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mercoledì 9 aprile 2014

La pratica dello zen e l’esperienza del sacro nel quotidiano

In un classico testo del buddhismo ch’an, il Pi Yen Lu, noto come La raccolta della roccia blu, si racconta che un giorno l’imperatore Wu pose a Bodhidharma, primo patriarca cinese dello zen, nato nell’India meridionale intorno al 440 d.C., alcune cruciali domande. Una era la seguente: “Qual è il significato supremo delle sante verità?” Bodhidharma rispose: “Vuote, senza santità”. L’imperatore non comprese né questa né le altre risposte, e Bodhidharma se ne andò.
Bodhidharma

La risposta di Bodhidharma, che in altri testi è tradotta con un semplice “nulla di sacro”, e che contraddice evidentemente – e volutamente – il titolo stesso di questo intervento, costituisce un buon accesso al cuore della pratica dello zen Sōtō, cioè allo zazen, l’essere semplicemente seduti (shikantaza), in unità di corpo e mente nell’istante presente, avendo abbandonato ogni spirito di profitto (mushotoku), ogni attitudine mentale che guardi alla pratica di zazen come ad una tecnica, ad un mezzo per ottenere qualcosa d’altro, foss’anche il satori, il risveglio, il nirvana.

Senza santità, nulla di sacro: praticare zazen significa quindi abbandonare lo spirito che discrimina tra sacro e profano, tra pratica e realizzazione, tra spirituale e materiale, tra tempo della pratica e tempo delle attività quotidiane.

In un altro famoso testo, il Mumonkan, viene riportato un mondo, una sessione di domande e risposte, tra un monaco e il maestro Joshu: “Sono appena entrato nel monastero, – disse il monaco – per favore, insegnami”. Joshu chiese: “Hai mangiato il tuo budino di riso?”. Il monaco rispose: “Sì, l’ho mangiato.” “Allora – disse Joshu – faresti meglio a lavare la ciotola.”

Nello zen non vi sono attività “sante” che si contrappongono ad attività profane: che ci si trovi nella propria casa o nel proprio posto di lavoro o in monastero, gli atti quotidiani – lavarsi, nutrirsi, lavorare, fare le pulizie, ecc. – vengono compiuti con la stessa concentrazione della pratica seduta, con attenzione, portando il gesto fino in fondo. Non come azioni meccaniche, ripetitive ed obbligate, di cui sbarazzarsi al più presto, ma ogni volta come se fosse la prima volta che ci si lava, che si spazza il pavimento, che ci si siede in zazen. Come se fosse questione di vita o di morte, come amava ripetere il maestro Deshimaru, il monaco giapponese che per primo portò lo zen in Europa (1967).

In questo senso è detto: mente zen, mente di principiante.

In zazen si lascia cadere ogni opposizione tra i pensieri, le immagini mentali, le emozioni, i ricordi ecc. che si presentano alla mente. Non li si giudica, non ci sono pensieri buoni (il Buddha, il Dharma, la pratica…) e pensieri cattivi (le distrazioni, i desideri, i progetti per il giorno dopo…). Semplicemente non li si respinge né ci si attacca ad essi. Ci si accontenta di osservarli per un istante quando appaiono, divenendo consapevoli della loro natura impermanente, priva di esistenza intrinseca, e li si lascia tornare alla loro origine.

Ugualmente, durante le attività quotidiane si esercita la propria concentrazione, la propria saggezza e la propria compassione, mettendo nelle nostre azioni tutta l’energia per il bene generale. Evitando ogni attaccamento al risultato dell’azione stessa, così come in zazen si abbandona progressivamente ogni motivazione centrata sul proprio piccolo ego, sull’ottenimento di qualche beneficio, materiale o spirituale. È la trappola del “materialismo spirituale”, nella quale cadono talora i praticanti di discipline di antica origine, ma spesso rielaborate, specialmente in Occidente, con eccessiva approssimazione, e riproposte in nuove confezioni nei “supermarket del sacro”.

Il “niente di sacro” di Bodhidharma non è quindi, in definitiva, un oggetto di meditazione, ma è al contempo un profondo insegnamento per una corretta pratica di zazen e un’esperienza che è possibile vivere nella propria quotidianità, ritornando costantemente all’unità di corpo, respiro e mente, al di là di ogni separazione tra sé e gli altri, tra samsara e nirvana, tra illusione e risveglio.

Abbandonare ogni possibile separazione tra la pratica formale, la pratica “sacra”, e la vita quotidiana: è ciò che insegna lo zen, a partire dall’esperienza del Buddha sotto l’albero del bodhi, attraverso Bodhidharma e i patriarchi cinesi, fino al maestro Dōgen, che nel 1223 si era recato proprio in Cina per riscoprire l’autentica pratica del Dharma. E lì intuì che l’autentico Dharma non è una teoria o una raccolta di testi filosofici: l’adesione alla Via passa attraverso gli atti concreti della quotidianità. È ciò che espresse in uno dei suoi insegnamenti più importanti, il Tenzo Kyokun, noto in Italia con il titolo di Istruzioni a un cuoco zen
Dogen
Lì Dōgen racconta il suo incontro con un monaco di nome Lu, tenzo (responsabile della cucina) di un monastero. Un giorno, Lu stava facendo essiccare al sole dei funghi. Era molto caldo, il sole faceva bruciare il terreno, ma Lu non aveva con sé nemmeno un cappello ed era coperto di sudore. Ad una domanda di Dōgen, Lu rispose di avere 68 anni. Gli chiese quindi perché non si servisse di assistenti. Lu rispose: “Gli altri non sono me”. “Hai ragione, – replicò Dōgen – posso capire che il tuo lavoro è l’attività del buddhadharma, ma perché lavori tanto duramente con questo sole ardente?”. Lu rispose: “Se non lo faccio ora, quando mai lo potrò fare?”

Scrive padre Luciano Mazzocchi, missionario saveriano: “La lettura del Tenzo Kyokun ci fa contemplare il vero comportamento della persona religiosa quando è impegnata in una qualsiasi attività. Essa è estremamente operosa, come il cuoco che sovrintende alla cucina. La sue mani non si stancano di lavorare e i suoi piedi di correre. Ma ad alimentare tanta attività non è il successo o il compiacimento; bensì l’energia vitale che fluisce dalla propria radice nascosta nel nulla divino da dove scaturisce la creazione”.

Dōgen ha scritto: “Maneggiate anche una singola foglia di verdura in modo tale che manifesti il corpo del Buddha. Ciò a sua volta permette al Buddha di manifestarsi attraverso la foglia. È un potere che non potete comprendere con la mente razionale. Opera liberamente, secondo la situazione, in modo naturalissimo. Allo stesso tempo, tale potere agisce nella nostra vita per purificare e stabilizzare le attività ed è vantaggioso per tutte le cose viventi”.

Ciò che Dōgen insegna a proposito della foglia di verdura può estendersi a tutte le esistenze della vita, oggetti inanimati o esseri senzienti, in ogni istante della nostra quotidianità, in quanto ogni singolo istante è un istante dell’eternità, il solo tempo che abbiamo a disposizione, essendo il passato ed il futuro reali solo nell’istante presente stesso.

Un altro famoso insegnamento di Dōgen ci fa infine comprendere come l’abbandonare ogni separazione costituisca uno dei punti essenziali della pratica dello zen. Dōgen scrisse infatti nel Genjōkōan (Realizzazione della realtà – 1233), il primo capitolo dello Shōbōgenzō (Il Tesoro dell’occhio del vero Dharma):

Studiare la Via del Buddha è studiare se stessi.
Studiare se stessi è dimenticare se stessi.
Dimenticare se stessi è percepire se stessi come tutte le cose.
Realizzare questo è lasciar cadere mente e corpo di se stessi e degli altri.

Abbandonare cioè ogni illusoria concezione di un sé separato dagli altri significa quindi ritrovare quell’unità con tutto il cosmo che non è mai andata perduta, entrare in totale armonia con tutti gli esseri, al di là di ogni separazione.


lunedì 23 dicembre 2013

Solstizio d'inverno


   Questi sono i giorni del solstizio d'inverno, durante il quale la luce sembra cedere definitivamente il passo all'oscurità.
   Ma a partire di qui, la luce torna a riprendere il suo posto, fino al successivo solstizio estivo, in un ciclo che pare senza inizio e senza fine...
   Ed allora, come gli antichi che sui colli di Roma festeggiavano il Sole Invitto, anche noi facciamo festa, talvolta senza capire bene perchè.


   Al solstizio d'inverno il maestro Dogen Zenji (1200-1253) dedicò questi versi:


Ieri era corto, oggi lungo.
Realizzo finalmente che il dharma del buddhismo non può essere nè compreso nè pensato.
Anche se ogni considerazione prende fine, anche conoscendo tutto, come progredire?
Ovunque incontri gli altri, gli auguro : Buon anno.

