mercoledì 21 dicembre 2016

Assenze e presenze, in prossimità del Natale

L'assenza apparente di Dio in questo mondo è la realtà di Dio.
Il contatto con le creature ci è dato tramite il senso della presenza.
Il contatto con Dio ci è dato tramite quello dell'assenza.
In confronto a questa assenza, la presenza diviene più assente dell'assenza.

(Simone Weil)




Citato in:

M. Vannini, Prego Dio che mi liberi da Dio, Ed. Bompiani

Solstizio d'inverno

Secondo la tradizione giapponese,ognuno ha un anno in più a partire dal primo gennaio di un nuovo periodo di dodici mesi.

Un haiku di Ochi Etsujin:

Yuku toshi ya
Oya ni shiraga wo
Kabushiki keri

L'anno volge alla fine -
Non ho mostrato ai miei vecchi
l'argento dei capelli





mercoledì 14 dicembre 2016

Arthur Schopenhauer legge le Upanishad


Alcune domande possono legittimamente sorgere durante lo studio della storia della filosofia, quali: fino a che punto la biografia di un pensatore può influire sul suo sistema filosofico, e fino a che punto è corretto giudicarne il pensiero anche sulla base degli eventi della sua storia personale?
Ad esempio, si può studiare Giovanni Gentile prescindendo dalla sua totale fedeltà al fascismo, che gli costò la vita? La relazione adulterina che l’autore del Capitale intrattenne con Helene Demuth, proletaria governante di casa Marx, è solo gossip? E l’episodio torinese di Nietzsche che abbraccia un cavallo difendendolo dalle frustate del vetturino, ha a che fare con la sua filosofia o è solo un sintomo di follia? Innumerevoli sono gli esempi possibili.

Arthur Schopenhauer

Proprio secondo Nietzsche, un pensiero filosofico “è sempre la confessione autobiografica del pensatore che lo enuncia[1]. Per Schopenhauer, poi, “ogni biografia è una patografia[2]!
La vita e il pensiero di Arthur Schopenhauer sono in effetti un perfetto esempio di ciò di cui si sta parlando. Per lui si può dire, meglio che per ogni altro filosofo, che “la sua filosofia è in gran parte la sua stessa vita[3] (per ora accettiamo quest’ultima affermazione, ma con beneficio d’inventario).
Egli stesso scrisse nel 1832: “A diciassette anni, digiuno di qualsiasi istruzione scolastica di alto livello, fui turbato dallo strazio della vita proprio come Buddha in gioventù, allorché prese coscienza della malattia, della vecchiaia, del dolore, della morte. La verità, che mi parlava in modo così chiaro e manifesto dal mondo, presto ebbe la meglio sui dogmi giudaici che erano stati inculcati anche in me, e ne conclusi che un mondo siffatto non poteva essere l’opera di un essere infinitamente buono, bensì di un demonio, che aveva dato vita alle creature per deliziarsi alla vista dei loro tormenti[4].
Lo strazio di cui Schopenhauer parla è riferito alla morte del padre, un ricco commerciante di origini tedesche, che nel 1805 si era suicidato, lasciando il diciassettenne Arthur (era nato a Danzica[5] nel 1788) alle cure della giovane madre, una scrittrice di scarso talento interessata più alla letteratura che alla propria famiglia, la quale ben presto si staccò da Arthur e dalla figlia minore per trasferirsi a Weimar, dove fondò un salotto letterario frequentato anche da Goethe e dai fratelli Grimm.

Danzica
Dopo la morte dell’amato padre il giovanissimo Arthur iniziò a dedicarsi agli studi classici, prima a Gotha e poi a Weimar. Studiò anche molte materie scientifiche, ma soprattutto filosofia, in particolare Platone e Kant, che rimasero per lui punti di riferimento fondamentali. Si laureò con una tesi in filosofia (Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente), della quale la madre disse che le sembrava trattarsi di un testo per farmacisti. Al che il figlio rispose con una profezia che descrive molto bene il loro rapporto: “Sarà ancora letta quando dei tuoi romanzetti non esisterà neppure una copia nei solai[6]. Dopo di allora non si rividero mai più.
Fino al 1851, anno in cui il suo lavoro cominciò ad essere apprezzato, non solo in Germania ma anche in Italia, dove viaggiò a lungo, e in Inghilterra, la vita di Schopenhauer fu un susseguirsi di problemi economici (la banca dove aveva tutti i suoi depositi fallì), di insuccessi e delusioni nell’ambito culturale e lavorativo, di difficoltà nei rapporti umani.
Alla fine del 1818 pubblicò la sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione[7], ma fu un tale fallimento che quasi tutte le copie finirono al macero.
Ebbe profonde divergenze con Goethe, e poi con Hegel, suo imbattibile competitore nelle docenze universitarie. Secondo Schopenhauer, quest’ultimo era “spacciato [..] come un grande filosofo”, ma in realtà era “un ciarlatano piatto, privo di spirito, nauseante, disgustoso, ignorante”, la cui influenza ha prodotto “la corruzione intellettuale di tutta una generazione erudita [8].
Una relazione sentimentale con un’italiana finì nel nulla, poi dal 1820 al 1826 ebbe una burrascosa liaison con una corista dell’opera di Berlino, che in quegli anni gli diede un figlio, di cui però non era il padre. Si dice anche che, essendo in attesa di un figlio dalla domestica, lasciò alla propria sorella il compito di risolvere il problema (il bambino poi nacque morto)[9].
Durante una lite con una donna che faceva rumore nell’anticamera, la spinse e le procurò delle lesioni. Ne nacque un procedimento civile, e Schopenhauer le dovette pagare un vitalizio fino alla morte.
Inoltre, a causa di una lunga malattia rimase per un anno rinchiuso in una stanza, e ne uscì sordo da un orecchio.
Intanto aveva pubblicato diverse opere filosofiche, che però non riscuotevano il riconoscimento sperato nel mondo accademico e nell’editoria. Fino, come accennato, alla svolta positiva del 1851, quando uscirono i due volumi dei Parerga e paralipomena[10], che finalmente gli valsero un notevole successo editoriale e schiere di discepoli. Il suo capolavoro di trent’anni prima, Il mondo, fu ampiamente rivalutato e ripubblicato più volte, e la critica si accorse finalmente di Schopenhauer, compreso Francesco De Sanctis, che nel 1858 scrisse un saggio comparandone il pensiero con quello di Leopardi.
Ma pochi anni dopo, nel 1860, morì per una improvvisa malattia polmonare.

