venerdì 31 ottobre 2014

Su alcune fonti della vita del Buddha - I

Le fonti nel Canone Pali

Nella sesta ed ultima sezione del Sutra del Nirvana Definitivo (Mahaparinibbanasuttanta), poco prima di abbandonare il corpo, il Buddha Shakyamuni, rivolgendosi al discepolo Ananda, dice: “Tu forse potresti pensare: l’insegnamento del Maestro è finito per sempre, adesso non abbiamo più un maestro. Non devi pensare così, Ananda, poiché quello che vi ho spiegato e insegnato è che il Dhamma e la disciplina, alla mia morte, saranno il vostro maestro(1).
Già qualche tempo prima aveva detto: “Ananda, coloro i quali, ora o dopo la mia morte, riusciranno a essere isole per se stessi [..], che faranno del Dhamma e di null’altro la loro isola e il loro rifugio, costoro diverranno i monaci migliori e lo saranno in virtù del desiderio di imparare(2).

Queste poche parole sono già sufficienti a dimostrare la centralità del Dharma, dell’insegnamento, rispetto alla figura umana, storica, del Buddha, del Maestro.
Ciò che il Buddha sempre indicava ai suoi discepoli non era la sua persona, men che meno se stesso come una qualche manifestazione divina o comunque trascendente, e nemmeno la sua propria esperienza del Risveglio, bensì il Dharma (Dhamma in lingua pali), il suo insegnamento concreto, così come si era espresso nel corso di 40 anni, a partire dal primo sermone nel Parco delle Gazzelle a Sarnath, presso Varanasi, nei giorni successivi al Risveglio sotto l’albero pipal.
Il primo sermone del Buddha a Sarnath
A sua volta, il Dharma non è una nuova scoperta, una “invenzione” del Buddha Shakyamuni, una nuova visione del mondo che avrebbe dovuto sostituirne una precedente, bensì è lo stesso Dharma da sempre esposto dai Risvegliati di ogni tempo e luogo.
Il Buddha non fu quindi un “mediatore” tra il mondo ordinario ed un ipotetico mondo trascendente, tra il mondo degli uomini e il mondo degli dei, tra il samsara e il nirvana intesi come due universi distinti e separati. Il suo insegnamento si pose da subito al di là del ruolo svolto dalla casta sacerdotale hindu, i brahmani, che officiavano i sacrifici agli dei secondo complicati riti che essi solo conoscevano e potevano quindi svolgere correttamente, pena la nullità del rito stesso.
Uomo tra gli uomini, il suo ruolo fu quello di un insegnante, un amico spirituale, un medico che prescrive una terapia, colui che semplicemente indica la Via, non la percorre al posto di nessuno. Sta poi al discepolo camminare con le proprie gambe, seguire la terapia, assumere le medicine sperimentandone di persona l’efficacia.
Per questi motivi succintamente esposti, dopo la morte del Buddha i suoi discepoli si concentrarono soprattutto sulla raccolta e sulla corretta trasmissione degli insegnamenti, dapprima in forma orale e successivamente per iscritto, fino alla redazione del Canone così come lo conosciamo (tra il II Concilio – 340 a.C. – ed il III, nel 247 a.C.).
Si noti che anche l’arte buddhista (se si può usare tale espressione) risentì di questa impostazione: per diverso tempo infatti il Buddha non venne raffigurato come persona, ma mediante l’immagine di un seggio vuoto o altri simboli iconografici (la ruota del Dharma, l’ombrello, l’impronta dei piedi…). Solo nei secoli successivi comparirà l’immagine del Buddha come persona, anche sotto l’influenza dell’arte greca.

Dopo questa indispensabile premessa intorno al primato degli insegnamenti rispetto alla figura del Maestro, è da dire che negli stessi testi del Canone Pali è comunque possibile reperire preziose informazioni in merito a molti episodi della vita del Buddha Shakyamuni, da lui stesso riferiti nel corso dei suoi sermoni quali elementi integranti degli stessi.
Si è già citato il Sutra (in pali: sutta) del Nirvana Definitivo, che si trova nel Suttapitaka, il Canestro (pitaka) dei Sutra (gli altri due canestri (3) in cui è diviso il Canone Pali sono il Vinayapitaka, con i testi delle regole monastiche, e l’Abhidhammapitaka, il canestro della conoscenza superiore dei fenomeni, con insegnamenti sull’etica, la psicologia, la filosofia, la cosmologia…). Qui vengono narrati gli eventi relativi all’ultimo periodo della vita del Buddha, i suoi ultimi spostamenti, la sua infermità, il famoso episodio dell’ospitalità da parte del fabbro Cunda e dell’ultimo pasto del Buddha, le indicazioni impartite ai monaci sul da farsi dopo la sua morte, l’abbandono del corpo e l’entrata nel Parinirvana. Non si tratta, è chiaro, di un testo storico né apologetico, esso è, come gli altri sutra, soprattutto una raccolta di insegnamenti, per quanto ricca di indicazioni biografiche e di spunti letterari estremamente interessanti.

