martedì 24 maggio 2016

Il Buddha va alla guerra?

In una sua opera del 1991, Le religioni e la guerra, pubblicata in Italia dalle Edizioni Il Melangolo di Genova, Pierre Crépon, storico e monaco zen, ha tracciato le linee essenziali del rapporto tra fede religiosa e guerre nella storia dell’uomo, dedicando i diversi capitoli del libro all’Ebraismo, al Cristianesimo, all’Islam, alle società tradizionali, agli Aztechi, all’Induismo e al Buddhismo.
Quest’ultima sezione – che qui interessa – si apre con la ormai consueta premessa secondo cui il Buddhismo rifiuta quasi tutti gli elementi fondanti delle religioni classiche (dogmi, figure messianiche o divine, rivelazioni ecc.) ed è quindi una Via indicata da un uomo agli altri uomini per la soluzione del “problema della condizione umana”. Per poi riconoscere che anche la dottrina originaria del Buddha “si è sviluppata in una vasta corrente religiosa” (pag. 246), con le sue filosofie, le sue istituzioni, i suoi riti e cerimoniali. Nulla di diverso, quindi, da ciò che è accaduto ad esempio al Cristianesimo, il cui “fondatore” non ha mai affermato di voler creare una nuova religione per sostituire quella del suo popolo.
Nella stessa pagina si legge poi una affermazione dell’A. secondo la quale la pragmaticità del Buddhismo fa sì che esso “non cerca di prendere posizione su argomenti di carattere generale” e pertanto “il pensiero buddhista non [è] direttamente legato al problema della guerra”. Ma con la guerra –  quella vera, non il suo concetto – il Buddhismo ha dovuto comunque fare i conti, a partire da alcuni insegnamenti riportati nei Sutra, per arrivare soprattutto agli avvenimenti concreti della storia e dell’attualità.
Dopo aver dedicato alcune pagine all’etica del Buddhismo, fondata sulla tradizionale dottrina indiana dell’ahimsa (la non-violenza, anzi, l’assenza stessa del desiderio di uccidere), l’A. riconosce che se ci si ferma agli insegnamenti morali si corre il rischio di proporre una “visione idilliaca”, “ingannevole”, (pag. 251) del Buddhismo, che non tiene conto del fatto che esso è divenuto col tempo “una potente corrente religiosa” sviluppatasi in un gran numero di scuole e di tradizioni differenti.
Proponiamo qui la lettura diretta di alcune pagine in cui l’A. parla dei rapporti storici del Buddhismo “reale” con il potere nei Paesi in cui si è radicato:
Come conseguenza del suo successo, la diffusione del buddhismo fu accompagnata dagli inevitabili svantaggi legati alla frequentazione del pote­re temporale [che presentava evidentemente anche notevoli vantaggi…].
È così che le relazioni ad alto livello tra i monaci e il potere reale, hanno potuto offrire talvolta la copertura reli­giosa ad alcune imprese militari. È noto, per esempio, che il re Anoràtha che proclamò il buddhismo religione ufficiale della Birmania nell'XI secolo, intraprese una campagna con­tro i paesi vicini per impadronirsi delle sacre reliquie.
D'altra parte, alcuni movimenti d'insurrezione popola­re si sono serviti di una terminologia buddhista per garantire un fondamento mitologico alle loro rivolte. È, segnatamen­te, il caso della Cina in cui periodiche insurrezioni, spesso fo­mentate da società segrete, si rifacevano a un'escatologia che traeva la sua terminologia dal buddhismo popolare. In mo­do assolutamente paradossale, l'insegnamento della Via del Centro, assolutamente antitetica all'idea di Messia, ha dato origine alla credenza nel ritorno di un buddha per l'avvenire, Maitreya o Mi-lo-fo, che doveva discendere sulla terra per inaugurare una nuova era cosmica. Questa credenza in una Parusia buddhista alimentava la speranza di masse di poveri e diseredati, proprio come nell'Occidente cristiano. Numero­se sollevazioni si sono quindi appoggiate al culto di Mi-lo-fo, e numerosi capi ribelli hanno dichiarato di esserne l'in­carnazione (Song Tsu-hien e Hiang Hai-ming nell'VIII seco­lo ad esempio). Constatiamo così la persistenza di alcuni tratti ideologici che, al di là delle frontiere e delle culture, motiva­no le azioni politiche.
monaci zen...