   Molti secoli dopo, mentre noi scrutiamo il cielo cercando di carpirne chissà quali segreti con strane macchine, alcuni continuano a vederlo con gli occhi dello spirito, e cantano nuovi versi, come Maresa Myogen, monaca zen e cara amica:


La luna della metà d'autunno 
cede il passo al talento dell'inverno
che fa correre il mondo.
Solstizio d'inverno.








giovedì 12 settembre 2013

"L'arpa birmana", ovvero l'abito fa il monaco

Al termine della XVII Mostra del Cinema di Venezia, nel 1956, venne assegnato il Premio San Giorgio al film “L’arpa birmana” (Biruma no tategoto), del regista giapponese Kon Ichikawa (1915–2008).


La trama del film è così riassunta dal noto critico e storico del cinema Angelo Solmi:
“Nel luglio 1945 la guerra volge al termine: nel tentativo di sfuggire alla morte o alla prigionia, le unità giapponesi valicano i monti o si aprono la via nelle foreste di Burma per raggiungere la Thailandia. I soldati del capitano Inoue marciano cantando, accompagnati dall'arpa birmana del soldato scelto Mizushima. Questi, che conosce la lingua locale, viene mandato avanti e dà il segnale di via libera suonando l'arpa. Vicino al confine i giapponesi sono ospitati in un villaggio, ma poco dopo il villaggio è circondato dagli inglesi. Mentre il capitano Inoue è incerto se resistere o arrendersi, si sente l'arpa di Mizushima che suona "Home, sweet home!", e anche gli inglesi si uniscono al coro. La guerra è finita e i giapponesi vengono rinchiusi nel campo di concentramento di Mudon. Mizushima viene mandato in missione presso una guarnigione giapponese che rifiuta di arrendersi: quando essa viene distrutta, solo Mizushima sopravvive, gravemente ferito, e viene curato da un bonzo. Guarito, egli ruba le vesti al bonzo, si rade la testa e si mette in viaggio per raggiungere Mudon e i suoi compagni. Durante il viaggio vede qua e là i resti insepolti dei soldati nipponici caduti in battaglia; questo triste spettacolo gli fa una profonda impressione e, giunto presso Mudon, rinuncia ad unirsi ai suoi compagni e decide di dedicarsi alla sepoltura dei soldati del suo paese, caduti in terra straniera. Egli parte portando con sé un pappagallo avuto da una vecchia fruttivendola che frequenta il campo di Mudon. Nel passare un ponte incontra i suoi compagni che vi lavorano e tentano inutilmente di indurlo a rimanere. Quando arriva l'ordine di rimpatrio, il capitano Inoue dà alla fruttivendola un altro pappagallo, che dovrà dire a Mizushima di ritornare. Ma alla fine la fruttivendola porterà al capitano il pappagallo di Mizushima che andrà ripetendo: "No, non posso tornare" con una lettera esplicativa dell'ex soldato scelto.”

Uno degli episodi centrali del film è quello del breve incontro tra il soldato Mizushima e il monaco buddhista che si prende cura di lui.
(Lo si può vedere qui: http://www.youtube.com/watch?v=ZEXwInNGg-s&list=PL6C38B7C6441C185C).
Esso termina con la sequenza in cui il militare sottrae al monaco la sua veste monastica, la indossa e si rade la testa, per travestirsi e poter iniziare la ricerca dei compagni.

Ma a partire di qui, l’atteggiamento di Mizushima, la sua stessa vita, cambiano radicalmente: egli abbandona la ricerca dei compagni e l’idea stessa del ritorno, per dedicare se stesso alla sepoltura del soldati giapponesi morti sui campi di battaglia e lì rimasti.

Perché avviene in lui questo cambiamento?

Mizushima, soldato o monaco?
Secondo Solmi, la causa della conversione di Mizushima da soldato a monaco buddhista è l’impressione ricevuta dalla vista dei cadaveri giapponesi insepolti, e la stessa cosa viene detta più o meno negli stessi termini da altri critici. Ma a questo si potrebbe obiettare che l’episodio bellico intorno al quale ruota il film si svolge negli ultimi mesi di guerra, e certamente Mizushima aveva già avuto molte occasioni per vedere da vicino, per vivere personalmente, gli orrori della guerra. Certo, le immagini dei corpi abbandonati (giapponesi, in quanto i soldati che difendevano Burma venivano sepolti dagli abitanti) avevano fatto scattare in lui qualcosa di troppo forte per poterlo ignorare; in fondo, Mizushima amava la musica, il suo animo era più sensibile di quello degli altri soldati… ma forse c’è dell’altro.

Vedendo il film, non si può fare a meno di osservare che l’inizio della trasformazione di Mizushima avviene a partire dal momento in cui indossa la veste del monaco, quella che nel buddhismo Zen è chiamata kesa, dal sanscrito kasaya, alla lettera: color ocra, colore della terra.

Il kesa, tradizionalmente, è una semplice veste, una sorta di mantello (che nello Zen Soto i monaci sono tenuti per quanto possibile a cucire da sé) che esplicitamente si rifà alla veste del Buddha, composta di pezze ricavate da tessuti di scarto, privi di valore, come ad esempio, in origine, erano le stoffe con cui venivano avvolti i cadaveri destinati al rogo.


Così, secondo il maestro Dogen e per tutti i praticanti Zen, il kesa di stracci diviene “il vero kesa. Non lo si definisce così per la qualità della stoffa – sia fatto di seta, di cotone, con filo d’oro o d’argento, che abbia dei ricami o delle incrostazioni poco importa – ma lo si definisce per la concentrazione con la quale lo si indossa o per la vita pura che lo ha animato e che gli ha dato forma durante il confezionamento”. Per questo il kesa è detto “l’abito del non-attaccamento”. 

Secondo la tradizione Zen, indossare il kesa influenza profondamente il corpo e lo spirito: esso manifesta così il suo potere. Quando lo si indossa si recitano questi versi:

Dai sai geda puku / Mu so fukuden e
Hi bu nyorai kyo / Kodo sho shu jo 

Magnifico è questo abito di liberazione,
simile a un campo che dispensa grande gioia e felicità.
Onorando gli insegnamento del Tathagata
facciamo voto di salvare tutti gli esseri senzienti.

Un kesa


Nel capitolo “Kesa Kudoku” dello "Shobogenzo", il maestro Dogen narra la vicenda della monaca Utpalavarna, la quale in una vita precedente era una prostituta, sempre pronta a ridere e scherzare con i compagni. Un giorno, per gioco, indossò il kesa di una monaca. Grazie a questo semplice gesto, al di là delle sue intenzioni, indipendentemente dalle azioni negative che aveva commesso, in momenti successivi della sua esistenza incontrò la Via del Buddha, entrò nel samgha monastico e raggiunse il Risveglio.

A questo punto, si può davvero pensare che anche la vita del soldato Mizushima per il solo fatto di aver indossato la veste del monaco dopo avergliela sottratta, si sia radicalmente trasformata grazie al potere del kesa. al di là della sua volontà personale, e forse anche al di là delle intenzioni coscienti del regista Ichikawa...


Si vedano:

Dogen Zenji, Shobogenzo, Ed. Pisani

Erik Sablé, Dizionario del buddhismo zen, Ed. Il Melangolo

AA.VV., Cinema e Buddismo, Ed. Centro Ambrosiano

http://zenvadoligure.blogspot.it/2012/10/unisabazia-200607-kodo-sawaki.html

mercoledì 9 gennaio 2013

Livres de chevet


Non solo un libro sullo zen, ma soprattutto un libro dallo zen, dalla pratica dello zazen, la postura seduta a gambe incrociate, la schiena eretta, il mento rientrato, la sommità del capo che spinge verso il cielo, le mani che formano un perfetto ovale, con i pollici che si toccano delicatamente. Curarsi con i pollici, come scrisse Carlo Grande su La Stampa nell'ottobre del 1994, quando l'opera di Brosse, monaco zen, fu pubblicata in Italia dalle Edizioni Studio Tesi.




