domenica 29 novembre 2015

Corpo e religioni: qigong, zen, taiji

In un suo recente intervento sul quotidiano La Stampa (si può leggere qui il testo completo: 
http://www.lastampa.it/2015/11/03/cultura/opinioni/buongiorno/chiedi-alla-cenere-jMZSokNpkudTrisOzD47XL/pagina.html), il noto giornalista Massimo Gramellini ha perentoriamente affermato che “le religioni, che nei propositi dei loro fondatori dovevano occuparsi principalmente delle nostre anime, hanno finito per interessarsi in modo ossessivo dei nostri corpi”. Di quel corpo che “per chi crede in una dimensione immateriale dell’esistenza è solo un involucro passeggero, l’abito che lo spirito indossa per partecipare alla festa della vita e che poi dismette al momento di andare altrove. Di questo abito le religioni hanno sempre avuto una cura maniacale, da sarti d’alta moda. Hanno spiegato agli uomini come mortificarlo in vita, codificando una quantità di peccati anche superiore al numero possibile degli eccessi, e persino come regolarlo dopo la morte”.

Si tratta, come di per sé evidente, di affermazioni estremamente generiche e quindi ben poco significative: basterebbe chiedersi infatti che cosa sia “religione” e cosa non lo sia, poi di quali religioni si stia parlando, e ancora chi siano i fondatori delle stesse (Buddha o Gesù intendevano davvero fondare delle religioni?).
Ma è più interessante notare come l’atteggiamento delle “religioni” nei confronti del corpo umano non sia così univoco nel tempo, ovvero nella storia delle “religioni” e nello spazio, cioè nelle diverse tradizioni spirituali del mondo.
Basti pensare all’importanza del corpo nello Yoga, quello vero, non quello propinatoci nella maggior parte dei centri fitness!

Per cercare di andare un poco più in profondità rispetto ad osservazioni di facile presa ma di scarso spessore, ci si può utilmente confrontare con un libretto pubblicato dalle Edizioni Mimesis, dal titolo Il corpo consapevole - Le arti d'Oriente e l'integrazione della vita adulta, scritto da Salvatore Giammusso, docente di Storia della Filosofia presso l’Università di Napoli.
Nelle 100 pagine del suo lavoro, l’A. prende in esame tre diverse pratiche di matrice orientale, ormai diffuse anche in Occidente: il qigong, lo zen e il taiji. E lo fa proprio in relazione alle modalità con cui tali discipline “lavorano” sul corpo, sul respiro, sulla mente, sull’energia. Senza peraltro trascurare i legami che intercorrono tra le succitate Arti e le tradizioni religiose (sarebbe accettabile il termine per Gramellini?) del Buddhismo e del Taoismo.
Del volumetto di Giammusso proponiamo qui le considerazioni che lo concludono, che riteniamo molto interessanti per i praticanti… e per coloro che non si accontentano delle rubrichette dei quotidiani.
  
Scrive il Prof. Giammusso:

"Volgiamo ora lo sguardo sul cammino percorso per una breve considerazione di insieme. Si è visto che le discipline taoiste e buddhiste in questione hanno storia e tradizioni diverse e al tempo stesso risultano intrecciate tra loro sotto molti aspetti. L'analisi ha mostrato che qigong, meditazione zen e taijiquan lavorano in modo specifico su corpo, mente ed energia. Il qigong cura gli organi interni e l'attenzione, e mette in risalto soprattutto il lavoro sul respiro come tramite della relazione energetica tra organismo e ambiente; in maniera analoga, la meditazione attribuisce una funzione importante alla postura fisica e al rilassamento del respiro, ma l'attenzione al flusso di sensazioni, stati emotivi e pensieri ha il ruolo di spicco; infine il taijiquan fa ricorso alla respirazione addominale e alla visualizzazione e le integra nel movimento.



