giovedì 21 marzo 2013

I vagabondi del Dharma



Recensendo la raccolta di saggi sul buddhismo di Jack Kerouac, “Il sogno vuoto dell’Universo”, Oscar Botto, uno dei massimi eruditi italiani in materia, ha detto del romanziere di Lowell, Massachusetts (1922-1969): “Chi è abituato come me agli studi della Sorbona, a leggere i monumentali volumi dei grandi classici sul buddhismo, allibisce davanti a questo capolavoro di espressioni irrequiete, folli, senza senso. [..] Sono abituato a confrontarmi con opere grandiose, che trasudano saggezza. [..] No, mi creda, [J.K.] era proprio uno sprovveduto. Poteva essere un ottimo gestore di birreria, ma con il buddhismo c’entra come me con il calcio”.

A noi, più modestamente ed ostinatamente, basta leggere e rileggere Kerouac, ormai da almeno 45 anni, e farcene un'opinione personale. Così, ne “I vagabondi del Dharma”, romanzo del 1958, potremo trovare tra l'altro queste parole:


“…sai per me una montagna è come un Buddha. Pensa alla pazienza, centinaia di migliaia di anni a star lì sedute nel più perfetto perfettissimo silenzio come se pregassero per tutti gli esseri viventi in quel silenzio e semplicemente aspettassero la fine di tutto il nostro agitarci e dimenarci.”

***

“Ma in tutto ciò v’era una punta di saggezza, come potrete constatare voi stessi passeggiando qualche sera in certe vie della periferia passando davanti a una sfilza di case a entrambi i lati della strada ciascuna col suo lampadario nel soggiorno, tutto luce dorata, e dentro, il piccolo rettangolo azzurrino del televisore, con ogni famiglia vivente che inchioda la sua attenzione probabilmente su un unico spettacolo; nessuno parla; silenzio nei giardini; i cani t’abbaiano contro perché cammini su piedi umani anziché su ruote.”

***

“- So che da tutto questo uscirà qualcosa di buono!

- Da tutto che?

- Non so… dalla concezione che abbiamo della vita. Tu e io non abbiamo in programma di spaccare il cranio a nessuno, né di tagliare la gola a qualcuno con un sistema economico, ci siamo dedicati alla preghiera per tutti gli esseri viventi e per di più appena avremo la forza necessaria saremo davvero in grado di farlo, come gli antichi santi. Chi sa, il mondo potrebbe svegliarsi e sbocciare dovunque in un bellissimo fiore del Dharma.” 


Jack Kerouac
Altrove, J.K. ha scritto anche: 

“Il punto è che stiamo aspettando e non quanto stiamo comodi durante l’attesa. L’uomo del paleolitico se ne stava davanti alle caverne in attesa di capire perché fosse lì, e cacciava; gli uomini moderni aspettano in case adornate e cercano di dimenticare la morte e la nascita. Stiamo aspettando di capire che questa è la Dorata Eternità”. 

Ed anche questo haiku è opera sua:

Mancato un calcio
Allo sportello della ghiacciaia 
        Si è chiuso lo stesso 


Si vedano:
J. Kerouac, I vagabondi del Dharma, Ed. Garzanti
J. Kerouac, Il sogno vuoto dell'Universo, Ed. Oscar Mondadori








"Gian" Vallarino, maestro di karate, maestro di vita

Desidero proporre alcuni versi, opera di "Gian" Vallarino, grande amico vadese, maestro di arti marziali, "mastro" falegname. Nelle sue parole, nella sua vita, il Dharma fluisce spontaneamente e semplicemente: Via e Vita, una cosa sola.




IN CAMMINO 



Padrone del mio tempo 
Fiero del mio pensiero 
Libero come l'aria 
Uomo che cammina 
Ho Camminato all’alba con passi incerti 
Ho camminato col sole alle spalle sempre più sicuro del mio passo 
Ho corso col sole, sempre più lontano 
Cammino sul sentiero del tramonto, non mi è dato di sapere quando arriverò al traguardo 
Quando avrò passato il traguardo, sarà il riposo 
Grande spirito, fammi percorrere il sentiero col vento alle spalle 
Fiero del mio pensiero 
Libero come l'aria 
Gian, uomo che cammina


MANI NUDE 

Una sera sono entrato in un dojo. 
Ho conosciuto il MAESTRO. 
Insegnava l’arte orientale del combattimento a mani nude, 
la disciplina, i kata, l’arte e lo stile. 
Ho appreso come muovermi, 
Ho acquisito il controllo dell’energia e delle tecniche. 
Ho combattuto con diversi avversari. 
A volte ho vinto a volte sono stato battuto. 
Ora non combatto più con altri avversari. 
Insegno agli altri la disciplina delle mani nude. 
Rimane solo un combattimento. 
Il più difficile, quello contro me stesso 
Non sono ancora sicuro se vincerò.

No, non è Texas Walker Ranger...


