lunedì 23 dicembre 2013

Solstizio d'inverno


   Questi sono i giorni del solstizio d'inverno, durante il quale la luce sembra cedere definitivamente il passo all'oscurità.
   Ma a partire di qui, la luce torna a riprendere il suo posto, fino al successivo solstizio estivo, in un ciclo che pare senza inizio e senza fine...
   Ed allora, come gli antichi che sui colli di Roma festeggiavano il Sole Invitto, anche noi facciamo festa, talvolta senza capire bene perchè.


   Al solstizio d'inverno il maestro Dogen Zenji (1200-1253) dedicò questi versi:


Ieri era corto, oggi lungo.
Realizzo finalmente che il dharma del buddhismo non può essere nè compreso nè pensato.
Anche se ogni considerazione prende fine, anche conoscendo tutto, come progredire?
Ovunque incontri gli altri, gli auguro : Buon anno.

   Molti secoli dopo, mentre noi scrutiamo il cielo cercando di carpirne chissà quali segreti con strane macchine, alcuni continuano a vederlo con gli occhi dello spirito, e cantano nuovi versi, come Maresa Myogen, monaca zen e cara amica:


La luna della metà d'autunno 
cede il passo al talento dell'inverno
che fa correre il mondo.
Solstizio d'inverno.








mercoledì 11 dicembre 2013

I 12 anelli: 7 - La sensazione

VII – Vedana, la sensazione

Se il sesto anello, (phassa, il contatto) è lo stimolo, il settimo (vedana, la sensazione) ne è la risposta.
Si dice nei testi: “Condizionata dal contatto, ha origine la sensazione”, la quale nel bhavachakra è rappresentata talvolta da un uomo con una freccia conficcata in un occhio.
La sensazione è un elemento di estrema importanza nella pratica della Via, in quanto su di essa si può operare, attraverso la prassi meditativa, per interrompere il processo del sorgere dipendente.
Afferma il Buddha: “A colui che prova la sensazione, io mostro la via per comprendere cosa sia la sofferenza, la sua origine, la sua cessazione e il sentiero che conduce alla cessazione”, ovvero le quattro Nobili Verità.
Come nel caso delle basi sensoriali e delle tipologie del contatto, ugualmente vi sono sei tipi di sensazioni: visiva, uditiva ecc.

Ed ognuna di esse può essere piacevole, spiacevole o neutra. La reazione piacevole, spiacevole o neutra – definibile in italiano come “sentimento”, distinto dalla sensazione intesa come semplice registrazione dell’informazione – è determinata da tutta la serie dei fattori mentali preesistenti, i sankhara (samskara, il secondo anello). Infatti uno stesso oggetto può determinare una sensazione-sentimento piacevole per una persona, spiacevole per un’altra, indifferente per una terza. Oppure, la reazione da parte di una stessa persona può essere di piacere, di dispiacere oppure neutra a seconda del contesto, o del momento in cui insorge
Ciò che ne consegue sarà una reazione di attaccamento, o di rifiuto, o di indifferenza.
Si è detto sopra che la sensazione è un elemento fondamentale nel cammino sulla Via della liberazione dalla sofferenza. Dice il Buddha: “Se un praticante si impegna e non trascura di praticare la presenza mentale e la chiara comprensione, penetrerà la natura di tutte le sensazioni. E avendo fatto ciò, in questa stessa vita, sarà libero da tutte le influenze negative, da tutte le contaminazioni”.
E si dice anche nei testi: “La sensazione piacevole dovrebbe essere giudicata dolorosa; la sensazione spiacevole dovrebbe essere vista come una freccia; la sensazione neutra dovrebbe essere giudicata impermanente”.
Si tratta, come evidente, di un lavoro di auto-osservazione, da svolgere sia durante la pratica formale sia nella quotidianità: osservare le sensazioni che si sviluppano costantemente, naturalmente, nel corpo, rilevandone le fasi (nascita, durata, fine), prestando grande attenzione all’aspetto fisico della sensazione e intervenendo consapevolmente nel momento in cui si sviluppa la reazione, mantenendo un atteggiamento di equanimità in luogo di re-agire come ordinariamente avviene.
Facendo attenzione all’aspetto fisico della sensazione, possiamo vedere come essa nasca e come subito dopo sparisca. Se non le stiamo dietro, reagendo, essa svanirà così come è venuta” (M.A. Falà).
Viene così anche sperimentata direttamente, intimamente, la veridicità dell’insegnamento dell’impermanenza.
Anche un Risvegliato continua a provare sensazioni piacevoli, spiacevoli e neutre, come tutti. Ma egli non è più turbato dalle proprie sensazioni: ad esempio il dolore che prova è solo di natura corporale, ed esso non provoca in lui avversione.
La sensazione perde quel carattere di appartenenza che ordinariamente le si attribuisce, il carattere di “mio”, la “mia” sensazione, la “mia” sofferenza, il “mio” piacere… Essa rivela così la sua natura impermanente, non-sostanziale, non personale.
In tal senso, il corpo si dimostra fondamentale nella pratica (la meditazione in quanto unità di corpo e mente nell’istante presente): il corpo è il campo privilegiato per l’osservazione dei processi grossolani o sottili che si svolgono in noi, e per la verifica diretta della veridicità dell’impermanenza e della non-sostanzialità dei fenomeni.

Testi

Cornu Dizionario del Buddhismo Ed. Bruno Mondadori
Falà Salayatana, gli organi sensoriali in: Paramita n. 36
Falà Phassa, il contatto in: Paramita n. 37
Falà Vedana, la sensazione in: Paramita n. 38
Johansson La psicologia dinamica del buddhismo antico Ed. Ubaldini

mercoledì 27 novembre 2013

I 12 anelli: 5 - Le sei basi sensoriali; 6 - Il contatto

V – Salayatana, le sei basi sensoriali

Il quinto anello delle catena del sorgere dipendente, visivamente reso nel bhavachakra da una casa con sei aperture, è costituito dalle sei basi sensoriali (salayatana: sal = sei; ayatana = base). Si tratta dei cinque organi di senso fisici (occhio, orecchio, naso, lingua, tatto) e della sesta base, la base mentale, che a sua volta racchiude in sé i cinque tipi di conoscenza sensibile (visiva, uditiva ecc.), l’elemento mentale e l’elemento della coscienza mentale.
A partire da questo anello viene pertanto preso in esame nel dettaglio il processo della percezione-creazione del mondo esterno, processo che, condizionato dall’ignoranza e dai successivi elementi del sorgere dipendente, ci porta costantemente a percorrere e ripercorrere la via della non-comprensione della realtà così come essa è.
Le sei basi sono condizionate dal (ovvero posso esistere soltanto sulla base del) complesso psicofisico (namarupa, corpo-e-mente, il quarto anello) secondo questo schema:
- nama (il nome, ovvero i quattro aggregati mentali: sensazione, percezione, tendenze mentali, coscienza) è condizione dei gruppi mentali delle sei basi;
- rupa (la forma, il corpo) è condizione delle sedi fisiche della coscienza: occhio, orecchio, naso, lingua, tatto.
Alla nascita dell’individuo, le sei basi sono già presenti, e si affinano poi nel corso dell’esistenza, con un processo graduale che prosegue con il loro decadimento e la loro estinzione.

Le sei basi sensoriali

Le aperture nella casa di cui all’immagine del bhavachakra sono quindi le finestre che ci mettono in contatto con l’esterno, e la porta (il mentale) che, se non è ben custodita, lascia entrare chiunque, impedendo una corretta conoscenza.
Il meccanismo della percezione condizionato dall’ignoranza ha come conseguenza la genesi di una serie di “legami”, specificamente elencati negli insegnamenti buddhisti, quali ad esempio il credere che esista una personalità con un sé autonomo, il dubitare dell’efficacia della pratica, l’avversare ciò che è percepito come sgradevole, il ritenere duraturo ciò che è impermanente ecc., generando così sofferenza.
Si può proporre un esempio sulle modalità secondo cui si svolge il processo, che è in realtà una serie di processi in rapida successione. Si esamini ad esempio il processo della visione, così come descritto negli antichi insegnamenti buddhisti: un oggetto visibile entra nel campo visivo, agisce sull’occhio, organo di senso in grado di recepire lo stimolo luminoso, e condiziona un’eccitazione del flusso subconscio. L’elemento mentale “afferra” l’oggetto e “avverte” la mente. Sorge allora, così condizionata, la coscienza visiva, che compie l’azione del vedere. L’elemento mentale “riceve” quindi l’oggetto della visione, indaga sull’oggetto e lo associa alle varie classi di coscienza. Quindi, ciò che qui è importante, prima sorge la coscienza sensibile, e dopo la coscienza mentale. Non è dunque l’occhio che vede, bensì la mente, come è confermato dalla moderna fisiologia.
La coscienza mentale non sorge da un organo di senso, ma dalla coscienza sensibile che deriva dal contatto tra organo di senso ed oggetto.