lunedì 12 novembre 2012

Del come e non del perchè




Fu nel 1968 che incontrai per la prima volta lo zen, ma non lo riconobbi. Si presentò sotto le sembianze di un libro; nell’aria, gli accordi del sitar di George Harrison e i versi dei poeti beat. Il titolo parlava di “vuoto mentale”. Lo lessi, lo misi nello scaffale, e continuai tranquillamente a riempire la mente.
Incontrai nuovamente lo zen nel 1998, nella veste, più dimessa, del volantino di un Centro Zen di Savona.
Qualche giorno dopo, seduto su un cuscino nero, mi ritrovai ad osservare un muro bianco su cui si stagliava nitida la mia ombra. L’ombra di un corpo semplicemente seduto su un cuscino.
Per un po’ la guardai soltanto, poi la vidi. “Ecco, è questo”.
Certo, tra il libro del ’68 e il volantino del ’98 ci sono stati una dozzina di anni di pratica dello yoga. Da cui, quanto meno, ho avuto la conferma del fatto che l’Occidente non è quell’ombelico del mondo che ritiene di essere, ed ho appreso che non vi è poi nulla di strano nel passare ore seduto su un cuscino.
Esauritasi la spinta propulsiva del rapporto con lo yoga, fu del tutto naturale transitare dal mandir al dojo, e lì continuare a cercare…per scoprire, col passare del tempo, che la pratica di zazen – l’essere semplicemente seduto su un cuscino – è una grande de-lusione.
Perché zazen non lascia molto spazio alle il-lusioni. Nelle ore trascorse seduto, nell’afa estiva o con gli occhi velati dalla sonnolenza, i pensieri più nobili – la compassione, l’amore, il Buddha – e quelli più egocentrati – il lavoro, le opinioni su ogni cosa, le ansie quotidiane – appassiscono allo stesso modo nelle mani.
La mente insegue ricordi ed elabora complicati progetti, ma è poi il respiro che li prosciuga, allorquando su di esso si pone l’attenzione.
Il corpo stesso, immobile, vigila e riporta alla realtà del momento presente, con il contatto lieve del respiro o con il ginocchio indolenzito; o magari con il passo incerto, durante kin-hin, di chi ancora sta imparando a camminare.
Il richiamo delle campane o uno sciacquone, una TV accesa o il cinguettio degli stornelli, ritornano ad essere semplici suoni. Nulla di mistico o di esoterico da inseguire, nulla di fastidioso da rigettare. Tranquille onde sonore nell’aria.
Un colpo di tosse o un aroma d’incenso, una parola o il silenzio, un’ombra vera o solo immaginata. Al pari di un antico sutra, ogni fenomeno è di per sé un prezioso insegnamento.
Nel dojo si sente ripetere spesso che zazen non serve a nulla, che in kin-hin non si va da nessuna parte, che non vi è nulla da ottenere. Parole asciutte, come la pratica stessa. Una pratica in apparenza sempre eguale a se stessa, non gratificante; epperò gratuita, come un dono che si fa o si riceve, senza nulla in cambio.
Imprevedibile, perché ogni volta nuova. Mi siedo pregustando momenti di silenzio e di pace, e subito la mente si affolla di pensieri nervosi, o il corpo scivola in avanti sul cuscino, gli occhi lacrimano, il tempo non passa mai. Arrivo al dojo stanco, inquieto, e lo zazen porta con sé energia, freschezza.
Ed ogni volta, istante per istante, mi osservo in zazen, come al mattino nello specchio: mi arrabbio, cerco di abbracciare la mia rabbia, di volerle bene; affiorano ricordi dolorosi, li accompagno col respiro; una folla grida scomposta nella mente, pian piano diviene sussurro.
Perché pratico zazen? – talvolta mi chiedo, molti mi domandano.
Non è nulla di speciale, è stato detto. Ed è vero, ma è lo stesso importante.
Non serve a dare un senso alla vita. La vita ha già il suo significato, e la sua direzione, in se stessa. E zazen non è altro rispetto alla vita, non le si aggiunge. L’uccello non ha le ali per volare; ha le ali, e vola.
Scrisse molti secoli or sono il Maestro Dogen: "Ogni cosa canta la verità senza aggiungere nulla”. Non serve zazen per essere in unità con il corpo, lo spirito, il mondo. L’unità per essere tale non abbisogna d’altro; aggiungere all’uno significa divenire due, o diecimila.
E’ stato detto che non si pratica per ottenere il Risveglio, ma si pratica perché si è risvegliati. Si legge nel Sutra del Nirvana Definitivo: “Alcuni passano un grande fiume facendo un ponte… altri legano insieme una zattera; gli uomini sapienti hanno già attraversato”.
Ed ancora il Maestro Dogen disse che “la Via è fondamentalmente perfetta”. Allora, perché zazen?
Ma anche Francesco d’Assisi, quando si sentì chiedere da un confratello: “Se è vero che Gesù ha salvato tutti gli uomini, perché dobbiamo condurre questa vita di preghiera e povertà?”, capì subito di avere davanti a sé il diavolo, e lo scacciò - o lo invitò a meditare con lui.
Forse, allora, non c’è un vero perché, del tutto visibile e razionale. Forse c’è stato, e poi l’ho lasciato semplicemente andare. Continuare a cercarlo, sarebbe aggiungere concetti a parole ad altri concetti. Val meglio aprirsi a ciò che la vita, il caso, il karma, mi offrono giorno dopo giorno.
Allora, unisco le mani in gassho, riconoscente verso tutti gli esseri che mi furono e mi sono Maestri. Poi siedo incrociando le gambe, come fece il Buddha Shakyamuni sotto l’albero del Risveglio, e finalmente respiro.

DOJO

sacro e profano:
un bastone di legno
sul pavimento


m. mauro ton ko, 2004

lunedì 15 ottobre 2012

UNISABAZIA 2007/08 - Il Grande Silenzio

Il grande Silenzio: immagini della morte nelle tradizioni buddhiste

Laudato si’ mi Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ skappare:
guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no’l farrà male
(Francesco di Assisi)

12 marzo 1763: una data chiave nella storia della società occidentale moderna. Il Parlamento di Parigi emana un decreto che prevede la chiusura dei cimiteri all’interno della città e la loro apertura fuori di essa, nei dintorni.
Al di là del fatto che il decreto non sia stato applicato se non dopo diversi anni (Editto di St. Cloud del 1804. Si ricordi Foscolo: “Pur nuova legge impone oggi i sepolcri / fuor de' guardi pietosi…”), e al di là delle motivazioni “oggettive” (igienico-sanitarie, economiche,..) che lo hanno ispirato, resta il fatto che l’ordinanza del Parlamento esplicita concretamente il profondo mutamento intervenuto nelle modalità con cui l’uomo europeo del XVIII sec. pensa e vive la morte, in tutti i suoi aspetti.
Si è trattato di un processo lento, iniziato nei decenni precedenti, parallelo a fenomeni epocali interdipendenti quali la formazione delle classi borghesi, l’industrializzazione, l’urbanizzazione, la laicizzazione della società ecc.; fenomeni strutturali e culturali che non hanno coinvolto omogeneamente e contemporaneamente tutti gli strati sociali, in Francia come altrove. Ma è stato comunque un processo irreversibile, in cui l’espulsione dei cimiteri dall’interno delle città illustra visivamente, come un quadro o una fotografia, un aspetto centrale della società occidentale post-industriale: il fenomeno della rimozione della morte.
Nel corso del XIX e del XX sec., scrive lo storico Philippe Ariès, “una maniera del tutto nuova di morire è comparsa (..) in alcune fra le regioni più industrializzate, più urbanizzate, più tecnicamente avanzate del mondo occidentale”: “la società ha espulso la morte”. E’ un fenomeno che si manifesta a tutti i livelli: il rapporto del moribondo con la propria morte e con chi gli sta intorno, l’ospedalizzazione della morte, il trattamento del corpo, le modalità del lutto e della sua elaborazione, la ritualità e i funerali, i cimiteri, il linguaggio relativo alla morte e al morto, ecc.
E’ certamente una descrizione riduttiva e semplicistica di un fenomeno complesso, disomogeneo,che è profondamente studiato nei suoi aspetti da storici, filosofi, psicologi. Esiste infatti un ramo specialistico del sapere chiamato tanatologia, il che sembra quasi contraddire quanto detto finora. Ma la auto-anestesia della società moderna nei confronti della morte è comunque un dato di fatto, ben sintetizzato da Enzo Bianchi,

Enzo Bianchi, Priore di Bose
Priore della Comunità monastica di Bose, il quale scrive che “la morte appare rimossa e, al contempo, spudoratamente esibita; resa oscena, cioè scacciata dalla scena dei vivi, estraniata dal mondo delle relazioni sociali, e spettacolarizzata (..), quasi in un rito di esorcizzazione collettiva officiato dai mass-media. Una società narcisistica cerca di rimuovere la memoria dei limiti e anzitutto quell’evento, la morte, che ha il potere di annichilire tutti i deliri di onnipotenza dell’uomo”. La morte, in effetti, costituisce lo scacco di ciò che sta al centro della nostra società: la produzione e il consumo di merci. Consapevolezza della morte e feticismo delle merci sono elementi tra loro contraddittori ed inconciliabili.
In tal modo, l’individuo e la società, credendo di rimuovere una fonte di sofferenza, si privano proprio di ciò che può “divenire rivelazione, aprire squarci di senso sulla vita” (E. Bianchi). L’uomo, anestetizzandosi dal pensiero della morte, si rivolge alla causa della malattia scambiandola per la terapia. E crea nuova sofferenza a partire dalla sofferenza.
Enzo Bianchi ci ricorda infine che fu proprio la visione di un morto (dopo un vecchio e un malato) a segnare l’iniziazione alla via della liberazione dalla sofferenza per Siddhartha, il futuro Buddha, che da quel momento si allontanò dal Palazzo nel quale le cure paterne lo volevano preservare dalla visione dei mali del mondo.