PENSCEO (AMIXI) 

A lè ‘na poula impegnativa; de amixi creddu de haveine tanti, a nominäli 
me ne ascurdieva sensätro quarchedùn, 
Ciü che tütti me arregordo cun ùn po’ de melancunìa i amixi de scuribanda 
e de "Rappè". Quelli de scöa, perché, mentre ne mosträvan a scrive 
e a fä i cunti, nùätri iprendeimu insemme cian cianìn e cose da vitta e 
quellu che pueimu aspêtäse. 
Ma se ghe pensu ben, gh'è stètu quarchedùn ciü amigu de tütti i ätri. 
Se ne sun andèti portè vìa pe quärche raxùn düa da cunstatä. 
De questi faççu i nummi: 
LUIGGI: Rüstego e stondäjo cumme tanti liguri ma cun ùn cö grossu 
ciü che a ciassa d’a gexa. 
SILVIU: Cun a sö vuxe prufunda incunfudìbile, forte cumme a ruvia 
sempre dispunìbile pe tütti. 
CLAUDIU: Me figgiu ma anche mè amigu, zoenu cumme l’ègua 
con ùn caràttere doçe, sempre allegru amigu de tütti. 
AMIXI: I me ciü cài amixi se ne sun andèti troppu fitu, u me rèsta sulu 
l’arregòrdu d’u pocu tempu passòu insemme. 
AMIXI: Ve salùu ancùn, cumme sempre. 
Ciäu Luiggi, ciäu Silviu, ciäu Claudiu. Ciäu AMIXI 

Il sorriso di Claudio

Di quest'ultima poesia propongo qui, per coloro che come me non frequentano il dialetto locale, una versione in lingua, ben consapevole che sovente tra il “tradurre” ed il “tradire” il passo è molto breve… 

Pensiero (Amici) 

È una parola impegnativa; di amici credo di averne molti, nel nominarli / me ne dimenticherei senz’altro qualcuno, / Più di tutti ricordo con un po’ di malinconia gli amici di scorribanda / e di “rappè” [
rubare la frutta dalle piante]. Quelli di scuola, perché, mentre ci insegnavano a scrivere / e a far di conto, noi imparavamo insieme piano piano le cose della vita e / quello che ci potevamo aspettare. / Ma se ci penso bene, c’è stato qualcuno più amico di tutti gli altri. / Se ne sono andati portati via per qualche motivo duro da comprendere. / Di questi faccio i nomi: / Luigi: Grezzo e stondäjo [bisbetico, lunatico, ma non cattivo] come tanti liguri ma con un cuore grande / più della piazza della chiesa. / Silvio: Con la sua voce profonda inconfondibile, forte come una quercia / sempre disponibile per tutti. / Claudio: Mio figlio ma anche mio amico, giovane come l’acqua / con un carattere dolce, sempre allegro amico di tutti. / Amici: I miei più cari amici se ne sono andati troppo presto, mi rimane soltanto / il ricordo del poco tempo passato insieme. / Amici: Vi saluto ancora, come sempre. / Ciao Luigi, ciao Silvio, ciao Claudio, ciao amici.

mercoledì 20 marzo 2013

Versi dal Tetto del Mondo

Per Milarepa, grande Maestro dell’XI-XII secolo, la poesia non è vuoto esercizio estetico, ma nasce dalla pratica del Dharma e ad essa fa ritorno: 

Anche la pentola di terracotta, che una volta esisteva ed ora non esiste più, 
dimostra la natura di tutte le cose; 
ma essa simbolizza ancora di più la vita umana. 

Perciò io, Mila il devoto, 
sono risoluto a perseverare senza vacillare. 
La pentola di terracotta, che costituisce la mia ricchezza, 
rompendosi è ora diventata un grande Guru, 
perché predica per me un sermone sulla Precarietà. 

Milarepa

Assuefatto da lungo tempo a meditare sulle Elette Verità Sussurrate, 
ho dimenticato tutto ciò che è detto nei libri scritti e stampati. 

Assuefatto da lungo tempo ad applicare ogni nuova esperienza alla mia crescita spirituale, 
ho dimenticato tutti i credi e i dogmi. 

Assuefatto da lungo tempo a conoscere il significato dell’ineffabile, 
ho dimenticato come si fa a risalire alla radice dei verbi e alle fonti delle parole e delle frasi. 

Assuefatto da lungo tempo a considerare il mio corpo carnale come un eremo, 
ho dimenticato l’agiatezza e le comodità dei ritiri dei monasteri. 


Nello stesso periodo visse Nangsa Obum, “donna di saggezza” che percorse la Via del Tantra: 


Come sarebbe bello

Se i coralli e l’ambra che ornano il mio collo fossero protettori del Dharma! 

Come sarebbe bello 
Se il bracciale di conchiglia che io porto al polso destro 
Fosse la conchiglia che raduna i monaci del monastero! 

Come sarebbe bello 
Se il bracciale di diamanti che porto al polso sinistro 
Fosse una mala per recitare mantra! 

Come sarebbe bello 
Se tutti gli anelli che porto fossero saggezza e metodo! 

Come sarebbe bello 
Se il cucchiaio d’oro che pende al mio fianco 
Fosse campana e piatti! 

Come sarebbe bello 
Se lo specchio d’argento che porto al fianco destro 
Fosse il mandala dei Campi di Buddha! 

Come sarebbe bello 
Se il mio scialle fosse quello di una monaca! 
…. 
Ma per come stanno andando le cose 
Mi sento così triste! 
Me ne andrò a praticare il Dharma al più presto possibile! 



Uno dei maggiori poeti tibetani fu il Sesto Dalai Lama, Tsanyan Gyatso (XVII sec.), i cui versi possono essere letti come canti d’amor profano o come veri e propri insegnamenti di Dharma:

A oriente, dalla cima dei monti,

Bianca la splendente luna si levava. 
Di una madre da cui non nacqui il volto 
In mente mi tornava e ritornava. 


Quella persona di cui mi sono innamorato,

Se mia compagna di sempre divenisse, 
Sarebbe come cogliere 
Dal profondo dell’oceano una gemma. 


