lunedì 26 novembre 2012

Compassion is the Root of Religion


   Ancor prima che il Risvegliato, spinto dalla compassione, scegliesse di insegnare agli uomini la Via che conduce alla liberazione dalla sofferenza, fu una ragazza del villaggio di Uruvela, di nome Sujata, a provare la medesima compassione per Siddhartha, il futuro Buddha, vedendolo svenuto, debilitato dalle privazione alle quali si era sottoposto durante i lunghi digiuni nella foresta.
   Racconta Thich Nhat Hahnh che Siddhartha "era privo di sensi da qualche tempo quando passò una ragazza che veniva dal villaggio. La tredicenne Sujata era stata mandata dalla mamma a offrire congee, dolci e semi di loto alle divinità della foresta. Vedendo il monaco svenuto in mezzo alla strada, che quasi non respirava, si inginocchiò e gli introdusse una ciotola di latte tra le labbra. Sapeva che era un asceta debilitato dalle privazioni". 
In quello stesso giorno, Siddhartha rafforzò la decisione di abbandonare le mortificazioni e di meditare nella foresta, fino al Risveglio.


Sujata, oggi.
Domani?




giovedì 15 novembre 2012

Livres de chevet


"La tradizione buddhista non concepisce l'inferno come un luogo in cui si può andare quando si muore ma lo intende come uno stato di coscienza nel quale possiamo entrare in ogni momento della vita."

"Quello che la mia esperienza mi ha mostrato è [..] un processo di apprendimento che passa attraverso gli errori che faccio, attraverso la mia umanità. L'esperienza, inoltre, mi ha mostrato che risvegliarmi e guarire non è un processo dell'intelletto, non una cosa che io possa intraprendere con il mio ego pensante. Non c'è un libro che dica come si fa - neanche questo: devo lanciarmi nella vita con tutto me stesso. Devo osservare in profondità la mia natura e risvegliarmi alla mia sofferenza, al mio dolore, per cominciare a scoprire ed esplorare la natura delle esperienze che faccio."

Claude Anshin Thomas
UNA VOLTA ERO UN SOLDATO
Ed. Oscar Mondadori


lunedì 12 novembre 2012

Del come e non del perchè




Fu nel 1968 che incontrai per la prima volta lo zen, ma non lo riconobbi. Si presentò sotto le sembianze di un libro; nell’aria, gli accordi del sitar di George Harrison e i versi dei poeti beat. Il titolo parlava di “vuoto mentale”. Lo lessi, lo misi nello scaffale, e continuai tranquillamente a riempire la mente.
Incontrai nuovamente lo zen nel 1998, nella veste, più dimessa, del volantino di un Centro Zen di Savona.
Qualche giorno dopo, seduto su un cuscino nero, mi ritrovai ad osservare un muro bianco su cui si stagliava nitida la mia ombra. L’ombra di un corpo semplicemente seduto su un cuscino.
Per un po’ la guardai soltanto, poi la vidi. “Ecco, è questo”.
Certo, tra il libro del ’68 e il volantino del ’98 ci sono stati una dozzina di anni di pratica dello yoga. Da cui, quanto meno, ho avuto la conferma del fatto che l’Occidente non è quell’ombelico del mondo che ritiene di essere, ed ho appreso che non vi è poi nulla di strano nel passare ore seduto su un cuscino.
Esauritasi la spinta propulsiva del rapporto con lo yoga, fu del tutto naturale transitare dal mandir al dojo, e lì continuare a cercare…per scoprire, col passare del tempo, che la pratica di zazen – l’essere semplicemente seduto su un cuscino – è una grande de-lusione.
Perché zazen non lascia molto spazio alle il-lusioni. Nelle ore trascorse seduto, nell’afa estiva o con gli occhi velati dalla sonnolenza, i pensieri più nobili – la compassione, l’amore, il Buddha – e quelli più egocentrati – il lavoro, le opinioni su ogni cosa, le ansie quotidiane – appassiscono allo stesso modo nelle mani.
La mente insegue ricordi ed elabora complicati progetti, ma è poi il respiro che li prosciuga, allorquando su di esso si pone l’attenzione.
Il corpo stesso, immobile, vigila e riporta alla realtà del momento presente, con il contatto lieve del respiro o con il ginocchio indolenzito; o magari con il passo incerto, durante kin-hin, di chi ancora sta imparando a camminare.
Il richiamo delle campane o uno sciacquone, una TV accesa o il cinguettio degli stornelli, ritornano ad essere semplici suoni. Nulla di mistico o di esoterico da inseguire, nulla di fastidioso da rigettare. Tranquille onde sonore nell’aria.
Un colpo di tosse o un aroma d’incenso, una parola o il silenzio, un’ombra vera o solo immaginata. Al pari di un antico sutra, ogni fenomeno è di per sé un prezioso insegnamento.
Nel dojo si sente ripetere spesso che zazen non serve a nulla, che in kin-hin non si va da nessuna parte, che non vi è nulla da ottenere. Parole asciutte, come la pratica stessa. Una pratica in apparenza sempre eguale a se stessa, non gratificante; epperò gratuita, come un dono che si fa o si riceve, senza nulla in cambio.
Imprevedibile, perché ogni volta nuova. Mi siedo pregustando momenti di silenzio e di pace, e subito la mente si affolla di pensieri nervosi, o il corpo scivola in avanti sul cuscino, gli occhi lacrimano, il tempo non passa mai. Arrivo al dojo stanco, inquieto, e lo zazen porta con sé energia, freschezza.
Ed ogni volta, istante per istante, mi osservo in zazen, come al mattino nello specchio: mi arrabbio, cerco di abbracciare la mia rabbia, di volerle bene; affiorano ricordi dolorosi, li accompagno col respiro; una folla grida scomposta nella mente, pian piano diviene sussurro.
Perché pratico zazen? – talvolta mi chiedo, molti mi domandano.
Non è nulla di speciale, è stato detto. Ed è vero, ma è lo stesso importante.
Non serve a dare un senso alla vita. La vita ha già il suo significato, e la sua direzione, in se stessa. E zazen non è altro rispetto alla vita, non le si aggiunge. L’uccello non ha le ali per volare; ha le ali, e vola.
Scrisse molti secoli or sono il Maestro Dogen: "Ogni cosa canta la verità senza aggiungere nulla”. Non serve zazen per essere in unità con il corpo, lo spirito, il mondo. L’unità per essere tale non abbisogna d’altro; aggiungere all’uno significa divenire due, o diecimila.
E’ stato detto che non si pratica per ottenere il Risveglio, ma si pratica perché si è risvegliati. Si legge nel Sutra del Nirvana Definitivo: “Alcuni passano un grande fiume facendo un ponte… altri legano insieme una zattera; gli uomini sapienti hanno già attraversato”.
Ed ancora il Maestro Dogen disse che “la Via è fondamentalmente perfetta”. Allora, perché zazen?
Ma anche Francesco d’Assisi, quando si sentì chiedere da un confratello: “Se è vero che Gesù ha salvato tutti gli uomini, perché dobbiamo condurre questa vita di preghiera e povertà?”, capì subito di avere davanti a sé il diavolo, e lo scacciò - o lo invitò a meditare con lui.
Forse, allora, non c’è un vero perché, del tutto visibile e razionale. Forse c’è stato, e poi l’ho lasciato semplicemente andare. Continuare a cercarlo, sarebbe aggiungere concetti a parole ad altri concetti. Val meglio aprirsi a ciò che la vita, il caso, il karma, mi offrono giorno dopo giorno.
Allora, unisco le mani in gassho, riconoscente verso tutti gli esseri che mi furono e mi sono Maestri. Poi siedo incrociando le gambe, come fece il Buddha Shakyamuni sotto l’albero del Risveglio, e finalmente respiro.

DOJO

sacro e profano:
un bastone di legno
sul pavimento


m. mauro ton ko, 2004

Talvolta un uomo


Collemaggio, 2006


Talvolta un uomo si alza da tavola a cena
ed esce e cammina, e continua a camminare,
perchè da qualche parte a oriente sa di una chiesa.
E i suoi figli pregano per lui, come se fosse morto.

E un altro uomo, che muore nella sua casa,
nella sua casa rimane, dentro il tavolo e il bicchiere,
sicchè i suoi figli devono andarsene nel mondo, lontano,
verso quella stessa chiesa, che il padre ha dimenticato.


                                                                                                                                    (Rainer Maria Rilke, 1875/1926)


venerdì 9 novembre 2012

UNISABAZIA 2011/12 - Bhavachakra, la Ruota dell'Esistenza

Bhavachakra, la Ruota dell’Esistenza


Mandala e Yantra

Un elemento di grande importanza nelle pratiche delle scuole tantriche (induiste e buddhiste) è il mandala, termine che significa alla lettera “cerchio”, ma che può essere inteso più precisamente come “contenuto interiore” (manda) circondato da ciò che lo racchiude (la).
Un mandala
I mandala sono infatti dei diagrammi circolari, con schemi anche molto complessi e diversificati, che si possono ritrovare, con analoghe funzioni rituali, presso altre tradizioni, ad esempio i nativi nord-americani.