Il Parinirvana del Buddha
Per quanto concerne invece la nascita e la vita di Siddhartha Gautama Shakyamuni, colui che diverrà il Buddha, il Risvegliato, molti episodi sono narrati nel canestro delle regole monastiche, il Vinayapitaka, nelle sezioni denominate Mahavagga (discorsi lunghi) e Cullavagga (discorsi brevi).
Altri testi ancora, oltre al Sutra del Nirvana Definitivo, sono ospitati nel già citato canestro dei Sutra (il Suttapitaka).(4)
A questo punto, può risultare utile una cronologia essenziale della vita del Buddha Shakyamuni, tratta dall’antologia “La vita di Buddha nei testi del Canone Pali”. Le date sono ovviamente ipotetiche:

8 aprile 566 a.C. (o una data intermedia fra il 557 e il 570)
Il principe Siddhartha (“Colui che ha raggiunto lo scopo”) nasce nel Parco di Lumbini, presso Kapilavastu, capitale dello stato himalayano degli Shakya, una oligarchia guerriera che vantava fra i suoi antenati Gautama, veggente dell'epoca vedica. Il padre è il re Suddhodana, la madre la regina Maya; a una settimana dal parto Maya muore e il principino viene lasciato alle cure della zia materna Mahaprajapati.

550 a.C.
Vengono celebrate le nozze del principe sedicenne con la cugina Yashodhara (sembra tuttavia che successivamente egli abbia avuto anche un'altra moglie di nome Gopa).

537 a.C.
A 29 anni abbandona la reggia di Kapilavastu e rinuncia alle ricchezze per dedicarsi alla vita ascetica.

536 523 a.C.
Segue alcuni guru del suo tempo. A Vaisali (odierna Besarh) diviene discepolo di Arada Kalama che lo istruisce sulla "sfera del nulla". Insoddisfatto dei risultati, si trasferisce nel Magadha, regione nord orientale dell'India. Qui, nei pressi del Gange, diviene discepolo di Udraka Ramaputra, assieme ad altri cinque discepoli. In seguito Siddhartha abbandona anche questo guru e diviene un libero anacoreta della giungla. Affiancato dai cinque compagni, si dedica a pratiche penitenziali di mortificazione e di digiuno.

523 a.C.
Dopo aver abbandonato la via della mortificazione ed essere stato, per questo motivo, respinto dai cinque compagni, siede in meditazione sotto l'albero pipal (Ficus religiosa) e medita per sette giorni. Alla fine, nella notte del plenilunio dell'8 dicembre secondo la tradizione conquista l'illuminazione e diviene un Buddha.

522 a.C.
Recatosi a Benares, città sacra sita in riva al Gange, ritrova i cinque compagni e predica loro il cosiddetto Sermone di Benares, che contiene la prima esposizione della Legge buddhista. Nello stesso anno Bimbisara, re del Magadha, mecenate e amico personale del Buddha, gli fa dono della Foresta di bambù, favorendo così la diffusione del suo insegnamento.

522 a.C. e post
Per una quarantina di anni il Buddha si dedica alla vita della Comunità e a un fecondo proselitismo: converte laici, asceti erranti, briganti, giovani brahmani e ricche cortigiane.

507 a.C.
Si sceglie come servitore il fedele Ananda: divenuto eminente discepolo, quest'ultimo ricordava a memoria tutti i grandi discorsi del Buddha e li recitò nel primo concilio di Rajagrha.

486 a.C. (o una data Intermedia fra il 477 e il 486)
Il Buddha entra nel Parinirvana: il suo corpo viene cremato e le reliquie vengono divise fra la Comunità. (5)