Ma al di là di queste sfumature, sembra più rilevante cogliere il fatto che nel complesso queste antiche arti d'Oriente si presentano come pratiche di consapevolezza che riorganizzano la struttura della coscienza favorendo il passaggio da una posizione egocentrica a una fondata su un'armonica relazione di contatto tra corpo e ambiente. In particolare, la pratica del qigong dimostra che la consapevolezza del respiro e del ciclo energetico porta a sentirsi parte di un più ampia sfera naturale. A sua volta la meditazione zen appare come pratica dell'attenzione che fa accedere alla dimensione "'mediale" della mente. Si varca questa "porta senza porta" - come suona un noto paradosso zen - quando si entra in contatto profondo con se stessi e si comprende il vuoto: qui ci si "'lascia andare", si lascia andare l'identificazione con l'ego e con le sue illusioni di controllo e si matura la semplice capacità di essere, per dirla con Winnicott. Allora si fa esperienza che è possibile essere al tempo stesso ben desti e tranquilli e si può rispondere alle questioni che il mondo ci pone senza sosta in maniera profonda e rilassata. Infine il taijiquan è la disciplina che insegna la consapevolezza della postura e del movimento nello spazio a contatto con gli altri. Esso può essere inteso come una via che sviluppa la capacità di muoversi senza muoversi, ossia di rimanere calmi e centrati nell'incessante movimento della vita. In uno sguardo di insieme potremmo dire che l'educazione a queste arti insegna a essere corpo, più che ad aver corpo, e integra pienamente la consapevolezza corporea nella struttura della vita psichica adulta.
Questa prospettiva consente di sviluppare un discorso sulla salute nel senso più ampio del termine, da non restringersi agli aspetti medici, ma da estendere alla sfera del benessere individuale e sociale della persona. Su questa connessione tra integrazione psicofisica, consapevolezza e adultità richiamiamo l'attenzione per un'ultima osservazione. Il lavoro di integrazione promuove la salute in un duplice senso: in un primo senso, più evidente, lo sviluppo della connessione di corpo, mente e respiro apporta diversi benefìci oggettivamente misurabili. C'è però un altro senso, più riposto: una sana consapevolezza disidentifica dall'agire in modo immediato (e quindi compulsivo) le proprie difese caratteriali, retaggio di un'età non adulta e dischiude una dimensione più profonda, integra dell'essere. Certo, il lavoro sull'integrazione non ha termine, in linea di principio è aperto. E questo perché non esistono solo fissazioni infantili: anche nella condizione adulta è sempre possibile il rischio della "caduta", sotto forma di irrigidimento rispetto al fluire della vita, chiusura in un orizzonte ristretto e noto, rifiuto di un vero incontro con situazioni estranee e nuove. E tuttavia le pratiche di consapevolezza rendono possibile far esperienza del corpo come vita nella sua feconda potenzialità, come crescita, sviluppo, libertà nella totalità degli aspetti, che includono la dimensione relazionale e il rapporto con la natura, in breve: apertura e disponibilità alla vita. Si può dunque guardare alla condizione adulta anche come una condizione dello spirito che risveglia alla vita nella sua mutevolezza e accoglie e sostiene le trasformazioni che accompagnano ogni sua fase. Da questo punto di vista c'è salute non solo là dove c'è normale funzionamento fisiologico, ma soprattutto dove si scopre meditativamente un legame profondo con la vita. In questo senso si può dire che uno spirito adulto è "sano", integro nonostante tutte le ferite, in quanto sa prendersi cura della vita in tutte le sue forme" (pag. 99 -100).



da:
S. Giammusso
Il corpo consapevole - Le arti d'Oriente e l'integrazione della vita adulta
Ed. Mimesis 2009

venerdì 27 novembre 2015

Fede e ragione: la lectio magistralis di Benedetto XVI e le miserie intellettuali di casa nostra

In questi tempi oscuri, all’alba del Kali Yuga, può essere una buona pratica leggere (o rileggere) e meditare un importante testo che tocca i temi del rapporto tra fede e ragione, tra religioni diverse, tra Oriente ed Occidente.
Si tratta della "lectio magistralis" tenuta da Benedetto XVI, attuale Papa Emerito, nell'Aula Magna dell'Università di Regensburg il 12 settembre 2006, durante un viaggio apostolico in Germania. Il testo ha per titolo "Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni", e può essere reperito in forma integrale con le relative note sul sito Internet della Santa Sede:


Questo testo era stato addirittura definito come la “gaffe di Ratisbona”. Probabilmente per il fatto che sebbene il discorso sia stato citato infinite volte dai media, molto meno è stato letto nella sua completezza ed ancor meno è stato compreso. E se è stato compreso, è stato spesso utilizzato in perfetta malafede, come occasione di critica preconcetta nei confronti di un grande Pontefice che, a differenza di altri che lo hanno preceduto e seguito, non ha mai goduto, per fortuna vien da dire, di un grande appeal mediatico. Non a caso, la parte del discorso che ha dato origine alle “critiche” si trova poco dopo l’inizio, al terzo capoverso, e talvolta la pigrizia mentale di alcuni opinionisti di professione (e la malafede di altri…) spinge ad emettere sentenze senza minimamente approfondire la conoscenza di ciò di cui si parla, come se si valutasse un quadro dopo aver dato un’occhiata veloce alla sola cornice…
Non per nulla, in una nota al discorso pubblicata nel sito della Santa Sede, è detto: “Questa citazione, nel mondo musulmano, è stata presa purtroppo come espressione della mia posizione personale, suscitando così una comprensibile indignazione. Spero che il lettore del mio testo possa capire immediatamente che questa frase non esprime la mia valutazione personale di fronte al Corano, verso il quale ho il rispetto che è dovuto al libro sacro di una grande religione. Citando il testo dell'imperatore Manuele II intendevo unicamente evidenziare il rapporto essenziale tra fede e ragione. In questo punto sono d'accordo con Manuele II, senza però far mia la sua polemica”.