Gli insegnamenti buddhisti non si occupano in modo particolarmente dettagliato dei meccanismi fisiologici della percezione (ad esempio lo studio dell’occhio o degli altri organi di senso), quanto piuttosto dei meccanismi mentali dei processi cognitivi, dell’aspetto cosciente della percezione, pur non mettendo affatto in discussione l’esistenza di un mondo oggettivo.
Dire, come alcune scuole facevano, che il mondo non esiste, è considerato dal Buddha una “concezione errata”. Ma ciò che interessa è che il mondo è “in questo profondissimo corpo, dotato di percezione e di senso interno”.
Il cammino del sentiero buddhista porta quindi a diventare “un conoscitore del mondo”, per poter diventare indipendenti da esso, apprendendo quella che è chiamata “la fine del mondo”, ovvero la cessazione della sofferenza (la quarta Nobile Verità).
È detto nei testi che un Risvegliato “cresce nel mondo, si solleva al di sopra del mondo e sta, non contaminato dal mondo – proprio come il loto cresce nell’acqua, si solleva al di sopra dell’acqua e sta, non contaminato da essa”.



VI – Phassa, il contatto

Phassa (in sanscrito sparsha), il contatto, è il sesto anello della catena dell’originazione dipendente. Il contatto non è ancora ciò che viene chiamata “sensazione”, è invece l’incontro tra tre elementi: la base sensoriale (ciò che si è visto nel quinto anello, salayatana), l’oggetto (la forma) e la coscienza che ne trae origine. Ad esempio, l’incontro tra l’occhio, una forma visibile e la coscienza visiva – oppure tra l’apparato uditivo, una vibrazione dell’aria o di un altro conduttore con la qualità dell’elasticità, e la coscienza uditiva, ecc.
La stessa cosa avviene per quanto concerne l’incontro tra la base mentale, l’oggetto mentale (idee, immagini mentali, fantasie…) e la coscienza mentale.
Dall’incontro dei tre elementi nasce il contatto, dal contatto nasce quindi la sensazione (vedana, il settimo anello).
Il che corrisponde allo schema del processo di percezione della realtà secondo la psicologia occidentale:


1. Stimolo esterno
2. Stimolazione (all’interno dell’organo di senso, non ancora cosciente)
3. Sensazione (esperienza cosciente, ma indifferenziata: luce, rumore, odore…)
4. Percezione (identificazione dell’informazione)
5. Sentimento (valutazione da parte dell’individuo).



Il contatto
Phassa può forse corrispondere al punto 3, sensazione. È lo stimolo che origina ogni tipo di attività mentale, ed è altresì inevitabile, in quanto il mondo (interno ed esterno) è pieno di fenomeni: immagini, suoni, odori, sapori, oggetti, pensieri…
In effetti, nel buddhismo l’elemento “phassa” non è chiarito in maniera del tutto esplicita, ed è stato oggetto di dibattiti tra gli esponenti delle varie scuole e tradizioni.
Soprattutto, non è chiaro se si tratta già di una esperienza sensoriale cosciente, seppure indifferenziata, oppure se è semplicemente la compresenza dei tre fattori nello stesso istante. Come disse un maestro buddhista, “il contatto non esiste. Il contatto è solo un nome che sta per la stretta vicinanza” dei tre fattori. D’altra parte, dal punto di vista buddhista i fenomeni non sono considerati oggetti, aventi realtà propria, bensì processi impermanenti, interdipendenti, vuoti, ovvero privi di esistenza intrinseca.

Ciò che qui è importante è che il processo che chiamiamo phassa, contatto, è quello che ci mette in relazione col mondo, che ci lega alla realtà esterna coinvolgendoci nel ciclo della produzione condizionata, della sofferenza ciclica. È scritto in un testo: “Ovunque sorga dolore, tutto questo è in conseguenza delle sensazioni”. Conoscere il processo contatto-sensazione, ri-conoscerlo, significa compiere un passo importante nella direzione della liberazione.
Non a caso, talvolta negli insegnamenti antichi la serie del paticcasamuppada inizia proprio da phassa, per mostrare come esso sia un punto fondamentale su cui lavorare per comprendere il processo del sorgere dipendente e per potersene affrancare.

Si legge in un testo:

Per coloro che sono corrotti dal contatto, che sono entrati nel flusso dell’esistenza, che nella cattiva strada sono entrati, è ben lontana la distruzione dei vincoli. Ma coloro che, avendo pienamente compreso il contatto, si deliziano nella sua interruzione, costoro invero, chiaramente intendendo il contatto, sono totalmente estinti”.


Testi

Cornu Dizionario del Buddhismo Ed. Bruno Mondadori
Falà Namarupa, il nome e la forma in: Paramita n. 35
Falà Salayatana, gli organi sensoriali in: Paramita n. 36
Falà Phassa, il contatto in: Paramita n. 37
Johansson La psicologia dinamica del buddhismo antico Ed. Ubaldini

venerdì 22 novembre 2013

Zazen a Genova

Sabato 30 novembre 2013, ore 15
a Genova, in Via Multedo di Pegli 25/C
presso l'A.S.D. Hakko Den Shin Ryu Jujutsu
pomeriggio di introduzione allo Zen Soto e pratica di zazen
con Emanuela Dosan Losi






martedì 12 novembre 2013

I 12 anelli: 3 - La coscienza; 4 - Nome-e-forma

III - Vijnana, la coscienza

In un sutra, si dice che un monaco, di nome Sati, andasse ripetendo che la coscienza è ciò che rinasce e trasmigra, che non vi è differenza tra coscienza e rinascita. Il Buddha, avendolo saputo, gli chiese che cosa fosse la coscienza, e Sati rispose: “è ciò che parla, è ciò che sente, che sperimenta le conseguenze delle azioni”. Il Buddha allora gli spiegò che la sua era una errata interpretazione del suo insegnamento, in quanto la coscienza non è indipendente, essa sorge da cause e condizioni, ed è conosciuta da tali cause e condizioni: se proviene dall’occhio e dipende dalle forme visibili, è conosciuta come coscienza visiva, e così via, fino alla coscienza che proviene dalla mente e dipende dai fenomeni della mente, ed è conosciuta come coscienza del pensiero.
Vi sono quindi cinque classi di coscienza sensibile (visiva, uditiva, olfattiva, gustativa, tattile), più la coscienza mentale, che discerne i contenuti della mente.
Quindi, contrariamente a quanto sosteneva Sati, la coscienza non permane dopo la morte per poi rinascere: infatti essa è soggetta a cause e condizioni e pertanto impermanente, condizionata, priva di esistenza intrinseca.
Essa è comunque un agente che opera nel processo di rinascita.
La coscienza (in sanscrito vijnana, in pali vinnana) è il terzo anello del processo del sorgere dipendente (nel bhavachakra è rappresentata da una scimmia che salta da un ramo all’altro): il suo sorgere è condizionato dalle tendenze mentali (samskara, il II anello) che hanno base nell’ignoranza (avidya, il I anello), nella non conoscenza di come opera la mente, di quale sia la sua autentica natura.
La coscienza è un flusso costante di pensieri, pensieri coscienti, ed è anche ogni singolo atto cosciente.
Poiché i processi coscienti sono una delle forme delle attività creative della mente, essi sono condizionati dalle tendenze mentali, i samskara. La coscienza è un prodotto delle azioni compiute nel passato, le quali sono viste come dei semi che avranno nel futuro il loro sviluppo, la loro germinazione. Infatti essa costituisce nella visione buddhista il centro personale responsabile della continuità, nell’ambito di questa vita e di quelle precedenti e successive.
Personale, in quanto il flusso di coscienza è personale e la rinascita è un processo di carattere personale. Fermo restando che non è la persona che rinasce. Il vijnana, la coscienza, non sopravvive alla morte per poi rinascere: il rapporto che lega il vijnana precedente al successivo e un po’ come quello che intercorre tra un “oggetto” e la sua immagine in uno specchio, in cui il nuovo istante di coscienza rispecchia l’ultimo istante di coscienza precedente. Per questo, nel buddhismo viene attribuita una grande importanza ai processi di coscienza di coloro che stanno per morire.