Il mondo come volontà e rappresentazione

Alcuni temi sommariamente accennati nella citazione del 1832 stanno a fondamento della sua opera del 1818, Il mondo: la sofferenza della vita, che si impone come verità al di sopra della dogmatica giudaico-cristiana, ormai divenuta una inaccettabile mitologia; l’impotenza dell’uomo, e ancor più del filosofo, sul mondo; l’impossibilità della coesistenza della vita e della verità; e soprattutto, per quanto qui ci interessa, la costante presenza in Schopenhauer del pensiero orientale, in particolare gli insegnamenti delle Upanishad [11] e dei testi buddhisti.
Schopenhauer riprende da Platone il tema dell’interiorità dell’anima come “sede” della verità: è necessario rivolgersi a se stessi per avvicinarsi alla verità, la quale risulta però separata dal mondo e dalla felicità. Una vita ospitata dalla verità è possibile, ma senza felicità. E la felicità è possibile, ma senza vita, in un altro mondo.
Per Schopenhauer il mondo è quindi rappresentazione: il mondo è la mia rappresentazione, questa è l’affermazione perentoria con cui si apre la sua opera; l’uomo sa “di non conoscere né il sole né la terra, ma soltanto un occhio che vede il sole e una mano che sente il contatto d’una terra[12]. Conoscere è un evento dell’anima, che “crea il mondo come noi lo conosciamo, e il mondo è il suo sogno[13]. Come nel capolavoro di Caldéron de la Barca, La vida es sueño (1653), nel quale è inconsapevolmente riproposta la storia della vita del principe Siddhartha, il futuro Buddha…[14]
Schopenhauer è molto netto: “tutto ciò che esiste per la conoscenza, e cioè il mondo intero, non è altro che l’oggetto in rapporto al soggetto, la percezione per lo spirito percipiente; in una parola: rappresentazione[15]. Da un lato il soggetto, quindi, che non può essere oggetto di conoscenza, al di fuori dello spazio e del tempo, indiviso in ogni essere capace di avere rappresentazioni. Dall’altro l’oggetto, condizionato dalle forme del tempo e dello spazio che ne producono la molteplicità.
La rappresentazione è ordinata dalle connessioni instaurate dall’intelletto: il tempo, lo spazio, e la causalità, che costituisce la realtà della materia, realtà che è azione dell’oggetto sugli altri oggetti. La conoscenza è fondamentalmente intuizione dei rapporti causali tra gli oggetti, mentre la ragione è discorsiva ed ha a che fare con concetti astratti.
La realtà non si riduce interamente alla rappresentazione, che è soltanto fenomeno. Il mondo ha un noumeno, un’essenza, una cosa in sé, costituito dalla volontà[16].  Alle spalle dell’intelletto e del mondo che si rappresenta c’è una volontà assoluta che, proprio in quanto viene prima della ragione, è cieca pulsione. Si ritiene comunemente che le azioni del corpo siano effetto della volontà. Per Schopenhauer sono la volontà stessa nella sua manifestazione oggettiva. Il corpo è la volontà divenuta rappresentazione: la volontà è la cosa in sé di cui la rappresentazione è la manifestazione. La volontà, egli scrive, “si manifesta in ogni cieca forza naturale, si manifesta anche nella meditata condotta dell’uomo. La differenza che separa la forza cieca dal procedere riflessivo concerne il grado della manifestazione, non l’essenza della volontà che si manifesta[17]. Essa, in quanto noumeno, si sottrae alle forme del fenomeno (la causalità, lo spazio, il tempo) che individuano e moltiplicano gli esseri (principium individuationis, lo chiama Schopenhauer). Non partecipando del principium individuationis, la volontà è unica in tutti gli esseri; non essendo sottoposta alla causalità, è assolutamente libera, cieca nel suo agire. È l’insieme delle forze, anzi, la forza che agisce in natura sotto nomi diversi: gravità, magnetismo, elettricità, stimoli ecc., tutte manifestazioni di un’unica forza, la volontà di vivere, che opera ad ogni livello, nella materia inorganica, nel mondo vegetale, animale, umano. Nei livelli più bassi è impulso cieco, nell’animale è impulso intuitivo, nell’uomo è ragione che agisce spinta dalla motivazione, ma pur sempre schiava della volontà.
Diviene pertanto chiaro il senso del titolo – e del contenuto – del capolavoro di Schopenhauer: “la rappresentazione è il mascheramento razionale della volontà[18], ciò che appare come razionale è invece volontaristico, l’ordine che scorgiamo nel mondo è solo espressione della cieca volontà di vivere. Per Leibniz questo è il migliore dei mondi possibili, per Schopenhauer è il peggiore, ai limiti della stessa possibilità di esistenza. È il pessimismo per cui il suo pensiero è ricordato nella storia della filosofia occidentale ed è stato paragonato a quello di Leopardi. Per lui, “la [..] vita oscilla quindi come un pendolo, di qua e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà i suoi veri elementi costitutivi”. “Nella vita borghese [la noia] è rappresentata dalla domenica, come il bisogno [ovvero il dolore] dai sei giorni di lavoro[19]. Infatti, volere è desiderare un oggetto assente, e l’assenza è dolore. Ma se l’oggetto del desiderio è conseguito, allora subentra la noia, a causa dell’estinzione del desiderio. In ultima analisi, la vita è dolore, e la volontà di vivere costituisce la causa del dolore.

Una possibile via di liberazione dalla condizione di sofferenza è costituita dalla contemplazione estetica, che è disinteressata rispetto al possesso dell’oggetto, e non segue le regole della razionalità, è priva di scopo. In particolare, l’espressione più alta dell’arte è secondo Schopenhauer la tragedia, nella quale si rivelano al meglio “il dolore senza nome, l’affanno dell’umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole signoria del caso e il fatale precipizio dei giusti e degli innocenti[20]. Ma la liberazione attraverso l’arte è momentanea e parziale, procura soltanto un temporaneo sollievo, una forma di conforto.
 Un altro rimedio consiste nel riconoscimento dell’unità della volontà in tutti gli esseri, ovvero il riconoscimento dell’altro come me stesso. È il tat tvam asi, “Questo sei tu”, dell’India vedica. Il pensiero di essere separati dagli altri, e dal dolore, è solo apparenza, inganno: è il velo di Maya, la dea dell’attività creatrice che nasconde la realtà dell’assenza di separazione, l’illusorietà del principium individuationis. Di tale riconoscimento, la giustizia è il primo passo, il secondo è costituito dalla compassione (nel suo significato etimologico) che lacera il velo di Maya[21]. Questa forma di empatia è solo però un patire-insieme, che annulla ogni interesse per ciò che è stato riconosciuto. La conoscenza dell’esse (la volontà irrazionale che è fondamento della rappresentazione) non produce alcun inter-esse.
L’unica via d’uscita è data dall’ascesi, della rinuncia alla vita. Non nel senso del suicidio, che al contrario ne costituisce una affermazione, in quanto nega solo la particolare condizione di vita in cui si trova chi lo commette. Ma nel senso di rinuncia ai bisogni e alle soddisfazioni che la ragione presenta ingannevolmente come motivazioni e finalità dell’agire. I motivi sono sostituiti dai quietivi, la voluntas dalla noluntas.
La prima delle rinunce è la perfetta castità, in quanto rinuncia alla fondamentale manifestazione della volontà, l’impulso alla generazione. Per Schopenhauer l’amore è sempre sotto la spinta degli interessi alla riproduzione. La scelta sessuale non è mai individuale, ma sempre compiuta nell’interesse della specie. Allo stesso scopo, liberarsi dalla volontà di vita, tendono poi le altre forme della rinuncia: la povertà, il sacrificio, ecc.
Al termine del percorso l’uomo diviene libero. Nelle sue stesse parole, “quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – il nulla.[22].