Anche da questo punto di vista, affatto secondario, gli insegnamenti del Buddha vanno decisamente contro-corrente rispetto alle tendenze di fondo della società. A meno che non siano i valori oggi dominanti ad andare in direzione contraria rispetto ai reali bisogni dell’uomo….
Come noto, già nel suo primo insegnamento dopo il Risveglio il Buddha ha parlato della morte. Nella esposizione della Prima Nobile Verità (duhkha satya, la verità della sofferenza), egli afferma: “la nascita è dolore, la vecchiezza è dolore, la malattia è dolore, la morte (marana) è dolore, l’unione con ciò che è discaro è dolore, la separazione da ciò che è caro è dolore, il non ottenere ciò che si desidera è dolore. In breve, i cinque aggregati che rappresentano la base dell’attaccamento all’esistenza sono dolore” (dal Dharmachakrapravartanasutra, il Discorso della messa in moto della Ruota del Dharma). E’ impossibile riportare tutti i testi degli insegnamenti nei quali compare il pensiero della morte, tanto esso è centrale in tutte le scuole buddhiste (come pure nelle tradizioni spirituali di ogni epoca e luogo). Il tema della morte si connette indissolubilmente ai grandi temi del buddhismo: l’impermanenza (anitya), il karma, la non-esistenza del sé (anatman), l’interdipendenza (pratityasamutpada), la sofferenza (duhkha). Ma non come modalità teorica, bensì come vera e propria pratica (lo si ricordi, il buddhismo non è una filosofia, ma una prassi). Al punto che il Buddha stesso disse che come tra le impronte degli animali quella dell’elefante è la più grande, così tra le meditazioni quella sulla morte è la suprema.
Vedremo più oltre alcuni esempi di come il meditante si rapporti con il pensiero della morte all’interno della propria pratica. Ora, per comprendere in una prima approssimazione l’insegnamento del Buddha sulla morte, mi piace affidarmi non tanto ai Sutra nei quali esso è esposto, quanto invece ai racconti di due donne, due monache vissute all’epoca del Buddha. Le loro vicende sono narrate nel Therigatha (Le Strofe delle Anziane), un antico testo che fa parte del Canone Buddhista, nel quale le monache narrano le loro vicende umane.
La prima, che abbiamo già incontrato, è Kisagotami (Gotami la magra), di nobili origini, alla quale morì l’unico figlio, ancora bambino. Impazzita dal dolore, correva di porta in porta con il cadavere del piccolo sul fianco, chiedendo per lui una medicina. Tutti la respinsero con disprezzo, ma uno, più saggio, la indirizzò dal Buddha. Ella vi si recò, e gli chiese un rimedio per il figlio. Il Buddha, “scorgendo la promessa che in lei era racchiusa”, le disse: “Vai, entra in città, e riporta un piccolo seme di mostarda da ogni casa nella quale non sia morto nessuno”. Così ella fece, inutilmente, in quanto in nessuna casa non era mai morto nessuno. Alla fine, la sua pazzia si placò, e pensò: “Evidentemente questo è l’ordine naturale delle cose in tutta la città. Il Beato previde questo, preso da pietà, per il mio bene”. Portò quindi il corpo del figlio nel cimitero, dicendo: “Non è questa legge di villaggio e neppure di città, né è la legge di una sola stirpe, ma in tutto il mondo ed anche per gli dei nel cielo questa è la legge: tutto è impermanente!”. Infine, tornò dal Buddha, ed entrò nell’ordine monastico.
Kisagotami di fronte al Buddha
Ugualmente significativo è il racconto di Patachara, figlia di un tesoriere, la quale abbandonò la casa paterna dopo essere divenuta l’amante di uno dei servitori. Mentre ella stava partorendo il loro secondo figlio, il marito entrò nella foresta per tagliare delle frasche per farle un riparo, ma venne ucciso da un serpente velenoso. Patachara prese con sé i figli per tornare dai genitori, ma durante il viaggio il piccolo le fu rapito da un falco, e l’altro morì annegato in un fiume in piena. Sconvolta dal dolore, mentre entrava nella città natìa venne a sapere che la casa paterna era crollata, seppellendo padre, madre e fratello. Impazzita per il dolore, iniziò a girare in tondo, con le vesti che le cadevano a terra (Pata-achara = che va in giro trascinando la veste), mentre la gente le tirava immondizia e zolle di terra, in segno di disprezzo. La vide però il Buddha, il quale le si avvicinò, “contemplò la maturazione della di lei conoscenza” e le disse: “Sorella, riacquista la consapevolezza”. Dopo aver ascoltato il suo racconto, la rese consapevole con queste parole: “Patachara, non pensare che tu sia venuta da uno capace di esserti di aiuto. Proprio come tu ora stai versando lacrime per la morte dei tuoi bimbi e per il resto, così tu hai, in un infinito giro di esistenze, versato lacrime per la morte di bimbi ed altro, più abbondanti che le acque contenute nei quattro oceani. Sono meno le acque dei quattro oceani che la vasta distesa di acque, in lacrime versate, dal cuore dell’uomo che si lamenta toccato dal dolore. Per chi sprechi la tua vita, crogiolandoti in acerbi lamenti?”
E ancora:
“Non sono di riparo i figli, né il padre né alcun altro parente:
afferrata che tu sia dalla morte il vincolo del sangue non ti è di rifugio.
Questa verità discernendo il saggio, ben fondato sulla retta condotta,
rapidamente scopre la via conducente al Nirvana”.
Quindi, anche Patachara, il cui dolore era ormai più leggero da sopportare, entrò nell’ordine monastico. Un giorno, mentre si lavava i piedi, gettò via un poco di acqua, e la osservò mentre si spargeva per un breve tratto, prima di essere riassorbita nel terreno. Ne versò dell’altra, che arrivò più lontano. La terza volta, l’acqua andò ancora più in là. Osservando questo, Patachara sviluppò un pensiero: “Così pure i mortali muoiono, o nell’infanzia o nella mezza età o nella vecchiaia”. Il Buddha assistette da lontano alla presa di consapevolezza della monaca, e disse:
“L’uomo che, vivendo un centinaio d’anni,
non contempla mai come sorgano e scompaiano le cose,
sarebbe stato meglio per lui vivere solo un giorno,
ed in quel giorno scorgere il flusso degli eventi”.
Per Patachara come per Kisagotami, si passa dalla disperazione ad un primo grado di liberazione: la realizzazione dell’universalità della morte e del suo carattere di assoluta naturalità. La loro è “una radicale accettazione della morte” (Corrado Pensa). Ma il salto compiuto dalle due donne non è per nulla casuale o automatico. In entrambi i casi, si noti, il testo afferma chiaramente che il Buddha aveva visto in loro una promessa (Kisagotami) o una maturazione (Patachara), avvenute nel corso di precedenti esistenze. Quel salto di consapevolezza, di liberazione, può solo essere il frutto di una pratica spirituale. E nel buddhismo (e non solo in esso, va ribadito) “dire pratica spirituale significa automaticamente dire pratica sulla morte e, al contrario, dire pratica sulla morte significa dire pratica spirituale” (C. Pensa).
La più semplice delle pratiche buddhiste di meditazione in relazione alla morte (marana sati = consapevolezza, ricordo, della morte) consiste nel riportare alla mente la frase “marana vavissati”, che significa “ci sarà la morte”, dove “vavissati” è il futuro del verbo essere. Come il “memento mori” della tradizione occidentale, è il puro “ricordarsi della morte, riflettere sulla morte, essere consapevoli delle proprie reazioni di fronte alla morte” (C. Pensa). Meditare sulla morte, quindi, quale aiuto per un accesso al senza-morte, quale via di liberazione dalla sofferenza, e quindi anche dalla sofferenza legata alla morte, all’impermanenza di tutti i fenomeni. Proprio il contrario di quanto avviene nel nostro mondo - nella nostra mente -, laddove crediamo di liberarci dalla morte rimuovendola dal nostro orizzonte.
Più complessa e articolata è la meditazione sulla morte esposta nel “Lam-rim”, “Il Sentiero Graduale”, un sistema di pratica centrale nella tradizione tibetana della scuola Gelugpa, nella quale fu introdotto dal Lama Tsongkhapa nel XIV sec. In effetti, le scuole del buddhismo tibetano sono ricchissime di testi e insegnamenti sulla morte e sul morire, ed hanno sviluppato un approccio “pratico” al problema difficilmente riscontrabile nelle altre tradizioni spirituali, buddhiste e non.
La meditazione esposta nella prima parte del Lam-rim è detta “Tre radici, nove ragioni, tre determinazioni”, e si sviluppa secondo il seguente schema:

Tre radici      Nove ragioni      Tre determinazioni

1. L'inevitabilità della morte
            1a. a suo tempo la morte arriva per tutti gli esseri umani
            1b. giorno dopo giorno la vita diminuisce e non c'è alcuna speranza di poterla allungare
            1c. anche se siamo vivi troviamo pochissimo tempo per praticare il Dharma
                                        1. determinazione di praticare il Dharma