Diventa quindi del tutto comprensibile quanto affermano gli insegnamenti buddhisti sul “purificare la mente” (dove il termine “purificazione” non deve essere inteso solo in senso etico, ma è relativo piuttosto alle qualità di luminosità della mente), purificare la coscienza.
È detto: “Un monaco [o un praticante laico, fenomeno più recente nel buddhismo] deve indagare in modo che, mentre indaga, la sua coscienza di ciò che è esterno rimanga imperturbata, non dispersa, e quella di ciò che è interno non venga instaurata, cosicché non possa essere turbata dall’afferramento”.
Ed anche: “Una volta che l’ignoranza e l’attaccamento sono estinti, né sono più prodotte formazioni karmiche meritorie o non meritorie o indifferenti, allora non rinascerà più la coscienza in un nuovo grembo materno”.
Il metodo consiste nel rendere quieto il vijnana, libero da ogni interesse per ciò che è esterno. La coscienza si purifica, i processi mentali si acquietano, c’è unità, non-differenziazione, c’è vacuità, non-dipendenza.
Poiché il processo che chiamiamo “coscienza” è dinamico, in continua trasformazione, esso può intraprendere cammini opposti tra loro: diventare sempre più dipendente dall’esterno, dagli innumerevoli stimoli del mondo, dai ricordi, dai contenuti mentali – oppure rendersene sempre più indipendente, raggiungere una maggior chiarezza, una più profonda comprensione, una più ampia libertà, sottraendo “combustibile” a ciò che alimenta il ciclo delle rinascite, il samsara, l’incessante produzione di sofferenza.

A proposito dell’importanza della chiarezza della coscienza, Lama Yeshe, grande maestro del buddhismo tibetano, diceva: “Dobbiamo esercitarci per non essere coinvolti da nessuno dei pensieri che di continuo si manifestano nella mente [..]. Perché è così importante contemplare la chiarezza della nostra coscienza? Perché l’origine di ogni felicità e sofferenza [..] è la mente. All’interno di essa dimora la nostra abituale idea erronea – il nostro ignorante e ansioso attaccamento all’ego – che si aggrappa ciecamente all’allucinazione di una concreta esistenza a sè stante come se fosse la realtà [..]. Così più contempliamo la chiarezza della nostra coscienza, meno ci aggrappiamo all’apparente concreta realtà dei fenomeni e meno soffriamo [..]. Osservando l’andirivieni dei pensieri [..] osserviamo il sorgere e il dimorare di immagini apparentemente concrete, che poi si riassorbono nella chiara natura della mente [..]. Anche quando sorgeranno pensieri ed emozioni estremamente distruttivi, come la rabbia e la gelosia, riusciremo a non perdere il contatto con la fondamentale purezza della nostra mente”.
Allora, come diceva il Buddha, “terra, acqua, fuoco e vento non ottengono più un punto di appoggio, qui lungo e corto, sottile e grossolano, puro e impuro, nome e forma cessano tutti senza lasciare traccia”.

IV – Namarupa, il nome e la forma
Quando la coscienza (il III anello), spinta dalle formazioni mentali (le formazioni karmiche, il II anello) e dall’ignoranza (il I), scende nel grembo materno, si dà un ambito fisico, la forma (in sanscrito rupa) ed uno psichico (nama, il nome). È il IV anello del pratitya samutpada, nel quale è raffigurata una barca con due o più persone a bordo, e che è appunto chiamato namarupa, nome-e-forma, ovvero l’individuo nella sua interezza psicofisica.
Coscienza e namarupa sono strettamente collegati. Si legge nei sutra: “Proprio come due fasci di canne stanno in piedi sostenendosi l’un l’altro, così la coscienza dipende da nome-e-forma, e nome-e-forma dipende dalla coscienza”. Se uno dei due viene meno, l’altro cade a terra: con la cessazione di nome-e-forma cessa la coscienza, e viceversa.
Ugualmente interdipendenti sono tra loro i due elementi, il nome e la forma, che costituiscono quell’unità psicofisica chiamata “individuo”, sottostante la quale non vi è un io o un’anima.
Rupa, la forma

Rupa, la forma, il corpo, è l’aspetto più direttamente percepito dai sensi, anche se in realtà non è poi così ben conosciuto: apparentemente possiamo controllare il nostro corpo (le mani, le gambe, gli occhi…), ma moltissimi organi funzionano al di fuori del nostro controllo volontario, ad esempio gli organi interni. Inoltre non conosciamo direttamente nulla di quanto avviene ai livelli più sottili, ad esempio all’interno delle cellule che compongono il corpo.
Ma la materia ha anche dimensioni di gran lunga più piccole: le molecole, gli atomi, le particelle subatomiche.
Ciò che in apparenza è qualcosa di solido, in realtà è un insieme di parti circondate da spazi vuoti, un composto di particelle non percepibili e a loro volta prive di reale solidità, in continua nascita e sparizione, vibrazioni al confine tra massa ed energia.
Ogni elemento che appare come realtà a se stante è invece un flusso dinamico di parti, a loro volta composte…
Quel corpo che chiamiamo “me stesso” è quindi un aggregato di parti, che si compongono in maniera condizionata dal karma, dalla coscienza, dal nutrimento, dal calore. Questo secondo la visione buddhista, che rivela sorprendenti affinità con le più recenti acquisizioni delle scienze moderne, in particolare della fisica da Einstein in poi. Tale visione è ovviamente il frutto non di esperimenti di laboratorio o di calcoli matematici, bensì di pratiche meditative che risalgono ad oltre duemila anni fa, e più ancora, se dal mondo buddhista ci si volge anche alle antiche tradizioni all’interno delle quali il buddhismo ebbe origine (ad es. lo Yoga).
Una riflessione sul corpo condotta da questo punto di vista, ovvero la meditazione su una realtà composta, impermanente, interdipendente, può anche aiutarci a superare problematiche mentali e comportamentali legate al corpo stesso, ad aprirci agli altri senza essere costantemente condizionati dagli aspetti esteriori e dai pregiudizi, ad accettare con maggior distacco e minor sofferenza gli inevitabili eventi di un fenomeno – il corpo, appunto – che, avendo un’origine, conoscerà inevitabilmente malattia, vecchiaia e morte.

Nama, il nome
L’elemento nama, il “nome”, ovvero i processi psichici, assicura insieme alla forma, rupa, una base per la coscienza. Ma nama è altresì una differenziazione della coscienza stessa, ed infatti troveremo la coscienza come uno dei fattori costituenti l’elemento nama.

Nel sutra sulle quattro Nobili Verità, il Buddha dice che “la nascita è dolore”, quindi cita la malattia, la vecchiaia ecc. per poi concludere la prima Verità affermando che “i cinque aggregati dell’attaccamento sono dolore”.
I cinque aggregati (in sanscrito panca skandha, in pali panca khandha, ovvero i 5 mucchi) sono proprio quelli che costituiscono nama-rupa, l’individuo, quel fenomeno psicofisico che chiamiamo “persona”. Il primo aggregato, già visto, è l’aggregato della forma (rupa, il corpo, i fenomeni fisici), gli altri sono i quattro aggregati dei fenomeni mentali (nama), i quali a loro volta sono processi psichici (e non oggetti), anch’essi composti, impermanenti, privi di sostanza propria, altrettanto poco conosciuti e poco controllabili quanto i processi fisici (soprattutto i processi mentali inconsci, che paiono essere del tutto al di là del nostro controllo).

Sono:

- le sensazioni, con i tre tipi di esperienze sensibili: piacevoli, spiacevoli, neutre;
- le percezioni, ovvero il riconoscimento, l’identificazione dei contenuti delle esperienze;
- le formazioni della volizione (i samskara, già incontrati nello studio del II anello del pratitya samutpada), cioè le reazioni della mente alle sensazioni e alle percezioni. Ad es., a seguito di una sensazione (vedo una forma con certe caratteristiche, colori ecc.), che diventa spiacevole nel momento del riconoscimento (identifico la forma come una persona che considero un nemico), nella mente sorge il desiderio di allontanarmi. Si tratta in definitiva di tutti quegli schemi di pensieri, di quegli automatismi mentali, di quelle abitudini ecc. che condizionano le nostre azioni presenti e future;
- la coscienza (già incontrata nel III anello), che riunisce le informazioni provenienti dagli altri aggregati. Essa si pone sempre in una posizione dualistica, distinguendo tra il soggetto cognitore dell’esperienza e l’oggetto. A seconda della natura dell’oggetto, la coscienza si manifesta come coscienza della vista, dell’udito, dell’olfatto, del gusto, del tatto e della mente.
Dal punto di vista buddhista, l’individuo è quindi namarupa, ovvero una unione di elementi fisici e psichici, che sorgono condizionati dalla coscienza (il “sorgere dipendente”!), correlati tra loro in un processo dinamico senza soluzione di continuità. Non una “persona”, dunque, ma un flusso in costante divenire.
A partire di qui, negli anelli successivi verrà preso in considerazione il processo di percezione (di “costruzione”) del mondo esterno, processo già condizionato dall’ignoranza e quindi causa di sofferenza.


