi è stato assegnato dal sommo Giove”. “Allora non prendi nulla per te e non dai nulla a nessuno?” “Così piace al fato”. “Non adirarti se ti parlo francamente: è nato in odio agli dèi chi è simile a te”.[5].

Il mito del drago come custode di tesori si ritrova anche nelle culture del Nord Europa, ad esempio nel principale testo della letteratura islandese medioevale, l’Edda di Snorri, composta intorno al 1200 da Snorri Sturluson. Vi si narra di Fafnir (in islandese “colui che abbraccia il tesoro”), un nano forte e aggressivo che a causa della sua avidità si trasformò in un drago senza ali.
Otr, fratello di Fafnir e di Reginn, era stato ucciso per errore da Loki. Il loro padre Hreidhmarr aveva ricevuto dell’oro quale risarcimento e i due fratelli ne pretendevano una parte. Ma, come si legge nell’Edda, Hreidhmarr negò loro persino un soldo dell'oro. La decisione dei fratelli fu malvagia: uccisero il padre per l'oro. Poi Reginn chiese a Fafnir di dividere l'oro in parti uguali. Fafnir gli rispose di non illudersi, egli non avrebbe diviso l'oro con il fratello che aveva ucciso il padre per averlo, e ordinò a Reginn di andarsene se non voleva che lo spedisse da Hreidhmarr [..]. [Reginn] dunque, [dovette] fuggir via. Fafnir invece salì su Gnitaheidhr dove si preparò una tana nella quale, trasformatosi in serpe, giaceva sull'oro.
Da "I Nibelunghi" di F. Lang - 1924
Reginn si recò a Thòdh dal re Hialprekr e là divenne suo fabbro. Ivi prese a educare Sigurdhr [..] il più famoso fra tutti i re guerrieri per stirpe, forza e coraggio. Reginn gli rivelò dove Fafnir giaceva sull'oro, istigandolo a cercare il tesoro [..]. Sigurdhr e Reginn si recarono a Gnitaheidhr. Là Sigurdhr scavò una buca lungo la via [percorsa] da Fafnir e vi si nascose. Quando Fafnir strisciò verso l'acqua e passò sulla buca, Sigurdhr gli vibrò [un colpo] con la spada e questa fu la sua morte. Allora venne Reginn e disse che egli aveva ucciso suo fratello e che per rifar pace avrebbe dovuto prendere il cuore di Fafnir e arrostirlo sul fuoco. Poi Reginn si sdraiò, bevve il sangue di Fafnir e si pose a dormire. Quando Sigurdhr pensò che il cuore che stava arrostendo fosse cotto, lo toccò con un dito per sentire se era [ancora] duro. Il sangue del cuore gli colò sulla pelle, egli si scottò e si mise il dito in bocca. Quando il sangue del cuore toccò la lingua, egli [divenne capace di] comprendere il linguaggio degli uccelli e intese ciò che stavano dicendo gli uccellini sull'albero sopra di lui[6].
A Fafnir si ispira senza dubbio la figura del drago Smaug, custode del tesoro usurpato ai Nani e ubicato nelle viscere di Erebor, la Montagna Solitaria. Smaug è stato creato dal genio di John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), docente universitario, insigne studioso di filologia e soprattutto autore, tra l’altro, del Signore degli Anelli, un’opera erroneamente considerata un romanzo “di genere” e non, come è, letteratura tout court, e di altissimo livello.
Smaug è così descritto nel romanzo Lo Hobbit (1937), da cui ebbe origine la saga dell’Anello:
Un drago enorme color oro rosso lì giaceva profondamente addormentato, e dalle sue fauci e dalle froge provenivano un rumore sordo e sbuffi di fumo, perché, nel sonno, basse erano le fiamme. Sotto di lui, sotto tutte le membra e la grossa coda avvolta in spire, e intorno a lui, da ogni parte sul pavimento invisibile, giacevano mucchi innumerevoli di cose preziose, oro lavorato e non lavorato, gemme e gioielli, e argento macchiato di rosso nella luce vermiglia.
Le ali raccolte come un incommensurabile pipistrello, Smog giaceva girato parzialmente su un fianco, e lo hobbit poteva così vederne la parte inferiore del corpo, e il lungo, pallido ventre incrostato di gemme e di frammenti d'oro per il suo lungo giacere su quel letto sontuoso. Dietro di lui, dove le pareti erano più vicine, si potevano vagamente vedere appese cotte di maglia, elmi e asce, spade e lance; e c'erano file di grossi orci e vasi riempiti di ricchezze inimmaginabili[7].

