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giovedì 9 novembre 2023

INTRODUZIONE AL PENSIERO TRADIZIONALE CINESE - 3 - Il Libro dei Mutamenti: dalla Cina all'Occidente, dalla Tradizione alla Modernità

 

Lezione 3 – Il Libro dei Mutamenti: dalla Cina all’Occidente, dalla Tradizione alla Modernità

 Si è accennato in precedenza alla figura di Fu Xi, il primo dei Tre Augusti, con quattro occhi e con coda di serpente, fratello-sposo di Nüwa. Egli fu colui che diede forma allo Yi Ching, il famoso testo il cui nome (che è possibile trovare romanizzato come I Ching, I Ching, I King) è traducibile con Libro dei Mutamenti o Libro delle Mutazioni.

Secondo René Guénon, e secondo il linguaggio del mito, è proprio con Fu Xi (che lo studioso francese romanizza con Fou-hi) e con la sua opera che inizia la storia del territorio oggi noto come Cina. A lui e allo Yi Ching si collega infatti l’insieme delle conoscenze che costituiscono l’essenza della Tradizione cinese e che saranno note in Occidente come Daoismo e Confucianesimo. Ma il nome di Fu Xi non è importante in quanto identificazione di una figura storica, bensì come designazione di un ruolo e di un intero periodo che si estende per diversi secoli.

È un po’ ciò che si può dire in Occidente relativamente alla figura di Omero, per quanto concerne la storia della letteratura: Omero non come nome di uno specifico autore (come Dante Alighieri o Giacomo Leopardi), ma come nome “plurale”, che designa un insieme di persone che idearono, narrarono verbalmente, raccolsero, trascrissero nel corso del tempo miti e storie che fornirono le basi di una civiltà.

Da notare poi che è del tutto possibile che “ciò che appare come un inizio sia stato in realtà soltanto il risveglio di una tradizione molto anteriore, la quale però dovette allora assumere una forma diversa per adattarsi a condizioni nuove” (Guénon). Infatti molto spesso i pensatori di quelle epoche già di per sé lontane nel tempo affermavano che gli insegnamenti che proponevano non erano nati con loro, ma provenivano da tempi ancora più remoti. E tali insegnamenti avevano probabilmente origini non umane, trascendenti: secondo alcuni, le conoscenze che Fu Xi riportò nel suo Yi Ching furono da lui viste inscritte sul dorso di un drago uscito da un fiume, un essere che riunisce in sé le potenze del Cielo e della Terra.

In ogni caso, è indubbia nel mito originario dello Yi Ching la presenza dell’elemento animale: infatti secondo un’altra narrazione l’Augusto Fu Xi avrebbe ideato il nucleo fondamentale del testo, costituito come vedremo da linee intere e spezzate, studiando le screpolature che si formano nel carapace della tartaruga quando questo viene posto nel fuoco con la funzione di consultazione oracolare, secondo una tipica pratica sciamanica della Cina antica.

Ed ancora: il carattere Yi, che fa parte del titolo dell’opera ed è solitamente tradotto con mutazioni, mutamenti, è la romanizzazione del pittogramma di una lucertola, o forse di un camaleonte, entrambe perfette immagini della continua trasformazione delle cose all’interno di una visione ciclica del tempo, caratteristica di ogni cultura tradizionale. Altri animali, dunque, ulteriore rimando alla tradizione sciamanica, che nel mondo della natura era pienamente integrata.

Lo Yi Ching rinvia pertanto ad epoche remote, proto-storiche, di cui costituisce un vero e proprio documento scritto, e di cui è forse impossibile, ma probabilmente inutile, cercare un autore identificabile. È certo il più antico testo scritto della tradizione cinese (nel 1143 a.C. l’imperatore Wen ne scrisse un commentario!), e non solo di quella. È riconosciuto essere uno dei testi più importanti dell’umanità intera. Costituisce l’autentica radice originaria delle tradizioni filosofiche cinesi successive. Nell’Introduzione alla sua traduzione in tedesco del 1923, il sinologo Richard Wilhelm scrisse infatti che nello Yi Chingè contenuta l’elaborazione più matura della saggezza di millenni. E non desta dunque meraviglia se ambedue i rami della filosofia cinese, il Confucianesimo e il Taoismo, abbiano qui le loro radici comuni”. Ed anche il Buddhismo, che pure giunse in Cina diversi secoli dopo la sua nascita in India, condivise in buona parte la visione del mondo proposta dallo Yi Ching, contribuì ad arricchirla e a sua volta ne fu certamente influenzato.

Troviamo pertanto, forse inaspettatamente, nel contesto delle culture e delle pratiche sciamaniche (che molti definirebbero primitive) l’atto di nascita di tradizioni filosofiche millenarie, colte, raffinatissime, come d’altra parte accadde in India, o nel bacino mediterraneo, e altrove.

 Come già detto lo Yi Ching è originariamente costituito da una raccolta di segni destinati all’uso oracolare, divinatorio. Segni che si evidenziavano – in maniera per nulla casuale, secondo la visione tradizionale – sul guscio di una tartaruga esposto al fuoco. Successivamente i segni verranno ricavati dalla manipolazione di steli di millefoglie (Achillea) o dal lancio di monete, cosa che tuttora avviene in diversi ambiti non solo della Cina con le più diverse finalità, ad esempio per “leggere il futuro”, in una sorta di “deriva” superstiziosa, oppure con un approccio di ordine spirituale, come una sorta di personale meditazione.