Testi
Cornu Dizionario del Buddhismo Ed. Bruno Mondadori
Falà Avijja, l’ignoranza in: Paramita n. 32
Falà Sankhara, le tendenze mentali in: Paramita n. 33
Falà Vinnana, la coscienza in: Paramita n. 34
Falà Namarupa, il nome e la forma in: Paramita n. 35
Johansson La psicologia dinamica del buddhismo antico Ed. Ubaldini

m. Mauro TonKo , novembre 2013

mercoledì 6 novembre 2013

La Via del Suiseki, la pietra in acqua

A tutti è nota l’arte orientale del bonsai, cioè della coltura di alberi “in miniatura”. Forse meno conosciuta è invece l’arte del Suiseki, ovvero della ricerca, della presentazione e della contemplazione di pietre modellate dagli eventi naturali, l’acqua, il vento. Una vera e propria Via spirituale, il "Suiseki do".



Qui di seguito, si propone un breve testo sul suiseki scritto da Luciana Queirolo, genovese, profonda conoscitrice e praticante di quest'arte. è interessante osservare, come dice Queirlo nel testo, che la Liguria è una delle regioni nelle quali si possono reperire pietre altrettanto significative di quelle cinesi e giapponesi.

Nelle fotografie si possono invece ammirare dei bellissimi esempi di suiseki esposti nello stand curato da Sergio Biagi (che qui ringrazio) nel padiglione "E" del recente Festival dell’Oriente di Carrara (31/10-3/11/2013).




Scrive Luciana Queirolo:

“La passione per un’arte può durare una vita: se è vera arte, in grado di rinnovarsi e se noi manteniamo costante l'entusiasmo con cui ci addentriamo in essa.
Cosa è un SUISEKI? UNA PIETRA, certo, ma naturalmente, non OGNI PIETRA.
Quando raccogliamo una pietra e ne intravediamo le potenzialità: la forma ed il suo equilibrio, la texture ed il colore, la sua primordiale carica espressiva, sentiamo di aver raccolto un dono prezioso; di avere tra le mani una stupefacente opera d'arte naturale ...un ARA-ISHI che, accuratamente pulito e curato nello Joseki, sistemato in una base adeguata, potrà poi divenire Suiseki.

Può diventare Suiseki solo una pietra ASSOLUTAMENTE naturale, la cui forma non sia stata elaborata dalla mano dell'uomo, ma frutto del lento scorrere del tempo e degli elementi in natura. Forme evocative, attraverso le quali il nostro immaginario rivive momenti, luoghi.... Pietre paesaggio, montagne, laghi, scenari costieri oppure, comunque, forme strettamente legate alla natura: pietre capanna, ad esempio, o pietre barca evocano l'ambiente dove vive il pescatore; forme umane o figure ad immagine religiosa (una figura di Kannon oppure un Arhat), figure animali etc. ...

Il collezionista darà ad ogni sua pietra raccolta e accuratamente preparata e "coltivata" un nome poetico esprimente l'emozione che la pietra ispira ed in cui ogni osservatore dovrebbe potersi riconoscere: un sentimento universale, uno stato d'animo, una stagione, un credo... ognuno richiamerà poi in se stesso ed identificherà, nell'immagine evocata, ricordi personali.



E' importante approfondire la conoscenza della tradizione di quest'arte ed al tempo stesso conoscere l'origine geologica e la storia delle pietre che amiamo.

L'arte del Suiseki è di antichissima tradizione orientale, ma l'amore per la pietra e per le forme suggestive che può assumere in natura ne ha favorito la diffusione, negli ultimi 50 anni, in tutto il mondo, se pur con visioni diverse a seconda della cultura e del paesaggio ambientale proprio di ogni popolo e nazione.
Si hanno testimonianze circa l'Arte dell'apprezzamento per l'Osservazione delle Pietre, in Cina, a partire dalla dinastia Tang (618-907 d.C.) durante la quale vi era il detto che un giardino non può essere bello senza tali pietre, e che uno studio mancava di eleganza senza Gongshi (classificazione tradizionale cinese).
Dalla Cina furono introdotte in Giappone e Corea attorno al 600 come omaggi a reggenti e sovrani.
Il nome giapponese di SUISEKI dato alle Pietre da Contemplazione, è una abbreviazione del più antico: SAN SUI JO KEI SEKI, che letteralmente significa: PIETRE RAPPRESENTANTI SCENE SUGGESTIVE DI PIETRA ED ACQUA. 
Il termine contratto Sui-Seki si incontra per la prima volta in una rivista di giardinaggio "Bonsai gao", testo scritto nel 13° anno dell' epoca Meiji (1868-1921).


Una pietra è adatta a diventare Suiseki quando convenientemente esposta entro un suiban (vassoio in gres o ceramica) o in un doban (vassoio in bronzo), oppure posizionata su di un supporto in legno (daiza) appositamente inciso per contenerne la base.
Secondo la scuola giapponese tradizionale, è meglio posizionare la pietra nel suiban. Si tratta di un modo più concettuale che si riferisce al karesansui, (Giardino di pietra e sabbia) ed al modo tradizionale di esporre, secondo i maestri della cerimonia del tè.
Posizionare un suiseki nel suiban crea lo spazio attorno alla pietra: il vuoto, che è elemento chiave nell'esposizione.

Il Suiseki è un'arte più contemplativa che pratica e anche se la ricerca, la pulitura della pietra, la costruzione del daiza sono un modo di praticare e di essere assieme alle nostre pietre, tutto questo rappresenta il lato "fisico" del Suiseki.

Del fare "Suiseki do" (il "percorso della pietra"), questo è solo l'inizio. 
L'arte del Suiseki è Arte Universale in grado di smuovere le emozioni personali di chi le osserva, al di fuori di presupposti orientali od occidentali: la sensibilità dell'uomo verso la pietra viene da molto più lontano che dagli argomenti addotti dalla tradizione: forse dalle radici della vita stessa.



L'Italia, la Toscana e la Liguria in particolare, hanno raggiunto notevoli livelli di notorietà grazie alle significative pietre che ivi si possono reperire, così simili, nel materiale e nelle forme, alle famose pietre calcaree giapponesi e cinesi.
Le nostre pietre, siano esse considerate Suiseki o Gongshi, Shangshi, Quishi, Suseok, Viewing Stones.... dopo di noi, verranno ammirate per centinaia di anni ancora.
Forse, accanto a loro, ci sarà qualcuno a noi legato da tenaci legami di sangue, oppure straniero all'altro capo dell'universo. Guardando quelle pietre, egli proverà la nostra stessa emozione e sentirà, sotto la sua carezza, le mille e mille carezze di chi le ha possedute prima di lui.”


Per saperne di più:

Covello - Yoshimura   L'arte del suiseki    Ed. SNEV

e per vedere di più:

lunedì 4 novembre 2013

I 12 anelli della produzione condizionata: 1 - L'ignoranza; 2 - Le formazioni karmiche