In genere sono dipinti su carta, legno, pelle, pietra, o tracciati con sabbie colorate su supporti di vario tipo, quali il legno o il terreno stesso. Vengono utilizzati nelle ritualità, e come supporti visivi per la meditazione.
La loro struttura consiste fondamentalmente in uno o più bordi circolari che racchiudono un quadrato suddiviso in triangoli. Al centro dei triangoli e del mandala si trovano altri cerchi con le immagini delle divinità o con i loro simboli (ad es. lettere dell’alfabeto sanscrito).
Il tipo più semplice di mandala è lo yantra (da yam = mantenere, trattenere + tra = strumento): un diagramma costituito da triangoli in mezzo a cerchi concentrici all’interno di un quadrato con quattro porte. I triangoli con la punta in basso rappresentano la polarità femminile, gli altri quella maschile. Il centro è il brahman, l’indifferenziato, il non-manifesto.
Sri Yantra

Mandala e yantra sono quindi rappresentazioni dell’Universo e della sua manifestazione, dal non differenziato (il centro) alla molteplicità dei fenomeni (l’esterno).
Dal punto di vista buddhista, il mandala è ciò che consente al praticante di accedere al centro della percezione dei fenomeni, ovvero alla mente di saggezza.
La distinzione tra percezione ordinaria degli oggetti e percezione pura è dovuta alle impurità karmiche, ma in realtà l’essenza delle percezioni ordinarie è essa stessa pura. Il mandala è il mezzo che permette la comprensione di tale identità, ovvero la comprensione della vacuità: samsara = nirvana.
È inoltre possibile trovare somiglianze strutturali e funzionali tra il mandala ed il labirinto. Il labirinto rappresenta infatti una “discesa agli inferi”, una sorta di “morte iniziatica” seguita da una “resurrezione” dell’adepto, interiormente rinnovato, purificato. È ciò che avviene al praticante tantrico, che penetra nel mandala, fino a pervenire al centro, che è il centro del mondo, attraversato perpendicolarmente dall’axis mundi (un punto, se osservato dall’alto). Non a caso il labirinto ricorda da vicino la struttura anatomica del cervello umano (e dell’intestino, al quale il cervello stesso è strettamente correlato).
Il labirinto di Chartres
Tutto questo corrisponde alle strutture architettoniche dei templi hindu o degli stupa buddhisti, i quali, in una visione aerea, costituiscono delle immagini mandaliche. Così come una chiesa cattolica costruita secondo i criteri tradizionali, non quelli dell’architettura “moderna”, è una croce in tre dimensioni, al cui centro è posto l’altare, il luogo del sacrificio, sovrastato dalla volta celeste della cupola.
Ugualmente, come si è detto che nelle culture tradizionali macrocosmo e microcosmo si riflettono l’uno nell’altro, così il mandala “esterno” si trasferisce nel mandala “interno”, il corpo, appunto, nel quale si ritrovano i corrispondenti simboli. Infatti, se si ripensa alle immagini dei centri di energia (chakra) presenti nel corpo sotto forma di loto, e li si visualizza dall’alto, ponendo al centro il canale che attraversa tutto il corpo accanto alla colonna vertebrale (sushumna nadi), ciò che appare è proprio una struttura mandalica, il cui centro corrisponde al brahmarandhra, la cavità all’apice della testa (la c.d. “fontanella”), dove si apre proprio sushumna nadi.
Non a caso, uno dei maggiori studiosi dell’Oriente, Giuseppe Tucci (1894-1984), ha definito il mandala come “psico-cosmo-gramma”, ovvero l’intero Universo nel suo schema essenziale, nel suo processo di emanazione e di riassorbimento, portato al centro della coscienza umana per ritrovarvi l’unità originaria della coscienza stessa e riscoprire il principio ideale delle cose.
Ed un altro studioso dei mandala fu lo svizzero Carl Gustav Jung (1875-1961), uno dei padri della psicoanalisi, il quale li analizzò in quanto strutture degli stati più profondi della psiche umana. Egli notò inoltre che molto spesso nei sogni e nei disegni spontanei dei suoi pazienti comparivano immagini mandaliche, che corrispondevano a momenti particolarmente significativi, in senso positivo, dei percorsi psichici di guarigione che stavano seguendo.

La Ruota dell’Esistenza

Il bhavachakra (la “ruota dell’esistenza”) è una classica rappresentazione buddhista, in forma di immagine mandalica, del samsara, cioè dell’esistenza ciclica degli esseri senzienti, condizionata dall’ignoranza e quindi permeata di sofferenza e frustrazione a diversi livelli di intensità, a seconda del karma di ognuno. In altri termini, il bhavachakra è l’immagine del mondo del divenire, nel quale gli esseri sono immersi da un tempo senza inizio e nel quale costantemente ritornano, sotto diverse forme.
Nella tradizione induista, Bhava è una delle quattro manifestazioni pacifiche del dio vedico Rudra (“il Rosso), signore delle tempeste e della pioggia, colui che assicura la fecondità dei campi, e che sarà poi assimilato a Shiva. Forse Bhava era già presente nella religiosità dell’India pre-vedica, come signore del bestiame. È possessore dell’aria, del cielo e della terra, ed è l’essenza della vita stessa.
Nel buddhismo, bhava è invece un termine tecnico che indica il divenire, il flusso incessante dei fenomeni.
Il Bhavachakra
Chakra è la ruota. La ruota del carro, ed anche uno dei simboli più diffusi nella cultura indiana, simbolo solare per eccellenza, principio del Tempo ciclico, presente anche al centro dell’attuale bandiera della Repubblica Indiana. Il chakra era anche un’arma usata nell’antica India: si trattava di un disco in acciaio, con i bordi affilati e un foro al centro, che veniva scagliata con forza e con micidiali effetti contro l’avversario. La si ritrova spesso nell’iconografia del dio Vishnu.
Secondo la tradizione, l’immagine del bhavachakra si ispira ad una visione di Maudgalyayana, un discepolo del Buddha noto proprio per le sue visioni. Essa è presente nella maggior parte dei monasteri buddhisti di tradizione tibetana (Tibet, Ladakh, Mongolia, Nepal, Bhutan) ed ha la funzione di richiamare alla mente la reale natura dell’esistenza. Infatti in genere è posta all’entrata dei templi, e rappresenta il passaggio del fedele attraverso l’esistenza nel samsara e l’ingresso nel cammino verso la liberazione. Proprio come nelle cattedrali gotiche le immagini scolpite di esseri infernali, poste all’esterno, ammonivano i fedeli ricordando loro che solo all’interno della Chiesa (come edificio, ma soprattutto come istituzione) potevano trovare la salvezza. In alcune tradizioni buddhiste il bhavachakra è utilizzato anche come supporto visivo per la meditazione.

Descrizione

In alto a destra, all’esterno della ruota, compare l’immagine del Buddha, che indica con la mano destra la luna piena, per ricordare la notte di plenilunio durante la quale, nel maggio del 528 a.C. (data convenzionale), conseguì dopo sei anni di ricerca interiore la liberazione dall’esistenza ciclica. La luna piena è essa stessa simbolo del Risveglio del Buddha.
La ruota è invece saldamente tenuta tra i denti e gli artigli di Yama (il “Trattenitore”, nella tradizione hindu simbolo della morte e giudice dei defunti), o, secondo altre versioni, di Mara (la Morte, dalla radice sanscrita mri, morire), colui che aveva cercato di distogliere Siddharta dalla sua ricerca, proponendogli ricchezze materiali e potere mondano.
Al centro della ruota, nel mozzo, si trovano tre animali, in qualche modo uniti tra loro: un maiale, simbolo dell’ignoranza; un gallo (l’avversione); un serpente (il desiderio). Sono i tre “veleni”, ovvero le forze che legano gli esseri all’esistenza ciclica. In particolare, origine di tutte le sofferenze è l’ignoranza (a-vidya, il non-vedere), la quale non ha il significato ordinario di incompetenza, di mancanza di istruzione. Qui, ignoranza è l’offuscamento mentale che impedisce all’uomo di comprendere la vera natura delle cose (e di se stesso), cioè la mancanza di esistenza intrinseca (la vacuità) di tutti i fenomeni, fisici e mentali.
Nel primo cerchio, alcuni esseri salgono verso l’alto, altri scendono verso il basso: è la rappresentazione del karma, favorevole o sfavorevole, che, a causa delle scelte operate dagli esseri stessi durante le loro esistenze, li trascina verso rinascite positive o negative. In questo esempio di bhavachakra, gli esseri rappresentati nel settore bianco (karma positivo) sono un uomo, un asura (titani) e un deva (divinità). Nel settore nero (karma negativo) si riconoscono un animale, uno “spirito famelico” e un essere infernale.
I 12 anelli della produzione condizionata e i 6 regni
Nel cerchio più esterno, sono raffigurati i dodici anelli (nidana) della produzione condizionata, ovvero una approfondita  rappresentazione degli insegnamenti buddhisti sull’interdipendenza. È la catena di causa-effetto che costituisce il meccanismo dell’esistenza nel samsara. Ogni fenomeno è condizionato, e a sua volta condiziona l’originazione di nuovi fenomeni. I fenomeni non sono quindi opera di un Creatore, ma tutti derivano da cause e condizioni specifiche. “Poiché vi è questo, quello viene ad esistere”.
Ogni fattore (anello) è relativo, non assoluto, né indipendente. Ognuno esiste in quanto esistono gli altri, ed ognuno è condizionato dagli altri e li condiziona. L’interdipendenza di causa-effetto ha cinque caratteristiche:
1) i fenomeni sono impermanenti (il germoglio nasce solo dopo che il seme non c’è più)
2) i fenomeni sono ininterrotti (non c’è interruzione tra morte del seme e nascita del germoglio, come il movimento dei piatti della bilancia)
3) un anello non si trasforma nell’altro (seme e germoglio sono due fenomeni distinti)
4) una piccola causa può produrre un grande effetto (seme è albero)
5) causa ed effetto hanno una continuità seriale (seme di riso è germoglio di riso, non di grano).
Si procede qui ad una semplice elencazione dei fattori rappresentati nelle singole maglie della catena (a partire dalla prima in alto, come si fa tradizionalmente) non essendo possibile una loro analisi particolareggiata, ricordando ancora una volta come ognuna sia effetto della precedente e causa della successiva, non potendo esistere separatamente dalle altre:
1) l’ignoranza (della vera natura dell’esistenza)
2) le formazioni karmiche (l’impulso all’azione sotto la spinta del karma passato)
3) la coscienza (la conoscenza influenzata dai condizionamenti karmici)
4) il nome e la forma (l’ambito psichico e fisico necessario alla coscienza per una nuova esistenza)
5) le sorgenti dei sei sensi (vista, ecc. + intelletto)
6) il contatto (oggetto dei sensi + organo sensoriale + coscienza sensoriale)
7) la sensazione (la risposta al contatto: sensazione piacevole, spiacevole o indifferente)
8) la sete, il desiderio avido (la sensazione di mancanza che spinge a ripetere l’esperienza)
9) l’attaccamento (l’impadronirsi dell’oggetto desiderato)
10) il divenire, l’esistenza (l’attaccamento all’esistenza produce una nuova situazione di esistenza)
11) la nascita (o ri-nascita, condizionata dal karma precedente)
12) la vecchiaia-e-morte.
Ritornando all’interno del cerchio, si trova il secondo anello, diviso in sei sezioni, nelle quali sono rappresentati i sei “regni” o “destini”, ovvero le sei condizioni principali dell’esistenza condizionata. Esse, si noti bene, non sono “luoghi” dello spazio, bensì sono il frutto della percezione degli esseri senzienti e quindi il prodotto del loro karma (cioè delle loro stesse azioni), che condiziona tale percezione. Si parla dunque di esseri che passano indefinitamente dall’uno all’altro dei sei “destini”. Tre di essi sono considerati favorevoli:
- la nascita umana, la più auspicabile, che viene detta “preziosa”, in quanto in essa c’è abbastanza sofferenza per suscitare il desiderio della liberazione, ma non troppa da impedire ogni tipo di riflessione o di scelta;
- gli asura (titani, o dèi gelosi), che vivono alla radice dell’albero che esaudisce tutti i desideri, del quale però, pur conducendo una vita gradevole, non gustano i frutti, in quanto le fronde si trovano nel regno superiore,
- il regno degli dèi (deva), suddivisi a loro volta in 27 gruppi. Tra essi, alcuni (dèi del regno del desiderio) possiedono un corpo, altri (regno della forma pura) hanno una forma corporea “sottile”, altri ancora (regno senza forma) sono pure coscienze. Tutti godono di vite lunghissime, ma non illimitate, e possono ricadere in “destini” inferiori una volta esaurito il karma che li aveva portati a rinascere nei regni divini.
Come si è visto, si ritrovano qui gli esseri descritti nel settore bianco del primo anello. Gli esseri del settore nero, che scendono verso il basso, si trovano invece negli altri tre “destini”, detti sfavorevoli o sfortunati, nei quali troppo grande è la sofferenza per permettere la riflessione sulla loro condizione e le conseguenti scelte per liberarsi (è ciò che avviene, per il motivo opposto, agli dèi e agli asura).
Uno dei destini sfavorevoli è il regno degli animali, i quali conducono una vita inquieta, presi tra la necessità di cibarsi e di riprodursi e la paura di essere uccisi da altri animali. O di essere maltrattati, sfruttati o uccisi dall’uomo, per nutrimento o per gioco.
La rinascita nel regno degli spiriti avidi o famelici (preta, in sanscrito) avviene a causa dell’avarizia e dell’avidità. Essi sono considerati meno ottusi (cioè incapaci di comprendere il Dharma) degli animali, ma le loro sofferenze sono superiori. Hanno grandi corpi sproporzionati, con enormi teste, ma braccia, gambe e collo sottili. Soffrono continuamente il caldo e il freddo, la fame e la sete; perfino la luce della luna li ustiona, oppure i raggi del sole li fanno rabbrividire per il freddo. Alcuni scorgono acqua e cibo, ma quando li raggiungono tali beni svaniscono. Altri trovano il cibo, ma esso non passa attraverso la bocca, sottile come uno spillo, o la gola, piena di nodi. Oppure il cibo inghiottito si trasforma in metallo rovente, o nella carne del loro stesso corpo, o in siero. A causa della fame, spesso emettono dalla bocca lingue di fuoco (i c.d. “fuochi fatui”).
Il regno degli inferni