Tralasciando in questa sede le diverse classificazioni e tipologie di draghi (con o senza ali, terrestri e/o acquatici ecc.), è invece interessante ricercare il significato del ruolo che essi svolgono, quello di custodi di tesori celati nella terra o nell’acqua.
È stato detto che la vicinanza dei draghi alle acque paludose e la loro uccisione da parte dell’eroe rappresenta la progressiva bonifica di zone malsane da parte delle comunità umane, per destinarle alle coltivazioni. Ed è senza dubbio un buon esempio di spiegazione storicistica di alcuni miti.
Meno riduttivo, ed anche più coinvolgente, è vedere invece nel drago, simbolo presente in quasi tutte le culture umane, l’espressione delle più profonde energie interiori dell’uomo, che custodiscono il tesoro della vita spirituale, la natura umana autentica, il Sé, rappresentato dall’oro o dalle gemme. I draghi “non sono in definitiva che le immagini dei nostri desideri e delle nostre passioni[8], che possono ostacolare la conoscenza e l’accesso al tesoro che è in noi, nelle profondità dello spirito, o, per dirlo in termini più “scientifici”, dell’inconscio (ben rappresentato dalle caverne, dagli abissi oceanici, dai palazzi scavati nel sottosuolo). Il drago, quindi, è sì custode di tali ricchezze, ma può diventarne estremamente geloso, e quindi distruttivo, se si è troppo accondiscendenti nei suoi confronti, ovvero nei confronti delle nostre pulsioni più egoistiche e distruttive.
Ad esempio, l’eroe Sigurdhr, dopo essere stato bagnato dal sangue di Fafnir, comprende il canto degli uccelli, acquisisce cioè una Conoscenza superiore che lo pone in totale armonia con l’universo, al di là della falsa concezione di un Io autonomo e separato dagli altri esseri.
Invece Thorin, il re dei Nani del romanzo di Tolkien, riconquista il tesoro grazie ad uno Hobbit, ma ne è talmente ossessionato che ritroverà la sua dignità solo al prezzo della vita, morendo in battaglia.
La realizzazione dell’autentico Sé (le mele d’oro, il tesoro dei Nani, il centro del labirinto, il ritorno ad Itaca…) passa quindi attraverso la lotta interiore dell’Eroe (Ercole, Bilbo Baggins, Teseo, Ulisse…) contro le proprie ombre, il proprio piccolo Ego. Quindi, la spada, la lancia, la freccia, la clava, le armi che uccidono il drago rappresentano allora la saggezza, la discriminazione, il coraggio, la fede, le virtù etiche.

Rispetto ai miti “pagani”, nei testi cristiani in cui compare il simbolo del drago l’accento viene posto con estrema enfasi sul tema etico della lotta tra il Bene e il Male, dove il drago rappresenta evidentemente le forze del Male.
Il mito più popolare in ambito cristiano è la storia di San Giorgio, narrata anche dal Beato Jacopo da Varagine (Varazze) nella sua Leggenda Aurea, della seconda metà del ‘200. Vi si racconta di un drago che viveva in un grande stagno della Libia, e che terrorizzava gli abitanti del luogo. Essi lo rabbonivano dandogli in pasto pecore e poi, finite le pecore, i loro figli, fino a che venne il turno della figlia del re. A quel punto arrivò un coraggioso cavaliere cristiano. “Il beato Giorgio che per caso passava di là vide la fanciulla piangente e le chiese cosa avesse. E quella: “Buon giovane, risali subito sul cavallo se non vuoi morire con me”. E Giorgio: “Non temere, figlia mia, ma dimmi che cosa fai qui in lacrime sotto gli occhi di tutto il popolo, che ti sta ad osservare dalle mura”. E quella: “Vedo che sei un giovane audace e generoso ma perché vuoi morire con me? Fuggi, fuggi senza più aspettare!”. E Giorgio: “Non me ne andrò sino a che tu non mi abbia detto che cosa stai facendo”. Quando la fanciulla gli ebbe raccontato la sua storia disse Giorgio: “Figlia mia non temere, poiché io ti verrò in aiuto nel nome di Cristo”. E quella: “Buon soldato non voler morire, basta la mia morte!”. Mentre così i due parlavano il drago sollevò la testa dall'acqua del lago onde la fanciulla tutta tremante gridò: “Fuggi, fuggi, mio buon signore!”. Giorgio allora salì sul cavallo e fattosi il segno della croce si gettò sul drago, vibrò con forza la lancia e, raccomandandosi a Dio, gravemente lo ferì. Il drago cadde a terra e Giorgio disse alla giovinetta: “Non aver più timore e avvolgi la tua cintura al collo del drago”. Così ella fece e il drago cominciò a seguirla mansueto come un cagnolino. Vedendola in tal guisa avvicinarsi alla città, tutto il popolo atterrito cominciò a gridare: “Ahimè, ora moriremo tutti!”. Ma il beato Giorgio disse loro: “Non abbiate timore poiché Iddio mi ha mandato a voi onde liberarvi da questo drago. Abbracciate la fede di Cristo, ricevete il battesimo ed io ucciderò il mostro”. Allora il re e tutta la popolazione ricevettero il battesimo; dopodiché Giorgio uccise il drago e comandò che fosse portato fuori della città con un carro tirato da quattro paia di bovi[9].