I miei pensier verso lei vanno e rivanno.

Se verso la santa religione andati fossero, 
In questa sola vita e con un corpo solo 
Del Buddha la condizione raggiunto avrei. 

Il Sesto Dalai Lama

A occidente, dalla cima dei monti, 
Nubi bianche in cielo si levano e si levano. 
Di sacro incenso un’offerta è certo 
Per me, dalla rubacuori potente! 


Richiamato, del mio maestro il volto

Nella mia mente non affiorerà. 
Non richiamato, dell’amor mio il volto 
Nella mia mente distintamente affiora. 


Infine, alcuni versi del suo successore, Kelsang Gyatso, Settimo Dalai Lama (XVIII sec.):

L’immagine di un sole che troneggia nei cieli,

E irradia un migliaio di raggi di luce: 
Se ciascuno inondasse con raggi di luminoso amore tutti gli esseri, 
Che cosa eccellente. 

L’immagine di un’aquila reale che plana, alta nello spazio: 
Se la propria mente si librasse, senza attaccamento, 
Nello spazio della verità stessa chiaro e vuoto, 
Che cosa eccellente. 

L’immagine di un vento grigio che soffia con forza attraverso il cielo:

Se ciascuno creasse un flusso di energia, sempre di beneficio agli altri, 
La migliore pratica spirituale, mai artificiosa, 
Che cosa eccellente. 

L’immagine di fresche, bianche nubi,
Brillanti, pure e che scorrono liberamente: 
Se ognuno potesse meditare in modo chiaro, infuso di beatitudine, nel perfetto mandala mistico, 
Che cosa eccellente. 

L’immagine di un vasto cielo, ovunque libero da ostacoli:

Possa questo poema sulla vacuità, meditazione e azione, 
Beneficiare senza impedimenti il mondo, 
Che cosa eccellente.

Il Settimo Dalai Lama


martedì 19 marzo 2013

Un Sesto, forse due, e un Settimo...

In questa fine d’inverno del 2013, è oggetto di interesse mediatico e di curiosità popolare la compresenza di due Pontefici della Chiesa Cattolica: l’uno, Benedetto XVI, Pontefice “Emerito”, avendo egli abdicato, e l’altro da poco eletto con il nome di Francesco. Tale evento non costituisce una novità assoluta nella storia della Chiesa. Si è verificato alcune volte, 5 o 6, a partire dal caso (non del tutto accertato) di Clemente ed Evaristo (II sec.), per giungere quello più noto di Celestino V e Bonifacio VIII (XIII sec.) ed infine alla compresenza di papi ed antipapi (Gregorio XII, Benedetto XIII, Alessandro V, Giovanni XXIII) nel periodo dello Scisma d’Occidente del XIV-XV secolo. 
Papa Celestino V
Nel cattolicesimo la possibilità che un Papa rinunci al trono è prevista, e quindi il verificarsi della compresenza di due pontefici viventi è “normale”, anche se rara. 
È forse meno noto che tale fatto sia accaduto anche nella storia del buddhismo tibetano, quando due, o forse tre, Dalai Lama furono presenti nello stesso periodo...
Ovvia, ma sempre necessaria, è la premessa che la figura del Dalai Lama (quello attuale è il XIV°) non era e non è assimilabile a quella del Papa cattolico: nel buddhismo non esiste un unico “rappresentante” spirituale di tutte le tradizioni nelle loro differenziazioni storiche e geografiche. 
Come ha scritto il monaco zen Yushin Marassi, “il buddhismo non ha mai avuto autorità centrali, gerarchie curiali o strutture rigide e dove queste sono comparse, nelle varie scuole nazionali, il loro ruolo è del tutto marginale se non esterno alla tradizione buddhista intesa come religione, ovvero come via di salvezza”. 
Anche l’appellativo, attribuito da molti occidentali al Dalai Lama, di “Sua Santità” (His Holiness, H.H.), che immediatamente rimanda alla figura del Papa, non corrisponde, né linguisticamente né semanticamente, a quello comunemente usato dai Tibetani, “Kundun”, traducibile con “Presenza”. Può anzi contribuire ad ingenerare la falsa convinzione che il Dalai Lama in qualche modo “rappresenti” tutti i buddhisti nel mondo (fermo restando che l’attuale Dalai Lama è – quasi –unanimemente riconosciuto da tutti i buddhisti come uno dei grandi Maestri spirituali contemporanei). 

Come noto, la scelta del Pontefice, Vescovo di Roma e Vicario di Cristo (e capo politico di uno Stato indipendente), è sempre stata il frutto di una elezione, alla quale, a seconda dell’epoca storica, hanno partecipato il popolo romano e i vescovi, fino ad arrivare alla forma ancora oggi vigente della votazione segreta cui partecipano i Cardinali riuniti in Conclave. 

Molto diverse sono le modalità con cui viene scelto il Dalai Lama. 
La tradizione ebbe inizio nel Tibet del XII sec., quindi quattro/cinque secoli dopo che il buddhismo vi si era diffuso. Un Lama (traduzione tibetana del sanscrito guru, maestro spirituale) della scuola Kagyu prima di morire indicò ad un discepolo le circostanze in cui la sua volontà di proseguire sulla Via si sarebbe unita agli altri elementi che compongono una nuova vita. Venne quindi identificato in un bambino il primo di un lignaggio, quello dei Karmapa, tuttora esistente. 