Il sesto destino è quello degli inferni, causato essenzialmente da collera, odio, violenza. Gli inferni si suddividono in 8 inferni caldi, 4 o 5 inferni periferici, 8 inferni freddi e alcuni inferni temporanei.
Gli inferni caldi sono:
1) inferno delle continue resurrezioni, in cui gli esseri, spinti dall’odio, si fanno a pezzi tra loro, dopodiché si ricompongono e ricominciano a lottare;
2) i. della linea nera, nel quale gli abitanti vengono distesi su ferro rovente, incisi con fruste di metallo e tagliati lungo le linee nere delle incisioni dai guardiani infernali;
3) i. dello schiacciamento, nel quale si sperimenta la sofferenza dell’essere frantumati da morse, da macine, da montagne che si avvicinano tra loro;
4) i. del lamento, in cui si è bruciati dal fuoco in una casa priva di aperture;
5) i. del grande lamento, dove la stessa sofferenza è ancora più intensa (vi sono due stanze, e si pensa quindi di poter fuggire). Sono gli inferni dei bevitori di alcol e di coloro che forniscono tali bevande;
6) i. più caldo, dove si è impalati da aste incandescenti o si è immersi in calderoni di metallo fuso;
7) i. ancora più caldo, dove il calore è doppiamente intenso.
8) i. del tormento incessante, nel quale la sofferenza è assolutamente priva di sollievo e non conosce pause. Non vi è differenza, tanto è il calore, tra i corpi degli esseri e il fuoco che li brucia.
Negli inferni periferici (il fossato di brace, la palude dei cadaveri putrefatti, la pianura dei rasoi, il fiume senza guado, la foresta di foglie come spade) le sofferenze sono un po’ meno insopportabili. Vi si accede quando il karma di un essere rinato negli inferni caldi si attenua, o vi si giunge direttamente.
È detto nel testo che descrive gli inferni (si tratta di una raccolta di antichi insegnamenti del Lam Rim, il “sentiero graduale per l’illuminazione”, utilizzato dai praticanti del buddhismo tibetano): “Se ora non sopportiamo neppure la sofferenza della puntura di uno spillo o del calore della fiamma di una candela, come potremo sopportare le terribili esperienze che dovremo affrontare nei reami infernali?”. Quindi è necessario, qui ed ora, “fare tutto il possibile per rendere significativo il tempo che ci rimane da vivere (..) per evitare la rinascita nei reami inferiori”.
Analogamente, negli inferni freddi si sperimentano sofferenze di intensità crescente: il gelo provoca vesciche sul corpo, che si aprono e diventano piaghe. I corpi, essendo congelati, possono solo tremare, emettere lamenti o battere i denti. Nel sesto inferno, il Loto Blu, il corpo gelato si spacca e assume la forma del loto. Nell’inferno del Loto Rosso i corpi fatti a pezzi dal gelo si incastonano nel ghiaccio e lì vengono tormentati da sciami di insetti velenosi o da malattie. Infatti anche le più piccole parti dei corpi sono ancora collegate psichicamente alla coscienza degli esseri, che continuano quindi a provare dolore.
Infine, negli inferni temporanei, le sofferenze sono legate alla identificazione del corpo con un oggetto e all’uso che di tale oggetto viene fatto. Ad esempio, un essere era fatto a forma di mortaio in quanto, quando era monaco, quindi in forma umana, era andato in collera con un novizio e gli aveva detto che avrebbe voluto pestarlo in un mortaio…
Afferma ancora il Lama Pabonka Rimpoce (1878-1941), autore del testo e maestro dei tutori dell’attuale Dalai Lama: “Anche noi abbiamo già compiuto un numero infinito di azioni che causano la rinascita in simili condizioni, e inoltre insistiamo tuttora a compierle. Per cui dovremmo riflettere ripetutamente sui vari tipi di sofferenze che dovremo sperimentare in questi luoghi”.
Scopo di queste meditazioni, non è evidentemente quello di terrorizzare il praticante, costringendolo con la paura ad assumere comportamenti “morali” o ad aderire ad una ideologia o ad una struttura di potere politico/religioso, quanto piuttosto di far comprendere che non si tratta di “vicende di terre lontane” o di “fatti che non ci riguardano personalmente”. Meditare sui sei regni, sull’interdipendenza, sui tre veleni ecc., significa imparare ad apprezzare pienamente il significato dell’essere nati in forma umana e conseguentemente dare una direzione alla propria vita, per non sprecare il (poco) tempo che si ha a disposizione.
Ha detto Lama Tzong Khapa (1357-1419):

La preziosa rinascita umana è difficile da ottenere
e non dura a lungo. Riflettendo su tutto ciò
smettete di pensare unicamente a questa vita
”.


Testi

Cornu, Dizionario del Buddhismo, Ed. Bruno Mondadori
Humphreys, Dizionario buddhista, Ed. Ubaldini
AA.VV., Dizionario delle Religioni Orientali, Ed. Vallardi
Stutley, Dizionario dell’Induismo, Ed. Ubaldini
Shumann, Immagini buddhiste, Ed. Mediterranee
Eliade, Lo Yoga – Immortalità e libertà, Ed. Sansoni
Tucci, Teoria e pratica del mandala, Ed. Ubaldini
Jung, La saggezza orientale Ed. Boringhieri
Pabonka Rimpoce, La liberazione nel palmo della tua mano, Ed. Chiara Luce

m. mauro tonko, 2012

giovedì 8 novembre 2012

UNISABAZIA 2011/12 - Tara, madre di saggezza

Tara, madre di Saggezza

Chi è Tara? Tara è un essere illuminato una manifestazione femminile di Buddha. Tara è una manifestazione della saggezza di Buddha e possiede l’energia e l’intuizione femminile, la spontaneità del donare, infatti rappresenta questo tipo di energia.
Tara può essere interpretata a vari livelli:
1. come figura storica come persona che ha generato e realizzato l’intenzione altruistica di conseguire l’illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri e ha messo in pratica tale intenzione diventando un Buddha
2. come manifestazione di queste energie e qualità
3. come “nostro” potenziale di Buddha nella sua forma futura pienamente purificata ed evoluta.

Il punto di vista storico

Tara fu una principessa di nome Yeshe Dawa, figlia di un re; ella voleva liberarsi dalla sofferenza dell’esistenza ciclica e per questo sviluppò equanimità ed imparzialità verso tutti gli esseri. Indifferente al lusso della vita di palazzo fece voto di mostrare la via della liberazione a milioni di esseri, per questo fu conosciuta come Arya Tara (in tibetano Pagma Drolma) che significa “nobile liberatrice”. Si dice che quando le autorità religiose la esortarono a rinascere come uomo, Tara rifiutò, facendo presente che già molti Buddha si erano manifestati sotto forma maschile, non solo, ma fece voto di conseguire la piena illuminazione con un corpo di donna e tornare sempre in forma femminile a beneficio degli altri.
Avalokiteshvara
Secondo un’altra leggenda Tara sarebbe nata da una lacrima di Avalokiteshvara (in tibetano Chenresig, in cinese Kuan Yin). Avalokiteshvara si adoperava per liberare gli esseri dai regni infernali, ma dopo un attimo di riposo, al risveglio constatava che gli inferni si erano di nuovo riempiti di esseri senzienti. Preso dallo scoraggiamento si era messo a piangere, addolorato per la condizione di quegli esseri. Da una di quelle lacrime emerse Tara che lo incoraggiò a perseverare nel cammino di bodhisattva dicendo “Non disperare, io ti aiuterò a liberare tutti gli esseri”.

Tara come manifestazione di qualità illuminate


Comprendendo il significato simbolico delle caratteristiche di Tara acquistiamo fiducia nel sentiero, ci sentiamo spinti a seguirlo, generando in noi le sue qualità.
Tara è chiamata anche madre perché è madre di saggezza. Tara è la madre di tutti gli esseri santi e divini, i Buddha del passato del presente e del futuro. Tara è la saggezza che percepisce la realtà e si manifesta in molti aspetti, a volte pacifici a volte irati. La saggezza di tara integra tutte le energie per armonizzarci verso gli altri.