L’Oriente di Schopenhauer

Un passo interessante de Il mondo è quello che precede immediatamente la citazione di cui sopra. Qui esorta a non temere il nulla, senza fare però come gli Indiani, che lo ammantano “in miti e in parole prive di senso, come sarebbero l'assorbimento in Brahma o il Nirvana dei Buddhisti[23].
Queste parole costituiscono una ulteriore prova del fatto che Schopenhauer conosceva bene le tradizioni della spiritualità estremo orientale, soprattutto Induismo e Buddhismo, con l’ovvio limite della quantità di testi a quel tempo pervenuti in Europa e della qualità delle traduzioni. Schopenhauer li lesse, li studiò a fondo e ne fu profondamente influenzato, come dimostrato da molti aspetti specifici della sua filosofia e dal suo complesso, nonché dalla terminologia utilizzata. Benché ciò sia di immediata evidenza, molti testi di storia della filosofia vi accennano solo en passant, o non ne parlano affatto[24]. Mentre molti intellettuali dell’epoca privilegiavano la cultura greco-romana e quella giudaico-cristiana ed erano al più semplicemente incuriositi da ciò che cominciava a sorgere ad Est, Schopenhauer ruppe decisamente con l’eurocentrismo dominante, criticando quello che chiamava il “pregiudizio classico” e studiò seriamente i testi della spiritualità dell’India che aveva a disposizione, fino ad identificare in essa “il bacino originario cui attinsero sia l’Egitto, Pitagora, Platone, il Neoplatonismo e tutta la mitologia greco-romana sia il vero Cristianesimo neotestamentario”, visto come un riflesso della luce dell’Asia caduto purtroppo sul suolo giudaico[25]. Auspicò addirittura – ed in parte fu buon profeta – un benefico influsso delle culture indiane sull’Occidente, che avrebbe potuto produrre un rinascimento europeo dello spirito orientale. Le grandi tradizioni del Brahmanesimo e del Buddhismo avrebbero potuto consentire di “salvare quel che di eternamente valido v’è nel Cristianesimo, riuscire a separare di nuovo dal nucleo essenziale di verità che è in esso ciò che vi è stato congiunto dall’esterno[26], cioè i dogmi e le mitologie ebraiche. Corretto appare quindi un giudizio espresso su Schopenhauer da uno studioso, che lo definì “l’ultimo eretico del cristianesimo e il patriarca del buddhismo occidentale[27].

Il Buddha di Schopenhauer
Anche dai dettagli della sua biografia si evidenziano l’interesse e l’intimità di Schopenhauer con la cultura indiana e cinese: la sua biblioteca orientale era ricchissima di testi[28], e già è stata citata la similitudine da lui stesso proposta tra la sua giovinezza e quella di Siddhartha Shakyamuni. Nel suo salotto faceva mostra di sé una statua di bronzo del Buddha di cui era orgoglioso, e negli anni della maturità si rivolgeva ai conoscenti dicendo “noi Buddhisti”. Inoltre, il suo cane barbone si chiamava Atman, in sanscrito essenza, spirito vitale, anima individuale…
Al di là degli aneddoti biografici, Schopenhauer non perdeva mai l’occasione “per tessere le lodi della filosofia e della religiosità indiane e per sottolinear[ne] l’intima conformità con il proprio pensiero[29]. Egli stesso definì prima “paradossale” e poi “prodigiosa” la corrispondenza tra la sua filosofia e il Buddhismo, non solo nell’etica o in altri aspetti specifici, ma nell’insieme delle loro dottrine[30]. Poco prima della morte scrisse: “Buddha, Eckhart[31] e io insegniamo nella sostanza la stessa cosa[32].
Ed infatti le sue opere, a partire dal 1814, sono sempre più ricche di riferimenti ai testi orientali – dalle Upanishad al Tao Te Ching, dai Purana all’I Ching, dalla Bhagavadgita ai Sutra buddhisti – e soprattutto alla visione dell’uomo e del suo essere nel mondo che essi propongono e che Schopenhauer afferma sostanzialmente di accogliere e di fare sua.
In sintesi, gli elementi-base della corrispondenza Schopenhauer/Oriente possono essere così riassunti:
- la rappresentazione (il mondo come illusione, sogno) e il velo di Maya;
- la volontà e il Brahman o il tian dei Cinesi (il principio di tutte le cose) – per cui la sua opera maggiore potrebbe intitolarsi Il mondo come Brahman e Maya;
- l’ateismo (il non-teismo) e il pessimismo del Brahmanesimo e del Buddhismo (definizioni peraltro molto discutibili);
- i miti della metempsicosi (reincarnazione) e della rinascita, collegati alla sussistenza metafisica della volontà;
- samsara (esistenza ciclica condizionata) e nirvana (estinzione della sofferenza) come affermazione e negazione della volontà;
- sul conseguente piano etico: il tat tvam asi, il non-io, e la compassione.

Per concludere, è però altrettanto doveroso individuare le rilevanti discordanze tra le due concezioni, e quindi i limiti oggettivi e soggettivi (dottrinali e personali) dell’orientalismo di Schopenhauer.
Per citare solo un paio di pareri, secondo René Guénon Schopenhauer ha “ridicolamente distorto il Buddismo riducendolo a una specie di moralismo ‘pessimista’ e [ha] dato la giusta misura del suo livello intellettuale cercando ‘consolazioni’ nel Vedanta[33]. Per Von Glasenapp, poi, “si può dire che l’interpretazione schopenhaueriana della storia del pensiero metafisico indiano e le relative concezioni del Vedanta e del Buddhismo siano oggi [1960] per molti aspetti superate e forniscano un quadro dei fatti senza dubbio interessante ma tutt’altro che fedele[34].
Tra le molte possibili, ecco alcune delle contestazioni:
- l’impossibilità di definire complessivamente ateistiche o anti-teistiche le scuole filosofiche indiane, in molte delle quali è presente la figura del dio personale (Ishvara, Krishna), Signore del cosmo;
- la mancata distinzione tra Brahmanesimo e Buddhismo, in generale e all’interno delle singole scuole (es. Buddhismo Hinayana e Mahayana), e, conseguentemente
- l’appiattimento delle filosofie indiane in una sorta di hegeliana notte in cui tutte le vacche sono nere; più nel dettaglio:
- l’errore dell’identificazione del Brahman del Vedanta con la volontà, in quanto il Brahman non ha nulla a che vedere con la brama (nonostante l’intrigante assonanza dei termini), non è pulsione cieca, e quindi fondamento della sofferenza, bensì spirito puro, Sat-Cit-Ananda, Essere-Coscienza-Beatutidine Supreme;
- la totale incompatibilità tra la dottrina brahmanica dell’atman quale substrato durevole dell’apparenza e gli insegnamenti buddhisti su anatman (non-sé), anitya (impermanenza), sunyata (vacuità), pratitya samutpada (co-produzione condizionata di tutti i fenomeni, compreso l’io).