Nel XIV sec. questa forma di successione fu accettata e adottata da tutte le scuole del buddhismo tibetano, dando inizio alla figura dei lama per nascita, detti in tibetano tulku, traduzione del termine sanscrito nirmanakaya, cioè “corpo di emanazione”, il corpo fisico con cui i Buddha compaiono nel mondo. 
Secondo questa tradizione, le persone comuni, a causa delle passioni e delle tracce karmiche non dissolte, vengono alla luce senza poter modificare né tantomeno arrestare il processo delle “rinascite”, e, spinte dal desiderio, vagano nelle forme e nelle condizioni dettate dal karma. Invece, questi esseri santi scelgono volontariamente di tornare (e con quali modalità) nel samsara (l'esistenza ciclica condizionata, permeata di sofferenza) per aiutare coloro che si dibattono nel dolore (è l’ideale del bodhisattva). 
Il metodo dei tulku fu pertanto gradualmente adottato dalle scuole del buddhismo tibetano. Si cominciò a cercare tra i bambini nati dopo la morte di un lama il suo successore, sulla base di indicazioni, segni, indizi, lasciati dal lama prima del decesso, o anche successivi (sogni, visioni, oracoli…), secondo una metodologia che risente forse anche degli influssi delle tradizioni religiose tibetane pre-buddhiste (Bon). 

Nel XV sec., alla morte di Gedun Drup, anche la scuola Gelug introdusse il metodo di successione secondo i tulku. Lo stesso Gedun Drup (nipote di Lama Tzong Khapa, fondatore della scuola) fu riconosciuto come prima manifestazione di Avalokiteshvara, Bodhisattva della Compassione. Nel 1578 il terzo tulku, Sonam Gyatso, divenne il maestro spirituale di Altan Khan, re dei Mongoli, discendente di Gengis Khan. In segno di devozione, Altan tradusse in mongolo il nome “Gyatso” (che significa “oceano”), che divenne “Dale”, e poi “Dalai”. Quindi Dalai (mongolo) = Gyatso (tibetano) = Oceano. Dalai Lama equivale quindi a “Maestro Oceano” (probabilmente con riferimento alla vastità e alla profondità degli insegnamenti del Buddha). Tale titolo fu esteso retroattivamente ai due predecessori di Sonam Gyatso: il primo Dalai Lama divenne pertanto il Terzo. 
Cenresig
La figura del Dalai Lama quale manifestazione del bodhisattva della Compassione, Avalokiteshvara (in tibetano Cenresig), rientra pertanto nella tradizionale concezione buddhista delle rinascite, fermo restando l’assunto della non-affermazione, da parte di tutte le scuole buddiste, di un’anima o spirito immortale. Ed avendo ancor più presente il fatto che tutte queste “teorie” non sono che provvisorie ipotesi, più o meno funzionali al desiderio umano di comprendere con la mente una realtà di cui la mente stessa fa parte. Una realtà priva di esistenza intrinseca, ed una mente che è essa stessa ugualmente vacuità. Tale metodologia implica pertanto la morte di una Dalai Lama quale presupposto necessario ed imprescindibile per l’identificazione del suo successore. 

Fatte queste doverose premesse, è ora possibile comprendere la singolarità di quanto accadde nel Tibet all’inizio del XVIII secolo, quando a Roma regnava Papa Clemente XI.

Nel 1697 salì al trono come Sesto Dalai Lama Tsanyan Gyatso, un ragazzo intelligente, amante della vita all’aperto, poco portato per gli studi filosofici, il quale si sentì ben presto schiacciato dalle grandi responsabilità che il ruolo del Dalai Lama comporta.
Il VI Dalai Lama
Quando a vent’anni (1703) gli fu imposto di prendere i voti monastici definitivi davanti al Panchen Lama, seconda autorità politica e spirituale del Tibet, il Sesto si prosternò di fronte a lui tre volte, come da tradizione, poi annunciò non solo di non voler assumere i voti definitivi, ma anche di voler restituire anche i voti da novizio, e ritornò così allo stato laicale. Dopo di allora, vestì e visse come un nobile capo di Stato nel palazzo del Potala a Lhasa, uscendo a cavallo, partecipando a gare di tiro con l’arco, passando le serate con gli amici e le concubine e scrivendo bellissime poesie. Il che era piuttosto imbarazzante per l’alto clero tibetano, anche se il Sesto era oggetto di assoluta devozione da parte della popolazione. 
A quel punto il Khan dei Mongoli Lazhang, su istigazione dell’imperatore cinese Kangxi, spinse il clero a destituire Tsanyan. Ma ottenne solo una blanda dichiarazione, secondo la quale il Sesto era veramente la manifestazione di Cenresig, anche se privo del principio di illuminazione. Il Khan intervenne di persona e lo fece prelevare con la forza delle armi per poi trasferirlo in Cina (giugno 1706). Il Sesto fu ufficialmente deposto, nonostante l’opposizione del clero buddhista. L’artiglieria mongola ebbe la meglio, il giovane ex Sesto fu trasferito verso la Cina, ma sulle rive di un lago dell’attuale Qinghai morì, forse assassinato, forse per malattia (1706 o 1707). Questo dice la storia. 