Tara come nostro potenziale di Buddha

La pratica di Tara con cui trasformiamo la nostra mente nella divinità è il sistema più potente per sradicare l’illusione dell’ego.

Tara
Quando non lo si osserva, l’ego è molto grande, corposo, e danza di continuo, ma sparisce nel momento in cui lo si osserva; ogni volta che si manifesta una eccitazione emotiva, arriva una forte proiezione dell’io, quello è il momento più adatto per riconoscerlo. Mantenere costantemente la consapevolezza sull’osservazione dell’ego che interpreta continuamente l’io e come sembri scomparire nei momenti di calma mentale; è bene mantenere questa memoria senza nessun pensiero concettuale, se si presenta un pensiero discorsivo è bene fermarsi. In questo stato di chiarezza e trasparenza non concettuale, non dualistica, la mente deve fluire, e noi semplicemente la osserviamo, in questo modo si diventa Tara.
Tutti possono diventare Tara, perché tutti si possono liberare dall’ego. Da quando siamo nati fino ad ora, in quante manifestazioni ed immagini di noi stessi ci siamo identificati? Tutti noi possiamo diventare Buddha, è parte di noi , basta eliminare quella pesante “coperta” dell’egoismo, quello che resta è Tara. Per cui abbiamo bisogno di sviluppare la concentrazione, per penetrare nella divinità, in Tara.
Quando si dice che diventiamo Tara non vuol dire che il nostro naso diventa fisicamente il naso di Tara, ma è la nostra coscienza che può emanarsi, può trasformarsi visualizzandosi come un corpo di luce radiante.
Il corpo di Tara è fatto di luce, come un arcobaleno, in tal modo il suo corpo rappresenta la compatibilità delle due verità, quella convenzionale e quella assoluta, ultima. La postura del suo corpo esprime le sue realizzazioni interiori e le sue attività. Il piede destro, steso davanti a sé indica la sua prontezza ad aiutare, la gamba sinistra è raccolta a dimostrazione del suo pieno controllo sulle energie sottili interne. La mano destra di Tara, atteggiata nel gesto di impartire sublimi realizzazioni, ci mostra il sentiero per conseguire tali realizzazioni; questo gesto prende il nome di gesto della “generosità” e simboleggia il desiderio di donare beni materiali, amore, protezione e il Dharma a tutti gli esseri. La mano sinistra esegue il gesto dei tre gioielli, con il pollice e l’anulare che si toccano e le altre dita stese. Le tre dita rappresentano i tre gioielli, indicano che affidandoci a questi tre oggetti di rifugio e praticando gli insegnamenti corrispondenti possiamo realizzare l’unione di beatitudine compassionevole e saggezza, simboleggiata dal contatto tra anulare e pollice. La mano e il piede destro di Tara sono entrambi rivolti all’esterno, significando l’attività compassionevole e l’aspetto del pensiero relativo al metodo. La mano e il piede sinistro, tenuti più accostati, indicano la sua imperturbabile pace interiore, praticando l’aspetto del sentiero relativo alla saggezza.
 
In ciascuna mano Tara regge lo stelo di un Uptala, un fiore di loto azzurro. Alla sua sinistra un fiore è in boccio, uno fiorisce e uno è completamente dischiuso, a significare il Buddha del futuro del presente e del passato.
Sulla corona di Tara la figura del Buddha Amitabha, pacifico e sorridente. In qualità di maestro spirituale di Tara rappresenta l’importanza di avere una guida pienamente qualificata, saggia e compassionevole. La sua presenza sulla corona indica il costante ricordo degli insegnamenti ricevuti. I monili, le collane, i bracciali, i cerchietti alle caviglie, gli orecchini e il diadema indicano le sei paramita (virtù) che sono generosità, moralità, pazienza, sforzo gioioso, concentrazione e saggezza, e sono perfettamente integrate nel suo modo di essere e adornano ogni sua attività.
Inoltre Tara è impreziosita da tre sillabe: OM al chakra della corona, AH al chakra della gola, HUM al chakra del cuore. Queste tre sillabe incarnano rispettivamente le facoltà fisiche, verbali e mentali di Buddha, Dharma e Sangha, i tre gioielli del rifugio.
Molte sono le meditazioni che si possono fare su Tara, per esempio:
si comincia visualizzando Tara e vedendola come personificazione dei tre gioielli Buddha, Dharma e Sangha, successivamente si prende rifugio nei tre gioielli e si genera l’intenzione altruistica di operare per il bene degli altri, generando una buona motivazione. Visualizzare Tara e riflettere sul simbolismo del suo corpo ci aiuta a familiarizzare e coltivare le qualità virtuose ispirandoci a sviluppare qualità simili in noi stessi.
“Come posso coltivare le sue stesse qualità? Come trasformare la mia mente, per diventare più simile a Tara?” Quali atteggiamenti ed emozioni dobbiamo coltivare per essere in grado di porci con maggior apertura nei confronti degli altri e avvicinarli con più accettazione, rispetto, e affetto?
Progredendo, come dice la tradizione tibetana del Lamrim, con gradualità e costanza, cominciamo a dare a quelli che amiamo, il che non è difficile, poi pratichiamo la generosità nei confronti degli estranei, che è più difficile e via via che la nostra fiducia e la gioia nel donare crescono, possiamo esercitarci a dare alle persone che non ci piacciono.
Diventare “illuminati” non dipende dal definirsi “buddhisti”, dipende da ciò a cui si crede nel profondo e da come si pratica per trasformare la propria mente. Bisogna nutrire amore e compassione imparziali per tutti gli esseri.
L’amore e la compassione di Tara non dipendono dal piacere o non piacere agli altri, dall’essere lodati oppure no, dal consenso che riscuotono le sue idee.
Esercitandoci a coltivare lo stesso amore che ha Tara, cerchiamo di liberare il nostro affetto da obblighi e condizioni, cerchiamo di aprire il nostro cuore a tutti imparzialmente. La nozione di sé e l’egoismo ostacolano l’apertura del cuore, valutiamo e giudichiamo gli altri sul metro di “io”, “me”, “mio”. Dobbiamo coltivare verso gli altri un amore che vuole la felicità e le cause della felicità; chi si comporta in modo sgarbato con noi non deve ricevere parole “aspre” perché anch’egli è un essere senziente che vuole la felicità e si comporta così perché è infelice: “Come mi trattano non è importante”, “Quello che fanno non riguarda me”, “Riguarda il loro dolore”. (Altri esempi di meditazioni sull’equanimità o sul prendere e dare).

OM TARE TUTTARE TURE SOHA
La visualizzazione delle attività illuminate di Tara viene spesso accompagnata dalla recitazione del suo mantra: OM TARE TUTTARE TURE SOHA. Il suono del mantra è una vibrazione sonora che ci ricollega con la natura primordiale della nostra mente, queste sillabe liberano dagli ostacoli che si frappongono alla generazione dei livelli della pratica, agli aspetti del sentiero.
Tara è la liberatrice dagli otto pericoli esterni e interni, mentre quelli esterni sono una minaccia alla nostra vita o ai nostri averi, quelli interni ci insidiano a livello spirituale, distogliendoci dal sentiero dell’illuminazione. Ciascun pericolo esterno è abbinato sul piano interiore ad un’emozione squilibrante (le otto paure): avremo così il leone dell’orgoglio, l’elefante dell’ignoranza, il fuoco della rabbia, la serpe dell’invidia, i ladri delle concezioni distorte, i ceppi dell’avarizia, la piena dell’attaccamento e il demone carnivoro del dubbio. Si distinguono due tipi di paure, una inquinante e l’altra espressione di saggezza; è inquinante l’espressione di paura e di panico che è un ostacolo sulla via spirituale perché ci toglie la lucidità del pensiero, mentre la paura saggia è la consapevolezza del pericolo, che è utile in quanto ci sprona a pensare come gestire la situazione potenzialmente negativa. Meditando su Tara ci rivolgiamo alla nostra stessa saggezza invocando la nostra comprensione del sentiero affinché ci protegga dai pericoli delle emozioni squilibranti. Le emozioni incontrollate che nascono dall’ignoranza ci portano a compiere nella vita quotidiana molte azioni non etiche. La mente ignorante non è stata domata dalla presenza mentale e dalla vigilanza. Nel contesto dell’etica, la presenza mentale è consapevole dei principi che vogliamo adottare nella nostra vita, mentre la vigilanza verifica se li stiamo applicando. Nel contesto della meditazione la presenza mentale ricorda l’oggetto della meditazione perché la concentrazione resti stabile e non venga distratta da altri oggetti. La vigilanza investiga per appurare se la presenza mentale è operante o se per caso l’irrequietezza o il torpore interferiscono con la pratica.
Il mandala di Tara
Vedendo che gli oggetti a cui solitamente ci aggrappiamo cambiano di momento in momento, capiamo che non dureranno a lungo e che non sono fonti di felicità affidabili; il Dharma è la nostra zattera di salvataggio, il nostro rifugio, per cui chiediamo a Tara di proteggerci dal pericolo guidandoci dall’altra parte (Tara in sanscrito significa “stella”), insegnandoci il sentiero dell’illuminazione.
Si dice che Tara è “rapida” perché è una manifestazione femminile della mente onnisciente dei Buddha, l’energia femminile è considerata un’energia veloce. Tara è rapida a rispondere ai bisogni degli esseri senzienti, coraggiosa ed eroica perché capace di vincere tutti i demoni interni ed esterni.
Tara “dagli occhi simili al lampo” significa che Tara può vedere l’intera esistenza, la sua mente onnisciente conosce simultaneamente tutti i fenomeni.
Spesso si parla di quattro azioni di Tara:
1) pacifica
2) di accrescimento
3) di influenza o controllo
4) feroce o irata.