Un altro punto fondamentale, l’accentuazione degli aspetti pessimistici delle concezioni indiane, soprattutto del Buddhismo, ci porta direttamente ad una considerazione finale, che riguarda complessivamente il pensiero e la biografia di Schopenhauer. L’insegnamento del Buddha sulle Quattro Nobili Verità inizia sì con le verità della sofferenza (duhkha-satya) e della sua origine (samudaya-satya), ma prosegue con l’esposizione della cessazione della sofferenza stessa (nirodha-satya) e della Via che porta alla cessazione (marga-satya), ovvero l’Ottuplice Sentiero. Non può pertanto essere definito come una concezione pessimista. Esso costituisce invece una visione del tutto realistica, non per un cieco atto di fede nelle parole del Buddha o di altri Maestri, ma per la verificabilità su se stessi della validità del Dharma.
Schopenhauer, come si è visto all’inizio, ha paragonato la sua sofferenza a quella del Buddha, ne ha studiato la vita e gli insegnamenti, ma si è come arrestato sulla soglia: ha riconosciuto il proprio dolore, ha compreso come il dolore permei di sé l’esistenza di tutti gli esseri e quali ne siano le cause. E infine ha intravisto nelle parole del Buddha o delle Upanishad la concreta possibilità di una via di liberazione, attraverso la messa in pratica di tali parole – in particolare attraverso la meditazione –, ma di questo passo decisivo, del passaggio dalla teoria alla prassi, non v’è traccia nelle sue opere, né soprattutto nella sua vita reale, trascorsa alla ricerca di gratificazioni accademiche, di successi editoriali, di denaro, di fama, di amori insoddisfacenti, pur continuando a definirsi “buddhista” con i conoscenti. E nel contempo crogiolandosi nel proprio dolore e creando così ulteriore sofferenza, per sé e per gli altri. Forse, rivolgendo di tanto in tanto uno sguardo afflitto alla sua amata statuina del Buddha, in un angolo del salotto. Del perché, non è dato sapere.
Magari, vedere il Sentiero e scegliere di non percorrerlo è stato un gesto coerente, la vittoria finale di una volontà cieca ed irrazionale votata al dolore…
D’altra parte, il tempo del fare filosofia, del vivere la filosofia come concreto esercizio spirituale che porta all’evoluzione di sé, all’autentica liberazione, era ormai troppo lontano.





[1] Cit. in M. Onfray, Buddha, il cane e il flauto, in: http://letterainternazionale.it/testi-di-archivio/buddha-il-cane-e-il-flauto/
[2] Id. – Per patografia si intende la “ricostruzione delle patologie psichiche di personaggi celebri fondate sulle informazioni biografiche e sull’esame delle loro opere”, in: http://www.treccani.it/enciclopedia/patografia/
[3] Z. Zini, Schopenhauer, Ed. Athena, pag. 5
[4] A. Schopenhauer, Il mio Oriente, Ed. Adelphi, pag. 15
[5] In quell’anno Danzica era ancora indipendente, in quanto solo nel 1793 fu incorporata nel Regno di Prussia
[6] Cit. in U. Galimberti, Schopenhauer, in: E. Severino (a cura di), Storia del pensiero occidentale, Ed. Curcio, vol. 5 pag. 1210
[7] Di qui in poi citata come Il mondo
[8] Cit. in Galimberti, pag. 1196
[9] Cfr. Onfray, Buddha, il cane…
[10] Titolo traducibile con “cose aggiunte e cose tralasciate”. Si tratta di una raccolta di scritti “minori” su diversi argomenti, di tono divulgativo, che espongono gli ultimi sviluppi del suo pensiero
[11] Il termine indica l’atto di sedersi ai piedi di un Maestro. Si tratta di un gruppo di testi sacri dell’Induismo, redatti tra il IX e il VI secolo a.C., che forniscono la base della scuola filosofico-religiosa del Vedanta, che vi si ispira per quanto riguarda l’analisi della realtà dell’atman e del Brahman e che sfocia nella metafisica del monismo assoluto. Cfr. AA.VV., Dizionario delle religioni orientali, Ed. Vallardi, pag. 340
[12] Cit. in Galimberti, pag. 1200
[13] Galimberti, pag. 1200
[14] Si veda: http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/02/il-beato-iacopo-da-varagine-e-la-strana.html
[15] Cit. in Galimberti, pag. 1202
[16] Cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia, Ed. UTET, vol. III pag. 144 e segg.
[17] Cit. in Abbagnano, pag. 146
[18] Galimberti, pag. 1205
[19] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, §57, in: http://www.liberliber.it
[20] Cit. in Galimberti, pag. 1208
[21] Cfr. Abbagnano, pag. 151
[22] Schopenhauer, I, §71
[23] Id.
[24]I manuali che non riportano le nozioni orientaleggianti di Schopenhauer, o che le riportano in modo troppo approssimativo, restituiscono il suo pensiero in modo gravemente monco e riduttivo; tali manuali[..] anche quando si limitano ad esporre nozioni che ritengono "occidentali", in realtà ne deformano più o meno fortemente il significato, proprio perché non tengono conto degli influssi orientali che hanno agito in Schopenhauer”. P. Scroccaro, Schopenhauer e l’Oriente, in: http://www.ariannaeditrice.it
[25] G. Gurisatti, Schopenhauer e l’India, in: A. Schopenhauer, Il mio Oriente, pag. 191
[26] A. Lanza, Il pensiero di Schopenhauer su buddhismo e cristianesimo, in Paramita n. 55/1995, pag. 33
[27] Cit. in Lanza, pag. 34
[28] Cfr. l’Appendice a pag. 171 in: Schopenhauer, Il mio Oriente
[29] Gurisatti, pag. 188
[30] Id., pag. 190
[31] Meister Eckhart (Eckhart von Hochheim, 1260-1327) è stato uno dei più importanti teologi, filosofi e mistici renani del Medioevo cristiano, e ha segnato profondamente la storia del pensiero tedesco
[32] Gurisatti, pag. 190
[33] R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Ed. Studi Tradizionali, pag. 265
[34] Cit. in Gurisatti, pag. 215