 I più antichi tra gli oracoli si limitavano probabilmente a dare risposte essenziali, sì o no. E questo tipo di risposte sta alla base dello Yi Ching: una linea intera per il sì, una linea spezzata per il no. Ma non per questo lo Yi Ching è un testo semplice, di facile consultazione: per rispondere ad esigenze di maggior differenziazione, le due linee (poi chiamate yang e yin) si raddoppiarono (originando quattro combinazioni), e poi si aggiunse un terzo elemento, per cui nacquero otto segni.

Si tratta del processo, successivamente descritto nel libro fondamentale del Daoismo, il Dao De Ching, secondo cui dal Principio primordiale, Wu Ji, talvolta “rappresentato” da un semplice cerchio (lo enso del Buddhismo Zen giapponese), si manifesta il noto simbolo del T’ai Chi T’u (il simbolo del Principio Supremo) suddiviso nelle due polarità, Yang e Yin, che corrispondono ad una linea intera e ad una linea spezzata. Per raddoppiamento ne nascono le Quattro Immagini (associate alle stagioni) e, con l’aggiunta di una terza linea intera o spezzata, gli Otto Segni (otto trigrammi, Ba Gua), associati ad otto “elementi”. Questi non sono concepiti come “cose” definite, ma come energie, “stati” transitori di ciò che accade in cielo e in terra: così, l’interazione tra le energie rappresentate dagli otto trigrammi dà luogo all’intero mondo fenomenico, le Diecimila Cose: gli otto segni si moltiplicano nei 64 esagrammi (2 x 4 x 8), raccolti nell’opera, ognuno con un proprio nome (es. Kkienn, il Creativo, il Cielo; Mong, la Stoltezza Giovanile; Sung, la Lite; Ta Yu, il Grande Possesso…).


 Mentre i trigrammi rappresentano concetti, condizioni, cose, gli esagrammi composti da due gruppi di tre linee introducono il rapporto e l’interazione tra questi stessi concetti, condizioni e cose, nonché le loro mutue e reciproche reazioni, simboleggiando l’interazione dell’intero mondo manifesto nei suoi poteri di attrazione e repulsione.

 Come si vede, l’idea fondamentale che sottostà all’I-Ching è quella del mutamento, della trasformazione vicendevole delle due forze fondamentali, yin e yang, l’una nell’altra.

Infatti, anche gli esagrammi non sono entità statiche, definitive. Ognuno di essi, attraverso la trasformazione di una linea in quella opposta, può mutarsi in un altro, ma in maniera non casuale né deterministica, bensì in base al valore numerico delle linee. Esso risulta, come accennato, dalla lettura delle linee mutevoli (da yin a yang o viceversa) sul guscio della tartaruga, o dall’uso degli steli o delle monete. Il tutto secondo il principio di analogia e corrispondenza delle Tradizioni sapienziali: con le parole di Ermes Trisméghistos, “quod est inferius, est sicut quod est superius, et quod est superius, est sicut quod est inferius”. Il mutamento delle linee corrisponde al mutamento dei fenomeni del cosmo, nulla è per caso.

Ad esempio, l’esagramma Kkunn, il Ricettivo (che rappresenta la Terra, il tardo Autunno), attraverso il mutamento della linea inferiore, si trasforma nell’esagramma Fu, il Ritorno (il tuono, il moto che inizia nella terra dopo il solstizio invernale, il ritorno della luce): 

       

 Naturalmente lo Yi Ching non comprende solo l’elenco dei 64 esagrammi e dei loro nomi. Tutti sono accompagnati da una “sentenza”, una spiegazione, un’immagine e un commento particolareggiato per ciascuna linea. Altri commenti si sono aggiunti nel tempo, facendo sì che lo Yi Ching sia divenuto un vero e proprio testo “stratificato”, composto in momenti diversi, ma comunque tramandato come un’opera unica ormai da duemila anni.

Ogni esagramma è ricondotto ad una configurazione di stati di transizione nel cosmo, che simboleggiano tutto ciò che avviene nel Cielo ed in Terra. I testi che li accompagnano ricollegano i simboli a situazioni umane ed offrono consigli di massima e indicazioni sul modo di affrontarle.

Quindi, oltre che essere un testo di consultazione da parte di individui, collettività, funzionari di Stato, Imperatori, una fonte di oracoli e divinazioni, lo Yi Ching divenne anche e soprattutto un  libro di saggezza, che ispirò profondamente coloro che lo studiarono e lo meditarono, a partire dalle due figure emblematiche delle tradizioni cinesi, Laozi e Confucio (Kong Fuzi), che compresero come “tutto fluisce e scorre come il fiume, senza arresto, giorno e notte” (Confucio), non guardando solo alle singole cose in trasformazione, bensì all’eterna immutabile legge del mutamento. Per il pensiero tradizionale il mutamento, come dice la storica Anne Cheng, “è inscritto nell’ordine naturale delle cose: un essere vivente non è mai definito o definitivo, ma contiene già in sé il principio della propria trasformazione”.