Tara in forma irata
Il colore bianco dice che Tara esibisce il suo aspetto pacifico, che placa le afflizioni con mezzi pacifici. Quando si coltiva la gentilezza d’animo, il volto diventa luminoso e l’ambiente circostante ne risente positivamente.
La Tara color oro con sfumature azzurre è dispensatrice suprema di virtù.
Il colore rosso si associa di solito all’attività di accrescimento di tutto ciò che è utile e positivo nella vita e nella pratica del Dharma. Alla crescita della virtù si accompagna sempre l’umiltà. Questa Tara chiamata anche “la vittoriosa” simboleggia le forze capaci di trionfare sugli eventi negativi della vita, contribuendo alla nostra felicità, mentre siamo ancora nell’esistenza ciclica.
La Tara vittoriosa sui tre mondi è rosso rubino in altri casi nero rossastra. La sua specialità è purificare le negatività e gli oscuramenti. Tara ammansisce certi demoni, calpestandoli con i piedi ne debella le cause, ma con quelli che non si lasciano domare ricorre a misure più energiche e li introduce al sentiero con metodi feroci. In questo caso distruggere significa trasferire la mente di un essere ad una terra pura o distruggere le opinioni errate che simboleggiano. Questa attività è prerogativa delle divinità con aspetto feroce. La Tara che annienta le avversità o che vince le controversie è raffigurata in piedi tra le fiamme di un rogo è nera e feroce. Annienta le minacce esterne e distrugge le forze negative interne. Questa Tara raffigurata in piedi ha la gamba destra piegata che simboleggia la compassione e la sinistra distesa simboleggia la saggezza che calpesta i tre regni e annienta i malfattori, il rogo che la circonda è il fuoco della saggezza che brucia l’ignoranza, l’attaccamento, la rabbia, l’orgoglio e l’invidia. Il nero è il colore associato all’attività del soggiogare o attività feroce. Da Amithaba sulla sua corona esce un raggio di luce che raggiunge tutti gli esseri senzienti purificandoli dal karma negativo.
Vi è poi la Tara bianca la cui specialità è di guarire le malattie provocate dai naga come la lebbra, i tumori e gli ascessi nonché placare i mali provocati dai veleni e dalle intossicazioni; essa tiene nella mano destra la luna e allontana tutto ciò che nuoce. Simbolicamente la parte destra del corpo di Tara è in rapporto con il metodo, ossia l’aspetto del sentiero che ha a che vedere con la compassione, la parte sinistra invece è in rapporto con l’aspetto del sentiero relativo alla saggezza.
Le manifestazioni pacifiche hanno una certa energia che calma e rallegra la mente. Ma a volte la nostra mente è così ostinata che abbiamo bisogno di un’energia dirompente per svegliarci e smettere alcuni comportamenti improduttivi. Per questo motivo usiamo le manifestazioni di Tara irata, simbolo di discernimento e compassione, che vanno a colpo sicuro e agiscono senza mezzi termini. Tara nella sua manifestazione irata non è feroce con noi, ma lo è verso la stupidità della mente. Ruggisce davanti all’ignoranza, alla rabbia , all’attaccamento, all’orgoglio e all’egoismo, ma ha compassione per noi ,esseri senzienti in balia delle nostre emozioni squilibranti. Tara è la personificazione dei tre aspetti principali del sentiero: 1) la risoluzione ad essere liberi, 2) l’intenzione altruistica, 3) la visione corretta della realtà.
Le 21 forme di Tara
Quando si visualizza Tara si comincia dal loto su cui è seduta. Il loto rappresenta la risoluzione ad affrancarsi dall’esistenza ciclica (il loto cresce dal fango dello stagno e diventa un bel fiore, che non è macchiato dal fango). Anche noi, dal fango dell’esistenza ciclica grazie alla pratica del Dharma diventiamo liberi, non macchiati dalle afflizioni del karma impuro. Sul loto è appoggiato un cuscino piatto a forma di luna che rappresenta l’intenzione altruistica, l’aspirazione a diventare un Buddha per il beneficio di tutti gli esseri senzienti. La luce lunare rasserena e calma, analogamente la compassione che placa la rabbia. Quando diciamo a Tara: “Stammi vicina divina madre la cui natura è amore” abbiamo Tara accanto a noi con la mano aperta e protesa che ci ispira a cambiare atteggiamento. Il vero rifugio è praticare. Non perdiamo tempo a sognare l’ambiente perfetto in cui potremmo praticare. La situazione in cui ci troviamo e la situazione in cui ci troviamo in questo preciso momento sono il campo della nostra pratica del Dharma. Il presente è il solo momento per praticare.
Così facendo, potremo purificare il nostro continuum mentale da tutti gli inquinanti, e sviluppare al massimo le nostre buone qualità. Allora, seguendo l’esempio della principessa Yeshe Dawa, anche noi diventeremo Tara.

Bibliografia


Thubten Chodron, Come liberare la mente - Tara la liberatrice, Ed. Ubaldini
Guido Sgaravatti, Il mito di Tara Verde, Ed. Libreria Padovana
Lama Yesce, Tara l’energia illuminata, Ed. Chiara Luce
Carla Tzultrim Freccero, Tara l’arte del potere femminile, Ed. Chiara Luce

Dedicato alla gentilezza dei miei maestri

Flavia Zamana

UNISABAZIA 2011/12 - Ganesh dalla pancia grassa

Ganesh dalla pancia grassa

Uno degli otto dharmapala (“difensori del Dharma”), figure dall’aspetto infuriato che hanno il compito di terrorizzare i nemici del buddhismo, è Mahakala, il “Grande Nero”, patrono della Mongolia, versione buddhista-tibetana del dio Shiva. Nella sua funzione di difensore della saggezza, Mahakala è raffigurato in piedi, a gambe divaricate verso destra, mentre calpesta una figura umana con la testa di elefante, ovvero il dio hindu Ganesh.

Mahakala
L’immagine rappresenta, ovviamente dal punto di vista della tradizione hindu, la superiorità della sapienza induista nei confronti di quella buddhista. Infatti, Ganesh tiene nelle mani una carota (simbolo della sua ingordigia) ed una calotta cranica (simbolo della sapienza).

La storia

Tra le divinità del pantheon induista, Ganesh è certamente una delle più amate e venerate, sia nella devozione popolare, sia tra gli eruditi filosofi, sia tra gli asceti che praticano le diverse forme dello yoga e del tantra.
Storicamente, l’origine del culto del dio dal corpo umano e dalla testa di elefante si perde nella notte dei tempi. In Iran è stata trovata una placca metallica, databile tra il 1200 e il 1000 a.C., con l’immagine di un guerriero dalla testa di elefante che tiene nelle mani una spada e uno stilo per scrivere. Ai suoi piedi un tridente e un serpente. Tutti elementi che ritroveremo nell’iconografia legata a Ganesh. Era proprio quella, probabilmente, l’epoca in cui si svolse la grande guerra tra i Pandava e i Kaurava che verrà poi narrata nel Mahabharata, il maggior poema epico dell’India (e il più lungo della storia umana, pari a 7 volte l’Iliade e l’Odissea messe insieme). E Ganesh è considerato lo scriba del poema, dettatogli dal suo mitico autore, Vyasa (= il “sistematore”). Il Mahabharata in realtà fu composto nel corso di un lungo periodo, tra il IV sec. a.C. e il IV sec. d.C., ma secondo il mito il saggio Vyasa, che aveva già in mente tutto il poema, chiese a Ganesh di scriverlo sotto dettatura.

Vyasa e Ganesh
Ganesh accettò, a condizione che Vyasa non facesse nessuna pausa. Come controproposta, Vyasa obbligò Ganesh a considerare, prima di scrivere un verso, tutte le implicazioni del precedente. In effetti, i significati dei versi del Mahabharata sono così vasti e profondi che Ganesh era continuamente costretto a fermarsi per riflettere, e Vyasa aveva il tempo necessario per comporre i versi successivi. Fu per questo che Ganesh, il cui culto ha evidenti origini nell’antica società contadina, che attribuiva ruoli fondamentali agli animali nella propria religiosità (l’elefante, la scimmia, gli uccelli, i serpenti...), divenne anche il protettore dei poeti e degli intellettuali in genere. Ancora oggi molte opere letterarie iniziano con un’invocazione a Ganesh, e spesso il suo nome compare nell’intestazione di lettere personali e commerciali.
La storia del culto di Ganesh ci dice quindi che la sua origine va posta nel mondo agricolo dell’India pre-vedica, nel quale l’elefante, creatura possente e (relativamente) mansueta, svolgeva un ruolo fondamentale, sia dal punto di vista materiale che da quello simbolico. In quell’ambito, l’elefante compare spesso associato ai culti delle Dee Madri, ed era quindi probabilmente un dio della fertilità.
All’epoca del Buddha, nel VI sec. a.C., era già considerato un dio molto antico. Nell’iconografia indiana, così come lo si può vedere oggi, comparve invece tardivamente, intorno al IV sec. d.C.

Il mito

Il mito di Ganesh è invece narrato per esteso, ed in più versioni anche diverse tra loro, nei Purana, le grandi raccolte di testi antichi costantemente rielaborate nel corso dei secoli, fino alle redazioni dell’epoca Gupta (III sec. d.C.). Nel Ganesh Purana, Ganesh è considerato come il Dio Assoluto, cui anche Brahma e Shiva devono obbedienza: questo rende evidente che il culto del dio-elefante ha preceduto la formazione dell’induismo moderno, dal quale è stato assorbito. Per i filosofi hindu, Ganesh rappresenta l’OM, la vibrazione che ha dato origine alla manifestazione dell’Universo e di cui il suono OM è l’espressione sensibile.