  In un testo più antico, l’Apocalisse di Giovanni, composto verso la fine del I secolo, il drago non solo è malvagio, ma è il Male, è Satana in persona.
Qui, alla conclusione del Nuovo Testamento, tra angeli, demoni, cataclismi, visioni e profezie, compaiono nel cielo due segni:
Una donna avvolta nel sole, e la luna sotto i suoi piedi e sulla sua testa una corona di dodici stelle, ed è incinta e urla, soffrendo le doglie e tormentata per partorire. E fu visto un altro segno nel cielo, ed ecco un drago, grande, rosso fuoco, con sette teste e dieci corna e sulle sue teste sette diademi, e la sua coda trascina la terza parte delle stelle del cielo e le gettò sulla terra. E il drago sta dritto di fronte alla donna, che sta per partorire, così da inghiottire, quando partorisca, il figlio suo. E partorì un figlio, un maschio, il quale sta per pascere tutte le genti con bastone di ferro. E fu strappato suo figlio verso Dio e verso il suo trono. E la donna fuggì nel deserto, dove ha là un luogo preparato da Dio, perché là la nutrano per mille duecento sessanta giorni.
E fu guerra nel cielo, il Michele e i suoi angeli a combattere col drago. E il drago combatté e i suoi angeli, e non fu forte né fu più trovato il loro luogo nel cielo. E fu gettato giù il drago, quello grande, il serpente antico, chiamato Diavolo e il Satana, colui che inganna il mondo intero, fu gettato sulla terra, e i suoi angeli furono gettati con lui. E udii una voce grande nel cielo, che diceva: Ora fu la salvezza e la potenza e il regno del nostro Dio e il potere del suo Unto, poiché fu gettato l'accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusa di fronte al nostro Dio di giorno e di notte[10].
È interessante osservare che San Giorgio non uccide subito il drago, ma lo rende mansueto e lo uccide solo dopo la conversione dei paesani. Ed anche nell’Apocalisse, più oltre, è detto:
Vidi un angelo che scendeva dal cielo con la chiave dell’abisso e una catena grande sulla sua mano. E tenne saldamente il drago, il serpente antico, che è Diavolo e il Satana, e lo legò per mille anni e lo gettò nell’abisso e lo chiuse e pose un sigillo su esso, affinché non traviasse più le genti fino a che si compissero i mille anni[11]. E dopo i mille anni, “il diavolo [..] fu gettato nella palude del fuoco e zolfo, dove anche si trovano la bestia e lo pseudoprofeta e saranno tormentati giorno e notte per i secoli dei secoli[12].
L’avvento della Gerusalemme Celeste non implica la morte del drago, di Satana. Satana, che è stato creato da Dio[13] e quindi non è pari a Lui, non viene però distrutto, bensì gettato nella palude di fuoco, dove “rappresenta la potenza latente racchiusa nella materia” (l’Inferno)[14]. Nei termini con cui si è interpretato il mito: l’inconscio non può essere distrutto, è parte integrante dell’uomo, concorre alla realizzazione della sua natura profonda, a condizione che ne vengano dominate le tendenze distruttive e regressive.

A costo di una certa semplificazione, si può comunque dire che nel Cristianesimo “ufficiale” il drago “è privo di sfumature, è colui che sputa tutte le fiamme dell’inferno: è il nemico assoluto[15]. Il drago è stato incorporato nella letteratura e nell’iconografia cristiana (si pensi alle immagini di Maria che calpesta il serpente o il drago), ma al prezzo di un impoverimento della sua complessa simbologia: “nelle altre culture il drago personifica la Potenza. In quanto tale figurava sugli stendardi assiri, parti, sciti, romani, bretoni[16], sulle prue delle navi vichinghe. Nel Cristianesimo il drago è visto soltanto, almeno apparentemente, come il simbolo di ciò che è opposto al Cristianesimo stesso, il Male, Satana, i “barbari”, i culti “pagani”[17].
In generale, l’Occidente tradizionale rimanda comunque ad una immagine del drago come di un nemico da eliminare, un’icona dell’avversione, della paura e del dolore, anche se oggi, a seguito della globalizzazione delle culture e della desacralizzazione della società, tale immagine è molto cambiata: basti pensare alla diffusione della figura del drago nei giochi, nel cinema per bambini, nei tatuaggi, nella pubblicità ecc.

A questo punto si può introdurre una breve analisi del simbolo del drago nelle tradizioni orientali, in quella cinese per tutte, dove il drago (in cinese lóng, in giapponese ryū) ricopre un ruolo egemone, fino a divenire un vero modello archetipico per l’Oriente, nonché il simbolo stesso del Paese (come lo è il leone per il Regno Unito, l’orso per la Russia, l’aquila calva per gli USA, la tigre per l’India ecc.). Qui l’atteggiamento descritto sopra si rovescia: per la Cina tradizionale il drago rappresenta la vita stessa, “è la forza creatrice e vivificante, il simbolo della potenza imperiale[18]. È intermediario tra il Cielo e l’Imperatore, al quale “trasmette la forza cosmica che consente all’ordine di regnare e alla vita di svilupparsi armoniosamente. Se i ritmi sono dimenticati, se la vita cosmica o sociale è disorganizzata, soltanto l’Imperatore, detentore del mandato celeste, ha il potere di rigenerare la sua forza creatrice e di ristabilire l’ordine[19]. In difetto, il drago gli ritira il mandato del Cielo e l’Imperatore è delegittimato.