Tra i tanti episodi della vita del Buddha che sarebbe possibile citare, se ne riporta qui uno in particolare, forse non molto noto, che può rivestire un particolare interesse per il lettore occidentale in quanto riporta alla mente la vicenda, narrata nel Vangelo di Luca, della presentazione al Tempio di Gesù e dell’incontro con Simeone.
Asita rende visita al futuro Buddha
È la storia del veggente Asita, un grande yogi, il quale, avendo saputo della nascita del futuro Buddha, si reca al palazzo degli Shakya per vederlo.
Infatti Asita, grazie ai suoi poteri yogici, aveva osservato un gruppo di Deva che manifestavano grande felicità e aveva chiesto loro il motivo di tanta gioia. Gli dei gli avevano così risposto:
"Nella città degli Shakya, nel parco di Lumbini, è venuto al mondo il Bodhisatta [in sanscrito bodhisattva], la perla mirabile, l'incomparabile; egli viene per il bene e per la felicità degli uomini, e per questo noi siamo così felici e gioiosi. Colui che è la più eccelsa di tutte le creature, l'uomo superiore, il primo degli uomini, il più grande di tutti gli esseri, farà girare la Ruota del Dhamma nel bosco dei Veggenti, lui che ruggisce come un leone, il poderoso re degli animali".
All'udire queste parole l'eremita Asita scese rapidamente dal cielo e si recò al palazzo di Suddhodana, dove si sedette al cospetto degli Shakya e domandò loro: "Dov'è il principe? Anch'io desidero vederlo". Allora gli Shakya mostrarono ad Asita il bambino, il loro principe, splendente come l'oro fuso nel crogiolo da un valente artigiano, mirabile nella sua gloria e nella sua bellezza incomparabile. Quando vide il principe splendente come una fiamma viva e come le stelle del firmamento, come il sole d'autunno quando è limpido e non offuscato da nubi, Asita si abbandonò alla gioia e fu rapito in estasi.
I Deva del cielo tenevano sospeso nello spazio etereo che divide il cielo dalla terra un baldacchino, sontuoso nel dedalo di una miriade di stoffe e drappeggi, e agitavano code di yak impugnandole con manici d'oro; ma i Deva che sostenevano il baldacchino e agitavano le code di yak erano visibili solo all'asceta. Al colmo della felicità l'eremita Asita, chiamato la Gloria Nera, che portava i capelli a trecce, accolse quel bambino simile a una pietra preziosa scintillante su una stoffa color arancio, maestoso sotto il baldacchino innalzato in suo onore; esperto nell'interpretazione dei segni e dei presagi, Asita fece allora risuonare la sua voce gioiosa per salutare come si conviene il capo degli Shakya: "Ecco l'Incomparabile, il Capo di tutti gli esseri umani".
Ma poi, ricordandosi della sua età ormai avanzata, cadde in uno stato di profonda tristezza e si mise a piangere. Di fronte alle sue lacrime, gli Shakya chiesero ad Asita: "Forse che il bambino corre qualche pericolo?". Per tranquillizzare gli Shakya l'eremita rispose: "Non prevedo nulla di funesto per il bambino, e non c'è alcun pericolo per lui, perché non è un essere inferiore: non è, infatti, di casta inferiore; non abbiate allora alcun timore.
"Questo principe raggiungerà il grado più alto dell'Illuminazione perfetta e farà girare la Ruota del Dhamma; lui che possiede lo sguardo puro, e vede ciò che per gli uomini è bene, diffonderà lontano la Via Santa.
"Ma la mia vita volge ormai alla fine, e la morte mi coglierà mentre il bambino sorriderà alla vita; io non ascolterò il Dhamma dell'Incomparabile: ecco perché sono così triste".
Dopo aver riempito di gioia gli Shakya egli lasciò il palazzo per andare a riprendere la sua vita religiosa(6).

Alcuni secoli dopo, si leggerà nel Vangelo di Luca, 2,22-35:
Quando venne il tempo della loro purificazione secondo la Legge di Mosè, [Giuseppe e Maria] portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore, come è scritto nella Legge del Signore: ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore; e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la Legge del Signore.
La presentazione al Tempio di Rembrandt
Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, che aspettava il conforto d'Israele; lo Spirito Santo che era sopra di lui, gli aveva preannunziato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Messia del Signore. Mosso dunque dallo Spirito, si recò al tempio; e mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere la Legge, lo prese tra le braccia e benedisse Dio:
«Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola; perché i miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele».
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l'anima»”.


Senza addentrarsi ulteriormente nelle ricerca di analogie tra storie appartenenti ad epoche, luoghi e tradizioni molto lontane tra loro, è sufficiente osservare i due diversi atteggiamenti umani: Asita, dopo aver provato gioia ed essere entrato in uno stato estatico, si rattrista e piange pensando alla sua prossima morte e quindi all’impossibilità di ascoltare gli insegnamenti del futuro Buddha. Al contrario, Simeone si abbandona “in pace” alla volontà divina, e quindi alla morte, avendo potuto vedere di persona la luce della salvezza per tutti i popoli.

NOTE

(1)    In: La rivelazione del Buddha, vol. I – I testi antichi, a cura di R. Gnoli, Ed. Mondadori, pag. 1181.
(2)    Id., pag. 1141.
(3)    Si tratta probabilmente dei canestri nei quali venivano conservati gli insegnamenti scritti su supporti di origine vegetale.
(4)    Molti testi del Canone Pali sono leggibili, tradotti in italiano a cura di Enzo Alfano, nel prezioso sito Internet: http://www.canonepali.net/index.html.
(5)    Dall’Introduzione di G. Burrini a: V. Cucchi (a cura di), La vita di Buddha nei testi del Canone Pali, Ed. Xenia, pagg. XI-XI.
(6)    L’episodio di Asita è narrato nel Mahavagga 679-697, ed è leggibile nel sito “in quiete” di Gianfranco Bertagni: (http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/buddhismo/cucchi.txt). L’incontro tra Asita e Siddhartha è riportato in maniera estesa nel più tardivo Buddhacarita di Asvaghosa (di cui si parlerà successivamente), nel Canto I, 49-80.

ottobre 2014

venerdì 17 ottobre 2014

La parabola come genere letterario: il Sutra del Loto

Si legge nel Vangelo di Matteo (13, 10-13): “Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: Perché parli loro in parabole? Egli rispose: Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli ma a loro non è dato. Così a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. Per questo parlo loro in parabole, perché pur vedendo non vedono e pur udendo non odono e non comprendono”.

Che cosa è una parabola? Secondo quanto si legge nei dizionari della lingua italiana, con il termine “parabola” si intende, in letteratura, la narrazione di un fatto immaginario, sebbene appartenente alla vita reale, con la quale si vuole suggerire una qualche verità, o illustrare un insegnamento di carattere etico o religioso. Si tratta quindi di una similitudine, di un confronto tra due identità, in una delle quali si individuano proprietà somiglianti e paragonabili a quelle dell'altra.