  Nel corso della storia, i monaci buddhisti stessi si sono a più riprese mescolati direttamente alla guerra. La storia tu­multuosa della feudalità giapponese, tra le cui fila il buddhi­smo era rappresentato da un gran numero di sette, alcune delle quali strettamente affini all'antico scintoismo, offre in parti­colare molti esempi in cui i monaci hanno impugnato le armi per difendere i beni dei loro monasteri o per combattere le sette rivali. Descrivendo in modo forse un po' eccessivo, il comportamento di questi monaci-guerrieri del Giappone, G. Renondeau scrive: "Dimentichi delle regole elementari del buddhismo quali il divieto di uccidere esseri viventi, il disprez­zo delle ricchezze e del lusso, si sono reciprocamente attacca­ti, decimati, appiccati incendi, per rubare gli uni agli altri ri­saie, campi e boschi; hanno dato l'assalto ai palazzi degli im­peratori e degli shogun obbligandoli ad accordare loro dei pri­vilegi, soprattutto l'immunità fiscale dei loro possedimenti; si sono mescolati alle guerre civili; hanno fomentato essi stessi dei torbidi.
Sembra tuttavia che, significativamente, queste imprese guerriere abbiano raramente fatto leva su argomenti dottri­nali: le motivazioni erano di ordine economico e accettate co­me tali. Il comportamento bellicoso dei buddhisti in Giappo­ne, e, in misura minore, in Cina, ha sempre la sua causa nel­lo sviluppo della potenza economica dei monasteri, associata a un impoverimento spirituale. Così, il comportamento guer­riero all'interno del buddhismo sembra derivare da un certo pragmatismo che accetta tutti gli elementi del mondo socia­le, al punto che, nei periodi di decadenza spirituale, pare preoccupato essenzialmente degli affari del mondo materia­le. Della Via del Centro predicata dal Buddha, che escludeva l'ascesi forsennata e la ricerca del solo profitto materiale, i monaci buddhisti hanno avuto talvolta la tendenza a conser­vare soltanto il rifiuto dell'ascesi. Per contro, non si incon­tra praticamente nessuna traccia di fanatismo che attingerebbe dalla dottrina buddhista la certezza che il diritto che si difen­de sia quello voluto dagli dei; anche l'ideologia della guerra santa è del tutto assente dal pensiero buddhista. Osserviamo a questo proposito che la setta fondata da Nichiren nel XIII secolo in Giappone, e che si è sempre manifestata attraverso un fanatismo e un militarismo ancor oggi evidenti (vedi l'in­fluenza odierna della Sòka-gakkai), è parente del buddhismo soltanto di nome e riflette piuttosto l'ideologia scintoista e il nazionalismo marcato, inscritto nel carattere insulare del Giappone” (pag.252-254).

Già a questo punto è possibile osservare che l’A. non porta argomenti forti a favore della tesi che sembra percorrere il volume, quella della estraneità del Buddhismo alle dinamiche belliche. Si vorrebbe cioè il Buddhismo “autentico” in un certo senso “superiore” alle altre tradizioni, quantomeno “diverso”. Ma non si può forse dire anche di esse che i loro rapporti col potere politico ed economico ne hanno provocato il coinvolgimento nei conflitti armati, magari giustificato ideologicamente a posteriori? Ecco quindi cadere l’idea di ogni supposta diversità, a meno che non si voglia paragonare il Buddhismo “ideale” col Cristianesimo o con l’Islam “reali”… Metodo non corretto, ma sovente applicato nelle dispute ideologiche!
Nelle ultime pagine Crépon afferma inoltre che:
“il contributo fondamentale della dottrina buddhista al problema della guerra non si colloca tuttavia né nella pro­spettiva dell'influenza della sua morale, né in quella degli svi­luppi sociali che ha conosciuto. In realtà, è nella sua stessa essenza che bisogna cercare la risposta del buddhismo alla guerra; infatti il suo obiettivo è proprio quello di trovare una soluzione al problema della sofferenza e della morte. E la guerra non è forse il fenomeno umano che provoca la mag­gior quantità di sofferenza e di morti?