Lo Yi Ching costituisce dunque il risultato, e il punto di partenza, di una accurata osservazione della realtà, di uno studio di un mondo in costante mutamento. Però non si tratta di una trasformazione meccanica, di un casuale passaggio dal passato al futuro, bensì di una crescita ciclica di un universo di cui l’uomo è nello stesso tempo parte infinitesima ma anche centro, un essere che soggiace al decreto del Cielo ma che partecipa attivamente agli eventi. È una visione che avvicina, unisce, la tradizione cinese a quella occidentale espressa dal principio ermetico “come sopra così sotto”. Il Cielo e la Terra, e tra i due l’Uomo. Una congiunzione armonica delle polarità, alto e basso, maschile e femminile, luce e oscurità, giorno e notte, calore e freddo, forte e debole, secco e umido, yang e yin, linea intera e spezzata, Fu Xi e Nüwa. In perenne dinamico scambio e mutamento. Nel Cielo, nel gioco delle stelle e dei pianeti, nei cicli lunari e delle stagioni; sulla Terra, nella natura, nelle piante, nei fiumi e sui monti; nell’Uomo, nel corpo, negli organi, nella mente, nella famiglia, nello Stato.

Gli elementi mistici, spirituali, più “interiori” della visione dello Yi Ching contribuiranno maggiormente alla genesi e alla maturazione del pensiero daoista, quelli più “esterni”, più legati ai ruoli sociali, a questo mondo, confluiranno nel pensiero confuciano. La maggior parte degli studiosi vede una netta contrapposizione, una rivalità, tra le due scuole, ma si tratta in realtà di due rami della dottrina originaria, che operano in distinti campi: uno “essenzialmente rivolto alla metafisica pura – secondo le parole di Guénon – al quale si affiancano tutte le scienze tradizionali di portata propriamente speculativa”; l’altro “circoscritto all’ambito pratico e che si mantiene esclusivamente sul terreno delle applicazioni di ordine sociale”.

 Oltre René Guénon, e prima di lui, un altro pensatore occidentale si interessò allo Yi Ching, il filosofo tedesco Gottfried Leibniz (1646 – 1716). Egli si avvicinò al testo grazie ai missionari gesuiti che si erano recati in Cina e ne riconobbe il valore e le potenzialità, ma lo studiò soltanto da un punto di vista logico-matematico, per nulla interessato ad una interpretazione spirituale, men che meno divinatoria. Intuì invece il possibile rapporto tra il sistema di calcolo binario e lo Yi Ching, osservando che la linea intera rappresenta l’unità, e la linea spezzata lo zero. Scrisse su questo un saggio, che fece conoscere l’antico testo Cinese agli Europei, ponendo così le basi per l’attuale utilizzo del sistema binario nella rappresentazione interna delle informazioni negli elaboratori elettronici. Secondo la visione razionalista ed eurocentrica di Leibniz, i Cinesi avevano perduto il significato dei trigrammi e delle linee di Fu Xi “forse da più di un millennio e hanno scritto dei commentari su di essi dove hanno cercato non so quali significati reconditi. C’è voluto che la vera spiegazione venisse loro dagli Europei”.

mercoledì 30 novembre 2016

Gottfried Von Leibniz, la Cina e l’I-Ching

  
Gottfried Wilhelm Leibniz nacque a Lipsia nel 1646, due anni prima della stipulazione dei trattati di Vestfalia con i quali si chiuse una delle guerre più sanguinose della storia, la Guerra dei Trent’anni. Il conflitto, iniziato nel 1618 nei territori del Sacro Romano Impero, aveva tratto origine dalla rottura dell’unità cristiana ad opera della Riforma e dal conseguente atteggiamento antiprotestante della Chiesa Cattolica, dalla crisi degli equilibri tra le potenze europee, dalla posizione centrale della Germania, dalla formazione di alleanze contrapposte dal punto di vista religioso.
Esso si sviluppò prevalentemente in Germania e Italia settentrionale[1], ma quasi tutti i paesi europei furono coinvolti. Le conseguenze per le popolazioni e la loro economia furono disastrose. La sola Germania vide ridursi la sua popolazione del 15-20%, ma secondo alcuni storici le perdite umane vanno calcolate fino a 12 milioni di morti (nella II Guerra Mondiale le perdite complessive della Germania ammontarono a circa 7,5 milioni).
I trattati di Vestfalia del 1648 chiusero sì il conflitto, ma la pace e il clima di tolleranza religiosa che ne scaturirono erano piuttosto, come scrisse poi lo stesso Leibniz, “una specie di tregua sopraggiunta per la stanchezza comune; ciò che fa temere che il fuoco coperto sotto le ceneri riprenda un giorno tutta la sua forza[2].
La città natale di Leibniz fu comunque una della meno coinvolte nella guerra. Questo fatto e il livello sociale e culturale della sua famiglia, di religione protestante (padre e nonno erano docenti di diritto), gli permisero da subito di dedicarsi agli studi, anche se inizialmente “senza direzione”, in maniera poco organizzata: studiò il latino e il greco, i classici, la storia, la poesia. A 13 anni lesse Platone, Aristotele e Plotino, e a 14 si iscrisse all’Università di Lipsia, dove si dedicò alla filosofia, e poi a Jena, per giurisprudenza e matematica. Nel 1663 pubblicò i suoi primi scritti e si immerse nello studio dei filosofi moderni, tra cui Galilei, Cartesio, Hobbes. Nel 1666 dovette scegliere tra la carriera universitaria e quella politica, e optò per quest’ultima. Presso la Corte di Magonza collaborò alla riforma del codice civile, scrisse saggi di argomento filosofico e politico e proseguì i suoi studi filosofici. Compì dei viaggi a Parigi, e qui lesse Pascal e approfondì le sue conoscenze matematiche. Si recò in diverse località dell’Europa, dove svolse una intensa ma ben poco fruttuosa azione diplomatica anche in campo religioso, lavorando per la riunificazione tra Luterani e Calvinisti e tra Cattolici e Protestanti. Si dedicò alla storia dei casati nobiliari, del diritto, delle attività missionarie cristiane in Cina e della stessa civiltà cinese. Intorno al 1684 giunse a maturazione il suo pensiero scientifico, e perfezionò il calcolo infinitesimale, giungendo alle stesse conclusioni cui era pervenuto per altre vie il suo contemporaneo Sir Isaac Newton (1642-1727), da cui fu diviso da un’aspra polemica. Negli ultimi anni di vita Leibniz perse sempre più il favore dei suoi protettori e gli venne addirittura impedito di muoversi da Hannover, dove infine morì nel 1716, ormai dimenticato da tutti, lasciando una grande quantità di scritti filosofici, privi però di organicità e sistematicità.