L’uso delle similitudini è molto comune nella letteratura classica: nella Bibbia (Sapienza 2,4: “La nostra vita passerà come le tracce di una nube, si disperderà come nebbia scacciata dai raggi del sole e disciolta dal calore”), in Omero (Iliade, libro XVI: “Perché piangi, o Patroclo, come una bimba, piccola che corre dalla madre per essere presa in braccio, le prende la veste, e non la lascia camminare, ma piangendo la guarda dal basso, perché la prenda in braccio: a lei assomigli, Patroclo, versando tenere lacrime”), in Dante (Inferno, I, 22-24 : “E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva, si volse a l'acqua perigliosa e guata, così l'animo mio, ch'ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva”), e lo si trova sovente anche nella letteratura buddhista, ad esempio nei versi del Dhammapada, il fondamentale testo dell’etica buddhista:

Come la vespa sul fiore, senza sciuparne il colore o l’odore, vola via dopo succhiato il nettare, così si comporti il monaco al villaggio” (4,49).
Proprio come un blocco di solida roccia non si muove con il vento, così dalla lode e dal biasimo non sono scossi i saggi” (6,81).
Come la macchia di ruggine che sorge nel ferro mangia corrodendo se stessa, così dedicandosi troppo ai beni della vita le proprie azioni conducono alla rovina” (18,240). (1)

La parabola è in definitiva un confronto tra due elementi, una similitudine, sviluppata però fino a costituire un vero e proprio racconto a se stante (2).

Il termine “parabola” trova la sua origine nel greco antico: il vocabolario greco-italiano di Lorenzo Rocci traduce il sostantivo “parabolé” con “ravvicinamento”, “giustapposizione”, “confronto”, “comparazione”, ed anche con “proverbio”, “favola” ecc., oltre ai significati geometrici o astronomici che qui non interessano.

Parabolé (da cui originano anche “parlare”, “parola”, in spagnolo “palabra”) è composto dalla preposizione “para” (= accanto, a lato, in confronto) e dal verbo “bàllein” (= gettare, scagliare, mettere). Parabolé è quindi mettere accanto, accostare una narrazione ad un’altra, per permettere la comprensione del senso profondo di un discorso, in particolare di un insegnamento.

Secondo il sito Internet www.treccani.it, “il termine è riferito oggi esclusivamente alle 49 parabole contenute nei vangeli sinottici”, il che non è del tutto esatto, in quanto non solo l’insegnamento per mezzo di parabole era già molto diffuso nell’ambito giudaico pre-cristiano, ma era (ed è tuttora) parte essenziale del “linguaggio intenzionale”, cioè del linguaggio utilizzato dai maestri buddhisti, a partire dal Buddha Shakyamuni stesso, per spiegare ai discepoli e agli ascoltatori ciò che non può essere validamente reso con forme di discorso del tutto concettuali, razionali, prive di contraddizioni.

Il Picco dell'avvoltoio a Rajgir (Bihar, India), dal quale il Buddha espose gli insegnamenti del Sutra del Loto

Nel II capitolo del Sutra del Loto il Buddha si rivolge al discepolo Shariputra con queste parole: “Profonda, difficile da percepire, difficile da capire è la conoscenza buddhica penetrata dai Tathagata (..). Difficile da capire è il linguaggio intenzionale del Tathagata(3). E per tre volte Shariputra chiede al Buddha la ragione delle sue parole. Alla prima, il Buddha risponde che “il mondo con i suoi dei si spaventerebbe se parlassi di un tale argomento(4). Alla seconda, che “il mondo con i suoi dei si spaventerebbe [e] qualche monaco orgoglioso cadrebbe in grande disgrazia(5). Alla terza, il Buddha accetta di rispondere ma, prima ancora che inizi a parlare, 5000 monaci, monache, laici e laiche si alzano e abbandonano l’assemblea, poiché “a causa delle loro radici di arroganza, si immaginavano di aver ottenuto ciò che non avevano ottenuto, di aver realizzato ciò che non avevano realizzato(6). E il Buddha, rimanendo in silenzio, approva: “la partenza degli orgogliosi è un bene(7). Questo fatto e le conseguenti parole del Buddha, apparentemente contrarie allo spirito di compassione che anima gli insegnamenti Mahayana, sono così commentate da Thich Nhat Hanh: “Coloro che abbandonano l’assemblea non sentono di poter imparare ancora qualcosa di nuovo; con un simile atteggiamento non sarebbero in grado di ricevere il vero significato(8) degli insegnamenti. Se una persona non è pronta, matura, per ricevere il vero senso di un insegnamento, ascoltarlo potrebbe essere per lei ancor più dannoso che non udirlo.