La danza cosmica di Ganesh
Secondo i Purana, Ganesh è figlio di Shiva e Parvati. La sua origine risiede nel desiderio di Parvati di avere un figlio, al quale Shiva costantemente si oppone. Infatti per Shiva una moglie era “un grande impedimento per uno libero dalle passioni”, ed un figlio era “laccio e steccato”. Shiva, si rammenti, è il Signore dello Yoga, il dio degli asceti (non si può non pensare al fatto che il figlio di Siddhartha Shakyamuni, il futuro Buddha, si chiamava Rahula, “nodo astrale” ma anche “legame”). In seguito alle insistenti richieste di Parvati, Shiva un giorno le strappò le vesti, ne fece un bambolotto e glielo diede. Parvati lo accostò al seno, ed il pupazzo prese vita, diventando un bambino. Shiva lo esaminò con attenzione, ma notò in lui un segno infausto: “Questo figlio – disse – è nato sotto i cattivi auspici del Pianeta dei suicidi (per gli occidentali, Saturno) e non vivrà a lungo”. Appena ebbe parlato, la testa del bambino si staccò dal corpo. Di fronte al dolore di Parvati per la perdita del figlio, Shiva si commosse ed affidò al suo servitore, Nandin (il toro, suo veicolo), il compito di trovare un’altra testa. Dopo lunghe peripezie e combattimenti, Nandin tornò con la testa di Airavata, l’elefante veicolo del dio Indra. Shiva la pose sul corpo del bambino, che tornò a vivere. Gli venne quindi attribuito il nome di Ganesh, il “Signore delle schiere” (gana, gli accompagnatori) degli dèi.
Secondo un altro mito, Ganesh fu creato da Parvati, con la pelle staccatasi dal suo corpo durante il bagno (o con gli oli da lei usati nell’occasione). Ella lo pose all’ingresso del bagno, affinché nessuno potesse guardarla. Quando giunse Shiva, suo compagno, Ganesh gli impedì il passaggio, e Shiva, adirato, gli staccò la testa. Parvati minacciò di distruggere il mondo, e Shiva si fece allora portare dai suoi aiutanti la testa del primo essere che avessero trovato rivolto verso nord. E i gana trovarono un elefante... E dei gana Ganesh è appunto il Conduttore (Ganapati).
Altrove, è detto che Ganesh fu generato dalla mente di Shiva come un bellissimo giovane. E Parvati, gelosa della sua bellezza, gli trasformò la testa in quella di un elefante. Per poi amarlo ancora di più…
È comunque degno di nota che in tutti i miti relativi alla nascita di Ganesh la sua origine è legata alle azioni del solo Shiva o della sola Parvati, e non alla loro unione.
Ganesh è anche chiamato Ekadantaka, “Colui che ha una sola zanna”: l’altra si spezzò infatti nella lotta tra Nandin e Airavata. Secondo un altro mito, Ganesh la perse a causa di un colpo di scure infertogli da Parashurama (che aveva ricevuto la scure proprio da Shiva), al quale voleva impedire di entrare nelle stanze del padre. In un altro racconto, la luna ed alcune stelle si erano messe a ridere, avendo visto che la grossa pancia di Ganesh era scoppiata per i dolci che aveva mangiato. Ganesh si adirò, si staccò una zanna e la scagliò contro la luna, che a poco a poco divenne scura, dando così origine alle fasi lunari. Ganesh infatti è raffigurato con una grossa pancia, ed è detto Lambodara, “Pancia grassa”. Nei racconti popolari (e, come si è visto, nell’iconografia buddhista) essa è il segno della sua golosità, ma in realtà rappresenta l’immensità dell’Universo, sulla quale l’immagine di Ganesh invita a meditare.

Shiva, Parvati e Ganesh
La zanna spezzata (altro nome di Ganesh è Vakratunda, “Zanna spezzata”) è invece simbolo del sacrificio, la perdita di un elemento di bellezza esteriore, la rottura di un equilibrio formale (la testa del dio è divenuta asimmetrica, e nell’iconografia indiana la simmetria riveste grande importanza), a favore però del raggiungimento di un equilibrio superiore, di uno stadio evolutivo più alto.
Per completezza, è da dire che l’elefante decapitato divenne un Gandharva, una divinità (minore) dell’aria, associata al matrimonio e soprattutto al concepimento.
Per gli Indiani, Ganesh era ed è soprattutto la personificazione delle energie che rimuovono gli ostacoli. Sia gli ostacoli materiali, ed allora ci si rivolge a lui quando si inizia la costruzione di una casa, o si intraprende una nuova attività, o si parte per un viaggio,… Sia gli ostacoli che si incontrano in un cammino spirituale che tende alla liberazione, alla conoscenza suprema. Allora, Ganesh è detto Vignaharta, “Distruttore degli ostacoli”, o Vighnaraja, “Signore degli ostacoli”.
Ganesh in forma di OM
Nella sua azione, Ganesh si dimostra anche molto astuto, oltre che forte. Un giorno entrò in competizione con il fratello Kartikeya (noto anche come Skanda, o Murugan, o Kumara – si ricordi Capo Comorin, estrema punta meridionale dell’India), per acquisire il dono della saggezza suprema. Il padre, Shiva, decise che lo avrebbe dato a chi avesse fatto per primo tre giri intorno al mondo. Kartikeya salì sul suo veicolo, il pavone, e volò via. Ganesh, sapendo di essere troppo pesante, e di avere un veicolo, il topo, troppo lento, girò per tre volte intorno a Shiva e Parvati, affermando che essi erano il centro del mondo e che l’Universo intero si riassumeva in loro. Ed ebbe il premio.
In un’analoga storia, il premio era invece il matrimonio. Ganesh vinse, e sposò due sorelle, Siddhi e Buddhi. È qui evidente il simbolismo della vicenda, in quanto Siddhi significa “compimento” (si rammenti Siddhartha, “colui che ha raggiunto lo scopo”), e Buddhi è “saggezza”, dalla radice budh-, “comprensione”, “intelletto”.

Ganesh cavalca Mushika
Si è detto che il veicolo (vahana) di Ganesh è un topo, di nome Mushika (cfr. il greco μυς, il latino mus, l’inglese mouse, il tedesco maus). Una volta, una divinità dell’aria, il Gandharva Kraunka, insultò un grande maestro, e per questo venne trasformato in un enorme topo. Seguendo il suo nuovo istinto, entrò in un villaggio e fece enormi danni. Il capo-villaggio chiese aiuto a Ganesh, il quale domò il topo e ne fece il proprio veicolo. Se Ganesh è legato alle attività della mente e rappresenta l’energia che elimina gli ostacoli che ne condizionano l’evoluzione, il topo simboleggia i desideri più bassi e meschini che corrodono lo spirito. Ma Ganesh non solo li vince, ma li soggioga e ne utilizza la forza, cavalcandoli. È l’essenza del Tantra, ovvero non opporsi alle energie “negative”, bensì trasformarle e canalizzarle con finalità evolutive: è il “cavalcare la tigre”.
Ugualmente significativi sono gli altri elementi dell’iconografia di Ganesh: spesso è raffigurato in piedi, mentre danza (Nritya Ganapati), in evidente e forse ironica analogia con l’immagine di Shiva Nataraja, “Signore della danza”, e qui rappresenta la continua distruzione e creazione dell’Universo (quest’ultima simboleggiata dal tamburello che entrambi reggono in una mano).
La testa di elefante è la saggezza, la conoscenza profonda, la memoria cosmica, la tradizione che si tramanda di generazione in generazione.
Il terzo occhio è simbolo della forza del fuoco purificatore (gli altri sono le energie del Sole e della Luna).
La zanna spezzata, lo si è visto, è il sacrificio di una parte di sé (ovvero di una falsa immagine di sé), a favore di una visione superiore. La zanna integra è invece la saggezza discriminante (viveka): come la zanna sposta oggetti pesanti o leggeri, usando la forza in maniera discriminante, così il saggio agisce distinguendo gli effetti delle proprie azioni.
Attorno alla vita, o ad una spalla, Ganesh porta spesso un serpente, simbolo dell’energia cosmica.
Gli oggetti che Ganesh tiene nelle mani, nelle 32 principali forme iconografiche nelle quali è venerato, anche anch’essi precisi rimandi simbolici, come già si è visto per Ganga, Padma, Kali… Alcuni esempi:
- un dolce di riso: la dolcezza della via spirituale
- la canna da zucchero: è dura da coltivare e raccogliere, ed è quindi il dolce equilibrio spirituale a cui si perviene al termine del cammino
- un laccio: la liberazione dagli attaccamenti
- il pungolo da elefanti: lo stimolo a mantenere la corretta via spirituale
- le armi: la lotta contro i difetti umani
- gemme, ghirlande di fiori…: simboli di pace
- il loto su cui siede: la purificazione, l’evoluzione spirituale.

Il culto

Come si è detto, Ganesh è venerato da milioni di persone in ogni parte dell’India, specialmente nell’Ovest e nel Sud, e sono ben 32 le principali forme iconografiche verso le quali si esprime la devozione dei suoi seguaci: Ganesh bambino, ragazzo, di colore argenteo o dorato o rosso, con 4 o 16 braccia ecc.
Ogni fedele, ogni famiglia, ogni gruppo, sceglie la forma che più sente affine ed efficace, a seconda delle proprie motivazioni, delle proprie tradizioni o condizioni personali e sociali…
Il culto attraverso le immagini è parte del Bhakti Yoga, lo Yoga della devozione, che ha due aspetti:
- Para Bhakti, il più elevato, in cui il devoto, senza più compiere riti, è totalmente e costantemente immerso nell’amore per la divinità, e vi si identifica (si ricordi la devozione di Ramakrishna verso Kali). È una forma di ascesi mistica, nella quale scompare ogni distinzione tra soggetto e oggetto, e che coinvolge completamente la persona e la sua stessa esistenza.
- Apara Bhakti, seguito dalla maggior parte dei devoti. Alla divinità vengono fatte offerte, e nel suo nome vengono compiuti rituali più o meno complessi (puja), nei templi o nelle stesse abitazioni. Il devoto siede in meditazione silenziosa di fronte ad una immagine del dio (che può anche essere rappresentato da una pietra, o da un mucchietto di semi…), oppure recita inni sacri o ripete i mantra della divinità: uno dei mantra di Ganesh è OM GAM GANAPATAYE NAMAH. Una forma di rituale prevede ad esempio la ripetizione dei nomi di Ganesh per 21, 108 o 1000 volte, con offerte di fiori o foglie ad ogni nome. Le offerte comprendono fiori, frutta, latte, acqua, burro fuso, luci, suoni di campane, canfora, incenso…
Ogni gesto, ogni oggetto, hanno un preciso significato simbolico, e nulla è lasciato al caso, compreso il momento in cui compiere il rituale:
- L’acqua spruzzata è la purificazione di sé e dei luoghi.
- L’offerta dei fiori è fatta con 5 dita, ovvero si offrono i 5 sensi.
- I fiori vengono portati prima al cuore, poi sono offerti al dio: è l’offerta di sé, mente e cuore.
- Il devoto compie 3 giri in senso orario intorno all’immagine del dio: è il viaggio verso il divino, passando attraverso i tre mondi, le regioni inferiori, la terra e il cielo.
I devoti di Ganesh, è evidente, non credono che in qualche angolo del cielo o su qualche remota montagna viva un essere per metà uomo e per metà elefante a cavallo di un topo, che farà loro superare un esame o avere successo nel commercio, o evitare incidenti stradali…
Per loro, Ganesh è l’immagine, la personificazione, della pazienza, dell’energia che abbatte gli ostacoli, della saggezza. Scopo della meditazione, delle offerte, dei rituali, è risvegliare in sé quelle qualità che il dio rappresenta, è divenire essi stessi Ganesh. Oppure Kali, brahman, Dio, Cosmo, Realtà Ultima, o quale che sia il nome, del tutto approssimativo, provvisorio, convenzionale, che si vuol dare all’Autentico Sé.