Non a caso, il drago è presente già nel primo segno dell’I Ching, l’antico Libro dei Mutamenti, testo fondamentale per le origini delle tradizioni taoista e confuciana. Le sei linee intere che compongono Kkienn, il Creativo, il Cielo, raffigurano infatti sei draghi sovrapposti, sei momenti della manifestazione. Il segno rappresenta, recita il commento, la “forza primordiale luminosa [..]. Il segno è unitariamente forte nella sua natura[20]. Di tale forza creatrice i draghi, che incarnano il principio Yang, costituiscono l’elemento trainante. L’analisi delle singole linee nomina esplicitamente il drago: “Nove all’inizio significa: drago coperto. Non agire”. Nell’inverno il drago si ritira nella terra, è opportuno attendere, con forza e pazienza. Ricompare in primavera, ma non ancora nel pieno della sua forza: “Nove al secondo posto significa: drago che compare nel campo. Propizio è vedere il grand’uomo”. E ancora: “Nove al quinto posto significa: drago volante nel cielo. Propizio è vedere il grand’uomo”: è la sfera della celestialità, dalla quale si influenza tutto il mondo. Ma “Nove sopra significa: drago altezzoso avrà da pentirsi”, ovvero il voler salire troppo isola dagli altri e conduce all’insuccesso. Infine: “Quando compaiono tutti nove questo significa: compare una schiera di draghi senza capo. Salute!”: con tutti nove l’intero segno Kkien si trasforma in Kkunn, il Ricettivo, la Terra; la forza del creativo (i sei draghi) e la mitezza del ricettivo (le loro teste nascoste) si uniscono. Mitezza nell’agire e forza della decisione, questo porta al successo[21].
Anche in Cina il drago è associato all’elemento acqua, nei suoi vari aspetti: mari, fiumi, laghi, nuvole, pioggia… Esso ha il potere di far sgorgare sorgenti, di far cadere la pioggia, arginare le inondazioni[22]. È pratica comune nelle campagne richiamare la pioggia nei periodi di siccità costruendo draghi in legno e carta per porli nei letti dei fiumi nel corso di cerimonie accompagnate da tamburi e invocazioni, oppure lanciando in cielo aquiloni con immagini di drago.
È quindi principio legato alla primavera, alla rinascita della vegetazione, ed anche alla fecondità femminile: secondo alcuni miti, una giovane donna rimase incinta con la saliva di un drago.

Fu Xi e Nuwa
Da un drago ebbe origine il matrimonio: si tratta di Fu Xi, uno dei tre mitici sovrani cinesi, vissuto, secondo la tradizione, tra il 2952 e il 2836 a.C.
Si tramanda che avesse quattro occhi e una coda di serpente; veniva rappresentato sempre allacciato, tramite la coda, alla sorella e sposa Nüwa; lei porta in mano un compasso, lui una squadra. Tali strumenti (che rimandano alla simbologia massonica) indicano che i due sovrani inventarono norme e regole.
A lui vengono attribuite l'invenzione dell’I Ching, della metallurgia, della scrittura, del calendario, della musica. Narra la leggenda che sia nato da un palude, nella quale abitavano i draghi[23].

Se all’associazione drago/acqua si aggiunge l’immagine della barca (già vista nel caso delle navi vichinghe), si perviene intuitivamente ad un altro nesso simbolico: drago/morte. Anche nella cultura cinese la barca è associata alla morte, in quanto mezzo per giungere sull’altra sponda, e molto spesso i battelli cinesi (ed estremo orientali in genere) sono costruiti in forma di drago. Si narra in una leggenda buddhista che una monaca coreana, volendo seguire un monaco in partenza per la Cina su una barca, annegò in mare e si trasformò in un drago che protesse il viaggio del monaco.
Una storia popolare taoista riprende diversi elementi del simbolismo del drago (le acque, l’eroe, la donna, la musica…):
Han Hsiang Tzu, mirabile suonatore di flauto[24], giunse un giorno sulle coste del Mare Orientale, dimora delle bellissime Fanciulle Drago, amanti della musica e del canto. Lì iniziò a suonare un motivo dolce e melodioso che giunse alle orecchie delle Fanciulle Drago. Una di esse, la più bella, la settima figlia del Re Drago, volle conoscere colui che suonava, ma dovendo mantenere segreta la propria identità, si trasformò in anguilla. Si avvicinò alla spiaggia, e ben presto il suo liscio corpo argenteo fu perfettamente visibile. Han Hsiang Tzu non aveva mai visto un'anguilla così strana, che sembrava intendere la sua musica e apprezzarla.
Mia preziosa anguilla – le disse – ho sentito parlare della bellezza della settima Principessa Drago. Portale, ti prego, i miei umili omaggi”.
Quando ricominciò a suonare una dolente melodia l'anguilla prese a mutar forma, sotto lo sguardo stupito del giovane.
Nelle ombre del crepuscolo la vide diventare sempre più grande, finché la sua pelle argentata cadde rivelando una pallida e perfetta carnagione. Così apparve una splendida fanciulla dai folti capelli neri, che restò in assoluto silenzio. Han Hsiang Tzu suonò come non aveva mai suonato ed ella danzò e danzò, finché Han Hsiang Tzu chiuse gli occhi per un breve istante. Quando li riaprì si ritrovò solo: la ragazza era sparita, senza aver mai detto una sola parola. La stessa cosa accadde nelle due sere seguenti.
La quarta sera ella mancò all'appuntamento ormai abituale. Il giovane suonò canzoni d'amore e la chiamò nel buio della notte, ma i suoi sforzi furono vani. Disperato lanciò il suo flauto sulle rocce frastagliate rompendolo in cento pezzi. Poi si accasciò e pianse. Era talmente immerso nel suo dolore che non udì una vecchia venire a lui lungo la spiaggia, e sobbalzò quando lo toccò gentilmente sulla spalla.
Mi spiace di averti spaventato – gli disse – ma ti ho visto piangere e sono venuta per offrirti il mio aiuto. Ascolta quanto ho da dirti, ma non mi fare domande. La Principessa non potrà più tornare, suo padre ha scoperto il suo segreto e l'ha incatenata nelle profondità del suo palazzo. Ma ho un dono per te che potrà consolarti: la Principessa mi ha pregata di darti questo pezzo di bambù immortale”.
Han Hsiang Tzu accettò il dono, da cui ricavò un nuovo flauto in grado di suonare una musica ipnotica che ammaliava chiunque l'ascoltasse. Ma ormai aveva perduto interesse per il mondo umano, e conduceva un'esistenza solitaria nelle caverne di inaccessibili montagne.
Quando alla fine grazie alle pratiche taoiste ottenne l'immortalità, continuò a portare con sé quel flauto, la cui musica aveva il potere di sconfiggere gli spiriti maligni e i demoni, ma che non poté ricondurre a lui la Principessa Drago. Ella aveva infatti sottratto l'immortale bambù dalla foresta del bodhisattva Kuan Yin[25], e come punizione fu costretta a servirla per l'eternità[26].