La filosofia di Leibniz si fondò sulla critica dei limiti delle concezioni meccaniciste allora dominanti, in particolare del pensiero di Cartesio. I principi matematici su cui si reggeva il meccanicismo non erano sufficienti a spiegare la realtà fisica, per cui secondo Leibniz era necessario rivolgersi nuovamente alla metafisica. Egli stesso scrisse nel 1714: “quando cercai le ragioni ultime del meccanicismo e delle stesse leggi del movimento fui sorpreso nel vedere che era impossibile trovarle nelle matematiche e che bisognava tornare alla metafisica[3]. Dopo aver operato la distinzione tra sostanza spirituale e sostanza materiale (entrambe create), Cartesio aveva affermato che l’attribuito principale della prima era il pensiero, della seconda l’estensione: lunghezza, larghezza e profondità costituiscono quindi la natura essenziale della sostanza corporea. Gli aspetti qualitativi esistono solo in chi li percepisce. Proprio queste conclusioni parvero inaccettabili a Leibniz, il quale scrisse infatti che “per rendere ragione delle leggi di natura che l’esperienza ci fa conoscere mi accorsi che non basta conoscere unicamente una massa estesa, ma occorre impiegare anche il concetto della forza, che è intellegibilissimo, benché appartenga al dominio della metafisica[4]. L’estensione era per lui solo un aggregato di parti, divisibili all’infinito, ma che presuppone delle unità non estese, senza le quali negli aggregati non esisterebbe nulla di reale e di sostanziale. Doveva esistere, al di là del mondo fisico dei fenomeni, una realtà meta-fisica, nella quale trovare le ragioni ultime dei fenomeni naturali.
Da queste riflessioni nacque la dottrina delle monadi, per la quale Leibniz è tuttora noto nella storia della filosofia. Le monadi, termine greco (da μονάς, monas, ciò che è semplice, indivisibile) che indica l’unità, sono sostanze semplici, ovvero senza parti, che formano i composti. Sinonimi di monade sono gli spiriti, le anime, le vite, nelle quali non c’è estensione né divisibilità. Sono quindi “assai differenti dagli atomi della filosofia atomistica, i quali, pur essendo fisicamente indivisibili, sono pur sempre estesi e quindi divisibili almeno in linea di principio[5]. Le monadi, non essendo composte di parti, non possono né cominciare né finire naturalmente, ma solo iniziare per creazione e finire per annientamento. Ugualmente non possono vicendevolmente modificarsi, cosa che richiederebbe un passaggio di parti dall’una all’altra. Tutto ciò che avviene in esse avviene secondo quanto stabilito da Dio.
Le monadi sono però diverse l’una dall’altra, il che spiega le differenze tra i fenomeni composti, e sono capaci di percezione e di appetizione: ognuna di esse si rappresenta l’intero universo (percezione), e tende ad una rappresentazione sempre più perfetta di esso (appetizione). Sono pertanto capaci di azione, anzi di un agire finalistico.
Tra le monadi esiste anche una sorta di “gerarchia”, a seconda del grado di “consapevolezza” e di acutezza delle loro percezioni; nasce di qui la differenza tra gli esseri inorganici, il mondo organico vegetale, quello animale e quello umano.
Tutto questo costituisce il vero fondamento dell’universo, dei fenomeni fisici.
Ma se tra le monadi non esiste un vero influsso reciproco, che relazione intercorre tra di loro?
Leibniz trovò la risposta nell’opera creatrice di Dio, il quale ha fatto sì che esse interagiscano come gli ingranaggi di un orologio perfettamente regolato. Il mondo è quindi il frutto di una armonia prestabilita tra le parti, come avviene ad esempio nel rapporto tra il corpo e l’anima.
A partire dalla teoria delle monadi, Leibniz costruì una visione ottimistica del creato, giungendo a dare risposte per lui soddisfacenti ai problemi della libertà dell’uomo, della presenza del male nel mondo e della giustizia di Dio (teodicea).
Nell’atto della creazione di ogni singola monade, Dio, Monade suprema che ha in se stessa la ragione della sua esistenza, ha agito tenendo conto di tutte le altre monadi, prestabilendo la loro reciproca armonia. In Dio si trovano tutte le possibilità, ovvero “il dominio infinito di tutto ciò che, essendo possibile, passerà all’esistenza effettiva come di tutto ciò che, pur essendo possibile, non passerà mai all’esistenza effettiva[6]. Tutti i mondi possibili si pongono davanti a Dio secondo diversi gradi di perfezione, e alla sommità c’è il migliore di tutti. Dio è determinato dalla sua natura (che è bontà e saggezza) a scegliere il meglio, e pertanto il mondo da lui creato è il migliore dei mondi possibili (quindi, non il migliore in assoluto)[7]. Dio è libero nella scelta, ma libertà non significa assoluta assenza di determinazioni, significa invece che ciò che determina è il bene percepito dall’intelletto. Ciò vale anche per l’uomo, che è libero in modo analogo a Dio, ma che non sempre agisce in base alla ragione, e sbaglia nel giudicare ciò che è buono o meno. Agire liberamente significa quindi agire non come si vuole, arbitrariamente, bensì agire realizzando la propria natura.
Quanto alla presenza del male nel mondo, Leibniz operò una distinzione tra male metafisico, morale e fisico. Dio non è causa del male metafisico, il quale è la “limitazione originaria che la natura non ha potuto fare a meno di ricevere con il cominciamento del suo primo esistere…Dio infatti non poteva darle tutto senza farne un Dio[8]. Il male metafisico è quindi una assenza, una privazione, non una realtà positiva creata da Dio.
Il male morale (il peccato) è originato dalla limitazione propria di ogni creatura, che è soggetta ad errore, a valutazioni sbagliate.
Il male fisico consegue infine dai precedenti: è conseguenza etica del peccato e conseguenza materiale dei limiti delle creature.
Quanto precede non risolve ovviamente il problema della teodicea, se si pensa ad un Dio buono, giusto e onnipotente. E Leibniz escogitò una ulteriore soluzione ipotizzando che Dio vuole il meglio e per questo ha creato il male morale quale condizione senza la quale non si potrebbe ottenere il meglio. In tal modo, oggetto della volontà divina continua ad essere il migliore dei mondi, e non il male. L’alternativa sarebbe necessariamente un mondo peggiore…