2. L'incertezza del momento della morte
            2a. su questo pianeta la vita umana non ha una durata fissa
            2b. la vita ha molte forze che le si oppongono e poche che le sono favorevoli
            2c. il corpo umano è estremamente fragile
                                        2. determinazione di praticare il Dharma immediatamente

3. Al momento della morte solo le proprie realizzazioni spirituali hanno valore
            3a. ricchezze, proprietà, fama o potere sociale non sono di nessun valore
            3b. la famiglia, gli amici ed i parenti non ci sono di alcun aiuto
            3c. perfino il vostro corpo non avrà più alcun valore
                                        3. determinazione di praticare il Dharma in modo puro, non
                                            mischiato a tendenze materialistiche

Il meditante, seduto correttamente, osserva le tre radici, con le corrispondenti ragioni e determinazioni, quindi, secondo i tempi e le modalità insegnategli, medita formalmente su ogni singola ragione, giorno dopo giorno, concludendo ogni sessione su tutti i punti, per arrivare dopo un certo periodo a lavorare sull’intera meditazione. Ed ogni volta, alla fine della seduta, recita una preghiera, ad esempio: “grazie al potere di questa pratica possa io raggiungere rapidamente la perfetta buddhità e possa così ogni essere senziente realizzare l’eterna felicità della saggezza”, dove, come si vede, la pratica è sempre finalizzata al beneficio di tutti gli esseri, mai solo al proprio vantaggio.
Esistono poi, ancora all’interno delle scuole tibetane, tecniche di meditazione che comportano la visualizzazione da parte del meditante di se stesso che sperimenta secondo varie modalità il processo della propria morte. Ma in genere le pratiche di questo tipo fanno parte delle tradizioni del Tantra (Vajrayana), vengono tramandate oralmente, da maestro a discepolo, e sono utilizzate soltanto da coloro che hanno ricevuto le necessarie iniziazioni.
A differenza delle scuole di tradizione tibetana, la pratica dello Zen non prevede specifiche meditazioni o visualizzazioni inerenti la morte. Tuttavia, si sente spesso dire che “fare zazen è entrare nella tomba”; lo stesso M° Taisen Deshimaru (che nel 1967 ha portato in Europa la pratica dello zazen) ha scritto che “zazen è osservare la morte durante la vita... Con lo zazen entriamo da vivi nella tomba e così possiamo trovare naturalmente…una soluzione al problema della morte”.
Il M° Deshimaru in "gassho"

Queste parole, come spiega il M° Roland Yuno Rech (discepolo del M° Deshimaru), sono una preziosa indicazione in merito alla pratica dello Zen: si tratta cioè di praticare con tutte le nostre energie, “come se si trattasse di una questione di vita o di morte”, in quanto il tempo è prezioso e limitato, e non va sprecato.
Non si medita “sulla” morte, quindi, ma la consapevolezza della morte stessa fa sì che la pratica divenga più intensa, più urgente, e la vita venga vissuta in maniera più profonda. Si comprende che vita e morte sono indissolubili, l’una non può essere compresa senza l’altra. “Entrare nella propria tomba - scrive R. Rech – non è un pensiero ma un’intuizione penetrante” che cambia il proprio modo di essere in relazione alla vita e alla morte.
Nello Zen non viene negata la dottrina della trasmigrazione, ma questa non è oggetto della pratica. La legge del karma è certamente accettata, lo stesso M° Dogen Zenji (XIII sec.) diceva che se non si accetta la causalità karmica non si fa alcun passo sulla Via, in quanto prevarrà la tendenza a ritenere che tutto avvenga per caso. Ciò che è da fare, non è tanto preoccuparsi delle vite successive o risalire a quelle precedenti, bensì considerare ciò che ci accade come il risultato dei nostri pensieri, delle nostre parole e delle nostre azioni. In tal modo ci si assume la piena responsabilità della nostra vita. Ed è ciò che possiamo osservare durante lo zazen: “possiamo andare da uno stato infernale di dolore e di ribellione a uno stato di pace…prima di venire ripresi da desideri o da preoccupazioni familiari o finanziarie. Vedere la vita dal punto di vista della trasmigrazione è anche osservare in quale mondo si sta vivendo momento per momento” (R. Rech).
La pratica dello Zen non è quindi assimilabile (come non lo è nessuna tradizione buddhista) ad una preparazione alla morte, una sorta di “Ars moriendi”. Essa non è sotto questo aspetto rivolta al futuro (o al passato), bensì è unità di corpo e spirito nel qui-e-ora.
Nel capitolo “Shoji” (“Nascita-e-morte”) dello “Shobogenzo” (“Il Tesoro dell’Occhio del Vero Dharma”, fondamentale testo Soto Zen del XIII sec.), il M° Dogen dice che “quando si parla di nascita non vi è null’altro che la nascita, quando si parla di estinzione non vi è null’altro che l’estinzione”.
Per Dogen, “nascita-e-morte è il nirvana e non bisogna odiare la nascita-e-morte in quanto tale” (Si ricordino le parole di Nagarjuna: “Non vi è la minima differenza tra samsara e nirvana”).
Liberazione (risveglio, illuminazione…) non è quindi affrancamento da qualcosa che esiste oggettivamente (nascita-e-morte), bensì liberarsi dalla visione distorta che fa percepire la realtà in modo erroneo (ignoranza), che fa vedere nascita-e-morte in una prospettiva di sofferenza e negatività.
Le vicende di Kisagotami e Patachara ci hanno indicato un approccio alla sofferenza della morte, e alla possibile liberazione dalla sofferenza stessa, non tanto dal punto di vista della dottrina, ma soprattutto da quello concretamente vissuto nella realtà quotidiana.
Ugualmente significativa è la storia di Bodhidharma, il monaco che nel VI sec. d.C. portò dall’India alla Cina la pratica del dhyana, divenendo il primo Patriarca Ch’an (in giapp. Zen). Il padre di Bodhidharma, sovrano di un piccolo regno dell’India del Sud, si ammalò e morì dopo una lunga agonia, che segnò profondamente il figlio. Il giovane, dopo le esequie, si sedette accanto alla tomba, e vi restò immobile in profonda meditazione per sette giorni. Alla fine di questo ritiro, due suoi fratelli gli domandarono perché avesse fatto questo e si sentirono rispondere: “Ho voluto vedere dove era andato mio padre, ma non ho visto altro che il sole che brilla sulla terra e nel cielo”.
Diceva il M° Deshimaru:
“anche se li amiamo,
i fiori appassiscono e muoiono;
e le erbacce, anche se le detestiamo,
spuntano e vivono…
Durante la vita non dovete cadere nell’adorazione del paradiso. Dopo la morte, non dovete avere paura dell’inferno”.