I - Avidya, l’ignoranza

Il buddhismo non nega né afferma l’esistenza di uno o più dèi, ma negli insegnamenti non viene comunque accettata l’esistenza di un creatore dell’universo, di un “motore immobile” (anche se tale negazione non ha assolutamente il valore di un dogma, non essendovi dogmi nelle tradizioni buddhiste, ma solo insegnamenti da sottoporre costantemente al vaglio della propria personale esperienza). Il Buddha storico, Siddhartha Gautama Shakyamuni, ha parlato solo di cause e condizioni: ogni cosa, ogni fenomeno (fisico e/o mentale), ha la sua origine, e la sua fine, in dipendenza da cause e condizioni.
Dal punto di vista buddhista non si può quindi parlare di una “causa prima” della sofferenza o di qualsiasi altro fenomeno. Cercarla non serve al cammino degli esseri sulla Via della liberazione dal dolore (ciò che il buddhismo in effetti è), anzi può diventare un ostacolo. 
Per questo nel bhavachakra i 12 anelli (nidana) dell’originazione dipendente (o sorgere dipendente, o produzione condizionata) sono rappresentati come un cerchio, i cui elementi si susseguono l’uno all’altro, ed in cui nessun punto è il “primo”, ma ognuno è effetto dei precedenti e causa del successivi. L’intero processo è all’origine della sofferenza del samsara, cioè degli stati di esistenza condizionati dall’ignoranza e dal karma che ne consegue, e quindi impregnati di sofferenza e frustrazione più o meno intense. 
Gli insegnamenti sulla produzione condizionata, come tutti gli insegnamenti buddhisti, hanno una funzione pratica: mostrare la via verso la liberazione, la guarigione dalle sofferenze, in un percorso che passa attraverso la comprensione (non soltanto intellettuale, razionale, ma soprattutto fondata sulla personale esperienza concreta) del processo che sta all’origine della sofferenza stessa, la comprensione della realtà così come è. 
Fermo restando l’assunto secondo cui non esiste per il buddhismo un principio primo, causale ma incausato, del processo del sorgere dipendente, lo studio inizia tradizionalmente dall’anello che rappresenta l’ignoranza, per poi proseguire in senso orario (talvolta si inizia invece dall’anello precedente, vecchiaia-e-morte, e si continua in senso inverso). 
Nel bhavachakra l’ignoranza è simboleggiata dall’immagine di una persona cieca, che cammina con un bastone sull’orlo di un baratro. Infatti “ignoranza” traduce, in maniera non del tutto esaustiva, il termine sanscrito avidya, ovvero assenza (a-) di conoscenza (vidya, da cui video, vedere ecc.). Ignoranza non è mancanza di cultura, di sapere teorico, di studi. È la non-comprensione, che porta ad avere visioni sbagliate: considerare permanente ciò che è impermanente; piacevole ciò che è doloroso; separato ciò che è da sempre in indissolubile unità; indipendente, di per sé esistente, ciò che è condizionato, privo di esistenza intrinseca. Ignoranza è quindi illusione, confusione, non conoscenza dell’autentica natura di sé e dei fenomeni. 
È la non-comprensione delle caratteristiche fondamentali dei fenomeni, il loro essere: 
- impermanenti (anitya
- privi di esistenza propria (anatman
- insoddisfacenti (duhkha). 
Sono tre dei quattro cosiddetti “sigilli” del Dharma, i quattro princìpi fondamentali a cui aderiscono tutte le scuole del buddhismo, laddove il quarto è il nirvana, l’estinzione della sofferenza. 
Nei testi del Canone, l’ignoranza è definita anche come la non-comprensione delle Quattro Nobili Verità: “L’ignoranza concerne il dolore, la sua origine, la sua cessazione e la via che conduce alla cessazione”. 
L’uomo nasce nel mondo privo della comprensione, confuso, e per questo segue incessantemente i propri impulsi, vive preda degli stimoli che provengono dall’ambiente, ad esempio è troppo aggressivo per provare interesse verso una Via di evoluzione spirituale, o troppo pigro per seguirla con costanza ed impegno. Credendo di manifestare la propria libertà, non fa che seguire inconsapevolmente i dettami del proprio ego condizionato, e crea così le cause della propria stessa sofferenza. 
In un antico testo del Canone, il Dhammapada (“Il Cammino del Dharma”), vengono riportati in forma di versi una serie di insegnamenti pratici relativi all’ignoranza, ai suoi effetti e ai mezzi per superarla. Si vedano ad esempio le seguenti stanze, che fanno parte del Bala Vagga, il “canto dell’ignorante”: 

62
Ho figli, ho denaro, 
così presume l’ignorante: 
Ma se il proprio io neanche è suo, 
di chi sono i figli, di chi il denaro? 

69
L’ignorante pensa tutto miele, 
finché il male non è maturo. 
Quando il male è maturato, 
allora, per l’ignorante, arriva la sofferenza. 

72
Per colmo di sventura, 
all’ignorante sorgono fama e onori, 
che uccidono la parte buona dell’ignorante 
e ne spezzano la testa. 

73-74
Desiderando una promozione indebita, 
venerazione tra i monaci, 
privilegi nell’abitazione, 
onori dalle altre comunità, 
pensando: “Questo l’ho fatto io”, 
sia esso un monaco o un laico, 
“Mio è certamente il controllo 
di cosa si deve o non si deve fare”, 
così prospera il pensiero dell’ignorante 
nella bramosia e nell’orgoglio. 

75
Poiché altra è la via del profitto mondano, 
altra la via del Nirvana. 
Avendo, quindi, ben compreso questo, 
il monaco che è discepolo del Buddha 
non si dovrebbe rallegrare per gli onori, 
praticando il distacco. 


L'ignoranza



II – Samskara, le formazioni karmiche

È detto (in lingua pali) : “Avijja paccaya sankhara”, ovvero: “dipendendo dall’ignoranza (avijja in pali, avidya in sanscrito) sorgono le formazioni mentali legate alla volontà che producono la rinascita”.
Infatti il I, II e III anello della produzione condizionata (ignoranza, formazioni, coscienza) sono chiamati “fattori proiettanti”, ovvero, appartenendo all’esistenza precedente costituiscono la base dell’esistenza presente e condizionano altresì l’esistenza futura (XI e XII anello).
Il termine “samskara” (sankhara in lingua pali, la lingua del Canone buddhista), che dà il nome al II anello del sorgere dipendente, è di difficile traduzione, in quanto porta con sé un ampio ventaglio di significati: è l’impulso all’azione, una volizione, una sorta di spinta, di intenzione ad agire in modo positivo, negativo o neutro.
Samskara è un nome plurale, che indica dei processi psicologici, sempre caratterizzati – si noti bene – dalla presenza della volontà. Essi costituiscono il flusso dinamico delle nostre attività intenzionali, fisiche verbali e mentali (azioni di corpo, parola e mente, come si dice negli insegnamenti), che danno origine a degli effetti. Infatti, il II anello è spesso definito come karma (in pali: kamma), o formazioni karmiche, ed è rappresentato nel bhavachakra dalla significativa immagine di un vasaio che fa girare la sua ruota per dare all’argilla la forma dei vasi.
Tale insieme di tendenze che senza sosta spingono l’uomo ad agire intenzionalmente e che vanno sotto il nome di samskara, è condizionato dall’ignoranza, la quale impedisce di vedere le cose come esse sono, nonché dagli altri fattori della produzione condizionata. A sua volta, samskara diviene (insieme con gli altri fattori) condizione degli altri elementi, e quindi della rinascita: è detto negli insegnamenti che “le formazioni [karmiche] suddividono gli esseri nei regni dell’esistenza”, rappresentati nel secondo anello del bhavachakra (inferni, spiriti avidi, animali, uomini, “titani” e dèi).
È quindi evidente il legame indissolubile con gli aspetti dell’etica buddhista: errate concezioni (ignoranza) portano a cattive azioni intenzionali (karma, samskara), e danno pertanto origine alla sofferenza e alle successive rinascite.
Ma un’errata visione della realtà può condizionare, motivare, anche attività volontarie buone. Ad esempio, spingendo l’essere umano verso il compimento di buone azioni motivate dal desiderio di rinascere in condizioni felici, o ritenute tali (“paradisi”, o migliori rinascite umane, caratterizzate dalla ricchezza, o dal piacere, ecc.). Ma si tratta di stati di felicità illusoria, proprio perché condizionati dall’ignoranza: il risultato sarà ancora, inevitabilmente, sofferenza, poiché qualsiasi stato sarà impermanente, e quindi fonte di ulteriore insoddisfazione. 

Il karma


La visione del mondo nel buddhismo
Una ulteriore, significativa, traduzione del termine samskara può essere quella di “processo creativo”, ovvero quella creatività mentale che dà origine al mondo interiore e alle vite future (si ricordi che la radice linguistica KR, da cui “karma”, ha il significato di “fare”, “causare”, e riporta direttamente al latino – e all’italiano –“creare”).
Il mondo, nella visione buddhista, è costruito attraverso processi mentali dinamici, è costituito da processi psichici che non esistono di per sé, in maniera indipendente, autonoma, ma sono interazioni di forze prive di un sostrato materiale. O per lo meno, l’esistenza di un sostrato materiale è qui una questione ininfluente, in quanto noi conosciamo i samskara solo come processi coscienti, attraverso l’introspezione.
Secondo Rune Johansson, psicologo svedese studioso del buddhismo antico, in Occidente la scienza ha cercato di stabilire una netta distinzione tra una realtà psicologica e una realtà materiale, del tutto indipendente dai nostri sensi, dalla nostra percezione.
Pur essendo sensata e praticamente necessaria nella vita quotidiana, tale distinzione è senz’altro esagerata, se non del tutto falsa.
Per il buddhismo antico – ma sostanzialmente per il buddhismo tout court – la distinzione tra corpo e mente è senz’altro chiara, ma i due tipi di realtà non sono così separati: la relazione che intercorre tra i due fattori è in effetti piuttosto complessa. Per il buddhismo, una percezione ordinaria del mondo, e di sé, non consente di averne una retta conoscenza. In un sutra è detto: “Tutto esiste – questo è un estremo. Nulla esiste – questo è l’altro estremo. Il Tathagata [il Buddha] non si avvicina a nessuno dei due e insegna una dottrina di mezzo: condizionate dall’ignoranza, le attività [i samskara] vengono e passano oltre…”, per poi proseguire con tutta la serie della produzione condizionata.
Il mondo, quindi, non esiste di per sé. Esso è un processo dinamico, dice Johansson, “costantemente prodotto e deliberatamente costruito dai nostri sensi, dai nostri pensieri e dai nostri desideri”.
Ovvero, le percezioni che noi abbiamo degli oggetti, i quali non sono inesistenti, sono parte essenziale degli oggetti stessi. Nulla esiste di per sé, nulla è costante, separato dal resto.
Non c’è solo soggettività, bensì il processo soggettivo di formazione dell’immagine fa parte dell’oggetto stesso.
Insegnava il Buddha: “Il mondo è innalzato dalla mente, dalla mente è spazzato via”. In altre parole, ogni cosa esiste solo condizionatamente, viene costantemente creata dal mentale. Di converso, distruggere il mondo – ovvero realizzare la comprensione della realtà così com’è – significa realizzare la liberazione dalla sofferenza.