Leibniz e l’Oriente

In un famoso libro del 1975, Il Tao della fisica, Fritjof Capra, fisico americano e studioso delle interrelazioni tra scienza moderna e filosofie orientali, scrisse che la teoria della monade quale sostanza fondamentale del cosmo e specchio dell’universo avrebbe portato Leibniz “ad una concezione della materia che presenta analogie con quella del buddhismo Mahayana[9]. Ipotizzò quindi un reale influsso del Buddhismo sul filosofo tedesco, basandosi sul fatto che Leibniz aveva conosciuto il pensiero cinese – e quindi anche il Buddhismo di quel paese – attraverso le relazioni e le traduzioni di testi ad opera dei missionari gesuiti in Cina. Le somiglianze tra la teoria delle monadi e la parabola della rete di Indra costituirebbe una prova di tale influenza: si tratta di una metafora che è contenuta nell’Avatamsaka Sutra, un antico testo buddhista, che “concepisce l’universo come un’enorme rete che si estende all’infinito in ogni direzione, proteggendo e accudendo la vita nella sua interezza, senza escludere nulla. Al punto di intersezione di ciascun nodo della rete c’è una lucente gemma, sfaccettata e riflettente. Grazie alle sue molte facce, ciascuna gemma riflette ogni altra, generando una vasta rete di sostegno di tutta l’esistenza[10]. Secondo Capra le gemme della rete sarebbero quindi paragonabili alle monadi.
Ma in realtà le due concezioni sono molto diverse tra loro, sono anzi antitetiche: la monade è un elemento reale, a sé stante, indipendente, creato, e costituisce il fondamento dei fenomeni. Ma il Buddhismo esclude esplicitamente ogni idea di sostanza fondamentale, e vede i fenomeni come vuoti, cioè privi di esistenza intrinseca. Le monadi sono poi “prive di finestre”, secondo l’espressione dello stesso Leibniz, non interagiscono tra loro, mentre i fenomeni, nell’ottica buddhista, sono tra loro interdipendenti, proprio perché vuoti. Per non parlare poi dell’idea di un dio creatore, di una causa prima che non è effetto di una precedente causa, rifiutata da tutte le scuole buddhiste. È quindi da escludere l’ipotesi di una influenza diretta del Buddhismo sul pensiero di Leibniz, ed anche le eventuali analogie, per quanto suggestive, nascono da una lettura superficiale sia della sua teoria sia degli insegnamenti buddhisti[11]. Ancor più radicalmente si esprime l’orientalista Icilio Vecchiotti, secondo cui in Leibniz “non c’è [..] nulla di cinese[12].