m. mauro ton ko, gennaio 2008

martedì 9 ottobre 2012

UNISABAZIA 2006/07 - Kodo Sawaki

Il Risveglio nel quotidiano

Kodo Sawaki, considerato il restauratore dell’autentica pratica dello Zen, nacque nel 1880 nei pressi di Kyoto, città che ospita 1500 templi buddisti e 250 shintoisti, fino al 1869 capitale del Giappone.
Il nome del bambino era Saikichi, Kodo è il nome che gli verrà dato al momento dell’ordinazione a monaco. La famiglia, nella quale viveva con altri tre fratelli, era abbastanza agiata, in quanto il padre era costruttore di risciò. Ma quando aveva quattro anni, Saikichi perse i genitori, i fratelli vennero divisi, ed egli fu allevato da uno zio materno, Sawaki, che viveva giocando d’azzardo in un quartiere malfamato. Il bambino crebbe tra prostitute e malviventi, spesso veniva usato per fare il palo o accompagnare i clienti delle prostitute. Riuscì comunque a studiare fino all’età di 12 anni. Dopo aver sperimentato mujo, l’impermanenza, attraverso la morte dei genitori, una nuova esperienza lo colpì, la morte di un cliente tra le braccia di una prostituta. Vide la moglie disperarsi, e tutta quella sofferenza lo spinse ad allontanarsi da quel mondo perennemente alla ricerca di vuoti effimeri piaceri. Cominciò a frequentare una anziana donna che abitava vicino a lui, e da lei apprese i primi elementi degli insegnamenti buddisti. Conobbe anche un maestro di calligrafia, con cui studiò la storia e la filosofia cinese. Un giorno, Saikichi decise di divenire monaco ed abbandonò la casa dello zio. Si recò al tempio di Eiheiji, fondato da Dogen nel 1244, ma venne mandato via, essendo privo di lettere di presentazione. Ma non se ne andò, restò fuori dal tempio e attese. Dopo due giorni fu visto dal tenzo, il responsabile delle cucine, che lo fece entrare e lo mise al lavoro in cucina. Avendo visto i monaci seduti in zazen, Saikichi volle imitarli e non appena possibile andava a praticare zazen in uno sgabuzzino. Una volta il tenzo lo scoprì, ma senza dir nulla fece gassho [= l’inchino a mani giunte] e uscì.
Kodo Sawaki
 La figura del tenzo è di primaria importanza nello Zen, e non solo per l’ovvio motivo che è il responsabile delle cucine. Infatti l’atto stesso del cucinare – come pure tutte le attività che si svolgono nel monastero, e fuori di esso – se compiuto in unità di mente/corpo, impedisce la formazione di divisioni dualistiche della realtà: non c’è contrapposizione tra le attività quotidiane e la ricerca spirituale. Ciò che conta è l’atteggiamento di consapevolezza, di gratitudine, di rispetto, con cui viene svolta ogni attività. Scrive il M° Dogen nel “Tenzo Kyokun” (“Istruzioni ad un cuoco zen”): “Maneggiate anche una singola foglia di verdura in modo tale che manifesti il corpo del Buddha. Ciò a sua volta permette al Buddha di manifestarsi attraverso la foglia”. E ancora: “Concentrate tutta la vostra attenzione sul lavoro, vedendo solo quel che richiede la situazione. Non siate distratti nelle vostre attività, né tanto assorbiti da un unico aspetto da trascurare gli altri”.
Poiché ad Eiheiji non poteva divenire monaco, si recò ad Amakusa, nel sud, dove dopo due anni l’abate di Shoshinji, Koho Sawada, lo ordinò monaco con il nome di Kodo, all’età di 16 anni. Successivamente, Kodo iniziò a visitare altri monasteri, viaggiando sempre a piedi, vivendo del cibo elemosinato e dormendo dove capitava, spesso all’aperto. All’inizio viaggiava per ricevere insegnamenti dai maestri dello Zen, poi iniziò ad insegnare egli stesso, privo di una dimora stabile. Divenne così Kodo yadonashi, il senza-casa (alla lettera, il randagio). Diceva: “La gente mi chiama Kodo yadonashi, ma non è un insulto. Ognuno è senza casa. È un errore se voi pensate di avere una dimora fissa”.
Si ricordi Lc 9,57-58: Un tale disse a Gesù: «Ti seguirò dovunque tu andrai». Ma Gesù gli rispose: «Le volpi hanno una tana e gli uccelli hanno un nido, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo».
E’ il cuore dello Zen: se lo spirito segue l’ordine cosmico, diventa mushotoku, senza scopo, l’abbandono di sé, dei propri fini, delle strutture mentali che costituiscono la ragnatela per lo sviluppo dell’ego. Non desiderare nulla, sradicare gli attaccamenti, è la condizione della autentica libertà, è l’origine della vera compassione e della vera saggezza. Il dono è non attendersi nulla in cambio. In tal modo Kodo Sawaki iniziò a riportare lo Zen alle sua origini, calandolo nel contempo nella realtà di tutti i giorni del mondo contemporaneo. Infatti all’epoca di Kodo lo Zen, e tutto il buddhismo giapponese, versava in crisi profonda. Nel 1868 con l’ascesa al potere dell’imperatore Meiji lo Shintoismo divenne religione di Stato, ed il buddhismo giapponese per uscire dall’isolamento cominciò ad identificare la legge imperiale con il Dharma, appoggiando la politica nazionalista e militarista del Giappone e giustificando la guerra contro la Cina del 1894-95. Non furono molti, in effetti, i monaci che si opposero alla degenerazione del buddhismo in chiave imperialista e filo-militarista. Di questi, molti vennero arrestati ed alcuni morirono in carcere, e questo fino al 1945, anno della disfatta giapponese nella II guerra mondiale. La maggioranza, invece, condivise l’identificazione tra la Via del Buddha e la via dell’imperatore, teorizzando l’abbandono di sé a favore di una superiore volontà, affermando che per il buddhismo la guerra non è né bene né male, poiché priva di natura propria. Mentre in realtà “per il Buddha il bene è bene, il male male. Questo non solo in base al nostro giudizio che può essere relativo, ma quale espressione del Dharma universale che opera attraverso il karma, legge che a sua volta richiama la necessità dell’agire etico dell’uomo”: se tutto è illusione, anche l’illusione è illusione, e la realtà torna a risplendere con il suo carico di sofferenza e impermanenza [da “Lo Zen di Kodo Sawaki” di Gianpietro Sono Fazion].
All’età di 19 anni, il monaco Kodo Sawaki fu arruolato nell’esercito, ove rimase sei anni, combattendo in Manciuria e Corea nella guerra contro la Russia del 1905. Divenuto sottufficiale, prese l’abitudine di scrivere i nomi dei soldati morti, per avvisare le famiglie. Venne ferito al collo, e gettato nel mucchio dei cadaveri da bruciare. Un uomo si accorse all’ultimo istante che era vivo, fu curato, tornò al fronte e finalmente rientrò nel monastero di Soshinji. Nonostante la sua attiva partecipazione alla guerra, Kodo non aderì mai alle ideologie che l’avevano provocata e sostenuta. In tutti i suoi insegnamenti mostrò come tutte le ideologie vadano viste come fenomeni transitori, fonti di sofferenza per l’umanità: “Se siete veramente concentrati la vostra concentrazione influenza il mondo intero.. Lo zen riguarda noi stessi, al di là dei paesi, delle nazioni, dei secoli e delle epoche.. Lo scopo del buddhismo è solamente la pace: la pace dello spirito e la sua influenza sugli altri. Zazen è il miglior metodo per arrivarci”.
Fu solo molti anni dopo, nel 1992, che la scuola Soto Zen pubblicò una “Dichiarazione di pentimento” per il ruolo svolto durante la guerra, riconoscendo che quelle stesse “azioni che violavano gli insegnamenti del buddhismo venivano compiute in nome del Buddha Sakyamuni.. Non v’è altro da dire a proposito di queste azioni se non che sono state davvero vergognose”.
La vita di Kodo Sawaki fu dopo d’allora dedicata all’insegnamento di uno Zen fondato sullo zazen, lontano da ogni concetto di perdita e guadagno. Parlava spesso nei luoghi pubblici, università, ospedali, carceri. Sempre spostandosi da un luogo all’altro, in totale povertà, era divenuto un vero monastero itinerante. Grazie a lui, moltissimi giapponesi impararono di nuovo a sedere in zazen e a considerare lo zazen il cuore della Via. Il suo insegnamento era molto diretto e semplice, e utilizzava spesso, in modo ironico e compassionevole, osservazioni nate da un contatto continuo con la realtà di tutti i giorni:
- Osservando i cartelloni pubblicitari del cinema, non si vedono altro che volti vibranti di emozioni. L’insegnamento del Buddha è qualcosa di non emozionante, mentre nel mondo si rende sensazionale qualsiasi cosa, anche le inezie.
- Quando due coniugi litigano, nessuno dei due pensa che la lite sia dovuta a una propria idea fissa. Ma durante zazen diventa chiaro che si tratta solo di opinioni sbagliate. La cosa più importante è considerare la vita a partire dallo zazen.
- La vita è complicata. Ci sono momenti in cui, come in guerra, cade fuoco dal cielo, e c’è anche il momento per appisolarsi presso la stufa. Ci sono periodi durante i quali bisogna lavorare anche di notte, mentre in altri si può bere sake. Venire a capo di tale vita attraverso l’insegnamento del Buddha, questo è buddhismo.
- Essere monaco nella vita comune significa vivere nella vita comune senza diventar preda dell’illusione della vita comune. Questa è una buona possibilità.
Nel 1963 Kodo iniziò a star male, si ritirò nel monastero di Antaiji, a Kyoto, dove continuò ad insegnare fino alla morte, il 21 dicembre 1965, a 85 anni. Secondo la sua volontà, il corpo venne donato all’università per lo studio dell’anatomia. In vita e fin dopo la morte testimoniò fino in fondo lo zazen che non serve a nulla, quella stessa postura assunta dal Buddha quale postura del risveglio alla nostra autentica natura. Attraverso gyoji, la pratica continua, aveva esplicato una quotidianità vista come novità della consuetudine: se gli occhi di chi guarda sono perennemente nuovi, tutte le cose di sempre sono costantemente nuove. Un giorno aveva detto: “Gli uomini ammucchiano conoscenze, ma io penso che il fine ultimo sia di poter sentire il suono della valle e guardare il colore della montagna”.