Testi citati

Stutley, Dizionario dell’Induismo, Ed. Ubaldini
Schumann, Immagini buddhiste, Ed. Mediterranee
Zimmer, Miti e simboli dell’India, Ed. Adelphi
Herbert, L’induismo vivente, Ed. Mediterranee
Morretta, Miti indiani, Ed. Longanesi
O’ Flaherty, Dall’ordine il caos, Ed. Guanda
Pulga, Sul monte Kailash, Ed. Il gatto e la volpe
Vacchetto, Ganesh, Ed. Mondadori Oscar

m. Mauro TonKo, gennaio 2012

UNISABAZIA 2011/12 - Kali la Nera Amata

Kali, la Nera Amata

Diverse sono le vie che conducono al Tempio di Madre Kali di Kalighat in Calcutta.
Similmente, diverse sono le vie che conducono gli uomini alla casa del Signore.
Ogni religione è nient’altro che una di queste vie.


(Ramakrishna)


Nel mezzo della pagoda si elevava una grande statua di bronzo, rappresentante una donna con quattro braccia, di cui una brandiva una lunga daga e un’altra una testa. Una grande collana di teschi le scendeva fino al collo dei piedi e una cintura di mani e di braccia mozzate le stringeva i fianchi.
La faccia di quell’orribile donna era tatuata, le sue orecchie erano adorne di anelli; la lingua dipinta di rosso cupo, del color del sangue, le usciva d’un buon palmo dalle labbra atteggiate a un feroce sorriso; i polsi erano stretti da larghi braccialetti e i piedi posavano su di un gigante coperto di ferite.
Quella divinità, lo si capiva a prima vista, trasportata dalla ebbrezza del sangue, danzava sul corpo della vittima. [..] Tremal-Naik non aveva mai visto nulla di simile
”.
Ciò che Emilio Salgari descriveva nel suo romanzo “I misteri della Jungla Nera” (1895), senza mai aver lasciato le città ove trascorse la sua esistenza (Verona, Genova, Torino), era una statua della Dea Kali (1). Senza dubbio, tra le divinità del pantheon indiano, una delle più amate e venerate. Inoltre, Kali è forse la più presente nell’immaginario occidentale sull’India, grazie alla letteratura e al cinema (2), ma anche la meno conosciuta nei suoi reali aspetti simbolici.

Si è detto come per le tradizioni indiane (ma non solo) il fine ultimo di un percorso spirituale (quali ad es. lo Yoga, il Vedanta, il Samkya..) sia la Conoscenza/Identità con l’Assoluto, Dio, il brahman, il che comporta la liberazione dalla sofferenza dell’esistenza ciclica; altrimenti detto: la ri-unificazione degli opposti, il principio maschile ed il principio femminile, Shiva e la sua Shakti (3), la sua compagna, personificazione dell’originaria manifestazione dell’Uno nel Due. Tutto questo è ben rappresentato (come accennato nel corso degli incontri precedenti) dall’unione delle nadi Ida e Pingala, i canali lungo cui scorrono le energie sottili del corpo, nel canale centrale, Sushumna Nadi, nel centro energetico superiore, il Sahasrara Chakra.
Si è visto inoltre come nella cultura hindu la stessa persona (divina) possa manifestarsi secondo modalità diverse, assumendo forme e nomi differenti che possono divenire divinità “autonome”, sempre però riconducibili ad una originaria unità. Così, la Dea Padma è anche Sri, e Lakshmi.
Ugualmente, la Shakti di Shiva ha molti nomi e forme: è Parvati, Durga, Uma, Chandi, Sati (4), Bhavani, Chamunda. E, ciò che qui interessa, è Kali.
Kali
Parlando di Ganga e di Padma, è stato facilmente sottolineato il principio materno che le figure femminili rappresentano, il loro essere origine e sostentamento della vita. Ma tale aspetto creatore necessita per legge di natura di essere controbilanciato da un aspetto distruttore. L’Energia ha anche una “funzione perennemente distruttiva che si riprende e di nuovo inghiotte le creature che ha generato” (Zimmer).
La Shakti di Shiva si presenta in effetti sotto aspetti diversi, in apparenza contraddittori, ma in realtà tra loro complementari. Come Kali, ella si manifesta come una donna nuda, con lunghi capelli sciolti, una grande lingua fuori dalla bocca, una collana di crani umani, e brandisce un coltello insanguinato e una testa umana appena staccata. Una dea guerriera, quindi, una figura estremamente ricca di energia, in particolare quell’aspetto dell’energia legato alla dissoluzione, alla distruzione (non in senso negativo: la distruzione non è il male, contrapposto ad un bene identificato con la creazione, è uno degli aspetti della manifestazione, dell’esistenza). Una icona apparentemente inquietante, spaventosa, facilmente assimilabile ad una entità malvagia, ad un demone (come fece Salgari), se non si conosce il suo reale significato.
Infatti, secondo il mito, Kali si manifestò allorquando le forme “demoniache” maschili (gli asura [5]) stavano dominando e opprimendo il mondo dei Deva (gli dei) e degli uomini. È l’eterna lotta non tanto tra il bene e il male, quanto tra la conoscenza autentica (vidya), e l’ignoranza (avidya), ovvero quella forma di conoscenza che, guidata dall’ego, mira solo al dominio sul mondo, portando squilibrio e sofferenza.
Durga
Gli dei erano stati sconfitti, messi in fuga, umiliati. Concentrando le loro residue energie, le proiettarono come torrenti di fuoco, da cui emerse Durga (= l’irraggiungibile), personificazione femminile delle energie della natura legate alle montagne e al fuoco, la Dea-Madre degli yogi, compagna di Shiva, che dello Yoga è il Signore. Durga attaccò da sola gli asura, e durante la lotta fece uscire dalla sua fronte il suo aspetto più terrifico, più “forte”, ovvero Kali, dea guerriera per eccellenza, che si gettò nella mischia. Durante la lotta conto il gigante Raktavija, Kali riuscì a ferirlo più volte, ma da ogni goccia del suo sangue sorgevano altri mille giganti. Allora Kali emanò da sé Chandi, uno dei suoi aspetti, la quale continuò a combattere mentre Kali bevve tutto il sangue (simbolo dell’energia vitale maschile, che Kali assorbe annullandone gli aspetti distruttivi). Raktavija rimase solo, e fu ucciso da Chandi. Un ultimo asura venne infine sconfitto da Durga, dopo che ebbe riassorbito in sé le sue molteplici forme. Alla fine, ristabilita la pace e l’equilibrio nel mondo, Durga ricevette gli omaggi degli dei e scomparve: dal Molteplice all’Uno, dall’Uno al Non-manifesto.
Si noti per prima cosa che, per riuscire a vincere gli asura, gli dei fecero ricorso ad una figura femminile e alle sue emanazioni, ugualmente femminili. Il che rimanda ancora una volta alla Dea-Madre che aveva preceduto, nelle società matriarcali, le divinità maschili poi predominanti nelle successive strutture sociali patriarcali. Ma il predominio maschile non cancellò del tutto il ruolo dell’elemento femminile, sia nei miti e nei simboli religiosi, sia nella pratica spirituale. Questo è particolarmente evidente soprattutto nella tradizione del Tantra (6), che esercitò una profonda influenza nell’induismo (es. lo Hatha Yoga) e nel buddhismo (Vajrayana, Shingon).
Ugualmente significativi e complessi sono i simboli racchiusi nelle tradizionali rappresentazioni iconografiche di Kali. Il suo nome è legato al colore nero, ed è anche la forma femminile del Tempo (kala), il grande divoratore di ogni cosa.
Secondo Swami Siddheshvarananda i capelli sciolti di Kali rappresentano il Tempio, a cui i fedeli accorrono. I crani umani che le ornano il collo sono il principio di causalità, ma anche la conoscenza, la saggezza: infatti sono in numero di 50, come le lettere dell’alfabeto sanscrito. Il pugnale (o la spada) rappresenta invece tutti gli orrori della vita, ma anche la distruzione delle forme e quindi la liberazione dell’uomo dalla schiavitù nei confronti delle forme stesse.
La testa mozzata indica invece il fatto che la Dea trasforma costantemente la personalità dei suoi devoti, consentendo loro il passaggio a stadi più elevati nell’evoluzione spirituale.
Kali è spesso raffigurata con il corpo di colore nero (Dakshinakali). È detto in un testo tantrico: “Come tutti i colori scompaiono nel nero, così tutti i nomi e le forme scompaiono in lei” (7). E, come Kali Nera, è ritta in piedi (oppure seduta, in unione sessuale) sopra un corpo, quello di Shiva-Shava (shava = cadavere). È l’unione amorosa dei due princìpi, il maschile e il femminile, il Due-in-Uno. Qui, Shiva è cadavere, ovvero è l’immobilità in quanto dinamicità potenziale, ciò che precede la manifestazione, il movimento. In genere, nel simbolismo indiano (contrariamente a quello occidentale) l’elemento maschile è passività, immobilità. Laddove la passività indica la potenzialità, lo stato latente dell’energia, il non-ancora-manifesto. Il femminile è invece attività, l’energia che si rende manifesta. I due elementi sono quindi necessariamente opposti e complementari.
Il colore nero del corpo rimanda a tamas, uno dei guna (categorie, qualità) della sostanza, quello legato alla forza centrifuga che conduce alla disgregazione.
Il bianco dei suoi denti è la qualità opposta, sattva, che determina la luminosità, la conoscenza, i sentimenti.
Il rosso della lingua è rajas, principio dell’attività, senza il quale né sattva né tamas possono esercitare alcuna funzione.
Kali è sempre nuda, ovvero è libera dal velo dell’illusione (maya): essa è la Natura stessa priva di ogni nascondimento, è la realtà così com’è.
I suoi seni sono il simbolo del suo essere generatrice di vita, che ella crea senza necessità di unione con l’elemento maschile, già racchiuso in lei.
È cinta da una fascia fatta di braccia e mani. La mano è il principale strumento umano, e qui rappresenta il karma, le azioni compiute nel passato dagli uomini con corpo, parola e mente, e i loro effetti sugli autori delle azioni stesse, che si manifestano nella vita presente o in quelle future.
Ha 2, 4, 6 o 8 mani, con le quali regge una testa mozzata (l’annientamento dell’ego), una spada (la distruzione delle forme), un laccio (la caducità di tutte le forme), oppure compie gesti di protezione o di invito alla pratica spirituale. Impugna altresì un tridente, che si trova anche nella iconografia di Shiva, e che, oltre ad essere un’arma, ha diversi significati simbolici: la supremazia sul tempo (le 3 punte, presente, passato e futuro); ovvero i 3 momenti dell’azione divina: creazione, conservazione, distruzione; o ancora le 3 tendenze, aggregazione, equilibrio, disintegrazione. Più in generale, le armi che impugna simboleggiano il suo potere di distruzione, che è anche, si ricordi, distruzione degli ostacoli che impediscono la liberazione dal ciclo delle rinascite e della sofferenza umana. Può anche reggere delle forbici (che tagliano il filo della vita), una coppa piena di cibo, un fiore di loto, simbolo di rigenerazione spirituale.
Talvolta la sua pelle è bianca, allora è la Vergine Creatrice. Oppure rossa, ed è la Madre Sostentatrice.
Kali è pertanto immagine della nascita e della morte, sua naturale e necessaria controparte, che si alternano e si completano vicendevolmente in un flusso continuo di cicli di origine e di cessazione. È Inizio di Ogni Cosa e, dopo la dissoluzione dell’Universo, è Natura Non-Manifesta, pura potenzialità, Eterno Femminile origine di ogni futuro Universo.
Ella è, dal punto di vista mistico, la suprema realizzazione della verità, lo stato al di là della manifestazione, e quindi la liberazione suprema (moksha).
A Kali è consacrata una delle più grandi città indiane, Calcutta (Kolkata), il cui stesso nome significa “luogo di Kali” (Kalikshetra).
Ramakrishna
E lì, nel tempio a lei dedicato, Kali apparve ad uno dei più grandi mistici dell’Induismo, Ramakrishna, molto conosciuto anche in Occidente (8). Quando prestava servizio nel tempio di Kali, della quale fu sempre un fervente devoto, egli fece voto di uccidersi, se la sua amata dea non gli fosse apparsa. E dal momento in cui Kali gli si manifestò, egli percepì ogni cosa, anche il più piccolo essere, il più insignificante oggetto, come pura Coscienza, in totale comunione con la divinità. “Tutto dentro alla stanza – scrisse Ramakrishna – era imbevuto di [..] Essere-Coscienza-Beatitudine. Di fronte al tempio vidi un uomo malvagio, ma anche in lui vidi vibrare il potere della Madre Divina [..]. Percepivo con assoluta chiarezza che la stessa Madre Divina era diventata ogni cosa”.
Come si è detto, il nome di Kali rimanda al colore nero, al Tempo (al femminile), ed è anche il termine che, nel gioco dei dadi, designa il colpo perdente (1 punto), in seguito personificato come spirito del tempo distruttore.
Tutti questi aspetti di Kali ci consentono, vedremo in qual modo, di accostarci alla visione del tempo secondo la tradizione indiana, un tempo ciclico, non lineare, in cui ogni cosa, compresi gli dei e l’intero universo, nasce, esiste, muore e rinasce, in cicli cosmici senza inizio e senza fine.
Secondo i miti hindu, ogni ciclo del mondo si divide in 4 età (yuga), che prendono i loro nomi dai quattro colpi del gioco dei dadi: Krita (4 punti), Treta (3 p.), Dvapara (2 p.), Kali (1 p.), e che si susseguono nell’ordine sopra descritto.
I quattro Yuga
Il Krita Yuga corrisponde al colpo vincente, quello che guadagna tutta la posta in gioco. È, secondo la terminologia della tradizione greco-romana, l’età dell’Oro (9): ogni cosa è completa in se stessa; l’ordine (Dharma) morale e quello sociale si regge sulle 4 zampe (spesso è raffigurato come una vacca), ed è quindi del tutto stabile; uomini e donne sono virtuosi, e vivono a lungo e in salute; la società è in perfetto equilibrio nelle sue componenti. Il Krita Yuga dura 1.728 mila anni.
Al suo termine, inizia il Treta Yuga, e con esso un periodo di progressiva decadenza. Tutto si regge su ¾ del Dharma, l’adempimento dei doveri etici, religiosi, sociali, familiari, non è più spontaneo, deve essere appreso. La durata di questo yuga è di 1.296 mila anni.
Il decadimento continua, e si approfondisce, con il Dvapara Yuga, un’era di instabile equilibrio tra perfezione e imperfezione, tra luce ed oscurità. L’ordine universale si regge su due sole zampe, gli esseri umani divengono avidi, avari, attaccati ai beni materiali. Tutto questo per 864 mila anni, la metà del primo yuga.
Infine, il Kali Yuga, l’età oscura. Nel mondo c’è solo egoismo, violenza, guerre, dolore. Il materialismo regna sovrano, il sacro scompare. È detto nei Visnu Purana: “Quando la società raggiunge uno stadio in cui la proprietà determina il rango, la ricchezza diviene l’unica fonte di virtù, la passione il solo legame che unisce marito e moglie, la falsità la fonte del successo nella vita, il sesso l’unico mezzo per ottenere godimento”, allora siamo nel Kali Yuga. Che è infatti l’età attuale, iniziata venerdì 18 febbraio 3102 a.C., con la morte del corpo fisico del dio Krishna. La sua durata è di 432 mila anni, ¼ del Krita Yuga. Terminerà quindi tra 426.887 anni, ed in questo lasso di tempo ogni aspetto dell’esistenza andrà volgendo al peggio.
Il totale dei 4 yuga è dunque di 4.320 mila anni. Tale periodo è detto Mahayuga (maha = grande).
Mille mahayuga (ovvero 4.320 milioni di anni umani) corrispondono ad un giorno di vita del dio Brahma, il creatore. La notte è di eguale durata.
Un giorno di Brahma (detto kalpa) inizia con l’emanazione di un universo, e termina con la dissoluzione e il riassorbimento dello stesso in Lui. Durante la notte, tutto sussiste come seme, come potenzialità della manifestazione che avverrà con il nuovo giorno, allorquando Brahma riemerge sul fiore di loto sbocciato dall’ombelico di Visnu dormiente sulle spire del serpente Ananta.
Ma anche Brahma è soggetto al ciclo di manifestazione e dissolvimento: la sua vita dura infatti 100 anni, fatti di giorni e notti di Brahma, ed è quindi pari a 311.040 miliardi di anni umani (4.320 milioni [1 mahayuga] x 2 [dì + notte] x 365 x 100 anni).
La vita di un Brahma termina con una totale dissoluzione, nella quale svaniscono tutti gli stati dell’essere, fino a quelli più alti, più sottili. Nei 100 anni (di Brahma) successivi domina uno stato di assoluto riassorbimento, dopodiché l’intero ciclo ricomincia da capo, e ancora, e ancora….