Ma secondo Ngawang Lhundrub Dargye, monaco ed erudito, autore della “Biografia segreta del Sesto Dalai Lama”, il giovane Tsanyan non morì, ma fuggì, si travestì da pellegrino, trascorse lunghi periodi in ritiri spirituali sotto la guida di grandi maestri, viaggiò per tutto il Tibet, il Nepal, l’India, la Cina. Divenne così a sua volta un grande maestro buddhista, di cui l’autore del testo fu discepolo. Morì infine nel 1757, anno in cui venne scritta la sua biografia segreta. 
Il XIV Dalai Lama
A questo proposito l’attuale Dalai Lama dice: “Ci sono due versioni sulla sua morte. Al livello convenzionale, si dice che morì o fu ucciso durante il viaggio verso la Cina. Al livello non convenzionale, invece, scomparve lungo la strada per la Cina e ricomparve in seguito nel Tibet sudorientale, poi viaggiò nel Tibet meridionale e raggiunse Lhasa e infine la Mongolia. Qui restò più o meno altri trent’anni. Questo è il punto di vista non convenzionale”. Egli compie così una lettura della storia del tutto inusuale dal punto di vista tradizionale, “occidentale”, ma oltremodo interessante. Propone cioè la possibilità di una duplice lettura, quella “classica”, detta convenzionale, ed una più sottile, non-convenzionale, che potremmo chiamare mitica, la quale non è assolutamente meno “vera” dell’altra. La realtà (non solo quella storica) è fatta cioè di entrambe le visioni, del tutto intrecciate tra loro. Solo tenendole presenti entrambe è possibile accostarsi maggiormente ad una sua comprensione. 

Nel frattempo, a partire dal 1706, al Khan si presentava il problema di ritrovare il “vero” Sesto, la vera incarnazione del Quinto Dalai Lama (ancora oggi noto come il Grande Quinto, appellativo che spettò in seguito al solo Tredicesimo). Lo trovò facilmente in un monaco che pare fosse suo figlio naturale. Nel 1707 questi divenne il “vero” Sesto, cosa che provocò una frattura insanabile tra il Khan e i tibetani (anche l’imperatore cinese, prudentemente, lo riconobbe solo nel 1710). Se l’ipotesi della compresenza di due Sesti è sostenibile solo nella presunzione che il primo fosse veramente fuggito dalla “custodia” del Khan, è invece un dato storico che nel 1712 venne scoperto a Litang un bambino riconosciuto come rinascita di Tsanyan, e quindi come Settimo. Diversi capi mongoli si schierarono a suo favore, ed anche l’oracolo di Stato, importante istituzione del Tibet, proclamò la giustezza della scoperta.
A questo punto, nel Tibet si ebbe la compresenza di un Sesto e di un Settimo Dalai Lama, se non addirittura di due Sesti e di un Settimo!

Solo nel 1720, dopo un periodo di conflitti, armati e non, tra le fazioni mongole e tra i monasteri delle diverse scuole (Gelug e Nyingma), con la costante presenza politica e militare cinese, il bambino di Litang, Kelsang Gyatso, entrò nel palazzo del Potala di Lhasa, per diventare infine il Settimo Dalai Lama. Il “falso” Sesto, figlio del Khan, morì invece a Pechino nel 1725.

Le strutture di potere, politiche, religiose, economiche, tendono naturalmente a perpetuarsi nel tempo, autoriproducendosi secondo meccanismi differenti, ma simili nella finalità: i Papi nominano i Cardinali che eleggono i Papi; i gruppi dirigenti politici formano al loro interno i loro stessi successori, che vengono poi “democraticamente” scelti; i potentati economici sovente li “generano” fisicamente, nelle persone dei figli o dei nipoti, il cosiddetto capitalismo famigliare; lo stesso avviene nelle Monarchie ereditarie; le gerarchie lamaiste sceglievano da bambini i futuri Dalai Lama, per poi istruirli per lunghi anni nei palazzi e nei monasteri…
Talvolta, però, l’ironia della storia fa sì che qualche sassolino entri negli ingranaggi, e ne sveli alcuni meccanismi… 
Il “primo” Sesto, Tsanyan, che li aveva vissuti sulla propria pelle, forse per questo aveva scritto: 

O Yama, specchio del mio karma, 
tu che siedi nel regno dei morti 
tu dovrai giudicarmi e garantirmi giustizia, 
poiché io, in questa vita, giustizia non ho avuto! 

Si leggano sull'argomento: 

- Angelini, Tibet, mito e storia, Ed. Stampa Alternativa
- Laird, Il mio Tibet, Ed. Mondadori 
- Marassi, Il buddismo Mahayana attraverso i luoghi, i tempi e le culture – Vol. I, Ed. Marietti 
- Ngawang Lhundrub Dargye, La biografia segreta del Sesto Dalai Lama, Ed. Luni 

mercoledì 13 marzo 2013

Dei gatti, dello zen e dei quanti

All’epoca della dinastia T’ang (618-907), visse in Cina Chao Chou, più noto in Occidente nella lettura giapponese del suo nome,  Jōshū (778-897), straordinario maestro zen, vissuto per quarant’anni a fianco del suo maestro Nansen.
A proposito di Jōshū, di Nansen e di un gatto, si racconta:

Un giorno i monaci della sala orientale e della sala occidentale stavano litigando per un gatto. Il maestro Nansen se ne accorse, così prese il gatto, lo tenne in alto e disse:
- Se uno di voi sa dirmi il significato di questo, non taglierò questo gatto. Se non ci riuscite, lo taglierò.
I monaci diedero varie risposte, ma nessuna piacque a Nansen. Nansen tagliò il gatto in due.
Quella sera Jōshū tornò al monastero e andò a trovare Nansen. Nansen gli raccontò la storia e gli chiese:
- Tu che ne dici? Saresti riuscito a salvare il gatto?
Jōshū si tolse i sandali, se li mise in testa e si voltò per andarsene.
Nansen disse:
- Se fossi rimasto qui, avresti salvato il gatto”.