A questo punto, non si può che fare ritorno nel cielo da cui si è partiti, per ritrovarvi lo stesso Dragone, quale segno fondamentale dello zodiaco cinese. L’astrologia cinese, strettamente collegata alla tradizione taoista, si basa su un calendario ciclico lunisolare: uno dei cicli dura dodici anni[27], e ad ogni anno è associato un animale. Il segno dell’anno rappresenta le modalità con cui si viene percepiti dagli altri; in base al mese, giorno e ora si identificano invece i segni interni, segreti, corrispondenti alla reale essenza della persona.
Secondo uno dei miti fondativi dell’astrologia, gli animali zodiacali furono scelti dall’Imperatore di Giada, il sovrano del Cielo, cui corrisponde sulla terra l’Imperatore della Cina, durante una sua discesa sulla Terra. L’animale più bello, il gatto, non si presentò davanti all’Imperatore di Giada, in quanto il topo gli aveva comunicato in maniera volutamente errata il momento della sua venuta (è il motivo dell’inimicizia tra gatti e topi). Così, il Sovrano portò con sé in cielo i dodici animali da cui fu più colpito: topo, bufalo, tigre, coniglio, drago, serpente, cavallo, capra, scimmia, gallo, cane, maiale. Si tratta, come si vede, di animali realmente esistenti, tranne uno, il drago. Significativo esempio di quanto l’immagine del drago sia stata profondamente assimilata dalla cultura cinese.
Anche il fecondo incontro storicamente avvenuto tra le grandi tradizioni spirituali del Buddhismo e del Taoismo è raccontato in chiave simbolica da un mito astrologico: il Buddha, presentendo la propria fine sulla Terra, chiamò a sé tutti gli animali. Solo dodici accorsero (quinto, il drago), e ad ognuno egli assegnò un anno del ciclo lunare. Anche qui il topo dimostrò la sua astuzia, facendo tutto il viaggio sul dorso del bue, che diligentemente era partito molto presto, per poi precederlo alla fine, saltando a terra fresco e riposato, e si prosternò al Buddha per primo. Per questo l’elenco dei dodici segni inizia sempre con il topo[28].





[1]Virgilio, Georgiche, I 244-246.
[2] A causa della precessione degli equinozi fu poi sostituita da Kappa Draconis e successivamente da stelle della costellazione dell’Orsa Minore. Attualmente è Polaris.
[3] In Igino si trova anche un’altra versione del mito, secondo la quale Ladone fu scagliato in cielo da Minerva durante la lotta con i giganti. Cfr Igino, De Astronomia, II.
[4] Il sito divenne la sede dell’oracolo che, dal nome del drago, fu chiamato Pizia.
[5] Fedro, Fabulae, IV 21. In: http://bachecaebookgratis.blogspot.it/2010/10/fedro-tutte-le-favole-ebook.html#.VpJkC_nhC00
[6] Edda di Snorri, Ed. Rusconi, pag. 183-185. La vicenda di Sigurdhr, a noi più noto come Sigfrido, riveste un ruolo centrale nelle mitologie nordiche, e verrà poi ripresa nell’opera di Richard Wagner, l’Anello del Nibelungo (1848-1874), dove Fafnir compare con il nome di Fafner.
[7] J.R.R. Tolkien, Lo Hobbit, o la Riconquista del Tesoro, Ed. Adelphi, pag. 245-246.
[8] D. Beresniak, Il drago, Ed. Mediterranee, pag. 14.
[9] Jacopo da Varagine, Leggenda Aurea, Libreria Editrice Fiorentina, pag. 266-267.
[10] E. Lupieri (a cura di), L’Apocalisse di Giovanni, XII, 1-10, Ed. Mondolibri, pag. 51-53.
[11] Id., XX, 1-3, pag. 87.
[12] Id., XX, 10, pag. 89.
[13] Cfr il Catechismo della Chiesa Cattolica, 391, Libreria Editrice Vaticana, pag. 111: “La Chiesa insegna che all’inizio [Satana] era un angelo buono, creato da Dio”.
[14] Beresniak, pag. 65.
[15] Id., pag. 57-58.
[16] Id., pag. 56. Nel testo si parla di “sciiti”, ma evidentemente si tratta di un refuso, in quanto gli Sciiti costituiscono uno dei rami principali dell’Islam.
[17] È però doveroso quantomeno menzionare il fatto che nell’Alchimia occidentale, che è intimamente legata al Cristianesimo (anche se non a quello “ufficiale”), l’immagine del drago è assolutamente centrale. In un testo è detto: “Costituisce una grande meraviglia e una astuzia straordinaria fare del drago la medicina suprema”. Cit. in Beresniak, pag. 40.
[18] Beresniak, pag. 71.
[19] Id. pag. 73-74.
[20] I King, trad. italiana dalla versione tedesca di R. Wilhelm, Ed. Astrolabio, pag. 69.
[21] Tutte le citazioni sono tratte da: I King, pag. 69-74. Le linee procedono dal basso verso l’alto. Il valore 9 indica la linea intera mobile, che diviene quindi una linea spezzata.
[22] Cfr Beresniak, pag. 72.
[23] Si veda: https://it.wikipedia.org/wiki/Fu_Xi.
[24] È uno degli Otto Immortali del Taoismo popolare, considerato il protettore dei musicisti. Rappresenta l’ideale dell’uomo in totale armonia con il Cosmo.
[25] Come già visto in altre occasioni, si tratta del bodhisattva della Compassione (sanscrito Avalokiteshvara, tibetano Cenresig, giapponese Kannon). Nell’iconografia estremo orientale è spesso raffigurata insieme ad un drago.
[26] Il testo è stato tratto da La Fanciulla Drago e il flauto immortale, in: Kwok Man Ho – J. O’Brien (a cura di), Gli otto immortali del Taoismo, Ed. CDE, pag.89-91.
[27] Un altro ciclo è decennale, e ad ogni coppia di anni è associato un elemento: legno, fuoco, terra, metallo, acqua.
[28] Si veda: https://it.wikipedia.org/wiki/Astrologia_cinese.