Note


1) La corretta pronuncia è Kàli, e non Kalì, come si sente spesso dire.
2) Si ricordino I misteri della giungla nera (1953, 1965), Kali Yug la dea della Vendetta (1963), Indiana Jones e il tempio maledetto (1984). Vanno anche citati romanzi come Il giro del mondo in 80 giorni di J. Verne e L’uomo difforme di A. Conan Doyle, nonché il celebre ciclo televisivo RAI dedicato a Sandokan, nei quali sono presenti i thug, adoratori di Kali.
3) Ciò vale soprattutto per la tradizione shivaita. La Shakti è qui la personificazione dell’energia cosmica, rappresentata come femminile e attiva, in opposizione alla personificazione maschile, Shiva, vista come passività, come latenza, potenzialità dell’energia stessa.
4) Sati, personificazione della Natura divina, si immolò bruciando dall’interno grazie ai suoi poteri yogici, per rabbia contro il padre Daksha, che riteneva disonorevole per la famiglia il matrimonio della figlia con Shiva. Sati è anche il nome della pratica secondo cui le vedove si immolavano vive sulla pira funeraria del consorte. Il rito era percepito come un atto di devozione verso il marito e solo le donne virtuose erano in grado di compierlo. La pratica di sati venne proibita dagli Inglesi nel 1829.
5) In epoca pre-vedica il termine asura significava “Essere Spirituale” ed era associato anche agli dei (Deva). Più tardi divenne sinonimo di demone, nemico dei Deva. Il rapporto Deva/Asura non può essere comunque paragonabile a quello Dio/Diavolo come inteso in ambito giudaico-cristiano.
6) Il culto tantrico (che si ritrova anche nel buddhismo) ha come fine l’ottenimento della “potenza” derivante dall’unione dell’energia maschile e femminile, per raggiungere la liberazione, l’illuminazione. Si è sviluppato nel III sec. d.C. (periodo Gupta), ma è un prolungamento di tradizioni yogiche pre-vediche, quindi molto più antiche. Il termine Tantra, che indica anche le raccolte degli insegnamenti delle relative scuole, significa “trama e ordito, i fili intessuti su un telaio”.
7) Nel mondo cristiano, il culto della Madonna Nera è diffuso ovunque (Oropa,
Częstochowa, Tindari, Montserrat, Tenerife, Sud America…), ed è più che probabile il suo legame con il culto originario della Dea-Madre (il colore scuro è il colore della terra fertile) e successivamente con il culto egizio di Iside, con quello greco-romano di Demetra/Cerere, forse anche con quello indiano di Kali.
8) Sri Ramakrishna (1834-1886), per nulla un erudito, fu uno dei più grandi santi mistici dell’India moderna. Dopo aver provato profonde esperienze mistiche quale devoto della Dea Madre, praticò secondo gli insegnamenti delle varie scuole induiste, come pure secondo le dottrine buddhiste, jainiste, islamiche e cristiane, raggiungendo ogni volta le esperienze estatiche relative alle varie tradizioni.
9) Le altre sono le età dell’Argento, del Bronzo e del Ferro (l’attuale).

Testi consultati

Salgari, I misteri della Jungla Nera, Ed. Einaudi
Stutley, Dizionario dell’Induismo, Ed. Ubaldini
Zimmer, Miti e simboli dell’India, Ed. Adelphi
Herbert, L’Induismo vivente, Ed. Mediterranee
Morretta, Miti indiani, Ed. Longanesi
Acharuparambil, Spiritualità e mistica indù, Ed. Città Nuova
Mookerjee, Kali la Dea della forza femminile, Ed. RED


m. Mauro Ton Ko, novembre 2011