Ecco il testo della “lectio”:

Benedetto XVI a Ratisbona
Eminenze, Magnificenze, Eccellenze,
          Illustri Signori, gentili Signore!
È per me un momento emozionante trovarmi ancora una volta nell’università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l’Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico all'università di Bonn. Era – nel 1959 – ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c’era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c’era un cosiddetto dies academicus, in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti dell’intera università, rendendo così possibile un’esperienza di universitas – una cosa a cui anche Lei, Magnifico Rettore, ha accennato poco fa – l’esperienza, cioè del fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell’unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione – questo fatto diventava esperienza viva. L’università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch’esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del tutto dell’universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c’era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva – di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell’insieme dell’università, era una convinzione indiscussa.
Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d’inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue. Fu poi presumibilmente l’imperatore stesso ad annotare, durante l’assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non quelli del suo interlocutore persiano. Il dialogo si estende su tutto l’ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull’immagine di Dio e dell’uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le – come si diceva – tre Leggi o tre ordini di vita: Antico Testamento – Nuovo Testamento – Corano. Di ciò non intendo parlare ora in questa lezione; vorrei toccare solo un argomento – piuttosto marginale nella struttura dell’intero dialogo – che, nel contesto del tema fede e ragione, mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema.
Nel settimo colloquio (διάλεξις – controversia) edito dal prof. Khoury, l’imperatore tocca il tema della jihād, della guerra santa. Sicuramente l’imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: Nessuna costrizione nelle cose di fede. È una delle sure del periodo iniziale, dicono gli esperti, in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l’imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il Libro e gli increduli, egli, in modo sorprendentemente brusco che ci stupisce, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava. L’imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima. Dio non si compiace del sangue - egli dice -, non agire secondo ragione, “σὺν λόγω”, è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell’anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un’anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte….
L’affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. L’editore, Theodore Khoury, commenta: per l’imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest’affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita un’opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazn si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche l’idolatria.
A questo punto si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: In principio era il λόγος. È questa proprio la stessa parola che usa l’imperatore: Dio agisce “σὺν λόγω”, con logos. Logos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l’evangelista. L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: Passa in Macedonia e aiutaci! (cfr. At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una condensazione della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco.
In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall’insieme delle divinità con molteplici nomi affermando soltanto il suo Io sono, il suo essere, è, nei confronti del mito, una contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso. Il processo iniziato presso il roveto raggiunge, all’interno dell’Antico Testamento, una nuova maturità durante l’esilio, dove il Dio d’Israele, ora privo della Terra e del culto, si annuncia come il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una semplice formula che prolunga la parola del roveto: Io sono. Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sarebbero soltanto opera delle mani dell’uomo (cfr. Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la forza l’adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l’epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell’Antico Testamento, realizzata in Alessandria – la Settanta –, è più di una semplice (da valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo. Nel profondo, vi si tratta dell’incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall’intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire con il logos è contrario alla natura di Dio.
 Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine, nei suoi successivi sviluppi, portò all’affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz’altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazn e potrebbero portare fino all’immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui – come dice il Concilio Lateranense IV nel 1215 –certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l’analogia e il suo linguaggio. Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l’amore, come dice Paolo, "sorpassa" la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l’amore del Dio-Logos, per cui il culto cristiano è, come dice ancora Paolo, “λογικη λατρεία” – un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).
Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l’interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell’Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa.
Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della deellenizzazione del cristianesimo – una richiesta che dall’inizio dell’età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della deellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l’una dall’altra.
La deellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati della Riforma del XVI secolo. Considerando la tradizione delle scuole teologiche, i riformatori si vedevano di fronte ad una sistematizzazione della fede condizionata totalmente dalla filosofia, di fronte cioè ad una determinazione della fede dall’esterno in forza di un modo di pensare che non derivava da essa. Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il sola Scriptura invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l’accesso al tutto della realtà.
La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della deellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento e non intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei però tentare di mettere in luce almeno brevemente la novità che caratterizzava questa seconda onda di deellenizzazione rispetto alla prima. Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell’umanità. Gesù avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di Harnack è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso, l’esegesi storico-critica del Nuovo Testamento, nella sua visione, sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell’università: teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile nell’insieme dell’università. Nel sottofondo c’è l’autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo classico nelle "critiche" di Kant, nel frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali. Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla in breve, su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il successo tecnico ha confermato. Da una parte si presuppone la struttura matematica della materia, la sua per così dire razionalità intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla nella sua efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così dire, l’elemento platonico nel concetto moderno della natura. Dall’altra parte, si tratta della utilizzabilità funzionale della natura per i nostri scopi, dove solo la possibilità di controllare verità o falsità mediante l’esperimento fornisce la certezza decisiva. Il peso tra i due poli può, a seconda delle circostanze, stare più dall’una o più dall’altra parte. Un pensatore così strettamente positivista come J. Monod si è dichiarato convinto platonico.
Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra questione. Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercavano di avvicinarsi a questo canone della scientificità. Importante per le nostre riflessioni, comunque, è ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione.
Tornerò ancora su questo argomento. Per il momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina "scientifica", del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: se la scienza nel suo insieme è soltanto questo, allora è l’uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del "da dove" e del "verso dove", gli interrogativi della religione e dell’ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla "scienza" intesa in questo modo e devono essere spostati nell’ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la "coscienza" soggettiva diventa in definitiva l’unica istanza etica. In questo modo, però, l’ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell’ambito della discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l’umanità: lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione – patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell’ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un’etica partendo dalle regole dell’evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente.
Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della deellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.
Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. L’ethos della scientificità, del resto, è – Lei l’ha accennato, Magnifico Rettore – volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell’università e nel vasto dialogo delle scienze.
Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni – un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l’opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall’universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l’intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l’ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell’umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: "Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell’irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull’essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell’essere e subirebbe un grande danno". L’occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. "Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio" ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all’interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell’università.