Per Buddha — così come per tutti gli autentici rappre­sentanti della Via buddhista, in particolare i maestri dello Chan e dello Zen ai quali faremo principalmente riferimento —, l'o­rigine dei problemi dell'uomo risiede nello spirito che, stimo­lato dai desideri, si mantiene nell'ignoranza e si smarrisce nelle illusioni. La soluzione di questi problemi consiste dunque in un risveglio dello spirito che si manifesta con la comprensio­ne del carattere transitorio di tutti i fenomeni, in particolare di noi stessi, e quindi della vanità dell'attaccamento a questi stessi fenomeni; un proverbio dice: "Anche se amate i fiori, questi appassiscono, anche se non amate le male erbe, queste crescono", dice un proverbio.
Così, il non-attaccamento, l'abbandono dell'ego, carat­terizzano il buddhismo. Tuttavia, a differenza delle altre dot­trine religiose in cui tali comportamenti sono predicati sol­tanto in relazione ai beni materiali, il Buddha, da parte sua, non propone alcuna entità spirituale che li sostituisca (né un Dio, né un Messia, né un Profeta, né un Sé trascendente, ecc.). Oltre lo spirito non vi è nulla (la vacuità); quando si sia realizzato questo, i problemi della vita, della sofferenza, della morte scompaiono da soli, poiché la loro origine è la stessa: il nulla, il vuoto” (pag.254-255).

Affermazioni in buona parte condivisibili, ma che a chi scrive paiono comunque insufficienti, specialmente alla luce di quanto accaduto – e tuttora accade – in alcuni Paesi buddhisti (ci si passi questa espressione quantomeno ambigua). Insufficienti in quanto cercano di spiegare i fatti concreti con cause esterne al Buddhismo, prima fra tutte la contaminazione con il potere. Come se il potere fosse un elemento specifico del mondo della politica o dell’economia, e non invece una espressione – non necessariamente patologica – dei rapporti umani in quanto tali, e quindi presente anche all’interno delle religioni o Vie che dir si voglia: nelle loro istituzioni, nei monasteri, nei centri di pratica, nei rapporti personali, ad esempio tra maschi e femmine, tra omo ed eterosessuali, tra laici e monaci, tra giovani e anziani, tra maestri e discepoli, ecc.
Col risultato di contrapporre un Buddhismo ideale, puro, “idilliaco” appunto, a quello reale, storicamente “incarnato” nei praticanti, ad ogni livello, d’Oriente e ora anche d’Occidente. Di spingere il praticante a credere di vivere in una Dharmaland personale, alla ricerca di una propria “liberazione”. Di fargli ritenere superate e ininfluenti “certe questioni”. Di presentargli come uno sforzo inutile, se non addirittura controproducente, lo studio e la riflessione sui fatti della storia di ieri e di oggi. Di proporgli una immagine distorta della storia di quella tradizione cui si vuole “appartenere”.
Di tali contraddizioni ci pare si possa cogliere un esempio nella citazione già riportata, secondo la quale la Soka-gakkai non farebbe parte delle tradizioni buddhiste, in quanto è “parente del buddhismo soltanto di nome e riflette piuttosto l'ideologia scintoista e il nazionalismo marcato, inscritto nel carattere insulare del Giappone”. Come se vi fossero nel Buddhismo delle “autorità” preposte (da chi?) all’attribuzione di un qualche marchio DOC alle varie scuole… D’altra parte, è la stessa cosa che molti praticanti delle altre tradizioni dicono dello Zen!
Samurai
A mo’ di conclusione, Crépon ricorda infine un famoso aneddoto sulla vita del maestro zen Taisen Deshimaru: durante la seconda guerra mondiale, “mentre stava viaggiando su un battello che trasportava esplosivo, il convoglio di cui faceva parte fu attaccato da sottomarini nemici. Di fronte al pericolo di un'e­splosione molti marinai si gettarono in acqua, nella più grande confusione. La sua reazione fu di sedersi assumendo una po­sizione di meditazione buddhista e accettare nel suo spirito la possibilità di morire, se era venuto il momento. Alla fine il suo battello non venne colpito, ma un buon numero di quelli che, in preda all'agitazione, aveva abbandonato la nave, non fu più ripescato. Un simile comportamento è indicativo del­l'atteggiamento buddhista: avendo risolto il problema della sofferenza e della morte con l'aver preso coscienza che ogni cosa è vacua, l'uomo risvegliato conserva il suo spirito stabi­le e calmo anche se l'inesorabile macchina del karma provo­ca i sommovimenti più violenti.