Il maestro Ekai, detto anche Mu-mon (1183-1260) commentò successivamente:

“Perché Jōshū si mise i sandali in testa? Se qualcuno risponde a questa domanda comprenderà esattamente in che modo Nansen eseguì la sentenza. Altrimenti dovrebbe fare attenzione alla propria testa.

Se Jōshū fosse stato presente,
Avrebbe eseguito la sentenza all’incontrario.
Jōshū sfodera la spada
E Nansen implora per la sua vita”.


Molto tempo dopo, e molte miglia più ad ovest, visse in Europa un fisico e matematico austriaco, il premio Nobel Erwin Schrödinger (1887-1961), grande ammiratore, come molti altri fisici contemporanei, delle filosofie orientali. Nel 1935 egli propose un famoso esperimento mentale, il paradosso detto del “gatto di Schrödinger”, il cui scopo era di dimostrare come l'interpretazione classica della meccanica quantistica (la cosiddetta Interpretazione di Copenaghen) risulti incompleta quando deve descrivere sistemi fisici in cui il livello subatomico interagisce con il livello macroscopico.
Egli scrisse:

Si possono anche costruire casi del tutto burleschi.
Si rinchiuda un gatto in una scatola d’acciaio insieme alla seguente macchina infernale (che occorre proteggere dalla possibilità d’essere afferrata direttamente dal gatto): in un contatore Geiger si trova una minuscola porzione di sostanza radioattiva, così poca che nel corso di un’ora forse uno dei suoi atomi si disintegrerà, ma anche, in modo parimenti probabile, nessuno; se l'evento si verifica il contatore lo segnala e aziona un relais di un martelletto che rompe una fiala con del cianuro.
Dopo avere lasciato indisturbato questo intero sistema per un’ora, si direbbe che il gatto è ancora vivo se nel frattempo nessun atomo si fosse disintegrato, mentre la prima disintegrazione atomica lo avrebbe avvelenato.
La funzione Ψ dell’intero sistema porta ad affermare che in essa il gatto vivo e il gatto morto non sono degli stati puri, ma miscelati con uguale peso”.

Ovvero, dopo un certo periodo di tempo il gatto ha la stessa probabilità di essere morto quanto l'atomo di essere decaduto. Visto che fino al momento dell'osservazione l'atomo esiste nei due stati sovrapposti, anche il gatto resta sia vivo sia morto fino a quando non si apre la scatola, ossia non si compie un'osservazione.



Sul gatto di Jōshū e Nansen si vedano:
Ekai, La porta senza porta, Ed. Il Punto
Jōshū, Zen radicale, Ed. Ubaldini

Sul gatto di Schrödinger:
Zukav, La danza dei maestri Wu Li, Ed. Corbaccio
Capra, Il Tao della fisica, Ed. Adelphi
e:




martedì 12 marzo 2013

Prose e poesie per la primavera



Poesie e sumi-e di Sengai Gibon (1750-1837), monaco, poeta e pittore giapponese:

A cosa paragonare la nostra vita?
A un lampo o a una goccia di rugiada…
Così penso – ma già non è più.

Nell'eremo delle illusioni
i fiori dell’alba
sbocciano, appassiscono,
appassiscono e sbocciano.
Tutto questo è solo un sogno;
luce del mattino sui fiori
nel tempio delle illusioni.

Si dice che la comunità del Buddha
fosse composta da ottantamila individui;
anche Confucio aveva tremila discepoli.
Io siedo solitario sulla pietra muschiata fra i glicini,
e a tratti osservo le nubi che trascorrono.

Come una zucca che galleggia: mai immobile, ora sopra ora
sotto l’acqua, in balia delle onde – del tutto estranea ai
propri movimenti. Se anche venissero a prenderla il
Buddha o il Diavolo, Yao o Shun, Confucio o Mozi,
Laozi o Zhuangzi, la zucca sfuggirebbe loro di mano.
Sorprendente!

Quando vedo le ombre
nel seno del grande vuoto,
come mi appare libera, e intrepida,
la luna nella notte autunnale!

Il mio pensiero costante,
la mente, il Buddha e tutti gli esseri,
nessuna differenza fra i tre.
  
Squartane uno, squartali tutti,
il gatto non è l'unica cosa al mondo.
C'è posto per tutti:
per i monaci a capo dei due dormitori
ed anche per Wo il vecchio maestro. 

Le rape e i monaci zen
sono migliori se ben seduti.
  
Che tu parli o non parli
riceverai comunque
trenta colpi di bastone.

Le poesie vanno lette a chi possa comprenderle;
il sake va bevuto con chi ti conosce.

Perchè ridono?
Le nuvole, che non fanno giuramenti,
attraversano il ponte di montagna
di giorno e di sera
in assoluta libertà.

Quando vedo le ombre
nel seno del grande vuoto,
come mi appare libera, e intrepida,
la luna nella notte autunnale!
  
A cosa va paragonata
la nostra vita?
E' come un monaco
che cerca di allungare le braccia:
ma se un braccio è disteso,
l'altro sarà contratto.

Schiacciati gli occhi
e vedrai due lune d'autunno!

Oh granchio, granchio!
Pensi che il mondo sia
come le rive di Naniwa,
dove ti muovi libero
fra i canneti.

Il bene e il male
escono
dagli occhi, dalla bocca, dal naso?
  
Proprio perché stiamo
tra il bene e il male
ci delizia la fresca brezza della sera.
  