venerdì 20 novembre 2015

La Trimurti - Vishnu l'Onnipervadente e i Dasavatara


Quando Bhrigu, sacerdote del fuoco, scelse Vishnu come il più degno di venerazione rispetto a Brahma e Shiva, prese una decisione che aveva solide fondamenta, in quanto Vishnu è “l’unico dei tre [dei della Trimurti] ad essere chiaramente nominato nei testi vedici[1], ovvero i testi più antichi dell’Induismo. In un canto del Rig Veda si dice infatti:
“proclamerò ora l’eroica potenza di Vishnu, che misurò gli spazi terrestri
e che puntellò l’altissimo cielo, scavalcando con i suoi immensi passi il Trimundio”.

Si tratta di Vishnu Trivikrama, colui che compie tre passi per delimitare l’intero Universo, divinità solare che, come il sole nel suo percorso quotidiano, tocca i tre punti limite del mondo: la terra, l’aria, il cielo (per il sole: il levante, lo zenit, il ponente).
Vishnu Trivikrama è quindi anche Vishnu Urukrama, l’Onnipervadente: il suo nome deriva infatti dalla radice vish, pervadere.
E già in questo periodo della storia dell’India egli è dotato del suo simbolo principale, il Chakra, la Ruota del Sole.

Se in epoca vedica Vishnu è ancora una divinità secondaria, egli acquisisce successivamente un ruolo predominante nella Trimurti, insieme con Shiva.
Oltre ad essere una figura solare, si identifica anche con le Grandi Acque, divenendo Vishnu Narayana: da narah, le acque primordiali, origine della vita, e ayana, la dimora del Creatore che sta al di sopra delle acque stesse e periodicamente provvede alla rigenerazione del Cosmo. E proprio all’oceano primordiale fa riferimento il simbolo “V” che i devoti di Vishnu portano sulla fronte.
Vishnu Narayana ha quattro forme: la prima è Vasudeva, una forma imperscrutabile, se non per i saggi che la possono intuire come luce brillante e fiammeggiante, trascendenza perfetta priva di attributi. La seconda, Shesa, è un serpente che sorregge l’Universo sulla propria testa; la terza è la forma attiva, con la quale Vishnu, sotto dieci diversi aspetti (Dasavatara), scende sulla Terra per ristabilire il Dharma, l’equilibrio, la Legge cosmica, quando necessario; la quarta forma riposa sulle Acque, disteso sulle spire del serpente Ananta, l’Eternità.