mercoledì 30 novembre 2016

Gottfried Von Leibniz, la Cina e l’I-Ching

  
Gottfried Wilhelm Leibniz nacque a Lipsia nel 1646, due anni prima della stipulazione dei trattati di Vestfalia con i quali si chiuse una delle guerre più sanguinose della storia, la Guerra dei Trent’anni. Il conflitto, iniziato nel 1618 nei territori del Sacro Romano Impero, aveva tratto origine dalla rottura dell’unità cristiana ad opera della Riforma e dal conseguente atteggiamento antiprotestante della Chiesa Cattolica, dalla crisi degli equilibri tra le potenze europee, dalla posizione centrale della Germania, dalla formazione di alleanze contrapposte dal punto di vista religioso.
Esso si sviluppò prevalentemente in Germania e Italia settentrionale[1], ma quasi tutti i paesi europei furono coinvolti. Le conseguenze per le popolazioni e la loro economia furono disastrose. La sola Germania vide ridursi la sua popolazione del 15-20%, ma secondo alcuni storici le perdite umane vanno calcolate fino a 12 milioni di morti (nella II Guerra Mondiale le perdite complessive della Germania ammontarono a circa 7,5 milioni).
I trattati di Vestfalia del 1648 chiusero sì il conflitto, ma la pace e il clima di tolleranza religiosa che ne scaturirono erano piuttosto, come scrisse poi lo stesso Leibniz, “una specie di tregua sopraggiunta per la stanchezza comune; ciò che fa temere che il fuoco coperto sotto le ceneri riprenda un giorno tutta la sua forza[2].
La città natale di Leibniz fu comunque una della meno coinvolte nella guerra. Questo fatto e il livello sociale e culturale della sua famiglia, di religione protestante (padre e nonno erano docenti di diritto), gli permisero da subito di dedicarsi agli studi, anche se inizialmente “senza direzione”, in maniera poco organizzata: studiò il latino e il greco, i classici, la storia, la poesia. A 13 anni lesse Platone, Aristotele e Plotino, e a 14 si iscrisse all’Università di Lipsia, dove si dedicò alla filosofia, e poi a Jena, per giurisprudenza e matematica. Nel 1663 pubblicò i suoi primi scritti e si immerse nello studio dei filosofi moderni, tra cui Galilei, Cartesio, Hobbes. Nel 1666 dovette scegliere tra la carriera universitaria e quella politica, e optò per quest’ultima. Presso la Corte di Magonza collaborò alla riforma del codice civile, scrisse saggi di argomento filosofico e politico e proseguì i suoi studi filosofici. Compì dei viaggi a Parigi, e qui lesse Pascal e approfondì le sue conoscenze matematiche. Si recò in diverse località dell’Europa, dove svolse una intensa ma ben poco fruttuosa azione diplomatica anche in campo religioso, lavorando per la riunificazione tra Luterani e Calvinisti e tra Cattolici e Protestanti. Si dedicò alla storia dei casati nobiliari, del diritto, delle attività missionarie cristiane in Cina e della stessa civiltà cinese. Intorno al 1684 giunse a maturazione il suo pensiero scientifico, e perfezionò il calcolo infinitesimale, giungendo alle stesse conclusioni cui era pervenuto per altre vie il suo contemporaneo Sir Isaac Newton (1642-1727), da cui fu diviso da un’aspra polemica. Negli ultimi anni di vita Leibniz perse sempre più il favore dei suoi protettori e gli venne addirittura impedito di muoversi da Hannover, dove infine morì nel 1716, ormai dimenticato da tutti, lasciando una grande quantità di scritti filosofici, privi però di organicità e sistematicità.

La filosofia di Leibniz si fondò sulla critica dei limiti delle concezioni meccaniciste allora dominanti, in particolare del pensiero di Cartesio. I principi matematici su cui si reggeva il meccanicismo non erano sufficienti a spiegare la realtà fisica, per cui secondo Leibniz era necessario rivolgersi nuovamente alla metafisica. Egli stesso scrisse nel 1714: “quando cercai le ragioni ultime del meccanicismo e delle stesse leggi del movimento fui sorpreso nel vedere che era impossibile trovarle nelle matematiche e che bisognava tornare alla metafisica[3]. Dopo aver operato la distinzione tra sostanza spirituale e sostanza materiale (entrambe create), Cartesio aveva affermato che l’attribuito principale della prima era il pensiero, della seconda l’estensione: lunghezza, larghezza e profondità costituiscono quindi la natura essenziale della sostanza corporea. Gli aspetti qualitativi esistono solo in chi li percepisce. Proprio queste conclusioni parvero inaccettabili a Leibniz, il quale scrisse infatti che “per rendere ragione delle leggi di natura che l’esperienza ci fa conoscere mi accorsi che non basta conoscere unicamente una massa estesa, ma occorre impiegare anche il concetto della forza, che è intellegibilissimo, benché appartenga al dominio della metafisica[4]. L’estensione era per lui solo un aggregato di parti, divisibili all’infinito, ma che presuppone delle unità non estese, senza le quali negli aggregati non esisterebbe nulla di reale e di sostanziale. Doveva esistere, al di là del mondo fisico dei fenomeni, una realtà meta-fisica, nella quale trovare le ragioni ultime dei fenomeni naturali.
Da queste riflessioni nacque la dottrina delle monadi, per la quale Leibniz è tuttora noto nella storia della filosofia. Le monadi, termine greco (da μονάς, monas, ciò che è semplice, indivisibile) che indica l’unità, sono sostanze semplici, ovvero senza parti, che formano i composti. Sinonimi di monade sono gli spiriti, le anime, le vite, nelle quali non c’è estensione né divisibilità. Sono quindi “assai differenti dagli atomi della filosofia atomistica, i quali, pur essendo fisicamente indivisibili, sono pur sempre estesi e quindi divisibili almeno in linea di principio[5]. Le monadi, non essendo composte di parti, non possono né cominciare né finire naturalmente, ma solo iniziare per creazione e finire per annientamento. Ugualmente non possono vicendevolmente modificarsi, cosa che richiederebbe un passaggio di parti dall’una all’altra. Tutto ciò che avviene in esse avviene secondo quanto stabilito da Dio.
Le monadi sono però diverse l’una dall’altra, il che spiega le differenze tra i fenomeni composti, e sono capaci di percezione e di appetizione: ognuna di esse si rappresenta l’intero universo (percezione), e tende ad una rappresentazione sempre più perfetta di esso (appetizione). Sono pertanto capaci di azione, anzi di un agire finalistico.
Tra le monadi esiste anche una sorta di “gerarchia”, a seconda del grado di “consapevolezza” e di acutezza delle loro percezioni; nasce di qui la differenza tra gli esseri inorganici, il mondo organico vegetale, quello animale e quello umano.
Tutto questo costituisce il vero fondamento dell’universo, dei fenomeni fisici.
Ma se tra le monadi non esiste un vero influsso reciproco, che relazione intercorre tra di loro?
Leibniz trovò la risposta nell’opera creatrice di Dio, il quale ha fatto sì che esse interagiscano come gli ingranaggi di un orologio perfettamente regolato. Il mondo è quindi il frutto di una armonia prestabilita tra le parti, come avviene ad esempio nel rapporto tra il corpo e l’anima.
A partire dalla teoria delle monadi, Leibniz costruì una visione ottimistica del creato, giungendo a dare risposte per lui soddisfacenti ai problemi della libertà dell’uomo, della presenza del male nel mondo e della giustizia di Dio (teodicea).
Nell’atto della creazione di ogni singola monade, Dio, Monade suprema che ha in se stessa la ragione della sua esistenza, ha agito tenendo conto di tutte le altre monadi, prestabilendo la loro reciproca armonia. In Dio si trovano tutte le possibilità, ovvero “il dominio infinito di tutto ciò che, essendo possibile, passerà all’esistenza effettiva come di tutto ciò che, pur essendo possibile, non passerà mai all’esistenza effettiva[6]. Tutti i mondi possibili si pongono davanti a Dio secondo diversi gradi di perfezione, e alla sommità c’è il migliore di tutti. Dio è determinato dalla sua natura (che è bontà e saggezza) a scegliere il meglio, e pertanto il mondo da lui creato è il migliore dei mondi possibili (quindi, non il migliore in assoluto)[7]. Dio è libero nella scelta, ma libertà non significa assoluta assenza di determinazioni, significa invece che ciò che determina è il bene percepito dall’intelletto. Ciò vale anche per l’uomo, che è libero in modo analogo a Dio, ma che non sempre agisce in base alla ragione, e sbaglia nel giudicare ciò che è buono o meno. Agire liberamente significa quindi agire non come si vuole, arbitrariamente, bensì agire realizzando la propria natura.
Quanto alla presenza del male nel mondo, Leibniz operò una distinzione tra male metafisico, morale e fisico. Dio non è causa del male metafisico, il quale è la “limitazione originaria che la natura non ha potuto fare a meno di ricevere con il cominciamento del suo primo esistere…Dio infatti non poteva darle tutto senza farne un Dio[8]. Il male metafisico è quindi una assenza, una privazione, non una realtà positiva creata da Dio.
Il male morale (il peccato) è originato dalla limitazione propria di ogni creatura, che è soggetta ad errore, a valutazioni sbagliate.
Il male fisico consegue infine dai precedenti: è conseguenza etica del peccato e conseguenza materiale dei limiti delle creature.
Quanto precede non risolve ovviamente il problema della teodicea, se si pensa ad un Dio buono, giusto e onnipotente. E Leibniz escogitò una ulteriore soluzione ipotizzando che Dio vuole il meglio e per questo ha creato il male morale quale condizione senza la quale non si potrebbe ottenere il meglio. In tal modo, oggetto della volontà divina continua ad essere il migliore dei mondi, e non il male. L’alternativa sarebbe necessariamente un mondo peggiore…