Ma che cosa è il linguaggio intenzionale di cui ha parlato il Buddha, definendolo “così difficile da capire”? E’ un linguaggio (in sanscrito chiamato samdhabhasya) utilizzato proprio dai Risvegliati per spiegare ciò che non può essere verbalizzato, ciò che, come l’autentico insegnamento del Dharma, trascende la sfera della ragione e che pertanto non può essere ridotto a concetti (9). E’ “un modo di parlare che ci consente di dire anche ciò che non è possibile dire. Dove le parole alludono, rimandano a qualche cosa che non è l’oggetto letterale del discorso, oppure lo è, ma non va inteso come detto. Nella cultura buddhista l’obiettivo di quel modo di esprimersi è non nascondere, non coprire, non distorcere, non rivelare(10). Il linguaggio intenzionale, di cui le parabole sono un elemento essenziale, è quindi uno tra gli innumerevoli abili mezzi (in sanscrito: upaya) di cui i Risvegliati si servono per insegnare il Dharma. La upayakaushalya, l’abilità nella scelta e nell’uso dei mezzi salvifici, è una indispensabile qualità di una maestro spirituale, che deve “saper scegliere l’insegnamento più adatto a ciascuno e l’azione che è opportuno suggerire o compiere nelle diverse circostanze(11), insistendo più sull’aspetto della saggezza che sulla devozione, o sull’energia piuttosto che sulla contemplazione, o su altri aspetti della pratica. Dando insegnamenti tra loro diversi, talora apparentemente contraddittori. Andando, se necessario, anche contro i comportamenti dettati dalle regole monastiche e dalle norme etiche. Sempre in perfetta armonia con le circostanze e le infinite inclinazioni degli esseri, al cui beneficio gli insegnamenti sono rivolti. La pluralità, talvolta la contraddittorietà, delle azioni salvifiche non comporta relativismo morale, poiché alla loro radice vi è l’elemento unificante della motivazione volta al bene, alla liberazione dalla sofferenza di tutti gli esseri senzienti. E’ quindi evidente l’aspetto funzionale degli insegnamenti (guardare la luna e non il dito; abbandonare la zattera dopo aver traversato il fiume, ecc.), che devono essere adattati alle differenti individualità umane nel loro mutevole contesto culturale.

Questi concetti, presenti già nel buddhismo delle origini, vengono nel buddhismo Mahayana ampiamente sviluppati. E di questo sviluppo il già citato Sutra del Loto è un perfetto esempio.

Il Sutra del Loto è uno dei testi più antichi del buddhismo Mahayana, ed è altrettanto importante quanto il Sutra del Cuore della Saggezza, il Sutra del Diamante, il Sutra di Vimalakirti o altri ancora (12). Il nome completo del sutra è Saddharmapundarikasutra, ovvero Sutra del Loto della Buona Legge (o della Vera Dottrina: Dharma = legge, dottrina, insegnamento). L’esposizione orale del sutra è attribuita al Buddha stesso, mentre nella sua forma scritta (in sanscrito) pare essere stato composto in un periodo che va dai primi anni dell’era volgare al 150.

Lo stupa di Rajgir
Nel 286 e.c. fu tradotto dal sanscrito in cinese dal monaco indiano Dharmaraksa, e nel 406 il famoso traduttore Kumarajiva (13) ne diede una versione, in lingua cinese, tuttora considerata definitiva, con il titolo di Sutra del Loto del Dharma meraviglioso (Miaofalianhuajing, in giapponese Miohorengekyo (14)). Il sutra divenne popolarissimo in tutti i territori in cui si era irradiato l’insegnamento Mahayana: in Kashmir, in Nepal, in Tibet, e soprattutto in Cina e in Giappone, dove ha svolto un ruolo paragonabile a quello della Bibbia in Occidente. E infatti il Sutra del Loto “segna una fase importante per lo sviluppo di un atteggiamento devozionale in seno al buddhismo(15).

In particolare, nel Giappone del XIII sec. il monaco Nichiren (1222-1282) fece “del Sutra del Loto l’unica pratica in grado di salvare gli esseri senzienti in quest’epoca degenerata, detta mappo” [= era della fine del Dharma] e introdusse l’uso dell’invocazione di omaggio al sutra, “Namu Myohorengekyo" destinata a superare, quanto a efficacia, il nembutsu (16) e le pratiche delle altre scuole buddhiste (..). La scuola Nichiren si svilupperà nei secoli a venire. Nel XX secolo si suddividerà in varie sette, tra cui la Nichiren-shoshu, il ramo ortodosso, e la Soka-gakkai, emanazione laica oggi diffusa in tutto il mondo(17).

Il sutra divenne la più importante scrittura anche nella scuola cinese T’ien-t’ai (in Giappone Tendai), e altre scuole, come il Ch’an in Cina e lo Zen e lo Shingon in Giappone, lo tengono in altissima considerazione.

Come spiega Thich Nhat Hanh, il Sutra del Loto deve essere osservato in profondità, per evitare di farsi intrappolare dal suo linguaggio mistico e dallo stile teatrale, quasi barocco, in cui è redatto, vedendo in esso “solo descrizioni di eventi miracolosi e di poteri soprannaturali(18). In particolare, è necessario, per un praticante, studiare il messaggio essenziale del sutra, ovvero che tutti gli esseri hanno in sé la qualità del Risveglio, la capacità di divenire dei Buddha, di entrare in contatto con la dimensione assoluta proprio qui, nella dimensione storica, nella vita di tutti i giorni, nelle azioni quotidiane (19).