Nella sua forma antropomorfica tradizionale, Vishnu è rappresentato come un giovane molto bello, con la pelle scura (un riferimento all’attuale Età Oscura, il Kali Yuga), la testa incoronata e quattro braccia. Nelle mani regge la Conchiglia della Vittoria, che è anche strumento bellico per la potenza del suo suono, il Chakra (arma da lancio e simbolo del sole), la mazza e un fiore di loto.
Fondamentali caratteristiche della sua personalità sono una assoluta dignità ed imparzialità e il distacco dalle passioni sia umane che divine: Vishnu è la personificazione divina delle virtù dei popoli arii (arya = nobile), il cui simbolo è lo svastika destrogiro  , emblema solare di buon auspicio (su = bene, asti = essere). Per questi motivi Vishnu è una delle divinità più amate e venerate nell’Induismo. Se Shiva è un dio eroico che spesso ricorre alla forza, anche alla violenza, Vishnu è altrettanto eroico, ma è tale grazie alla forza della persuasione, della pazienza, della calma. In questo senso è affine alla figura del Buddha (del tutto umana), e non a caso la devozione per Vishnu ha contribuito alla rinascita induista quando il Buddhismo ha iniziato ad entrare in crisi nel subcontinente indiano.
Associato a Vishnu (alcuni dicono come suo vahana, “veicolo”, altri lo vedono come divinità a sé, rilevandone la comune connessione con il Sole) è Garuda, figura con corpo umano e con becco e artigli di uccello rapace. Garuda è fratello di Aruna, cocchiere di Surya, il Sole. In quanto personificazione dei raggi solari, è colui che porta tutto a consumazione, quindi distruttore di ostacoli. È anche acerrimo nemico dei serpenti, dal cui regno salva la propria madre Vinata, che era stata lì rinchiusa per gelosia dalla di lei sorella Kadru, madre dei Naga, i serpenti, esseri dei mondi oscuri, custodi dei tesori sotterranei[2]. Anche se Vishnu è Shesa, il serpente che regge il cosmo, e proprio su un serpente, Ananta, il dio riposa tra le Acque primordiali. Ma i miti e i simboli non sono il luogo in cui cercare logica e pura razionalità, come non lo sono le profondità dell’inconscio umano da cui sorgono...
Proprio nella famosa immagine di Vishnu coricato sul serpente compare la sua compagna, Lakshmi, che gli massaggia delicatamente i piedi, partecipando così anch’essa alla prossima rinascita dell’Universo.
Lakshmi, detta anche Shri, “prosperità”, o Padma, “loto”, è la personificazione divina della buona sorte, del benessere. Secondo un mito del grande poema epico Ramayana ella sorse dall’Oceano di Latte, così come Afrodite nacque dal mare.
In un testo devozionale vishnuita è detto:
Shri, la sposa di Vishnu, è eterna e imperitura; e come Egli è tutto pervadente, Ella è onnipresente. Vishnu è il pensiero, Lei è la parola. Hari [Vishnu] è la gentilezza, Lei è la prudenza. Vishnu è conoscenza, Lei è intelletto. Lui è dirittura, Lei è devozione. Egli è il creatore, Lei è la creazione. Shri è la terra; Hari è il suo sostegno. Vishnu è la forza, l'eterna Lakshmi è l’umiltà. Egli è desiderio, Shri è volontà. Egli è il sacrificio, Lei è il dono sacrificale... Lakshmi è l’altare, Hari è l’impalcatura dell’altare. Shri è il combustibile, Hari è il grasso sacrificale[3].

I Dasavatara

Lakshmi, fedele compagna di Vishnu, compare al suo fianco in ognuno dei suoi Avatara, sotto le forme di Sita, di Rukmini, di Varahi ecc.
I Dasavatara
Il termine Avatara, che grazie ad Internet[4] e al cinema[5] si è diffuso anche in Occidente, significa letteralmente “discesa” e indica l’apparizione, l’incarnazione di un dio sulla Terra[6].
La nozione di Avatara è fondamentale nell’Induismo e deriva da tradizioni molto antiche, relative non al solo Vishnu, ma anche per esempio a Indra o a Shiva. Sotto un certo aspetto si può parlare di Avatara anche nel Buddhismo, relativamente alla figura del bodhisattva[7] del Buddhismo Mahayana.
 L’azione dell’incarnarsi del dio sulla Terra non è legata ad un suo semplice desiderio (come avvenne nel caso di Giove, che si fece cigno per sedurre Leda), ma risponde ad un preciso stato di necessità, come spiega nella Bhagavad Gita il dio Krishna, il principale Avatara di Vishnu, rivolgendosi ad Arjuna:
Si legge infatti nel capitolo IV, ai versi 7 e 8:
Ogni volta che in qualche luogo dell’Universo la religione declina e l’irreligione avanza, o discendente di Bharata, Io vengo in persona.
Discendo di era in era per liberare le persone pie, annientare i miscredenti e ristabilire i principi della religione[8].
L’Avatara – incarnazione della parte non-manifesta del dio che crea il mondo con solo una parte di se stesso, secondo la dottrina vedica[9] – “discende” quindi sulla Terra per salvare gli esseri dalla sofferenza e dal male.
Il numero degli Avatara di Vishnu varia a seconda delle tradizioni: si parla di 6, di 22, di 34, o di numeri ancora più grandi, nonché di Avatara “secondari”; inoltre sono talvolta considerati Avatara anche saggi, mistici, fondatori di scuole filosofiche, come ad esempio il bengalese Ramakrishna (1836-1886).
A partire dal X secolo, si fa riferimento tradizionalmente a dieci Avatara di Vishnu, i Dasavatara (dasa = dieci), ovvero:


1.        Matsya, il Pesce
2.        Kurma, la Tartaruga
3.        Varaha, il Cinghiale
4.        Narasimha, l’Uomo-Leone
5.      Vamana, il Nano
6.         Parasurama, Rama con la scure
7.        Rama, il Grazioso
8.        Krishna, l’Affascinante
9.         Buddha, il Risvegliato
10.     Kalki, il Cavallo Bianco

Il mito di Matsya è per gli Occidentali facilmente riconoscibile: essendo stato pescato da Manu, il primo uomo di questa era, un piccolo pesce (in realtà Vishnu) lo pregò di salvarlo e tenerlo con sé. Manu, compassionevolmente, fece quanto richiesto. Il pesce crebbe, fino a che gli ordinò di costruire una grande barca che potesse contenere una coppia di ogni animale e un seme di ogni pianta, poiché stava per sopraggiungere un Diluvio. Così, Vishnu-Matsya, divenuto gigantesco, salvò Manu-Adamo-Noè, trainando la barca fino ad una montagna. Grazie alla compassione di entrambi il mondo poté così ripopolarsi.