La sofferenza

Poiché nel corso dello studio dell’originazione dipendente si fa costantemente riferimento alla condizione di sofferenza in cui gli esseri vivono, può essere utile la lettura del testo noto come “Discorso sulle quattro Nobili Verità”, il Dhamma Cakkappavattana Sutta (in sanscrito: Dharmachakrapravartana Sutra, ovvero “la messa in movimento della ruota del Dharma”), il primo insegnamento che il Buddha diede in pubblico dopo il Risveglio, per rende più chiaro il senso profondo della sofferenza (duhkha, “ciò che è difficile da sopportare”):

Così ho sentito. Una volta il Benedetto soggiornava presso Varanasi, a Isipatana, nel Parco delle Gazzelle.
Quindi si rivolse al gruppo di cinque monaci: “Questi due estremi devono essere evitati se si ricerca la verità. Quali sono questi due estremi? Quello di attaccarsi ai piaceri dei sensi, a ciò che è basso, volgare, terreno, ignobile e dannoso; e quello di dedicarsi alle automortificazioni, a ciò che è doloroso, ignobile e dannoso. Evitando questi due estremi, monaci, il Tathagata ha scoperto la via di mezzo che conduce alla chiara visione e alla conoscenza, alla pace, alla saggezza, al risveglio ed al Nirvana.
E quale è, monaci, questa via di mezzo che il Tathagata ha scoperto e che conduce alla chiara visione e alla conoscenza, alla pace, alla saggezza, al risveglio ed al Nirvana? È il Nobile Ottuplice Sentiero, e cioè: retta visione, retto pensiero, retta parola, retta azione, retto sostentamento, retto sforzo, retta presenza mentale e retta concentrazione.
Questa, monaci, è la nobile verità del dolore. La nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore, l'unione con ciò che odiamo è dolore, la separazione da ciò che amiamo è dolore, non ottenere ciò che desideriamo è dolore, in breve i cinque aggregati dell'attaccamento sono dolore.
Questa, monaci, è la nobile verità sull'origine del dolore. E' la sete che porta alla rinascita, vincolata all'avidità e alla brama, e ovunque porta all'attaccamento, vale a dire la sete dei piaceri dei sensi, la sete di esistenza e del divenire, e la sete di non-esistenza.
Questa, monaci, è la nobile verità della cessazione del dolore. È la completa cessazione della sete, l'abbandono, la rinuncia, la liberazione, il distacco.
Questa, monaci, è la nobile verità del sentiero che conduce alla cessazione del dolore. È il Nobile Ottuplice Sentiero, e cioè: retta visione, retto pensiero, retta parola, retta azione, retto sostentamento, retto sforzo, retta presenza mentale e retta concentrazione.
In me sorse la visione, il sapere, la conoscenza, la saggezza, la scienza e la luce in relazione a cose mai udite prima: 'Questa è la nobile verità del dolore'.....'Questa nobile verità del dolore deve essere compresa'.....Questa nobile verità del dolore è stata compresa.'
In me sorse la visione, il sapere, la conoscenza, la saggezza, la scienza e la luce in relazione a cose mai udite prima: 'Questa è la nobile verità dell'origine dolore'.....'Questa nobile verità dell'origine dolore deve essere abbandonata'.....Questa nobile verità dell'origine dolore è stata abbandonata.'
In me sorse la visione, il sapere, la conoscenza, la saggezza, la scienza e la luce in relazione a cose mai udite prima: 'Questa è la nobile verità della cessazione dolore'.....'Questa nobile verità della cessazione dolore deve essere realizzata'.....Questa nobile verità della cessazione dolore è stata realizzata.'
In me sorse la visione, il sapere, la conoscenza, la saggezza, la scienza e la luce in relazione a cose mai udite prima: 'Questa è la nobile verità del sentiero che conduce alla cessazione del dolore'.....'Questa nobile verità del sentiero che conduce alla cessazione del dolore deve essere intrapresa'.....Questa nobile verità del sentiero che conduce alla cessazione del dolore è stata intrapresa.'
Monaci, finché questa visione delle quattro nobili verità, nel suo triplice aspetto e nelle sue dodici modalità, non era completamente chiara in me, per molto tempo non ho proclamato questo mondo coi suoi dei, Mara e Brahma, i suoi asceti e bramani, i suoi dèi e uomini, perché ancora non avevo ottenuto il supremo Risveglio. Ma, monaci, quando questa visione delle quattro nobili verità, nel suo triplice aspetto e nelle sue dodici modalità, fu completamente chiara in me, allora ho proclamato questo mondo coi suoi dei, Mara e Brahma, i suoi asceti e bramani, i suoi dèi e uomini, perchè avevo ottenuto il supremo Risveglio.
Sorse in me la visione, la conoscenza: 'Incrollabile è la liberazione della mia mente. Questa è la mia ultima nascita e non ci saranno altre rinascite" [..].


Testi

Cornu Dizionario del Buddhismo Ed. Bruno Mondadori

Humphreys Dizionario buddhista Ed. Ubaldini
Pabonka Rimpoce La liberazione nel palmo della tua mano Ed. Chiara Luce
Martinelli Bala Vagga, il canto dell’ignorante in: Paramita n. 31
Falà Pratitya Samutpada Sutra in: Paramita n. 31
Falà Avijja, l’ignoranza in: Paramita n. 32
Falà Sankhara, le tendenze mentali in: Paramita n. 33
Johansson La psicologia dinamica del buddhismo antico Ed. Ubaldini



m. Mauro TonKo , ottobre 2013



mercoledì 16 ottobre 2013

Introduzione alla psicologia del buddhismo

I - Bhavachakra, la Ruota dell’Esistenza



Il bhavachakra (la “ruota dell’esistenza”) è una classica rappresentazione buddhista, in forma di immagine mandalica, del samsara, cioè dell’esistenza ciclica degli esseri senzienti, condizionata dall’ignoranza e quindi permeata di sofferenza e frustrazione a diversi livelli di intensità, a seconda del karma di ognuno. In altri termini, il bhavachakra è l’immagine del mondo del divenire, nel quale gli esseri sono immersi da un tempo senza inizio e nel quale costantemente ritornano, sotto diverse forme.

Nella tradizione induista, Bhava è una delle quattro manifestazioni pacifiche del dio vedico Rudra ("il Rosso"), signore delle tempeste e della pioggia, colui che assicura la fecondità dei campi, e che sarà poi assimilato a Shiva. Nel buddhismo, bhava è invece un termine tecnico che indica il divenire, il flusso incessante dei fenomeni.

Chakra è la ruota. La ruota del carro, uno dei simboli più diffusi nella cultura indiana, simbolo solare per eccellenza, principio del Tempo ciclico, presente anche al centro dell’attuale bandiera della Repubblica Indiana. Il chakra era anche un’arma usata nell’antica India: si trattava di un disco in acciaio, con i bordi affilati e un foro al centro, che veniva scagliata con forza e con micidiali effetti contro l’avversario. La si ritrova spesso nell’iconografia del dio Vishnu.

Secondo la tradizione, l’immagine del bhavachakra si ispira ad una visione di Maudgalyayana, un discepolo del Buddha noto proprio per le sue visioni. Essa è presente nella maggior parte dei monasteri buddhisti di tradizione tibetana (Tibet, Ladakh, Mongolia, Nepal, Bhutan) ed ha la funzione di richiamare alla mente la reale natura dell’esistenza. Infatti in genere è posta all’entrata dei templi, e rappresenta il passaggio del fedele attraverso l’esistenza nel samsara e l’ingresso nel cammino verso la liberazione. In alcune tradizioni buddhiste il bhavachakra è utilizzato anche come supporto visivo per la meditazione.

In alto a destra, all’esterno della ruota, compare l’immagine del Buddha, che indica con la mano destra la luna piena, per ricordare la notte di plenilunio durante la quale, nel maggio del 528 a.C. (data convenzionale), conseguì, dopo sei anni di ricerca interiore, la liberazione dall’esistenza ciclica. La luna piena è essa stessa simbolo del Risveglio del Buddha.