Di qui l’importanza del sutra, non a caso chiamato “il Re dei sutra”, anche perché “riesce a combinare insieme e accogliere tutte le scuole del buddhismo(20).

Questi insegnamenti sono ciò che si ritrova nei 27 capitoli di cui è composto il sutra (28 in altre traduzioni), sia nelle parti in prosa sia in quelle in versi. E, in particolare per ciò che qui maggiormente ci interessa, nelle parabole, che si possono leggere nei capitoli dal III all’VIII, e che costituiscono come si è detto uno degli abili mezzi di cui i maestri (non solo buddhisti) si servono per dare i loro insegnamenti agli esseri, quale che sia il loro grado di evoluzione spirituale. 

Il testo tradotto del Sutra del Loto e delle parabole in esso contenute (la casa in fiamme, il figlio ritrovato, il gioiello nascosto ecc.) è reperibile in Internet, ad esempio sul sito http://ilbuddismodinichiren.blogspot.it/2010/05/il-sutra-del-loto-versione-completa-di_27.html, un blog “nato per diffondere il Buddismo di Nichiren Daishonin (Nichiren Shu, Nichiren Shoshu, Soka Gakkai ecc.), e gli altri tipi di Buddismo”.

Se ne consiglia comunque la lettura nell’edizione pubblicata dalla BUR (Biblioteca Universale Rizzoli), tradotta dal sanscrito e annotata da Luciana Meazza.


NOTE

1. Le citazioni sono tratte dalla versione del Dhammapada pubblicata nel 1971 dalle Edizioni Buddhismo Scientifico a cura di L. Martinelli con il titolo Etica buddhista ed etica cristiana.
2. Si veda, in particolare: G. Miegge (a cura di), Dizionario biblico, Ed. Claudiana, pag. 436.
3. Sutra del Loto, Ed. Rizzoli BUR, pag. 71. Le citazioni del Sutra del Loto sono tratte dalla suddetta edizione, tradotta dal sanscrito e annotata da L. Meazza.
4. idem, pag. 79.
5. idem.
6. idem, pagg. 80-81.
7. idem, pag. 81.
8. Thich Nhat Hanh, Il cuore del cosmo, Ed. Mondadori Oscar, pag. 40. Thich Nhat Hanh è un monaco Zen Rinzai vietnamita (nt. 1926), più volte candidato al Nobel per la Pace per il suo impegno durante e dopo la guerra del Vietnam.
9. Cfr. F. Sferra, Introduzione al Sutra del Loto, pagg. 30-31
10. M. Yushin Marassi, Il linguaggio intenzionale, in: www.lastelladelmattino.org/buddista/index.php/23
11. F. Sferra, cit., pag. 31
12. Nella tradizione buddhista ogni scuola, ogni maestro, sceglieva i sutra che riteneva più importanti, più significativi, relativamente alla propria didattica, allo stile di pratica di quella scuola. 
13. Si dice che dopo la sua morte e la sua cremazione si trovò tra i resti la lingua di Kumarajiva ancora intatta, segno certo della sua assoluta affidabilità quale traduttore dei sutra.
14. cfr. la voce “Sutra del Loto” in: P. Cornu, Dizionario del Buddhismo, Ed. Bruno Mondadori, pag. 614.
15. F. Sferra, cit., pag.27.
16. Namu Amida Butsu = omaggio al Buddha Amithaba.
17. P. Cornu, cit., pag. 614. Si calcola che circa il 50% dei buddhisti italiani sia composto da appartenenti alla Soka-gakkai (ad es. personaggi noti come Roberto Baggio, Sabina Guzzanti). Il nome Soka-gakkai significa “società per la creazione di valori”.
18. Thich Nhat Hanh, cit., pag. 13.
19. cfr. idem, pagg. 11-12.
20. idem, pag. 15.

N.B. - Il presente testo è una rielaborazione del post "Le parabole del Buddha" pubblicato il 19.10.2012 leggibile qui:
http://zenvadoligure.blogspot.it/2012/10/unisabazia-200910-le-parabole-del-buddha.html


Mauro Tonko Peretti, settembre 2014

giovedì 16 ottobre 2014

Savona, due pescatori, due marò e un antico codice indiano

Lo scorso 30 settembre, sul sito de Il Fatto Quotidiano, nel blog di Carlo Pizzati, scrittore e docente di teoria della comunicazione, è apparso un post intitolato I due marò e quei “barbari indiani”, che qui di seguito viene interamente proposto. Va da sé che l’argomento del post riguarda la ben nota vicenda dei due “marò” italiani che nel febbraio 2012 hanno ucciso due pescatori indiani, avendoli scambiati per “pirati” all’attacco della petroliera italiana sulla quale i due militari prestavano servizio proprio in funzione anti-pirateria. Fino ad oggi i due “marò”, uno dei quali è tuttora trattenuto in India, non sono ancora stati sottoposti a giudizio dalla magistratura indiana.