Kurma, la Tartaruga, è l’Avatara che salvò gli dei, rimasti privi, proprio a causa del Diluvio, dell’Amrita, l’Ambrosia dei miti greci. Vishnu-Kurma si tuffò nell’Oceano di Latte e fece da sostegno al Monte Mandara, che dei e asura usarono come mestola per frullare l’Oceano stesso, facendo così riaffiorare l’Amrita, il nettare dell’immortalità. Qui Vishnu svolge con tutta evidenza il suo ruolo di punto di equilibrio dell’Universo, in quanto base dell’axis mundi (il monte) intorno al quale ruota il Tempo (il serpente che lo fa girare): è la ricostituzione del Cosmo, l’Armonia a partire dalla quale tutte le cose possono manifestarsi, avere la vita di cui Amrita è essenza e simbolo.

Varaha
Anche Varaha, il Cinghiale, è figura-simbolo della restaurazione del Mondo dopo il Diluvio, in quanto rappresenta la forza che vince le tenebre. Varaha era in origine una forma di Brahma, ma nei miti vishnuiti divenne Avatara di Vishnu. Grazie a Varaha, disceso negli abissi in cui ella giaceva, una nuova Terra (di cui la dea Prithivi, “estensione”, è la personificazione) emerse dalle acque dopo il Diluvio, sorretta dalle zanne – o dalle braccia – del dio.

Il re Hiranyakashipu aveva ricevuto da Brahma il dono di non poter essere ucciso né di giorno né di notte, né da un uomo né da un dio né da un animale, né nel palazzo né fuori di esso. Anche per questo era divenuto un prepotente tiranno, arrivando a decidere di assassinare il proprio figlio, devoto di Vishnu. Al tramonto, tra le colonne intorno al palazzo, prima di ucciderlo prese a deridere la sua fede. Ma dalle colonne si materializzò un essere gigantesco, metà uomo e metà leone, che sbranò il tiranno. Era Narasimha (nara, uomo, e simha, leone) quarto Avatara di Vishnu, comparso quando non era più giorno ma non ancora notte, né dentro né fuori il palazzo, vero defensor fidei, simbolo della forza della fede ed altresì sintomo evidente di conflitti settari all’interno dell’induismo antico[10].

Anche il re Bali, discendente di Hiranyakashipu, era diventato un despota, in quanto aveva ottenuto grandi poteri grazie alla forza della sua ascesi (tapas), alla quale nemmeno gli dei potevano opporsi. Gli dei, preoccupati, chiesero a Vishnu di intervenire. Egli, in forma di sacerdote nano, Vamana, si presentò alla corte del re, uomo peraltro pio e devoto del dio Indra (altro probabile segno di conflitti storici tra culti diversi). Il re offrì un dono a Vamana, e questi gli chiese un po’ di terra, quanta ne avrebbe potuto misurare con tre dei suoi piccoli passi. Bali, caritatevole, acconsentì, ma il nano si trasformò nel gigantesco Vishnu Trivikrama e con due soli passi superò tutti i territori del regno. Non fece, per compassione, il terzo passo, lasciando così a Bali le regioni degli Inferni. In questo mito, il Vishnu Trivikrama creatore dei mondi diviene il distruttore di un regno, restaurando però con la sua opera il Dharma, l’Ordine divino, anche a livello politico oltre che cosmico.

Il sesto Avatara, Parasurama (Rama con l’ascia da guerra, parasu, che lo rende invincibile) ci testimonia invece di una guerra durata 21 anni lungo le coste del Malabar (Sud-Ovest dell’India), tra i Brahmani, la casta sacerdotale, e gli Kshatrya, i guerrieri. Durante una visita nell’Ashram (comunità) del padre di Parasurama, che era un saggio brahmano, il re Kartavirya compì un grave sacrilegio, rubando la Vacca dell’Abbondanza. Parasurama lo uccise, nonostante il re avesse cento braccia. Iniziò allora una guerra tra i Brahmani e gli Kshatrya, che si concluse con la disfatta dei guerrieri e la restaurazione della classe sacerdotale.