Leibniz e l’Oriente

In un famoso libro del 1975, Il Tao della fisica, Fritjof Capra, fisico americano e studioso delle interrelazioni tra scienza moderna e filosofie orientali, scrisse che la teoria della monade quale sostanza fondamentale del cosmo e specchio dell’universo avrebbe portato Leibniz “ad una concezione della materia che presenta analogie con quella del buddhismo Mahayana[9]. Ipotizzò quindi un reale influsso del Buddhismo sul filosofo tedesco, basandosi sul fatto che Leibniz aveva conosciuto il pensiero cinese – e quindi anche il Buddhismo di quel paese – attraverso le relazioni e le traduzioni di testi ad opera dei missionari gesuiti in Cina. Le somiglianze tra la teoria delle monadi e la parabola della rete di Indra costituirebbe una prova di tale influenza: si tratta di una metafora che è contenuta nell’Avatamsaka Sutra, un antico testo buddhista, che “concepisce l’universo come un’enorme rete che si estende all’infinito in ogni direzione, proteggendo e accudendo la vita nella sua interezza, senza escludere nulla. Al punto di intersezione di ciascun nodo della rete c’è una lucente gemma, sfaccettata e riflettente. Grazie alle sue molte facce, ciascuna gemma riflette ogni altra, generando una vasta rete di sostegno di tutta l’esistenza[10]. Secondo Capra le gemme della rete sarebbero quindi paragonabili alle monadi.
Ma in realtà le due concezioni sono molto diverse tra loro, sono anzi antitetiche: la monade è un elemento reale, a sé stante, indipendente, creato, e costituisce il fondamento dei fenomeni. Ma il Buddhismo esclude esplicitamente ogni idea di sostanza fondamentale, e vede i fenomeni come vuoti, cioè privi di esistenza intrinseca. Le monadi sono poi “prive di finestre”, secondo l’espressione dello stesso Leibniz, non interagiscono tra loro, mentre i fenomeni, nell’ottica buddhista, sono tra loro interdipendenti, proprio perché vuoti. Per non parlare poi dell’idea di un dio creatore, di una causa prima che non è effetto di una precedente causa, rifiutata da tutte le scuole buddhiste. È quindi da escludere l’ipotesi di una influenza diretta del Buddhismo sul pensiero di Leibniz, ed anche le eventuali analogie, per quanto suggestive, nascono da una lettura superficiale sia della sua teoria sia degli insegnamenti buddhisti[11]. Ancor più radicalmente si esprime l’orientalista Icilio Vecchiotti, secondo cui in Leibniz “non c’è [..] nulla di cinese[12].