Ha scritto Carlo Pizzati:

I due marò e quei ‘barbari indiani’     
In questi giorni una esponente di Fratelli d’Italia-An ha criticato il Festival del Cibo di Strada di Cesena per aver invitato tra i suoi stand gastronomici anche l’India, paese, a suo dire, “da colpire” per il trattamento riservato ai marò.
Quest’estate il sindaco ed europarlamentare leghista di Borgosesia (Vercelli) ha stabilito che i cittadini indiani residenti nella sua cittadina non avrebbero potuto accedere alle sovvenzioni comunali senza prima sottoscrivere una dichiarazione di condanna dell’atteggiamento del Governo di Delhi sulla vicenda dei marò. “I cittadini indiani che vorranno fare ricorso alle sovvenzioni previste per i residenti in Italia dovranno anche fare richiesta, nella stessa dichiarazione, della liberazione dei marinai italiani.”
In primavera, un politico lombardo ha imposto il divieto di girare a Lecco alcune riprese di un film bollywoodiano, anche se pare che la produzione avesse già deciso di andarsene altrove. A febbraio, il concorso di bellezza riservato a ragazze italo-indiane “Miss India Italy” previsto a Bari, è stato “rimandato in data da definire”. A gennaio il sindaco di Arzignano (Vi), dove la comunità indiana è di quasi 1500 persone, ha rifiutato l’invito di partecipare alla festa della Repubblica Indiana al Consolato di Milano, in sostegno ai due militari. Pure all’Expò di Milano, Forza Italia e Fratelli d’Italia avevano tentato di boicottare lo stand indiano, ma con italica armonia non erano riusciti a raggiungere il quorum. Questa invece è una frase che ho sentito in un ristorante romano dalla voce di un gallerista d’arte: “E questi stupratori sarebbero quelli che devono giudicare i nostri marò?” Uno status update di “Salviamo i nostri Marò -Comunità Facebook” proclama invece: “Ricordiamo i nostri marò, da tempo immemore prigionieri dei barbari indiani.”
Questi non sono sfoghi o episodi così rari nei luoghi pubblici, sui social network, nelle bettole dello sproloquio viscerale che si dipana spesso tra commenti sempre più esaltati e ignoranti.
Dall’inizio della crisi dei marò ad oggi, non dai primi mesi in cui il caso annegava nella noncuranza, ma da quando s’è capito che il processo non solo non si risolveva in fretta, ma non accennava proprio a iniziare, è nata una nuova categoria di arrabbiati: quelli che cercano di interpretare ogni notizia in arrivo dall’India per dimostrare quanto ingiusto sia il trattamento subito dai due fucilieri di marina italiani. E quelli che pensano che penalizzando o mettendo pressione sui cittadini indiani che vivono in Italia possa aiutare in qualche modo a far sì che l’esecutivo faccia pressioni sul sistema giudiziario indiano.
È indubbio che il trattamento sia irrispettoso di un giusto processo e che il pasticcio sia grave e che a farne le spese siano i diritti dei due marò. Ma serve davvero abbrutirsi e incaponirsi contro i cittadini indiani residenti in Italia? Serve denigrare un intero paese e i suoi abitanti a causa del suo sistema giudiziario?

Chi segue questo blog sa bene che molto raramente i post che pubblico trattano argomenti “politici” in modo diretto ed immediato. Ma in questo caso ritengo necessario fare un’eccezione, anche perché la querelle ha toccato da vicino perfino il territorio savonese.

Carlo Pizzati cita il caso del sindaco di Borgosesia, ed altri episodi simili di discriminazione, di opportunismo politico, di più o meno dichiarato razzismo e xenofobia. Ma, nel suo piccolo, anche Savona ha dato il suo contributo: Angelo Vaccarezza, in quei giorni ancora presidente della provincia di Savona (ma non sono state sciolte?), invitato a partecipare all’importante festività hindu del Ganesh Chaturthi (31 agosto) presso il monastero Ashram Gitananda di Altare, uno dei più grandi centri di pratica dello yoga in Europa e punto di riferimento per gli tutti gli induisti in Italia, ha preferito declinare l’invito, affermando: “condividere questa giornata con l’ambasciatore dell’India a Roma, rappresentante di una nazione che da più di due anni tiene in ostaggio i nostri due marò del reggimento San Marco mi costringe, per ragioni di rispetto all’evento ed ai fedeli, di non prendervi parte”. E poi: “Un’assenza indotta dalla volontà di non creare alcun disturbo alla liturgia della festa, cosa che sicuramente accadrebbe se intervenissi visto che non potrei sottrarmi dall’obbligo di esprimere profonda indignazione, prima come italiano e poi come rappresentante di un’istituzione, nei confronti di un Paese indifferente alla sorte di due militari italiani prigionieri senza alcun diritto”.

La festività di Ganesh Chaturti ad Altare
Personalmente, non posso che condividere pienamente quanto Carlo Pizzati ha scritto. Poi, le affermazioni del sig. Vaccarezza non fanno che rafforzare la mia opinione ed il mio sentire: le domande retoriche che chiudono il post di Pizzati (serve abbrutirsi e incaponirsi contro gli Indiani in Italia? serve denigrare l’India e gli Indiani tutti a causa del loro sistema giudiziario?) non possono che ricevere una risposta negativa. No, non serve. Perché “incaponirsi contro gli Indiani” non fa che abbrutire ulteriormente noi stessi. Serve solo ad approfondire la frammentazione che già ora avvelena i rapporti umani in questa società. Non fa che creare ulteriori sofferenze, a partire dalle sofferenze materiali, morali e spirituali già presenti.