Nel poema epico Ramayana, Parasurama, dio dalla scure invincibile, istruito da Shiva, compare poi come avversario di Rama, il settimo Avatara di Vishnu, ma questo paradosso può essere spiegato col fatto che “storicamente Parasurama è una incarnazione del Sud, mentre Rama, più antico, è un Avatara del Nord, più genuinamente ariano[11].
Rama, o Ramachandra, il Grazioso come la Luna, è insieme con Krishna il più importante degli Avatara di Vishnu. Figura storica e mitica nello stesso tempo, incarna le qualità del guerriero, disceso sulla Terra per combattere l’eterna battaglia tra il Dharma e l’Adharma, la Luce e le Tenebre. In termini storici, per conquistare sotto il dominio degli Arii tutta la penisola indiana e l’isola di Lanka. Questo conflitto è l’oggetto di uno dei due grandi poemi epici indiani, il Ramayana, opera di Valmiki, composto, almeno nel suo nucleo centrale, tra il 500 e il 300 a.C. –quindi dopo il Mahabharata, anche se narra fatti antecedenti l’opera di Vyasa.
Avversario di Rama è il demone Ravana, re di Lanka, il quale spadroneggia sulla Terra uccidendo i saggi Rishi e distruggendo gli altari.

Rama e Sita
Prima ancora di essere un guerriero, Rama è un saggio, che rimane vittima, con la moglie Sita (divinità preposta all’agricoltura, il cui nome significa “solco”, da cui nacque), di un intrigo di palazzo, a seguito del quale si ritira in esilio con il fratello Lakshmana e con Sita. Il demone Ravana si innamora di Sita, la rapisce e la porta con sé a Lanka. Rama decide quindi di invadere l’isola per liberare Sita. Per attuare il progetto Rama si allea con il popolo degli uomini-scimmia (storicamente, gli abitanti dell’India del Sud…), in particolare con il generale del re Sugriva, Hanuman, elevato a dio della fedeltà e tuttora popolarissimo in India. Grazie ad un ponte costruito dagli uomini-scimmia, Rama e il suo esercito invadono l’isola, Ravana è sconfitto, Sita è liberata… e Lanka è sottoposta al dominio dell’India. Ma Rama non è certo che Sita durante la prigionia gli sia rimasta fedele. Per provarlo, ella si sottopone alla prova del fuoco (sati), e Agni, dio del fuoco, la risparmia. Secondo una versione del mito, Rama la riprende con sé, secondo un’altra Rama la ripudia e Sita poi muore inghiottita dalla terra da cui era nata.
Rama è per gli induisti “l’uomo perfetto, il marito perfetto, l’amico perfetto, è spiritualizzato anche come Dio perfetto, la più pura incarnazione[12] di Vishnu. Ai funerali il suo nome (“Ram Ram”) viene ininterrottamente salmodiato. Quando il Mahatma Gandhi venne colpito a morte da tre colpi di pistola, il 30 gennaio 1948, le sue ultime parole furono: “He Ram! – Mio Dio![13].

Dell’ottavo Avatara di Vishnu, Krishna, si dirà a parte, data l’importanza e la complessità della sua figura e del suo culto nell’India antica e moderna.

Il successivo Avatara è la ben nota figura del Buddha, il Risvegliato. Già nei testi del Rig Veda – quindi ben prima del Buddha “storico” Siddhartha Shakyamuni – era menzionato un Budha (sic), “l’intelligente”, figlio del dio Soma, la Luna, e di Tara (“stella”, da lui rapita e sedotta), moglie del precettore degli dei. Budha si identifica con il pianeta Mercurio dell’astrologia indiana.
Il Buddha inserito nell’elenco dei Dasavatara (ma non in tutti quelli degli Avatara) è invece Siddhartha Gautama Shakyamuni, il “fondatore” di quello che divenne il “Buddhismo”, e del quale non riproponiamo qui le ben note vicende.
La presenza del Buddha come manifestazione di Vishnu è senza dubbio un segno dell’atteggiamento di grande tolleranza da parte dell’Induismo nei confronti delle altre tradizioni religiose: durante la sua vita il Buddha era entrato spesso in polemica con i brahmani, e nei suoi insegnamenti aveva nettamente rifiutato alcuni elementi centrali dell’ortodossia induista – ad esempio la nozione di un Sé (atman) dotato di esistenza propria, la funzione dei sacrifici agli dei, il ruolo stesso della casta sacerdotale... E infatti il Buddhismo non è compreso tra le sei scuole (darshana) classiche astika (“ortodosse”) hindu, è invece una delle tre scuole nastika (con i materialisti e i Jaina).
Ciononostante il Buddha è considerato un Avatara di Vishnu, in quanto venne riconosciuto il fatto che tutta la sua esistenza fu dedicata alla ricerca del Bene e della liberazione dalla sofferenza per tutti gli esseri.
Ma la vicenda di Vishnu-Buddha ci parla inoltre della altrettanto grande capacità di assorbimento di una tradizione religiosa da parte di un’altra. Il Buddha venne accettato dall’Induismo ma fu anche limitato, adattato alla visione hindu: egli perse la sua forza innovativa e rivoluzionaria, diventando un semplice “restauratore” del Dharma, come sono tutti gli Avatara.
D’altra parte in India non esiste un culto del Buddha come Avatara di Vishnu, che è citato come tale in pochi testi.
E in effetti anche i seguaci del Buddha “buddhista” nel territorio indiano (Sri Lanka è uno Stato a sé) sono pochissimi: alcune minoranze nell’India del Nord (Sikkim, Ladakh), i profughi giunti dal Tibet dopo l’invasione cinese, i pellegrini di ogni parte del mondo che visitano i luoghi santi del Buddha.