venerdì 15 gennaio 2016

Yin e Yang nel T'ai Chi T'u e nell’I Ching


È detto nel Tao te ching (II), il Libro della Via e della Virtù[1], opera del mitico Lao-tzu (VI sec. a.C.):
Tutti nel mondo riconoscono il bello come bello; in questo modo si ammette il brutto.
Tutti riconoscono il bene come bene; in questo modo si ammette il non-bene.
Difatti: l’Essere e il Non-essere si generano l’un l’altro; il difficile e il facile si completano l’un l’altro; il lungo e il corto si formano l’uno dall’altro; l’alto e il basso si invertono l’un l’altro; i suoni e la voce si armonizzano l’un l’altro; il prima e il dopo si seguono l’un l’altro[2].

Niente potrebbe rappresentare visivamente quanto sopra esposto meglio del simbolo denominato T’ai Chi T’u, ormai universalmente conosciuto, e spesso semplicemente chiamato “il Tao”, o “Yin e Yang”:

Il nome T’ai Chi T’u (o Taiji Tu) è traducibile come: “Diagramma del Fondamento Supremo”. Infatti il termine T’ai Chi (che è lo stesso che si ritrova nel nome dell’arte marziale nota come T’ai Chi Ch’uan, o Taiji Quan, dove ch’uan = pugno) “si riferisce originariamente al colmo di un tetto, al tronco orizzontale situato alla sommità del tetto dove si incontrano le due parti inclinate[3]. La trave centrale del tetto, quindi l’elemento veramente “supremo” e “fondamentale” di una casa o di un tempio.
Si ritiene tradizionalmente che il T’ai Chi T’u abbia origini preistoriche, ma è comunque un fatto che un simbolo circolare già nell’antica Cina raffigurasse il cielo nella sua metà superiore e la terra in quella inferiore. Nella sua interezza avrebbe rappresentato l’uomo, che è costituito da luminosità ed oscurità ed è il tramite tra il cielo e la terra.
Nella sua forma più nota – che richiama alla mente i mandala indiani ed analoghi simboli circolari appartenenti ad altre culture – il T’ai Chi T’u è composto da due figure a forma di pesce all’interno di una circonferenza. La figura nera, che rappresenta la condizione di riposo, è detta Grande Yin; l’altra, bianca, il Grande Yang, rappresenta il movimento. All’interno di ogni porzione si trova un cerchio di minori dimensioni, di colore opposto, una sorta di “occhio del pesce”: quello nero è il Piccolo Yin, quello bianco il Piccolo Yang. Questo significa che “ciascuna delle due polarità, lo Yin e lo Yang, contiene entro di sé il suo proprio opposto, da cui origina continuamente in un ciclo uniforme senza fine[4].
Il filosofo Chou Tun-I (1017-1073) scrisse a questo proposito nella sua opera T’ai Chi T’u Shuo (La Spiegazione del Diagramma del Fondamento Supremo):
Il Fondamento Supremo, attraverso il movimento, produce lo yang. Questo movimento, una volta raggiunto il suo limite, produce la quiete. Per mezzo della quiete Esso produce lo yin. Quando la quiete raggiunge il suo limite vi è un ritorno al movimento. Per questo, movimento e quiete divengono alternativamente l’uno la sorgente dell’altro. In questo modo la distinzione fra yin e yang viene a determinarsi rivelando le loro due rispettive forme[5].
Il simbolismo del T’ai Chi T’u è quindi l’espressione visiva della concezione della polarità Yin/Yang più volte citata. In effetti, i due spioventi del tetto, di cui la trave T’ai Chi è il colmo, rimangono alternativamente esposti alla luce e all’ombra, passando gradualmente dall’una all’altra col trascorrere delle ore, dal mattino al mezzogiorno alla sera, rappresentando così l’aspetto yang e quello yin che si scambiano e si trasformano vicendevolmente l’un l’altro. Così come accade per i versanti di una montagna, ora soleggiati, ora all’ombra.
Nella concezione taoista, che il diagramma sintetizza visivamente, yin e yang sono “le due opposte manifestazioni del Tao, [..] che possiedono una valenza universale e trovano applicazione nei fenomeni cosmici come nelle funzioni del corpo umano[6]. Infatti, come già visto per l’India, anche qui vale il principio dell’analogia tra ciò che è in alto e ciò che è in basso, tra il Cosmo e l’Uomo – principio classico nelle culture tradizionali, al di là delle distinzioni tra Occidente e Oriente.
Così, il cielo e i monti sono yang; la terra, le valli, le acque sono yin. Il giorno, un tempo limpido, il maschile, lo spirito, sono yang; la notte, la luna, il tempo tempestoso, il femminile, il corpo, sono yin. E all’interno del corpo, le arterie e l’espirazione sono yang; le vene e l’inspirazione sono yin.
Il movimento è yang, principio attivo, forza creativa; il riposo è yin, il passivo, la forza ricettiva.
Yin e Yang, i “Due Grandi Poteri”, rappresentano quindi per il Taoismo la sostanza originaria nella sua differenziazione, due aspetti inseparabili di un’unica forza, una polarità che non è però una dualità assoluta. “Dal momento che ogni cosa in questo mondo manifesto [..] nasce dal rapporto tra i due estremi polari [..], prima sollecitudine della vita umana è proprio la loro comprensione e la loro conservazione in uno stato di equilibrio e armonia[7].
Non si deve pertanto pensare la relazione tra le due polarità in termini di antagonismo (come ad esempio Male/Bene), bensì di complementarietà, di interazione, di cooperazione, anche se talvolta l’una esclude l’altra (es. luce/tenebre), ma sempre all’interno di una concezione ciclica dell’esistenza. In altre parole, yin e yangsi autodefiniscono a vicenda da un punto di vista formale e strutturale ma si alternano dal punto di vista temporale poiché, quando uno dei due poli raggiunge il massimo, può solo declinare e trasformarsi nell’opposto[8].
Si dice infatti nel Tao te ching (XL): “Il ritorno è il movimento della Via[9].