Vivere o morire.
  
Non è pazienza sopportare
ciò che è sopportabile;
pazienza è sopportare l'insopportabile.
  
Ci sono cose che un saggio non riesce a fare mentre
uno stupido si. E scoprendo di aver inaspettatamente
trovato la vita nella morte, egli ride di cuore.

 La compagnia delle donne
è meglio dei ciliegi in fiore,
persino a Yoshino!

Ad uno ad uno crescono
fitti i bambù;
le loro radici congiunte
sulle montagne e nei fiumi.

C'è più gusto sotto il naso
che sotto i fiori.
Ma noi contadini siamo il principio del mondo.

La luce del giorno muore
come ignara goccia
di rugiada.
Rifiorirà la vita
con i convolvoli?

Purificatevi nella prima acqua del nuovo anno
e giorno dopo giorno bagnatevi di nuovo,
nuovi ogni giorno.

Difficile distinguere un airone bianco sulla neve;
ma come spiccano i corvi!




e di Hakuin Ekaku (1686-1769), anch'egli monaco zen:

Il maestro Zen Hakuin era decantato dai vicini per la purezza della sua vita. Accanto a lui abitava una bella ragazza giapponese, i cui genitori avevano un negozio di alimentari. Un giorno, come un fulmine a ciel sereno, i genitori scoprirono che era incinta. La cosa mandò i genitori su tutte le furie. La ragazza non voleva confessare chi fosse l'uomo, ma quando non ne potè più di tutte quelle insistenze, fini col dire che era stato Hakuin. DI genitori furibondi andarono dal maestro, lo insultarono e gli imposero di mantenere la ragazza e il bambino. "Ah si?" disse lui come tutta risposta. Quando il bambino nacque, lo portarono da Hakuin. Ormai si era preso la reputazione, cosa che lo lasciava indifferente, ma si occupò del bambino e della giovane con grande sollecitudine. Si procurava dai vicini il latte e tutto quello che occorreva al piccolo. Si mise inoltre a intrecciare un maggior numero di stuoie per poter mantenere i due nuovi venuti. Dopo un anno la giovane - annoiata di vivere con Hakuin - non resistette più, si pentì e disse ai genitori la verità: il vero padre del bambino era un giovanotto che lavorava al mercato del pesce. La madre e il padre della ragazza, cosi come anche i vicini, andarono subito da Hakuin a chiedergli perdono, a fargli tutte le loro scuse e a riprendersi il bambino e la giovane. Hakuin non fece obiezioni. Nel cedere il bambino, tutto quello che disse fu: "Ah si?".

Autoritratto di Hakuin Ekaku
 Orecchie da sordo. Occhi da cieco.
Un cielo vuoto che si perde a mezzanotte.
Persino Shariputra non guardò attentamente:
II persiano azzoppato traversò un altro guado.

C'è un'anima sulla terra che appartenga a "questa sponda"?
Com'è triste starsene lì, in errore, su una riva percorsa dai flutti!
Se perseguìta senza recidere le radici della vita, la pratica
Per lunga che sia, rimane un'inutile lotta.


Evidentemente, è introvabile nei Tre Mondi.
Un cielo vuoto: tutto è stato spazzato via.
Non è rimasta neanche una particella.
Seduto in zazen, nel cuore della notte, freddo come acciaio.
Raggio di luna da una finestra, luce con ombre del prugno!


I testi delle poesie sono tratti da:
Hakuin, Veleno per il cuore, Ed. Astrolabio
P. Lagazzi, La saggezza dei maestri zen nell'opera di Sengai, Ed. Guanda


lunedì 11 marzo 2013

Dello zazen, del dono e del lasciare la presa

Il testo che segue è la traduzione di un kusen (insegnamento orale) rilasciato dal M° R. Yuno Rech durante la sesshin di Begnins nell'ottobre 1999.