È invece assodato che Leibniz studiò la cultura cinese, ed effettivamente lo fece attraverso le traduzioni dei testi classici e le relazioni inviate in Occidente dai missionari gesuiti. I Gesuiti erano giunti in Cina già dal 1582, partendo dalla colonia portoghese di Goa, sul Mare Arabico. Non si limitarono a fare opera di proselitismo, bensì contribuirono a far conoscere in Europa la cultura cinese, dando origine ad un periodo di veri scambi culturali. Il primo ad ottenere il permesso di entrare in Cina fu Matteo Ricci, che nel 1601 si stabilì nella capitale e studiò la lingua e la cultura cinese. Col tempo, i Gesuiti acquisirono un grande prestigio, grazie alle loro competenze anche di tipo scientifico e alla loro abilità diplomatica, al punto che l’Editto di Tolleranza del 1692 autorizzò le conversioni al Cristianesimo, le predicazioni e la costruzione di chiese. Dai primi decenni del XVIII secolo l’interesse dei Cinesi per il Cristianesimo e per i missionari iniziò però a declinare, ed essi furono anche oggetto di persecuzioni. Nel frattempo, i Gesuiti iniziarono ad essere malvisti anche in Occidente soprattutto per il potere che detenevano, ma anche perché considerati “lassisti” dai Domenicani e dai Francescani per il loro atteggiamento tollerante nei confronti delle usanze cinesi (il culto del Cielo e degli Antenati, l’uso di nomi ed abiti locali…)[13]. Fino a che nel 1773 il Papa Clemente XIV soppresse la Compagnia di Gesù, che fu ricostituita solo nel 1814.
Come già detto, gli scritti dei Gesuiti in Cina ebbero grande risonanza in Europa, e ne influenzarono la cultura e l’arte: nascerà di qui la moda delle chinoiseries, caratterizzata dall’utilizzo di immagini ed elementi decorativi ispirati ad una Cina più immaginata che realmente conosciuta. Anche lo stile Rococò, tarda evoluzione del Barocco, trasse in parte le sue origini da ciò che i Gesuiti trasmettevano dall’Oriente ad una Europa assetata di novità. Leibniz non restò immune dal fascino della Cina, anche se come si è visto la sua filosofia delle monadi e la sua teodicea non devono nulla alla filosofia cinese.
Ma non fu così per quanto concerne i suoi interessi per la matematica, un campo in cui il contributo di Leibniz fu ben più rilevante rispetto alla metafisica. Si è già detto dei suoi studi sul calcolo infinitesimale, ma già nel 1673 aveva presentato alla Royal Society di Londra il progetto della prima calcolatrice meccanica in grado di eseguire moltiplicazioni e divisioni.
In un suo breve manoscritto del 1679 si trova lo schema della rappresentazione dei primi cento numeri in base 2, insieme col metodo per passare dal sistema decimale a quello binario e viceversa e per effettuare operazioni con quest’ultimo. Fu così in grado di progettare una calcolatrice basata sul sistema binario, con valori 1 e 0, introdotto anche da Juan Caramuel, matematico spagnolo del 1600. Un’idea che verrà sviluppata appieno solo con la nascita dei calcolatori.
Gli interessi di Leibniz per la matematica vennero poi in parte accantonati, ma mai abbandonati. In una sua lettera del 1697, con cui proponeva la coniazione di una medaglia per celebrare le sue stesse scoperte, paragonò l’armonia del sistema binario a quella della creazione divina dell’universo:
Perché uno dei punti principali della Fede Cristiana [..] è la creazione di tutte le cose dal nulla attraverso l’onnipotenza di Dio; bisogna dire che non c’è una migliore analogia, o anche una dimostrazione di tale creazione, dell’origine dei numeri come qui è rappresentata, usando solo l’unità e lo zero, o il nulla. E sarebbe difficile trovare una migliore illustrazione di questo segreto nella natura o nella filosofia [..].
Non è meno degno di nota che vi compare non solo che Dio creò tutto dal niente, ma anche che il tutto che Egli fece era buono; come possiamo vedere qui, con i nostri occhi, in questa immagine della creazione. Perché invece di non apparire alcun ordine o struttura, come nella comune rappresentazione dei numeri, qui al contrario sono manifesti un ordine e un’armonia meravigliosi, che non possono essere superati. Dato che la regola dell’alternanza fornisce quella della continuazione, così che si può scrivere quanto si vuole senza calcolo o con l’aiuto della memoria, se si alterna all’ultimo posto 0, 1, 0 ,1, 0, 1, ecc., mettendoli uno sotto l’altro; e poi mettendo uno sotto l’altro al secondo posto (da destra) 0, 0, 1, 1, 0 ,0, 1, 1, ecc.; nel terzo 0, 0, 0, 0, 1, 1, 1, 1, 0 ,0, 0, 0, 1, 1, 1, 1, ecc.; nel quarto 0, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 1, e così via. Il periodo o ciclo di cambiamento aumenta così per ogni nuovo posto[14].
Scrisse inoltre: “Sto corrispondendo con il Gesuita Padre Grimaldi, che si trova attualmente in Cina, ed è anche colà presidente del Tribunale Matematico [..]. Siccome mi aveva detto che il monarca di questo potente impero era un amante dell’aritmetica e che ha imparato a far di calcolo nella maniera europea dal Padre Verbiest, il predecessore di Grimaldi, ho giudicato appropriato comunicargli queste rappresentazioni numeriche, nella speranza che questa immagine del segreto della creazione potesse servire a mostrargli ancor di più l’eccellenza della fede cristiana[15].
Infatti nel 1689 durante un viaggio a Roma Leibniz aveva stretto amicizia con il missionario Padre Grimaldi. Da quella amicizia nacque il suo interesse per la Cina, che lo portò poi a scrivere il libro Novissima sinica (Le ultime novità della Cina, del 1697); ma soprattutto grazie al Gesuita conobbe una delle opere fondamentali di quella cultura, l’I-Ching, il Libro dei Mutamenti, opera del mitico imperatore Fu Xi, che sarebbe vissuto tra il 2952 e il 2836 a.C.
Sono date attribuibili più al mito che alla storia, ma si tratta comunque del testo più antico nella storia della filosofia cinese e non solo, nel quale sono espressi i principi cosmologici che sottostanno al Diagramma del Fondamento Supremo, il T’ai Chi T’u, ormai universalmente conosciuto, e spesso semplicemente chiamato “il Tao”, o “Yin e Yang”:


 L’I-Ching (traslitterato anche con I-King) era in origine un testo oracolare, una raccolta di segni utilizzati come oracoli dagli uomini di Stato, che risale certamente ad oltre 3000 anni or sono (già nel 1143 a.C. l’imperatore Wen ne scrisse un commento). Nel tempo acquisì sempre maggiore importanza anche e soprattutto dal punto di vista filosofico-religioso, e divenne oggetto di studi e di commentari da parte dei più grandi maestri di tutte le scuole di pensiero, taoiste e confuciane, a partire da Lao-tzu e Confucio stessi.
Fino ad essere studiato e commentato in tempi recenti (1948) da Carl Gustav Jung, che scrisse la prefazione all’edizione inglese dell’opera[16].
In verità, nell’I-Ching non compare il diagramma del T’ai Chi T’u, ma in una appendice, aggiunta al più antico testo base, è detto:
Per questo vi è nei mutamenti il grande inizio primordiale [il T’ai Chi]. Questi genera le due forze fondamentali. Le due forze fondamentali generano le quattro immagini. Le quattro immagini generano gli otto segni[17].
Si tratta del processo, descritto nel Tao te ching, per cui il T’ai Chi genera le due polarità, che saranno poi chiamate yang e yin e che nell’I-Ching sono rappresentate da due linee, una intera e una spezzata.
Per raddoppiamento ne nascono le Quattro Immagini (associate alle stagioni) e, con l’aggiunta di una terza linea, gli Otto Segni (trigrammi), associati ad otto “elementi”. Questi non sono concepiti come “cose” definite, ma come “stati” transitori di ciò che accade in cielo e in terra: così, l’interazione tra le energie rappresentate dagli otto trigrammi dà luogo all’intero mondo fenomenico, le Diecimila Cose: gli otto segni si ampliano nei 64 esagrammi (2 x 4 x 8), che nell’I-Ching vengono raccolti e affiancati da altrettante “sentenze”, da “immagini” e da dettagliati commentari che interpretano ogni esagramma ed ogni singola linea che lo compone, in base alla loro reciproca relazione, alla posizione all’interno del segno, alle loro qualità ecc.


 Mentre i trigrammi rappresentano concetti, condizioni, cose, gli esagrammi introducono “il rapporto e l’interazione tra questi stessi concetti, condizioni e cose, nonché le loro mutue e reciproche reazioni, simboleggiando l’interazione dell’intero mondo manifesto nei suoi poteri di attrazione e repulsione[18].