Il modello yin/yang esprime quindi una visione unitaria del Tutto, fondata sulle due polarità. Polarità non significa però separazione, la quale è invece l’effetto di un pensiero dualista, dicotomico. Ciò che il modello esprime è una tensione costante verso l’equilibrio e l’armonia, che costituisce il fondamento della cultura tradizionale cinese.

È questo un punto centrale del pensiero e della pratica del Taoismo, il quale “riconosce che gli opposti sono necessari alla vita e al reciproco miglioramento ma insegna che tutto è relativo e impermanente. Esso invita a superare le opposizioni, a evitare gli estremi. Propone un pensiero integrato, non-duale, che conduce verso la visione olistica, globale e unitaria della realtà. Verso l’integrazione e non la separazione[10].

L’ideogramma “Tao” (Dao, in giapponese Do), la Via, esprime e chiarisce il pensiero:

Esso è composto da due parti: una, chuò (camminare), raffigura un piede che lascia delle orme:

.L’altra parte, shou (testa), è a sua volta composta da due elementi: (occhio), ovvero ciò che rende riconoscibile un volto, la consapevolezza di sé:

E, sulla sommità, due segni che richiamano delle ciocche di capelli raccolti sul capo, così come erano portati da persone di alto rango:
.
Nell’insieme, il Tao, la Via, “raffigura una persona speciale perché ha una piena consapevolezza di sé (mostra il suo volto) e cammina speditamente sulla strada che ha scelto, lasciando delle tracce per chi intende seguire lo stesso sentiero[11].

Tao è dunque la Via, è metodo, disciplina, dottrina. Ma Tao dal punto di vista metafisico, cosmologico, è Principio generatore e regolatore, sostrato dell’Universo, tuttavia impossibile da definire, da descrivere, da concettualizzare, come è evidente già nei primi versi del Tao te ching (I):
Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao
il nome che può essere nominato non è l’eterno nome
il senza nome è l’inizio del cielo e della terra
il nominato è la madre di tutte le cose[12].

Più oltre, nel capitolo XLII, si legge:

Il Tao produsse l’uno / l’uno produsse il due / il due produsse il tre / e il tre produsse tutti gli esseri[13].

Il che ci conduce a parlare del più antico testo cinese nel quale siano espressi i principi cosmologici che sottostanno al Diagramma del Fondamento Supremo, ovvero il famoso I Ching, il Libro dei Mutamenti.
Si trattava in origine di un testo oracolare, una raccolta di segni utilizzati come oracoli dagli uomini di Stato, che risale ad oltre 3000 anni or sono (già nel 1143 a.C. l’imperatore Wen ne scrisse un commento). Nel tempo acquisì sempre maggiore importanza anche e soprattutto dal punto di vista filosofico-religioso, e divenne oggetto di studi e di commentari da parte dei più grandi maestri di tutte le scuole di pensiero, taoiste e confuciane, a partire da Lao-tzu e Confucio stessi.
Fino ad essere studiato e commentato in tempi recenti (1948) dal più volte citato Carl Gustav Jung, che scrisse la prefazione all’edizione inglese dell’opera[14].
In verità, nell’I Ching non compare il diagramma del T’ai Chi T’u, ma in una appendice, aggiunta al più antico testo base, è detto:
Per questo vi è nei mutamenti il grande inizio primordiale [il T’ai Chi]. Questi genera le due forze fondamentali. Le due forze fondamentali generano le quattro immagini. Le quattro immagini generano gli otto segni[15].
Si tratta dello stesso processo visto nel già citato cap. XLII del Tao te ching: il T’ai Chi genera le due polarità, che saranno poi chiamate yang e yin e che nell’I Ching sono rappresentate da due linee, una intera e una spezzata.
Per raddoppiamento ne nascono le Quattro Immagini (associate alle stagioni) e, con l’aggiunta di una terza linea, gli Otto Segni (trigrammi), associati ad otto “elementi”. Questi non sono concepiti come “cose” definite, ma come “stati” transitori di ciò che accade in cielo e in terra: così, l’interazione tra le energie rappresentate dagli otto trigrammi dà luogo all’intero mondo fenomenico, le Diecimila Cose: gli otto segni si ampliano nei 64 esagrammi (2 x 4 x 8), che nell’I Ching vengono raccolti e affiancati da altrettante “sentenze”, da “immagini” e da dettagliati commentari che interpretano ogni esagramma ed ogni singola linea che lo compone, in base alla loro reciproca relazione, alla posizione all’interno del segno, alle loro qualità ecc.