Ed infine Kalki, o Kalkin, futuro Avatara di Vishnu, raffigurato come cavallo bianco, o come essere umano con la testa di cavallo, o come eroe sul dorso di un cavallo.
Kalki
Con Kalki si entra nell’apocalittica induista, così come esistono un’apocalittica ebraica, una cristiana, una islamica (l’attesa del Mahdi, il “ben guidato da Dio” che apparirà alla fine dei tempi)... Ed anche una buddhista, rappresentata dal futuro Buddha Maitreya. Si rammenti a questo proposito che il termine “apocalisse” non significa propriamente distruzione, fine del mondo ecc., bensì “rivelazione”, “svelamento”, e “designa un genere letterario che presenta la storia passata, come predizione del futuro, sotto forma di visioni, simboli, immagini mitiche e numeri[14]: Anche se le apocalissi effettivamente ci parlano della fine di un mondo e della speranza in un mondo a venire, migliore del precedente.
Kalki sarà figlio di un brahmano, diverrà un Chakravartin, “colui che fa girare la Ruota”, un Monarca Universale[15], e il suo compito sarà quello di restaurare il Dharma, la Legge cosmica, anche come diritto e giustizia umana. Il momento della sua discesa sarà preceduto da segni evidenti: il caos e la violenza regneranno tra gli uomini, la Verità e la Morale non avranno più alcun valore, soltanto i beni materiali saranno desiderati, i rapporti tra uomo e donna non saranno retti dall’amore ma solo dal piacere. E vi saranno anche segni celesti: appariranno sette Soli, e per il gran calore le acque saranno risucchiate.
Kalki esprime evidentemente la speranza, da parte del mondo hindu, in una futura restaurazione delle sue tradizioni e dei suoi valori, distrutti dalle invasioni musulmane che si erano protratte dall’VIII secolo in poi, e di cui avevano sofferto anche i buddhisti, che proiettarono in Maitreya le stesse speranze. Così come fecero gli Ebrei con l’atteso Messia, o i Greci, che predicevano la venuta un sovrano che avrebbe portato pace a tutti gli uomini. E i Cristiani, che per bocca di Giovanni parlano, come i testi vishnuiti, di “un cavallo bianco; colui che lo cavalcava si chiamava Fedele e Veritiero: egli giudica e combatte con giustizia. I suoi occhi sono come una fiamma di fuoco, ha sul suo capo molti diademi; porta scritto un nome che nessuno conosce all'infuori di lui. È avvolto in un mantello intriso di sangue e il suo nome è: il Verbo di Dio[16].





[1] A. Morretta, Miti indiani, Ed. Longanesi, pag. 120.
[2] Si osservi che i Naga nell’India del Sud divengono oggetto di venerazione nel culto shivaita. Poiché Garuda è figura di origine vedica, è probabile che la sua inimicizia coi Naga sia un ricordo dei pericoli che i popoli provenienti dal Nord correvano nelle foreste indiane infestate dai serpenti.
[3] In Morretta, op. cit., pag. 219.
[4] “Nel gergo di Internet, l’avatar è un'immagine scelta per rappresentare la propria utenza in comunità virtuali, luoghi di aggregazione, discussione, o di gioco on-line. Da: https://it.wikipedia.org/wiki/Avatar_(realtà_virtuale).
[5] Avatar, film di fantascienza del 2009 diretto da James Cameron.
[6] L’Avatara (o Vibhava) va distinto dal Vyuha, l’emanazione dell’Essere Supremo (quattro nel caso di Vishnu); dall’Antaryamin, la presenza divina in ogni essere; dal Vigraha, il corpo visibile espressione del dio. Cfr. M. Stutley-J. Stutley, Dizionario dell’Induismo, Ed. Ubaldini, pag. 48.
[7] Colui che rinuncia al Nirvana per aiutare tutti gli esseri a raggiungere la liberazione dalla sofferenza.
[8] Bhagavad Gita, Ed. Bhaktivedanta, pag. 173 segg.
[9] Cfr. Morretta, op. cit. pag. 127.
[10] Non si può non pensare, in tutt’altro contesto, alla profezia secondo cui Macbeth non poteva essere sconfitto da un nato da donna, e lo fu infatti da Macduff, nato da parto cesareo.
[11] Morretta, op. cit. pag. 148.
[12] Id. pag 154.
[13] D. Lapierre – L. Collins, Stanotte la libertà, Ed. Mondadori, pag. 485.
[14] La Bibbia, Ed. San Paolo, pag. 1302.
[15] Ciò che sarebbe divenuto Siddhartha Shakyamuni secondo le profezie, se non avesse poi scelto la Via della ricerca spirituale.
[16] Apocalisse, XIX 11-13.