  
Come si vede, l’idea fondamentale che sottostà all’I-Ching è quella del mutamento, della trasformazione vicendevole delle due forze fondamentali, yin e yang, l’una nell’altra. Il titolo stesso dell’opera rende esplicita tale visione: I (o yi), come aggettivo, indica ciò che è facile, agevole; come nome, esprime il processo del mutamento: “non v’è niente di più facile del mutamento, in quanto esso è inscritto nell’ordine naturale delle cose: un essere vivente non è mai definito o definitivo, ma contiene già in sé il principio della propria trasformazione[19].
Infatti, anche gli esagrammi non sono entità statiche, definitive. Ognuno di essi, attraverso la trasformazione di una linea in quella opposta, può (si badi: può, non deve) mutarsi in un altro, ma in maniera né casuale né deterministica, bensì in base al valore numerico delle linee.
Ad esempio, l’esagramma Kkunn, il Ricettivo, la Terra, il tardo autunno, attraverso il mutamento della linea inferiore, si trasforma nell’esagramma Fu, il Ritorno, il tuono, il moto che inizia nella terra dopo il solstizio invernale, il ritorno della luce:



Nonostante tutto, Leibniz non mise subito in relazione il suo sistema binario con la logica combinatoria dell’I-Ching, basata come si è visto su due simboli, una linea retta ed una spezzata. Ma grazie a padre Grimaldi conobbe altri missionari gesuiti, fino a che uno di loro, il francese Joachim Bouvet (1656-1730), con una lettera del 1701 (ricevuta nel 1703) gli inviò una riproduzione quadrata e circolare degli esagrammi:


  
Osservando l’immagine, Leibniz intuì finalmente il possibile rapporto tra il sistema binario e l’I-Ching, e scrisse subito una dissertazione intitolata Explication de l’arithmétique binaire, qui se sert des seuls caractères 0 et 1, avec des remarques sur son utilité, et sur qu’elle donne le sens des anciennes figures chinoises de Fohy (Fu Xi).
Vi si legge: “Ciò che vi è di sorprendente in questo calcolo, è che questa Aritmetica per 0 e 1 si trova a contenere il mistero delle linee d’un antico Re e Filosofo chiamato Fohy, che si crede sia vissuto più di quattromila anni fa, e che i Cinesi considerano come il Fondatore del loro Impero e delle loro scienze. Ci sono diversi figure lineari che gli si attribuiscono. Tutte si trovano in questa aritmetica, ma è sufficiente mostrare qui le Figure degli Otto Cova [kua, i trigrammi], come sono chiamati, che sono considerati fondamentali, e di aggiunger loro la spiegazione che è manifesta una volta che si noti in primo luogo che una linea intera  ──  significa l’unità o 1, e poi che una linea spezzata   ─ significa lo zero o 0”.
Nel suo testo “Leibniz accosta gli otto trigrammi fondamentali ai primi otto numeri binari (da 0 a 7), sostituendo la linea spezzata Yin con lo 0 e la linea continua Yang con l’1 e leggendo i trigrammi dal basso verso l’alto. Combinando questi 8 trigrammi, si ottengono i 64 esagrammi che costituiscono il sistema completo dell’I-Ching”:


  
Tuttavia secondo il filosofo tedesco “i Cinesi hanno perduto il significato dei Cova o linee di Fohy, forse da più di un millennio, e hanno scritto dei commentari su di essi, dove hanno cercato non so quali significati reconditi. C’è voluto che la vera spiegazione ora venisse loro dagli Europei[20].
Leibniz non era affatto interessato, come si nota, ad una interpretazione divinatoria o mistica degli esagrammi. Anzi secondo lui dovrà essere la lettura che ne fa la cultura europea a spiegare ai Cinesi il loro autentico significato! Il suo sogno è invece quello di poter integrare i simboli matematici, gli esagrammi dell’I-Ching, gli ideogrammi della lingua cinese, gli elementi delle antiche lingue egizie ed ebraiche, in un unico sistema non solo matematico ma filosofico, per risolvere uno dei problemi che più assillavano molti pensatori dell’epoca: il problema del linguaggio, inteso non solo come mezzo di comunicazione, ma soprattutto per “il ruolo che esso svolge nel processo conoscitivo e nel ragionamento[21], in quanto strumento che ci permette di memorizzare e ordinare le conoscenze, nonché di parlare di qualcosa senza ri-definirla ogni volta. È il progetto, perseguito invano da Leibniz per tutta la vita, di costruire una lingua generale, un instrumentum rationis costituito da elementi primi indivisibili, cui assegnare dei segni da usare secondo valide regole combinatorie, capaci di dimostrare ogni verità e di scoprirne delle nuove. È il sogno del ritorno a ciò che la Torre di Babele aveva fatto perdere all’uomo, il ritorno alla lingua di Adamo, una lingua unica che esprimeva una conoscenza perfetta delle cose: “Il Signore Iddio formò dalla terra tutti gli animali e tutti gli uccelli del cielo e li condusse ad Adamo per vedere con quale nome li avrebbe chiamati, poiché il nome che egli avrebbe loro imposto sarebbe stato il loro nome[22].





[1] Nella Guerra dei Trent’anni si innestò anche la guerra di successione di Mantova e del Monferrato, detta anche guerra del Monferrato (1628-1631), che costò all’Italia un milione di morti, e che fece da sfondo alle vicende de I Promessi Sposi di Manzoni
[2] Cit. da L. Perissinotto, Leibniz, in: E. Severino (a cura di), Filosofia, Ed. Curcio, pag. 837
[3] Id., pag. 818
[4] Id.
[5] Id., pag. 820
[6] Id., pag. 830
[7]Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”. Genesi, 1,31
[8] Cit. in Leibniz, pag. 832
[9] F. Capra, Il Tao della fisica, Ed. Adelphi, pag. 345
[10] D. Eshin Rizzetto, Svegliati a ciò che fai, Ed. Ubaldini, pag. 32
[11] Di queste difficoltà lo stesso F. Capra è ben consapevole. Cfr. pag. 346
[12] I. Vecchiotti, Che cosa è la filosofia cinese, Ed. Ubaldini, pag. 9
[13] La cosiddetta querelle dei riti
[14] Citazione tratta dal blog: http://keespopinga.blogspot.it/2014/03/leibniz-il-sistema-binario-e-la-cina.html
[15] Id.
[16] V. l’edizione italiana basata sulla versione tedesca del 1923 di R. Wilhelm, in: B. Veneziani e A.G. Ferrara (a cura di), I-King, Ed. Astrolabio.
[17] I-King, pag. 583
[18] J.C. Cooper, Yin e Yang. L’armonia taoista degli opposti, Ed. Ubaldini, pag. 57
[19] A. Cheng, Storia del pensiero cinese, Ed. Einaudi, vol. I, pag. 277
[20] Tutte le citazioni sono tratte da: http://keespopinga.blogspot.it/2014/03/leibniz-il-sistema-binario-e-la-cina.html
[21] L. Perissinotto, pag. 833
[22] Genesi, 2, 19-20.