La ruota è invece saldamente tenuta tra i denti e gli artigli di Yama (il “Trattenitore”, nella tradizione hindu simbolo della morte e giudice dei defunti), o, secondo altre versioni, di Mara (la Morte, dalla radice sanscrita mri, morire), colui che aveva cercato di distogliere Siddhartha, colui che diverrà il Buddha, dalla sua ricerca, proponendogli ricchezze materiali e potere mondano.

Al centro della ruota, nel mozzo, si trovano tre animali, in qualche modo uniti tra loro: un maiale, simbolo dell’ignoranza; un gallo (l’avversione); un serpente (il desiderio). Sono i tre “veleni”, ovvero le forze che legano gli esseri all’esistenza ciclica. In particolare, origine di tutte le sofferenze è l’ignoranza (a-vidya, il non-vedere), la quale non ha il significato ordinario di incompetenza, di mancanza di istruzione. Qui, ignoranza è l’offuscamento mentale che impedisce all’uomo di comprendere la vera natura delle cose (e di se stesso), cioè la mancanza di esistenza intrinseca (la vacuità) di tutti i fenomeni, fisici e mentali.

Nel primo anello alcuni esseri salgono verso l’alto, altri scendono verso il basso: è la rappresentazione del karma, favorevole o sfavorevole, che, a causa delle scelte operate dagli esseri stessi durante le loro esistenze, li trascina verso rinascite positive o negative. Nell’esempio di bhavachakra riportato sotto, gli esseri rappresentati nel settore bianco (karma positivo) sono un uomo, un asura (titani) e un deva (divinità). Nel settore nero (karma negativo) si riconoscono un animale, uno “spirito famelico” e un essere infernale.

Il secondo anello è diviso in sei sezioni, nelle quali sono rappresentati i sei “regni” o “destini”, ovvero le sei condizioni principali dell’esistenza condizionata. Esse, si noti bene, non sono “luoghi” dello spazio, bensì sono il frutto della percezione degli esseri senzienti e quindi il prodotto del loro karma (cioè delle loro stesse azioni), che condiziona tale percezione. Si parla dunque di esseri che passano indefinitamente dall’uno all’altro dei sei “destini”. Tre di essi sono considerati favorevoli:

- la nascita umana, la più auspicabile, che viene detta “preziosa”, in quanto in essa c’è abbastanza sofferenza per suscitare il desiderio della liberazione, ma non troppa da impedire ogni tipo di riflessione o di scelta;

- gli asura (titani, o dèi gelosi), che vivono alla radice dell’albero che esaudisce tutti i desideri, del quale però, pur conducendo una vita gradevole, non gustano i frutti, in quanto le fronde si trovano nel regno superiore,

- il regno degli dèi (deva), suddivisi a loro volta in 27 gruppi. Tra essi, alcuni (dèi del regno del desiderio) possiedono un corpo, altri (regno della forma pura) hanno una forma corporea “sottile”, altri ancora (regno senza forma) sono pure coscienze. Tutti godono di vite lunghissime, ma non illimitate, e possono ricadere in “destini” inferiori una volta esaurito il karma che li aveva portati a rinascere nei regni divini.

Come si è visto, si ritrovano qui gli esseri descritti nel settore bianco del primo anello. Gli esseri del settore nero, che scendono verso il basso, si trovano invece negli altri tre “destini”, detti sfavorevoli o sfortunati, nei quali troppo grande è la sofferenza per permettere la riflessione sulla loro condizione e le conseguenti scelte per liberarsi (è ciò che avviene, per il motivo opposto, agli dèi e agli asura).

Uno dei destini sfavorevoli è il regno degli animali, i quali conducono una vita inquieta, presi tra la necessità di cibarsi e di riprodursi e la paura di essere uccisi da altri animali. O di essere maltrattati, sfruttati o uccisi dall’uomo, per nutrimento o per gioco.

La rinascita nel regno degli spiriti avidi o famelici (preta, in sanscrito) avviene a causa dell’avarizia e dell’avidità. Essi sono considerati meno ottusi (cioè incapaci di comprendere il Dharma) degli animali, ma le loro sofferenze sono superiori. Hanno grandi corpi sproporzionati, con enormi teste, ma braccia, gambe e collo sottili. Soffrono continuamente il caldo e il freddo, la fame e la sete; perfino la luce della luna li ustiona, oppure i raggi del sole li fanno rabbrividire per il freddo. Alcuni scorgono acqua e cibo, ma quando li raggiungono tali beni svaniscono. Altri trovano il cibo, ma esso non passa attraverso la bocca, sottile come uno spillo, o la gola, piena di nodi. Oppure il cibo inghiottito si trasforma in metallo rovente, o nella carne del loro stesso corpo, o in siero. 

Il sesto destino è quello degli inferni, causato essenzialmente da collera, odio, violenza. Gli inferni si suddividono in inferni caldi, inferni freddi, inferni periferici e inferni temporanei.

Negli inferni si sperimentano sofferenze di tipo diverso e di intensità crescente.

È detto in un testo che descrive gli inferni (si tratta di una raccolta di antichi insegnamenti del Lam Rim, il “sentiero graduale per l’illuminazione”, utilizzato dai praticanti del buddhismo tibetano): “Se ora non sopportiamo neppure la sofferenza della puntura di uno spillo o del calore della fiamma di una candela, come potremo sopportare le terribili esperienze che dovremo affrontare nei reami infernali?”. Quindi è necessario, qui ed ora, “fare tutto il possibile per rendere significativo il tempo che ci rimane da vivere (..) per evitare la rinascita nei reami inferiori”.

Afferma ancora il Lama Pabonka Rimpoce (1878-1941), autore del testo e maestro dei tutori dell’attuale Dalai Lama: “Anche noi abbiamo già compiuto un numero infinito di azioni che causano la rinascita in simili condizioni, e inoltre insistiamo tuttora a compierle. Per cui dovremmo riflettere ripetutamente sui vari tipi di sofferenze che dovremo sperimentare in questi luoghi”.

Scopo di queste meditazioni, non è evidentemente quello di terrorizzare il praticante, costringendolo con la paura ad assumere comportamenti “morali” o ad aderire ad una ideologia o ad una struttura di potere politico/religioso, quanto piuttosto di far comprendere che non si tratta di “vicende di terre lontane” o di “fatti che non ci riguardano personalmente”. Meditare sui sei regni, sull’interdipendenza, sui tre veleni ecc., significa imparare ad apprezzare pienamente il significato dell’essere nati in forma umana e conseguentemente dare una direzione alla propria vita, per non sprecare il (poco) tempo che si ha a disposizione. 

Nel terzo cerchio, il più esterno, sono raffigurati i dodici anelli (nidana) della produzione condizionata, i quali (partendo, come si fa tradizionalmente, dal primo in alto, e procedendo in senso orario) rappresentano: 

1) l’ignoranza (delle 4 Nobili Verità e della vera natura dell’esistenza)
2) le formazioni karmiche, le volizioni (l’impulso all’azione sotto la spinta del karma passato)
3) la coscienza (la conoscenza influenzata dai condizionamenti karmici)
4) il nome e la forma (l’ambito psichico e fisico necessario alla coscienza per una nuova esistenza)
5) le sorgenti dei sei sensi (vista, ecc. + intelletto)
6) il contatto (oggetto dei sensi + organo sensoriale + coscienza sensoriale)
7) la sensazione (la risposta al contatto: sensazione piacevole, spiacevole o indifferente)
8) la sete, il desiderio avido (la sensazione di mancanza che spinge a ripetere l’esperienza)
9) l’attaccamento (l’impadronirsi dell’oggetto desiderato)
10) il divenire, l’esistenza (l’attaccamento all’esistenza produce una nuova situazione di esistenza)
11) la nascita (o ri-nascita, condizionata dal karma precedente)
12) la vecchiaia-e-morte.

I dodici anelli della produzione condizionata (dvadasanga pratityasamutpada), oggetto di una analisi più approfondita nel corso dei successivi incontri, costituiscono una scientifica rappresentazione dell’insegnamento buddhista sull’interdipendenza. È la catena di causa-effetto che costituisce il meccanismo dell’esistenza. Ogni fenomeno è condizionato, e a sua volta condiziona l’originazione di nuovi fenomeni. I fenomeni non sono quindi opera di un Creatore, ma tutti derivano da cause e condizioni specifiche. “Poiché vi è questo, quello viene ad esistere”.

L’interdipendenza di causa-effetto ha cinque caratteristiche: 

1) i fenomeni sono impermanenti (il germoglio nasce solo dopo che il seme non c’è più)
2) i fenomeni sono ininterrotti (non c’è interruzione tra morte del seme e nascita del germoglio, come il movimento dei piatti della bilancia)
3) un anello non si trasforma nell’altro (seme e germoglio sono due fenomeni distinti)
4) una piccola causa può produrre un grande effetto (seme è albero)
5) causa ed effetto hanno una continuità seriale (seme di riso è germoglio di riso, non di grano).