Il potere del kesa
Dainin Katagiri, un maestro Zen, scrisse a proposito di Kodo Sawaki: “Un famoso maestro zen che si chiamava Sawaki Roshi ci insegnava sempre che non dobbiamo far altro che sederci, con la tonaca e la testa rasata.. Sederci, tornare al mondo silenzioso e alla vastità dell’esistenza”.
Secondo il M° Taisen Deshimaru, discepolo di Sawaki e primo missionario dello Zen in Europa, “quando Kodo Sawaki parlava di Shobogenzo [l’opera fondamentale del M° Dogen] cominciava sempre dal capitolo sul kesa, lo considerava più importante del Genjo Koan o del Bendowa”.
Un kesa
Il kesa (dal sanscrito kasaya = color ocra, colore della terra), è la veste del monaco, il simbolo della trasmissione da maestro a discepolo, della vita spirituale.
Dopo il M° Dogen nel XIII sec., grazie a Kodo Sawaki e a Deshimaru, il kesa ha ripreso nello Zen il ruolo centrale che dall’epoca del Buddha ricopriva.
Scrisse Dogen nel cap. “Kesa Kudoku” (“Il merito dell’indossare il kesa”) dello “Shobogenzo”: “Il Buddha Sakyamuni venerò e preservò il kesa incessantemente. Essendo suoi discepoli, dovremmo smettere di adorare sovrani, ministri, divinità e paradisi, e di cercare notorietà e ricchezza, per seguire invece il suo esempio. Questo mondo non può offrire gioia maggiore di quella che deriva dal venerare e rispettare il kesa”. Ed ancora Dogen disse che “il kesa è il cuore dello Zen, il midollo delle sue ossa”.
Il kesa, spiega Dogen, è chiamato l’abito del non-attaccamento: “Una persona che indossi il kesa è liberato dagli effetti del cattivo karma, dell’illusione e del desiderio. Un drago che ottenga anche soltanto un filo di un kesa può liberarsi dai tre generi di sofferenza”.
Si dice che, dopo il Risveglio, il Buddha Sakyamuni prese dei pezzi di vecchi tessuti, li lavò, li tinse del colore della terra e li cucì insieme. Nacque il primo abito dei monaci, che fu trasmesso a Mahakasyapa e poi di Patriarca in Patriarca, fino ad oggi.
Tradizionalmente, il miglior kesa è confezionato con tessuti usati: stoffe rosicchiate dai topi, bruciate nei crematori, abbandonate nei templi, gettate dai ricchi, lasciate sulle tombe...
Cucitura del kesa
Citando Dogen, e riallacciandosi agli insegnamenti di Sawaki, Deshimaru scrive: “Una volta raccolto, lavato e smacchiato, il funzo-e [il kesa di stracci, alla lettera le pezze per pulire gli escrementi] confezionato con queste stoffe diventa il più puro di tutti i kesa.. Tutti i Buddha dei tre mondi hanno tenuto in gran conto e stimato questo kesa e lo hanno sempre indossato”. Più volte, nello stesso testo del M° Dogen, vengono citati i versi del Sutra del Kesa, che i monaci recitano tre volte nel dojo prima di indossarlo, tenendolo ripiegato sul capo:

Dai sai geda puku           Magnifico è questo kesa
Mu so fukuden e            Che conduce a liberazione e felicità di là da ogni forma
Hi bu nyorai kyo             Dobbiamo concentrarci sull’insegnamento del Buddha
Kodo sho shu jo             e fare voto di salvare tutti gli esseri senzienti.
Abiti della tradizione Vajrayana

Secondo la tradizione Zen, indossare il kesa influenza profondamente il corpo e lo spirito, e di conseguenza l’ambiente in cui ci si trova. Portare il kesa permette di riflettere se stessi e di osservare la propria immagine. Così, la postura di zazen diviene forte, e manifesta bellezza e dignità. Sono i dieci meriti del kesa:
- per i sentimenti di pudore che ispira, scioglie i dubbi e rende facile la pratica delle buone azioni
- tiene lontani il freddo e il caldo e gli animali, per cui la pratica di zazen è tranquilla
- determina nel monaco il vero carattere religioso
- è simbolo della Via che libera tutti gli esseri sensibili
- ha il potere di cancellare tutti gli errori e generare la felicità per tutti gli esseri
- per il suo colore, ha il potere di distaccarci dalla bramosia generata dai sensi
- recide le illusioni per lungo tempo
- rende inclini a rispettare i dieci precetti, suggellando l’armonia con il Dharma
- simbolizza per il suo disegno i campi di riso, per cui esprime abbondanza, il nutrimento che è necessario per seguire la Via
- è come una armatura, che le frecce dei desideri non possono attraversare.

Nel testo di Dogen si trovano inoltre, dettagliatamente, gli insegnamenti relativi ai vari tipi di kesa (a cinque bande, chiamato rakusu, a sette, a nove e, per i Maestri, con undici e più bande), le indicazioni sui metodi per lavarlo, asciugarlo, piegarlo e conservarlo in maniera rispettosa, le modalità su come e quando indossarlo ecc. Ma soprattutto, vi si trovano gli insegnamenti, oggi ripresi da Sawaki e Deshimaru, per confezionarlo secondo i canoni della tradizione. Diceva Dogen: “Per quel che vi è possibile, cucite di questi kesa; allora voi praticherete la più grande virtù di purezza”.
Ai giorni nostri, gli insegnamenti sul kesa sono esposti e commentati dal M° Deshimaru nel “Libro del Kesa”. Qui, egli invita i praticanti a cucire a mano da se stessi il kesa, seguendo le regole esatte, usando un punto particolare chiamato kaeshi bari (o punto indietro), e soprattutto con la stessa concentrazione che lo spirito ha durante zazen, punto dopo punto, come lo zazen è praticato respiro dopo respiro, e la meditazione camminata, kin hin, avviene passo dopo passo, in unità di corpo e mente nel qui ed ora.
Così, per Dogen e per tutti i praticanti Zen, il kesa di stracci diviene “il vero kesa. Non lo si definisce così per la qualità della stoffa – sia fatto di seta, di cotone, con filo d’oro o d’argento, che abbia dei ricami o delle incrostazioni poco importa – ma lo si definisce per la concentrazione con la quale lo si indossa o per la vita pura che lo ha animato e che gli ha dato forma durante il confezionamento”.
Abiti della tradizione Theravada
Scrisse Yoka Gengaku:

La nebbie d’inverno e d’autunno,
la rugiada, le nubi,
le piogge di primavera,
sono l’autentico kesa che riveste il mio corpo.




Testi citati:
Gianpietro Sono Fazion, “Lo Zen di Kodo Sawaki”, Ed. Ubaldini
Gianpietro Sono Fazion, “Vita di Kodo Sawaki, monaco Zen”, Ed. La Spiga
Dogen Zenji, “Shobogenzo”, Ed. Pisani
Taisen Deshimaru, “Il libro del kesa”, a cura del Dojo Zen Mokusho di Torino
Bovay-Kaltenbach-De Smedt, “Zen”, Ed. Albin Michel (in francese).


m. Mauro Ton Ko, novembre 2006

lunedì 8 ottobre 2012

UNISABAZIA 2006/07 - Studiare la Via del Buddha

“Studiare la Via del Buddha è studiare se stessi” (1)

Queste parole scritte dal M° Dogen Zenji nel Giappone del XIII secolo introducono immediatamente al cuore dell’insegnamento buddista: la pratica della meditazione.
Il termine “studiare” deve infatti essere inteso come “praticare”. Lo stesso Dogen scrisse che “studiare e praticare lo zen significa fare zazen”, cioè praticare la meditazione seduta (za = sedere, zen = meditazione). Secondo tutte le scuole buddiste di ogni epoca e paese, studiare la Via non è accumulare nozioni attraverso la lettura dei testi e la riflessione intellettuale (anche se non vengono certamente esclusi lo studio e l’ascolto degli insegnamenti!).
Infatti il Buddha Sakyamuni non ha inteso creare un nuovo sistema filosofico che reinterpretasse l’uomo e il mondo né fondare una nuova religione in alternativa alle altre. Il Buddhismo, come molte tradizioni della spiritualità orientale (ad es. lo Yoga) è una via esperienziale, pratica, pragmatica. E’ la Via che conduce alla liberazione dalla sofferenza per tutti gli esseri senzienti, e questo non può avvenire se non attraverso la pratica della meditazione.

Questa serie di incontri consisterà in una rilettura di temi buddisti attraverso figure del nostro tempo che col buddhismo sono (o sono state) in relazione molto stretta, secondo differenti modalità. Persone reali che chi scrive ha avuto la fortuna di “incontrare” nel corso del proprio cammino – in alcuni casi anche nella realtà, non solo attraverso i libri.