È invece assodato che Leibniz studiò la cultura cinese, ed effettivamente lo fece attraverso le traduzioni dei testi classici e le relazioni inviate in Occidente dai missionari gesuiti. I Gesuiti erano giunti in Cina già dal 1582, partendo dalla colonia portoghese di Goa, sul Mare Arabico. Non si limitarono a fare opera di proselitismo, bensì contribuirono a far conoscere in Europa la cultura cinese, dando origine ad un periodo di veri scambi culturali. Il primo ad ottenere il permesso di entrare in Cina fu Matteo Ricci, che nel 1601 si stabilì nella capitale e studiò la lingua e la cultura cinese. Col tempo, i Gesuiti acquisirono un grande prestigio, grazie alle loro competenze anche di tipo scientifico e alla loro abilità diplomatica, al punto che l’Editto di Tolleranza del 1692 autorizzò le conversioni al Cristianesimo, le predicazioni e la costruzione di chiese. Dai primi decenni del XVIII secolo l’interesse dei Cinesi per il Cristianesimo e per i missionari iniziò però a declinare, ed essi furono anche oggetto di persecuzioni. Nel frattempo, i Gesuiti iniziarono ad essere malvisti anche in Occidente soprattutto per il potere che detenevano, ma anche perché considerati “lassisti” dai Domenicani e dai Francescani per il loro atteggiamento tollerante nei confronti delle usanze cinesi (il culto del Cielo e degli Antenati, l’uso di nomi ed abiti locali…)[13]. Fino a che nel 1773 il Papa Clemente XIV soppresse la Compagnia di Gesù, che fu ricostituita solo nel 1814.
Come già detto, gli scritti dei Gesuiti in Cina ebbero grande risonanza in Europa, e ne influenzarono la cultura e l’arte: nascerà di qui la moda delle chinoiseries, caratterizzata dall’utilizzo di immagini ed elementi decorativi ispirati ad una Cina più immaginata che realmente conosciuta. Anche lo stile Rococò, tarda evoluzione del Barocco, trasse in parte le sue origini da ciò che i Gesuiti trasmettevano dall’Oriente ad una Europa assetata di novità. Leibniz non restò immune dal fascino della Cina, anche se come si è visto la sua filosofia delle monadi e la sua teodicea non devono nulla alla filosofia cinese.
Ma non fu così per quanto concerne i suoi interessi per la matematica, un campo in cui il contributo di Leibniz fu ben più rilevante rispetto alla metafisica. Si è già detto dei suoi studi sul calcolo infinitesimale, ma già nel 1673 aveva presentato alla Royal Society di Londra il progetto della prima calcolatrice meccanica in grado di eseguire moltiplicazioni e divisioni.
In un suo breve manoscritto del 1679 si trova lo schema della rappresentazione dei primi cento numeri in base 2, insieme col metodo per passare dal sistema decimale a quello binario e viceversa e per effettuare operazioni con quest’ultimo. Fu così in grado di progettare una calcolatrice basata sul sistema binario, con valori 1 e 0, introdotto anche da Juan Caramuel, matematico spagnolo del 1600. Un’idea che verrà sviluppata appieno solo con la nascita dei calcolatori.
Gli interessi di Leibniz per la matematica vennero poi in parte accantonati, ma mai abbandonati. In una sua lettera del 1697, con cui proponeva la coniazione di una medaglia per celebrare le sue stesse scoperte, paragonò l’armonia del sistema binario a quella della creazione divina dell’universo:
Perché uno dei punti principali della Fede Cristiana [..] è la creazione di tutte le cose dal nulla attraverso l’onnipotenza di Dio; bisogna dire che non c’è una migliore analogia, o anche una dimostrazione di tale creazione, dell’origine dei numeri come qui è rappresentata, usando solo l’unità e lo zero, o il nulla. E sarebbe difficile trovare una migliore illustrazione di questo segreto nella natura o nella filosofia [..].
Non è meno degno di nota che vi compare non solo che Dio creò tutto dal niente, ma anche che il tutto che Egli fece era buono; come possiamo vedere qui, con i nostri occhi, in questa immagine della creazione. Perché invece di non apparire alcun ordine o struttura, come nella comune rappresentazione dei numeri, qui al contrario sono manifesti un ordine e un’armonia meravigliosi, che non possono essere superati. Dato che la regola dell’alternanza fornisce quella della continuazione, così che si può scrivere quanto si vuole senza calcolo o con l’aiuto della memoria, se si alterna all’ultimo posto 0, 1, 0 ,1, 0, 1, ecc., mettendoli uno sotto l’altro; e poi mettendo uno sotto l’altro al secondo posto (da destra) 0, 0, 1, 1, 0 ,0, 1, 1, ecc.; nel terzo 0, 0, 0, 0, 1, 1, 1, 1, 0 ,0, 0, 0, 1, 1, 1, 1, ecc.; nel quarto 0, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 1, e così via. Il periodo o ciclo di cambiamento aumenta così per ogni nuovo posto[14].
Scrisse inoltre: “Sto corrispondendo con il Gesuita Padre Grimaldi, che si trova attualmente in Cina, ed è anche colà presidente del Tribunale Matematico [..]. Siccome mi aveva detto che il monarca di questo potente impero era un amante dell’aritmetica e che ha imparato a far di calcolo nella maniera europea dal Padre Verbiest, il predecessore di Grimaldi, ho giudicato appropriato comunicargli queste rappresentazioni numeriche, nella speranza che questa immagine del segreto della creazione potesse servire a mostrargli ancor di più l’eccellenza della fede cristiana[15].
Infatti nel 1689 durante un viaggio a Roma Leibniz aveva stretto amicizia con il missionario Padre Grimaldi. Da quella amicizia nacque il suo interesse per la Cina, che lo portò poi a scrivere il libro Novissima sinica (Le ultime novità della Cina, del 1697); ma soprattutto grazie al Gesuita conobbe una delle opere fondamentali di quella cultura, l’I-Ching, il Libro dei Mutamenti, opera del mitico imperatore Fu Xi, che sarebbe vissuto tra il 2952 e il 2836 a.C.
Sono date attribuibili più al mito che alla storia, ma si tratta comunque del testo più antico nella storia della filosofia cinese e non solo, nel quale sono espressi i principi cosmologici che sottostanno al Diagramma del Fondamento Supremo, il T’ai Chi T’u, ormai universalmente conosciuto, e spesso semplicemente chiamato “il Tao”, o “Yin e Yang”:


 L’I-Ching (traslitterato anche con I-King) era in origine un testo oracolare, una raccolta di segni utilizzati come oracoli dagli uomini di Stato, che risale certamente ad oltre 3000 anni or sono (già nel 1143 a.C. l’imperatore Wen ne scrisse un commento). Nel tempo acquisì sempre maggiore importanza anche e soprattutto dal punto di vista filosofico-religioso, e divenne oggetto di studi e di commentari da parte dei più grandi maestri di tutte le scuole di pensiero, taoiste e confuciane, a partire da Lao-tzu e Confucio stessi.
Fino ad essere studiato e commentato in tempi recenti (1948) da Carl Gustav Jung, che scrisse la prefazione all’edizione inglese dell’opera[16].
In verità, nell’I-Ching non compare il diagramma del T’ai Chi T’u, ma in una appendice, aggiunta al più antico testo base, è detto:
Per questo vi è nei mutamenti il grande inizio primordiale [il T’ai Chi]. Questi genera le due forze fondamentali. Le due forze fondamentali generano le quattro immagini. Le quattro immagini generano gli otto segni[17].
Si tratta del processo, descritto nel Tao te ching, per cui il T’ai Chi genera le due polarità, che saranno poi chiamate yang e yin e che nell’I-Ching sono rappresentate da due linee, una intera e una spezzata.
Per raddoppiamento ne nascono le Quattro Immagini (associate alle stagioni) e, con l’aggiunta di una terza linea, gli Otto Segni (trigrammi), associati ad otto “elementi”. Questi non sono concepiti come “cose” definite, ma come “stati” transitori di ciò che accade in cielo e in terra: così, l’interazione tra le energie rappresentate dagli otto trigrammi dà luogo all’intero mondo fenomenico, le Diecimila Cose: gli otto segni si ampliano nei 64 esagrammi (2 x 4 x 8), che nell’I-Ching vengono raccolti e affiancati da altrettante “sentenze”, da “immagini” e da dettagliati commentari che interpretano ogni esagramma ed ogni singola linea che lo compone, in base alla loro reciproca relazione, alla posizione all’interno del segno, alle loro qualità ecc.


 Mentre i trigrammi rappresentano concetti, condizioni, cose, gli esagrammi introducono “il rapporto e l’interazione tra questi stessi concetti, condizioni e cose, nonché le loro mutue e reciproche reazioni, simboleggiando l’interazione dell’intero mondo manifesto nei suoi poteri di attrazione e repulsione[18].


  
Come si vede, l’idea fondamentale che sottostà all’I-Ching è quella del mutamento, della trasformazione vicendevole delle due forze fondamentali, yin e yang, l’una nell’altra. Il titolo stesso dell’opera rende esplicita tale visione: I (o yi), come aggettivo, indica ciò che è facile, agevole; come nome, esprime il processo del mutamento: “non v’è niente di più facile del mutamento, in quanto esso è inscritto nell’ordine naturale delle cose: un essere vivente non è mai definito o definitivo, ma contiene già in sé il principio della propria trasformazione[19].
Infatti, anche gli esagrammi non sono entità statiche, definitive. Ognuno di essi, attraverso la trasformazione di una linea in quella opposta, può (si badi: può, non deve) mutarsi in un altro, ma in maniera né casuale né deterministica, bensì in base al valore numerico delle linee.
Ad esempio, l’esagramma Kkunn, il Ricettivo, la Terra, il tardo autunno, attraverso il mutamento della linea inferiore, si trasforma nell’esagramma Fu, il Ritorno, il tuono, il moto che inizia nella terra dopo il solstizio invernale, il ritorno della luce:



Nonostante tutto, Leibniz non mise subito in relazione il suo sistema binario con la logica combinatoria dell’I-Ching, basata come si è visto su due simboli, una linea retta ed una spezzata. Ma grazie a padre Grimaldi conobbe altri missionari gesuiti, fino a che uno di loro, il francese Joachim Bouvet (1656-1730), con una lettera del 1701 (ricevuta nel 1703) gli inviò una riproduzione quadrata e circolare degli esagrammi:


  
Osservando l’immagine, Leibniz intuì finalmente il possibile rapporto tra il sistema binario e l’I-Ching, e scrisse subito una dissertazione intitolata Explication de l’arithmétique binaire, qui se sert des seuls caractères 0 et 1, avec des remarques sur son utilité, et sur qu’elle donne le sens des anciennes figures chinoises de Fohy (Fu Xi).
Vi si legge: “Ciò che vi è di sorprendente in questo calcolo, è che questa Aritmetica per 0 e 1 si trova a contenere il mistero delle linee d’un antico Re e Filosofo chiamato Fohy, che si crede sia vissuto più di quattromila anni fa, e che i Cinesi considerano come il Fondatore del loro Impero e delle loro scienze. Ci sono diversi figure lineari che gli si attribuiscono. Tutte si trovano in questa aritmetica, ma è sufficiente mostrare qui le Figure degli Otto Cova [kua, i trigrammi], come sono chiamati, che sono considerati fondamentali, e di aggiunger loro la spiegazione che è manifesta una volta che si noti in primo luogo che una linea intera  ──  significa l’unità o 1, e poi che una linea spezzata   ─ significa lo zero o 0”.
Nel suo testo “Leibniz accosta gli otto trigrammi fondamentali ai primi otto numeri binari (da 0 a 7), sostituendo la linea spezzata Yin con lo 0 e la linea continua Yang con l’1 e leggendo i trigrammi dal basso verso l’alto. Combinando questi 8 trigrammi, si ottengono i 64 esagrammi che costituiscono il sistema completo dell’I-Ching”:


  
Tuttavia secondo il filosofo tedesco “i Cinesi hanno perduto il significato dei Cova o linee di Fohy, forse da più di un millennio, e hanno scritto dei commentari su di essi, dove hanno cercato non so quali significati reconditi. C’è voluto che la vera spiegazione ora venisse loro dagli Europei[20].
Leibniz non era affatto interessato, come si nota, ad una interpretazione divinatoria o mistica degli esagrammi. Anzi secondo lui dovrà essere la lettura che ne fa la cultura europea a spiegare ai Cinesi il loro autentico significato! Il suo sogno è invece quello di poter integrare i simboli matematici, gli esagrammi dell’I-Ching, gli ideogrammi della lingua cinese, gli elementi delle antiche lingue egizie ed ebraiche, in un unico sistema non solo matematico ma filosofico, per risolvere uno dei problemi che più assillavano molti pensatori dell’epoca: il problema del linguaggio, inteso non solo come mezzo di comunicazione, ma soprattutto per “il ruolo che esso svolge nel processo conoscitivo e nel ragionamento[21], in quanto strumento che ci permette di memorizzare e ordinare le conoscenze, nonché di parlare di qualcosa senza ri-definirla ogni volta. È il progetto, perseguito invano da Leibniz per tutta la vita, di costruire una lingua generale, un instrumentum rationis costituito da elementi primi indivisibili, cui assegnare dei segni da usare secondo valide regole combinatorie, capaci di dimostrare ogni verità e di scoprirne delle nuove. È il sogno del ritorno a ciò che la Torre di Babele aveva fatto perdere all’uomo, il ritorno alla lingua di Adamo, una lingua unica che esprimeva una conoscenza perfetta delle cose: “Il Signore Iddio formò dalla terra tutti gli animali e tutti gli uccelli del cielo e li condusse ad Adamo per vedere con quale nome li avrebbe chiamati, poiché il nome che egli avrebbe loro imposto sarebbe stato il loro nome[22].





[1] Nella Guerra dei Trent’anni si innestò anche la guerra di successione di Mantova e del Monferrato, detta anche guerra del Monferrato (1628-1631), che costò all’Italia un milione di morti, e che fece da sfondo alle vicende de I Promessi Sposi di Manzoni
[2] Cit. da L. Perissinotto, Leibniz, in: E. Severino (a cura di), Filosofia, Ed. Curcio, pag. 837
[3] Id., pag. 818
[4] Id.
[5] Id., pag. 820
[6] Id., pag. 830
[7]Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”. Genesi, 1,31
[8] Cit. in Leibniz, pag. 832
[9] F. Capra, Il Tao della fisica, Ed. Adelphi, pag. 345
[10] D. Eshin Rizzetto, Svegliati a ciò che fai, Ed. Ubaldini, pag. 32
[11] Di queste difficoltà lo stesso F. Capra è ben consapevole. Cfr. pag. 346
[12] I. Vecchiotti, Che cosa è la filosofia cinese, Ed. Ubaldini, pag. 9
[13] La cosiddetta querelle dei riti
[14] Citazione tratta dal blog: http://keespopinga.blogspot.it/2014/03/leibniz-il-sistema-binario-e-la-cina.html
[15] Id.
[16] V. l’edizione italiana basata sulla versione tedesca del 1923 di R. Wilhelm, in: B. Veneziani e A.G. Ferrara (a cura di), I-King, Ed. Astrolabio.
[17] I-King, pag. 583
[18] J.C. Cooper, Yin e Yang. L’armonia taoista degli opposti, Ed. Ubaldini, pag. 57
[19] A. Cheng, Storia del pensiero cinese, Ed. Einaudi, vol. I, pag. 277
[20] Tutte le citazioni sono tratte da: http://keespopinga.blogspot.it/2014/03/leibniz-il-sistema-binario-e-la-cina.html
[21] L. Perissinotto, pag. 833
[22] Genesi, 2, 19-20.