Con il termine “produzione condizionata” (chiamata anche originazione dipendente, o in altri modi) viene quindi descritto lo stato di tutti i fenomeni dell’universo, il “come” delle cose (non il “perché”), ovvero la relazione di interconnessione di ogni cosa con tutte le altre. Come scrive il monaco zen Yushin Marassi, ogni fenomeno è causa ed effetto: C esiste a causa di A e B; B e C fanno sì che D esista, come E esiste in virtù di C e D… e V e Z fanno esistere A, che quindi esiste grazie a B, C, D….V, Z. Ed ognuno di essi esiste a causa di A, di B, di C… 
E tutto questo è ciò che ognuno di noi chiama “la mia vita”.

La produzione condizionata è talmente importante negli insegnamenti buddhisti, che il Buddha stesso disse: “Chi, o monaci, vede la produzione condizionata vede il Dharma, colui che vede il Dharma vede il Buddha”, il che significa vedere la realtà così come essa è, ovvero raggiungere il risveglio, la liberazione dalla sofferenza.

L’ignoranza (avidya) è il primo dei dodici anelli, costituisce cioè l’origine della sofferenza (il 12° anello, che è definito “vecchiaia e morte, dolore, pianto, sofferenza, angoscia e disperazione”). La liberazione consiste quindi nel contrario di a-vidya, ovvero nella saggezza (prajna, vidya), la comprensione, la completa conoscenza del mondo, l’origine del quale è la produzione condizionata.

La fine del mondo (cioè la fine della sofferenza) si raggiunge comprendendo il mondo e rendendosene indipendenti.

Il sapiente, dice il Buddha, “apprende la fine del mondo divenendo quieto e non spera in questo mondo o in un altro”. E comprendere il mondo significa comprendere la produzione condizionata.

Moltissimi sono i testi buddhisti, sutra e commentari, nei quali si trovano insegnamenti sulla produzione condizionata. Uno di questi è il Pratityasamutpadasutra, che qui si propone alla lettura e alla riflessione:

Una volta il Beato soggiornava presso Sravasti, nella selva del Vincitore, nel parco di Anathapindada, insieme a una grande schiera di monaci, con milleduecentocinquanta monaci. II Beato si rivolse così ai monaci: “Monaci, voglio mostrarvi il principio e la spiegazione dell'origine dipendente. Ascoltatemi, dunque e fate bene attenzione alle mie parole. Qual è il principio della origine dipendente? Il fatto che se c'è questo, c'è quello; apparendo quello, appare questo, ossia condizionate dall'ignoranza sorgono le formazioni karmiche (le volizioni); condizionata dalle formazioni karmiche sorge la coscienza; condizionati dalla coscienza sorgono nome e forma (mente e materia) ; condizionate da nome e forma sorgono le sei basi sensoriali; condizionato dalle sei basi sensoriali sorge il contatto; condizionato dal contatto sorge la sensazione; condizionata dalla sensazione sorge la brama; condizionato dalla brama sorge l'attaccamento; condizionato dall'attaccamento sorge il divenire; condizionato dal divenire sorge la nascita; condizionati dalla nascita sorgono l'invecchiamento, la morte, la tristezza, il lamento, il dolore fisico, la sofferenza mentale e l'angoscia.
Tale è il sorgere di tutta questa massa di sofferenza. Questo è il principio della origine dipendente. Qual è la spiegazione?
Condizionati dall'ignoranza sorgono le formazioni karmiche. Dunque, che cos'è l'ignoranza? Ignoranza del passato, ignoranza del futuro, ignoranza del passato e del futuro, ignoranza interiore, ignoranza esteriore, ignoranza interiore ed esteriore, ignoranza dell'azione volontaria (karma), ignoranza del suo frutto, ignoranza dell'azione volontaria e del suo frutto, ignoranza del Buddha, ignoranza del Dharma, ignoranza del Sangha (comunità), ignoranza della sofferenza, ignoranza dell'origine della sofferenza, ignoranza della cessazione della sofferenza, ignoranza del cammino che conduce alla cessazione della sofferenza, ignoranza della causa, ignoranza delle cose che si producono dalla causa, ignoranza delle cose salutari e non salutari, biasimevoli e non biasimevoli, da seguire e da non seguire, ignoranza delle cose che si producono a causa delle condizioni, basse o alte, bianche o nere, formate da varie parti, ignoranza delle sei basi sensoriali e del loro modo di operare. L'ignoranza è la non comprensione, la non visione, la tenebra, il non vedere la vera natura delle cose.
Condizionate dall'ignoranza sorgono le formazioni karmiche. Cosa sono le formazioni karmiche? Significa volere con il corpo, la voce e la mente.
Condizionata dalle formazioni karmiche sorge la coscienza. Che cos'è la coscienza? Vi sono sei tipi di coscienza cioè la coscienza visiva, la coscienza uditiva, la coscienza gustativa, la coscienza olfattiva, la coscienza corporea e la coscienza mentale.
Condizionati dalla coscienza sorgono nome e forma. Che cos'è il nome (mente)? I quattro aggregati privi di materia. Quali sono questi quattro? L'aggregato della sensazione, l'aggregato della percezione, l'aggregato delle formazioni mentali e l'aggregato della coscienza. Che cos'è la forma (materia)? Tutto quello che ha forma materiale e che è formato dai quattro grandi elementi. Insieme nome e forma costituiscono un unico essere.
Condizionate da nome e forma sorgono le sei basi sensoriali. Cosa sono le sei basi sensoriali? Le sei basi interne ovvero la sede interna dell'occhio, dell'orecchio, dell'odorato, del gusto, del corpo e della mente.
Condizionato dalle sei basi sensoriali sorge il contatto. Che cos'è il contatto? Vi sono sei tipi di contatto. Il contatto dell'occhio, dell'orecchio, del naso, della lingua, del corpo e della mente.
Condizionata dal contatto sorge la sensazione. Che cos'è la sensazione? Vi sono tre sensazioni, ossia piacevole, spiacevole e neutra.
Condizionata dalla sensazione sorge la brama. Che cos'è la brama? Vi sono tre brame, vale a dire la brama legata ai piaceri sensuali, la brama legata alle cose materiali e la brama legata alle cose immateriali.
Condizionato dalla brama sorge l'attaccamento. Che cos'è l'attaccamento? Vi sono quattro tipi di attaccamento vale a dire l'attaccamento ai piaceri sensuali, l'attaccamento alle false dottrine, l'attaccamento ai voti e costumi religiosi, l'attaccamento all'esistenza di un io.
Condizionato dall'attaccamento sorge il divenire. Che cos'è il divenire? Vi sono tre specie di divenire, vale a dire il divenire nella sfera dei piaceri sensuali, il divenire nella sfera della materia, il divenire nella sfera al di là della materia.
Condizionata dal divenire si produce la nascita. Che cos'è la nascita? La nascita di questo o quell'essere in questo o quel gruppo di esseri, il suo nascere, assumere un corpo, svilupparsi, manifestarsi, l'assumere gli aggregati, gli elementi, le sei basi sensoriali, lo svilupparsi delle sei basi sensoriali, la manifestazione degli organi vitali.
Condizionate dalla nascita sorgono l'invecchiamento e morte. Che cos'è l'invecchiamento? Calvizie, capelli grigi, fitte rughe, decrepitezza, l'incurvarsi, il coprirsi di macchie scure, l'essere affannati, l'essere piegati in avanti, l'appoggiarsi a un bastone, l'avere disturbi mentali, essere lenti mentalmente, calo, diminuzione e decadenza degli organi di senso: ecco cos'è l'invecchiamento. Che cos'è la morte? La morte di questo o di quell'essere in questo o quel gruppo di esseri, la sua scomparsa, il suo disfarsi, il venire meno della vita, la disgregazione degli aggregati, la morte. Uniti insieme invecchiamento e morte formano l'ultimo anello.
Questa è la spiegazione dell'origine dipendente. Questa è la risposta alla mia affermazione che vi avrei spiegato il principio e tutta la dottrina dell'origine dipendente”.
Così parlò il Beato e contenti i monaci lo riverirono.



Testi

Cornu Dizionario del Buddhismo Ed. Bruno Mondadori
Humphreys Dizionario buddhista Ed. Ubaldini
Shumann Immagini buddhiste Ed. Mediterranee
Pabonka Rimpoce La liberazione nel palmo della tua mano Ed. Chiara Luce
Falà Pratitya Samutpada Sutra in: Paramita n. 31
Marassi Il Buddhismo Mahayana attraverso i luoghi i tempi e le culture – Vol. I Ed. Marietti
Johansson La psicologia dinamica del buddhismo antico Ed. Ubaldini