"Il Maestro Hyakujō chiedeva con quale mezzo entrare dalla porta della nostra scuola zen. Rispondeva: “Attraverso la pratica [della paramita] del fuse, cioè del dono”.
La domanda che immediatamente sorge è: nell’insegnamento del Buddha, la via del bodhisattva comprende sei paramita, sei pratiche essenziali. Allora perché non insegnarne una sola, e in qual modo quella sola ci permette di entrare? Un po’ come la domanda che ritorna sovente: perché insegnare solo zazen, mentre nella via del Buddha ci sono molte pratiche? 
Nella nostra scuola, c’è questo sforzo di ritornare costantemente all’origine, a quella che è la pratica essenziale, a quella che è l’essenza della trasmissione del Buddha. In zazen nel dojo, concentrandosi sulla pratica, senza muoversi, ognuno pratica il dono – il dono della propria energia per far esistere insieme la pratica di zazen. Questo modo di donarsi alla via è il fondamento di tutte le altre pratiche del bodhisattva. Ragione per cui il Maestro Hyakujō diceva: 
Le persone nell’illusione non comprendono che le altre cinque paramita provengono dal fuse, che attraverso la sua pratica tutte le altre sono compiute. Perché il dono – il fuse – significa lasciare la presa del desiderio di muoversi, spogliarsi dell’attesa della fine dello zazen. 
Hyakujō diceva che il dono è lasciare la presa, spogliarsi, ma di che cosa? Del dualismo degli opposti. Ad esempio, spesso si ha paura di donare, paura di perdere. Se si dona ad un altro, ciò che è stato donato verrà a mancare. È perché si contrappone se stesso agli altri. Se si supera questa opposizione, allora donare diventa anche ricevere. Si crede talvolta che l’istinto naturale degli esseri umani sia l’avidità, l’egoismo. Ma questa avidità, questo egoismo, sono già un pervertimento del nostro stato naturale, il risultato della paura, il risultato dello spirito che vive nella separazione. 
Poco fa, ho ricevuto nella mia camera un bambino che ha appena quindici mesi. La prima cosa che ha fatto è stata di frugare nella sua tasca per regalarmi qualcosa: un libro e un cubo. Così gli ho regalato dei dolci, ma prima di mangiarli voleva sempre darne a qualcun altro. Praticare la via del Buddha è ritrovare questo spirito del bambino, prima che abbia il timore di perdere, prima che si rinchiuda nella separazione tra sé e gli altri. 
Per il Maestro Hyakujō il lasciare la presa riguarda il dualismo di tutti gli opposti: abbandonare completamente le idee della natura dualista del bene e del male, dell’essere e del non-essere, dell’amore e dell’odio, del vuoto e del non-vuoto, della concentrazione e della distrazione, del puro e dell’impuro. Smettendo di oscillare tra queste opposizioni si può diventare autenticamente liberi; quando si vede che queste opposizioni non esistono di per se stesse, che sono nostre produzioni mentali, e quindi sono vacuità. È attraverso la vera pratica del fuse – del dono –, senza nemmeno pensarci, che ora noi comprendiamo la vacuità di tutti gli opposti, che noi li abbiamo abbandonati. L’autentico fuse, è spogliarsi dell’idea stessa di aver fatto un dono, di aver realizzato alcunché. Nello stato del lasciare la presa, non c’è più separazione tra sé e gli altri e non può essere commesso alcun male; così si può tranquillamente abbandonare ogni opposizione tra bene e male. È abbandonare ogni opposizione tra muoversi e non muoversi, cessare ogni battaglia, praticare in pace. 
Nella pratica di zazen, donare per far esistere la pratica, donare la propria energia, il proprio tempo, significa lasciare la presa in relazione al nostro spirito ordinario che vuole sempre rincorrere ogni tipo di oggetti. Concentrarsi seduti in zazen di fronte a un muro per non ottenere nulla, è l’atteggiamento del tutto opposto a quello dell’ego, è una totale rivoluzione spirituale. Poiché l’autentico dono è di praticare senza aspettarsi ricompense, senza aspettarsi ringraziamenti, riconoscenza, meriti. È giusto il donare, senza secondo fine, come in zazen si dona la propria energia alla pratica senza un secondo fine. Nell’istante stesso in cui si pratica in questo modo, il lasciare la presa diventa autentica liberazione. La pratica stessa diventa realizzazione. 
Alla domanda: “Che cos’è lo zen?” si risponde: “è la pratica di zazen”, essendo zazen la grande porta attraverso la quale si può penetrare la via. È ciò che ha trasmesso Bodhidharma ed è ciò che ci ha insegnato il Maestro Deshimaru. 
Il Maestro Hyakujō poneva questa domanda: 
- Quale è la grande porta dello zen? 
- E' la paramita del fuse – del dono – poiché tutte le altre paramita provengono dalla pratica del dono, non essendo il dono semplicemente il regalare qualcosa a qualcuno, ma il dono come lasciare la presa, spogliare se stessi del proprio spirito possessivo e avido. 
Quando si dice che zazen è la grande porta del Dharma, è del tutto evidentemente lo zazen praticato con uno spirito mushotoku, ovvero con lo spirito del fuse, del donare completamente se stessi alla pratica della via senza aspettarsi nulla in cambio, senza calcolo, senza secondo fine."

dal volume "La Grande Porte de l'Eveil - L'einsegnement de Maitre Hyakujo - vol. I" - Ed. Yuno Kusen
trad. m. Mauro TonKo

Dare il cuore a ciò che conta




"Il cercare avidamente la pacificazione è una seria minaccia per chi medita, dato che porta a prendere lucciole per lanterne, ossia induce a credere che lo scopo della meditazione sia quello di sedare la mente e non già quello di coltivare la presenza all’esperienza.
Non di rado, le persone si avvicinano alla meditazione desiderando ottenere, come per magia, pace e serenità, ma presto la abbandonano, non appena scoprono quanto la mente sia preda in modo incessante di irrequietezza e distrazione.
Cadono così nella trappola di dare alle sensazioni piacevoli il potere di controllare le loro scelte di vita, anziché porre la fiducia nel cammino interiore, cammino che, sebbene per vie non sempre facili e agevoli, conduce a una pace incondizionata.
La trappola appena descritta è una tipica manifestazione degli inquinanti: l’attaccamento come desiderio compulsivo di agio, l’avversione come reazione al continuo vagabondaggio mentale, e l’ignoranza come conclusione errata che, poiché non stiamo sperimentando la tanto desiderata pace, allora non vale la pena meditare".

"Chi smette
di contrapporre il mi piace al non mi piace 
chi si è acquietato
chi non è influenzato 
dalle condizioni del mondo
io chiamo un grande essere".

dal Dhammapada (418)

Corrado Pensa, per anni docente di filosofia orientale alla Sapienza di Roma, si dedica esclusivamente all’insegnamento delle pratiche meditative.

Neva Papachristou, co-fondatrice e insegnante guida  dell’A.ME.CO (Associazione per la Meditazione di Consapevolezza), pratica il Dharma dal 1984.


C. Pensa - N. Papachristou, Dare il cuore a ciò che conta, Ed. Mondadori 2012