Ma la persona che fondamentalmente il praticante incontra lungo la Via è se stesso: studiare il Buddha (cioè praticare la Via) è studiare se stessi (cioè praticare se stessi). Non si tratta di un conoscere meramente descrittivo, e nemmeno legato al raggiungimento di un qualsiasi modello ideale. Infatti Dogen così continua nella sua opera maggiore, lo “Shobogenzo” (= “Il Tesoro dell’Occhio del Vero Dharma”):
“Studiare la Via del Buddha è studiare se stessi.
Studiare se stessi è dimenticare se stessi.
Dimenticare se stessi è percepire se stessi come tutte le cose.
Realizzare questo è lasciar cadere mente e corpo di se stessi e degli altri.” (2)

Studiare il Buddha è studiare se stessi

Nelle scuole del buddhismo tibetano (4 scuole maggiori, più diverse sottoscuole) il termine “meditazione” è reso con la parola “gom”, che significa “familiarizzarsi”, “divenire intimo” (ed infatti il luogo della pratica è detto “gompa”, genericamente tradotto con “monastero”).
E il termine giapponese “sesshin”, che indica i periodi di pratica intensiva di uno o più giorni, significa “trattare la propria mente-cuore (shin, lo spirito) come un ospite”, quindi, ancora, divenire intimi con se stessi.
Divenire profondamente intimi con se stessi: questo è lo studio di se stessi, e questa è la pratica della meditazione, al di là (o al di qua...) delle diverse metodiche adottate dalle varie tradizioni buddiste.
Nei 4 versi di Dogen sopra citati sono racchiusi insegnamenti di grande profondità, che toccano i temi fondamentali del buddhismo: la vacuità del sé e di tutti i fenomeni (“abbandonare se stessi”), l’interdipendenza (“percepire se stessi come tutte le cose”), la compassione, il Risveglio…
In questa sede ci limiteremo (per così dire...) a toccare un solo argomento, che in realtà li racchiude tutti: la postura di zazen, secondo gli insegnamenti dello Zen Soto, la scuola cui appartiene chi scrive.
Venticinque secoli fa, nella pianura dell’India del Nord Est, il principe Siddhartha Gautama Sakyamuni abbandonò il Palazzo e la famiglia, per cercare la Via che conduce alla definitiva liberazione dalla sofferenza. Per sei anni praticò forme di ascetismo sempre più estreme, fino a giungere alla soglia della morte. Infine, tornò a nutrirsi con un poco di latte e riso, poiché aveva compreso che quella via non portava né “a sopprimere la passione, né all’Illuminazione, né alla Liberazione”. Quindi, come narra Asvaghosa, “prese dell’erba pura da un falciatore, fece voto di conseguire l’Illuminazione e si sedette ai piedi di (un) puro grande albero. Egli assunse allora la somma incrollabile postura che è raccolta come le spire del serpente addormentato” (3). All’alba, alla luce della stella del mattino, era divenuto il Buddha, il Risvegliato.
Quella postura è la stessa che da quel giorno generazioni di praticanti hanno assunto nei templi o sotto gli alberi delle foreste, nelle case delle grandi città o nel silenzio delle montagne.
Essa è così descritta dal M° Dogen (1227): “La posizione è con le gambe incrociate o in modo completo o in modo incompleto.. Posa il dorso della mano destra sul piede sinistro e il dorso della mano sinistra nel palmo della mano destra. Le punte dei pollici devono toccarsi leggermente.. la lingua riposa contro il palato.. tieni sempre gli occhi aperti. Respira tranquillamente attraverso il naso.. fa qualche movimento ondulatorio con tutto il corpo a destra e a sinistra. Quindi siedi immobile.” (4)
La postura di zazen

Questo breve estratto fa parte di un testo fondamentale per lo Zen, il “Fukanzazengi”, che viene costantemente recitato nei templi Zen. Il titolo, “Fukanzazengi”, si può tradurre con: la forma, il modello (gi) dello zazen come raccomandazione, invito (kan) rivolto a tutti, universale (fu). La forma dello zazen che è invito universale (il che bene evidenzia la caratteristica di universalità dell’insegnamento del Buddha).
“Lo zazen – scrive ancora Dogen – non consiste nell’apprendere a meditare. Semplicemente è la porta reale della pace e della gioia, è la pratica avverata che arriva alla pienezza del risveglio” (5).
Non è una postura che si assume per poi fare qualcosa (mi inginocchio per pulire il pavimento, mi sdraio per rilassarmi, mi siedo per meditare..).
Molti sutra (= discorsi) del Buddha iniziano proprio con una descrizione della postura: “egli parla da quella posizione, una posizione fisica cui corrisponde un determinato posizionamento mentale, un tutt’uno ove né corpo né mente interferiscono col libero movimento della ruota darmica” (6). Infatti, “nella cultura buddista corpo e mente sono non-due” (7). Nelle parole del M° Roland Yuno Rech, uno dei successori del M° Deshimaru, lo zazen “di per sé non è una mera pratica del corpo, ma una combinazione di tre elementi: postura, respirazione e coscienza.. totalmente interdipendenti” (8). In zazen, dice ancora R. Rech, “si pensa con il corpo intero, e non solo con la corteccia cerebrale.. con questo corpo limitato siamo una cosa sola con l’universo, come la goccia di rugiada riflette il chiaro di luna” (9).
Ogni particolare della postura esprime allora un profondo significato, affatto concreto, e non solo simbolico – lo Zen non lavora sui simboli. La base della postura del Risveglio è il triangolo costituito dalle ginocchia e dal bacino. E’ una posizione che fa sì che il corpo sia tonico pur facendo nulla, come pure la mente. Se il corpo non è comodamente stabile e immobile, neppure la mente – instabile per sua natura – può trovare il suo riferimento. Il tronco è un ponte tra il cielo, su cui preme la testa, e la terra, su cui premono le ginocchia. La colonna vertebrale è un arco che scocca al cielo la freccia dello spirito. L’estensione della colonna vertebrale consente il rilassamento del diaframma e un conseguente rovesciamento dell’atteggiamento respiratorio a favore dell’esalazione (mentre l’attività quotidiana, sovente inconsapevole ed automatica, è orientata a privilegiare l’inspirazione). Quindi, “la coscienza della propria respirazione impedisce di perdersi nei pensieri e rimette in contatto con la realtà presente” (10). Gli occhi, né aperti né chiusi, non fissano alcun punto, senza peraltro seguire le immagini che ci circondano, e “lo sguardo diventa vasto, come lo spirito che non ristagna su nessun pensiero” (11): non c’è separazione dal mondo, anzi tutta la realtà è accolta al di là delle nostre opinioni e pregiudizi, al di là del “mi piace – non mi piace”. Il mento è rientrato, poiché non vi è nulla da afferrare, o a cui aggrapparsi (si pensi a quante “mascelle volitive” hanno segnato la storia, e la cronaca..).La lingua riposa toccando la base degli incisivi: in zazen non c’è bisogno di parole, ed anche il chiacchiericcio della mente discorsiva si affievolisce, i pensieri rallentano il loro incessante concatenamento. Ugualmente, le mani non afferrano nulla e nulla rifiutano: tenendole in grembo nella pozione di hokkai join, il mudra (= gesto) della realtà assoluta, “ci asteniamo dall’esprimere attraverso il corpo desideri, pensieri e atteggiamenti caratteriali” (12).

Il M° Fausto Taiten Guareschi

Scrive il M° Fausto Taiten Guareschi, abate del monastero di Fudenji (Fidenza): ogni particolare della postura “non ne ostruisce nessun altro, ma nella sua singolarità include ogni altro particolare” (13). L’esperienza del corpo in zazen è esperienza dell’interdipendenza di tutti i fenomeni.
In sintesi, lo zazen, afferma il M° Rech, è “un modo di pensare con il proprio corpo e con la propria respirazione senza attaccarsi ai pensieri”, i quali passano senza ristagnare su nulla, in totale disponibilità per ogni nuovo istante (14).
Attraverso lo zazen, che non a caso è spesso definito come uno specchio, impariamo a divenire intimi con noi stessi, non attraverso le opinioni nostre o altrui su noi stessi, non sostituendo tali immagini su noi stessi con altre immagini o modelli, bensì abbandonando tali immagini ed opinioni: “vivere con il corpo e non solo con la testa” dice R. Rech. Per questo è stato detto che il Buddhismo è una religione del corpo: perché il corpo non è né un ostacolo né un oggetto di culto, ma un frammento dell’energia cosmica. In zazen, “questo corpo non è questo mio corpo, queste mani, queste gambe non sono mie.. Tutto diviene in unità” (15).
Attraverso il corpo – l’unità di corpo e spirito nel qui ed ora – possiamo spogliarci dell’attaccamento al corpo stesso e liberarci da tutte le paure che lo accompagnano.
E finalmente, conoscere se stessi ci “porta ad abbandonare l’attaccamento al nostro ego limitato e a realizzare l’unità con l’intero universo” (16), consentendo alla nostra compassione verso tutti gli esseri senzienti di manifestarsi compiutamente.

Note

1) Dogen, “Shobogenzo”, Ed. Pisani
2) idem
3) Asvaghosa, “Le gesta del Buddha”, Ed. Adelphi
4) Dogen, “Fukanzazengi”, in “Sedersi in pace”, Ed. La Stella del Mattino
5) idem
6) P. Sacchi, in “Sedersi in pace”
7) idem
8) Roland Rech, “Monaco zen in occidente”, Ed. Promolibri
9) R. Rech, “Zen, il risveglio al quotidiano”, Ed. Le Lettere
10) idem
11) idem
12) R. Kengaku Pinciara, “La vita della forma”, in “Sedersi in pace”
13) F. Guareschi, “Mondo piccolo. Roba dell’altro mondo”, Ed. Il Cerchio
14) R. Rech, “Zen”
15) F. Guareschi, “Mondo piccolo”
16) R. Rech, “Zen”.
m. Mauro Ton Ko, ottobre 2006