Non intendo entrare nel merito di quanto avvenuto nel 2012 nelle acque...indiane? internazionali?, non ho né i dati nè le competenze per  formarmi un’opinione precisa sulle cause che portarono due militari professionisti a confondere dei pescatori con dei pericolosi pirati. Evidentemente, le moltissime persone, politici, giornalisti, bloggers, opinion makers, cittadini comuni, che continuano ad esternare il loro pensiero hanno a disposizione tali strumenti, e le loro idee sono certo fondate su dati di fatto e non sono condizionate da pregiudizi né manipolate con finalità di vario genere… Nemmeno intendo disquisire sul sistema giudiziario indiano, sulle sue lungaggini procedurali, né sui problemi politici dell’India che influiscono sulla vicenda. Non li conosco. Punto.

Mi rifaccio solo a quanto scrive Carlo Pizzati a proposito dell’ondata anti-indiana che percorre l’Italia, e lo faccio a partire dalle parole di un grande filosofo, Ludwig Wittgenstein: “Chi non è certo di nessun dato di fatto, non può neanche esser sicuro del senso delle sue parole”.
E un dato di fatto certo è la civiltà della valle dell’Indo. Definire gli Indiani come “barbari”, presumo nel senso di popolo privo di cultura, di storia, si scontra con la realtà dei fatti.

Dejà vu...
Un solo esempio, più che sufficiente, e proprio nel campo delle leggi, del diritto: il Libro delle Leggi di Manu, il Manu-smrti o Manavadharmashastra, un codice attribuito al mitico Manu, il primo uomo, figlio di Brahma e fondatore dell’ordine sociale. Si tratta di un testo (disponibile anche nella traduzione italiana) diviso in 12 libri, elaborato in un periodo compreso tra il II sec. a.C. e il II d.C., che espone i diritti e i doveri di tutti i varna, le cosiddette “caste” (non a caso termine portoghese di origine coloniale), per tutti i quattro stadi della vita degli individui, dallo studente al padre di famiglia, al “ritirato nella foresta”, al rinunziante. Nel Codice di Manu si trovano miti cosmogonici ed una esposizione delle età dell’universo, i quattro yuga, con la storia del decadimento dall’originaria età dell’oro al progressivo avanzare dei vizi e delle sofferenze fino all’era attuale, il kali-yuga, dominata dall’interesse materiale, dalla ricerca del potere, dalla violenza. Temi, come si vede, di estrema attualità, anche nel progredito Occidente.

L’origine del testo di Manu è da ricercarsi in manuali ancora più antichi, risalenti al I millennio a.C., compilati dapprima con lo scopo di educare i discepoli delle scuole vediche, e successivamente riconosciuti come fonte di norme valide per tutti, rappresentando così, come ha scritto lo studioso R. Pal, “la summa delle condizioni della coesistenza sociale, in riferimento all’attività della comunità e dell’individuo”. Proprio quella coesistenza sociale, quell’armonia nelle persone e tra le persone, che i pensieri, le parole e le azioni dei nuovi razzisti, più o meno consapevoli, stanno mandando velocemente in frantumi.

 Il solo fatto di trovarsi di fronte ad un’opera di tale portata (come d’altra parte lo sono la Legge Mosaica, il Codice di Hammurabi o il Corpus Iuris Civilis) dovrebbe semplicemente tacitare, in quanto dato di fatto incontrovertibile, coloro che parlano di “barbari indiani”, ed anzi dovrebbe diventare una buona occasione per aprire la mente, per osservare le motivazioni profonde dei propri atteggiamenti e per cercare di porre rimedio alle sofferenze provocate (a sé e agli altri) dall’ignoranza, dal pregiudizio, dai condizionamenti che ci fanno osservare il mondo attraverso una cannuccia di paglia e ci fanno credere che la pozzanghera in cui sguazziamo, e che forse si prosciugherà presto, sia l’intero oceano.
Ma tant’è…



Per chi volesse approfondire:

W. Doniger, Le Leggi di Manu, Ed. Adelphi
F. Squarcini, Il Trattato di Manu sulla Norma, Ed. Einaudi
Stutley, Dizionario dell’induismo, Ed. Ubaldini
AA.VV., La civiltà indiana, Ed. UTET

Per il post di Carlo Pizzati:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/30/i-due-maro-e-quei-barbari-indiani/1138308/
Per le dichiarazioni di Angelo Vaccarezza:
http://www.ivg.it/2014/08/festa-di-ganesha-ad-altare-vaccarezza-declina-linvito-sono-indignato-per-la-sorte-dei-due-maro/, nonché gli articoli pubblicati sui quotidiani a fine agosto.
Sul Ganesh Chaturti presso il Gitananda Ashram di Altare:
http://www.hindu-temple.net/fotogallery-festivita/
http://www.stpauls.it/jesus06/0610je/0610je44.htm