Mentre i trigrammi rappresentano concetti, condizioni, cose, gli esagrammi introducono “il rapporto e l’interazione tra questi stessi concetti, condizioni e cose, nonché le loro mutue e reciproche reazioni, simboleggiando l’interazione dell’intero mondo manifesto nei suoi poteri di attrazione e repulsione[16].


Come si vede, l’idea fondamentale che sottostà all’I Ching è quella del mutamento, della trasformazione vicendevole delle due forze fondamentali, yin e yang, l’una nell’altra. Il titolo stesso dell’opera rende esplicita tale visione: I (o yi), come aggettivo, indica ciò che è facile, agevole; come nome, esprime il processo del mutamento: “non v’è niente di più facile del mutamento, in quanto esso è inscritto nell’ordine naturale delle cose: un essere vivente non è mai definito o definitivo, ma contiene già in sé il principio della propria trasformazione[17].
Infatti, anche gli esagrammi non sono entità statiche, definitive. Ognuno di essi, attraverso la trasformazione di una linea in quella opposta, può (può, non: deve) mutarsi in un altro, ma in maniera né casuale né deterministica, bensì in base al valore numerico delle linee.
Ad esempio, l’esagramma Kkunn, il Ricettivo, la Terra, il tardo autunno, attraverso il mutamento della linea inferiore, si trasforma nell’esagramma Fu, il Ritorno, il tuono, il moto che inizia nella terra dopo il solstizio invernale, il ritorno della luce:

2 - Kkunnn, il Ricettivo

24 - Fu, il Ritorno
Infine, un’ultima analogia che non può sfuggire alla mente: quella tra l’I Ching e il gioco degli scacchi (che si muovono su una base con 64 riquadri, quanti sono gli esagrammi), nel quale basta spostare un solo pezzo per modifica tutto l’insieme, “bloccando determinate possibilità d’azione ed aprendone altre, indebolendo o rafforzando una tale o una talaltra posizione[18].

In questo contesto, il saggio, il santo, l’illuminato, sarà quindi colui che vive ed opera in totale unità ed armonia con il Tao e con le sue trasformazioni:

Egli risponde ai mutamenti e si piega al movimento del tempo, agendo al momento opportuno e adattandosi alla situazione. Attraverso mille movimenti e diecimila mutamenti, il suo Tao resta uno”.

E poiché “ogni cosa ha radici e rami, gli eventi non finiscono che per ricominciare. Conoscere il buon ordine di successione delle cose equivale ad esser vicini al Tao[19].




[1] Lo si può anche trovare con il titolo Tao te King, Tao-teh Ching, Dao De Jing ecc., a seconda del metodo di translitterazione utilizzato. E la traduzione è altrettanto variabile: il Canone del Tao e del suo Carisma, il Libro del Tao e della Virtù ecc.
[2] J.J.L. Duyvendak (a cura di), Tao te ching, Ed. Adelphi, pag. 31.
[3] Da Liu, Tai Chi Chuan e meditazione, Ed. Ubaldini, pag. 27.
[4] Id., pag. 12.
[5] Cit. in: Da Liu, pag. 13.
[6] Da Liu, pag. 10.
[7] J.C. Cooper, Yin e Yang. L’armonia taoista degli opposti, Ed. Ubaldini, pag. 13.
[8] V. di Ieso, Taoismo in uno sguardo, Ed. Vozza, pag. 20. L’A., Vincenzo di Ieso, è Ecclesiasta Taoista, iniziato nel 1993, 14° generazione, della Scuola Xuan Wu Pai di Wudang, dal G.M. Rev. Wang Guangde con il nome Li Xuan Zong ed il titolo religioso di Chuanfa Huchi, “Discepolo che protegge e diffonde l’Insegnamento Taoista”. Si veda il sito Internet della Chiesa Taoista d’Italia, in: http://www.daoitaly.org/index.html.
[9] Tao te ching, cit., pag.104.
[10] Di Ieso, cit., pag. 21.
[11] Id., pag. 31.
[12] Paolo Siao Sci-Yi (a cura di), Tao Te King, Ed. Laterza, pag. 25.
[13] Tao te ching, cit, pag. 100.
[14] Si veda l’edizione italiana basata sulla versione tedesca del 1923 di R. Wilhelm, in: B. Veneziani e A.G. Ferrara (a cura di), I King, Ed. Astrolabio.
[15] I King, cit., pag. 583.
[16] Cooper, cit., pag. 57.
[17] A. Cheng, Storia del pensiero cinese – Vol. I, Ed. Einaudi, pag. 277.
[18] Id., pag. 283.
[19] Entrambe le citazioni sono tratte da Cheng, cit., pag. 291.