La realizzazione di un tale stato d'animo trova il suo mi­gliore esempio nel famoso Bushido, la Via del Guerriero (Bushi = guerriero, Do = via) dei samurai giapponesi. Il Bu­shido è il risultato dell'influenza del buddhismo-zen sulla ca­sta dei guerrieri in Giappone. Quando lo Zen penetrò nel ar­cipelago nipponico, il paese era infatti in preda a lotte perpe­tue, e i samurai costituivano una casta molto attiva. Da al­cuni secoli, lo Zen aveva già sviluppato in Cina alcune tecniche di lotta a mani nude perché i monaci, che non potevano por­tare armi, potessero difendersi contro gli attacchi dei banditi che infestavano le grandi strade. Tuttavia, la grande influen­za dello Zen sui samurai fu quella di trasformare le loro tec­niche guerriere in uno strumento di ricerca di se stessi. Così, la sciabola o l'arco divennero supporti per la meditazione, e la Via della sciabola, il Kendo, o la Via dell'arco, il Kyudo, gli strumenti privilegiati attraverso i quali i samurai tra­sfiguravano il loro combattimento materiale in combattimento spirituale.
Per questo motivo, tutti i grandi trattati di arti marziali giapponesi, come tutte le storie relative ai grandi maestri di combattimento, si riferiscono sempre al problema dello spi­rito. Nella lotta mortale che oppone due guerrieri del Bushi­do, l'essenziale concerne lo stato d'animo. In quel momen­to, cioè di fronte alla morte, colui che conserva l'animo cal­mo ha vinto la paura di morire, e ha perciò sconfitto il suo maggior nemico. Più ancora della sua tecnica, il samurai de­ve sempre tener presente la transitorietà di ogni cosa: si può dire, in ultima istanza, che non ha avversario, lui e il suo av­versario non sono che una e medesima cosa, perché "è in noi che si trovano la radice, l'origine della vita e della morte" (insegnamento del maestro Daishi al samurai Kikuchi).
Per cogliere l'autentico obiettivo del Bushido giappone­se e misurare fino a che punto il buddhismo Zen ha segnato con la sua impronta la condotta dei guerrieri, la cosa più con­vincente è, d'altronde, rifarsi al testo di Miyamoto Musachi, il Gorin-no-Sho (Scritto sulle cinque vie). Musachi, che visse alla fine del XVI secolo, è stato il più celebre samurai del Giappone. Concluse vittoriosamente una quantità innumerevole di combattimenti, e approfondì per tutta la vita il Bushido sempre rispettando il precetto: "Bisogna venerare i buddha e le divinità, ma non far conto su di loro". Terminò la sua opera, scritta all'avvicinarsi della morte, per consegnarvi il suo insegnamento con frasi inconsuete sulla bocca di un guer­riero: "Fintanto che non si conosce la Via autentica, ciascu­no crede di avanzare sulla buona via e crede di essere nel ve­ro senza appoggiarsi alle leggi del Buddha né sulle leggi della terra. Ma, quando noi li guardiamo con gli occhi della Via autentica dello spirito, e secondo le grandi regole del mondo umano, li si vede tradire la Via autentica a causa del loro egoismo e della miopia. Conoscete lo Spirito! Riposatevi sul dominio sinceramente giusto! Fate dello Spirito reale la Via! Praticate largamente la Tattica! Non preoccupatevi che della giustizia, della chiarezza e della grandezza! Fate del vuoto, la Via! E considerate la Via come Vuoto!” (pag. 258-260).

Che dire? È quantomeno curioso il fatto che il libro termini proprio con citazioni e aneddoti sul Bushido, (la Via del Guerriero), sulle arti marziali, sui Samurai, una vera e propria casta specificamente dedita alla guerra, che ha utilizzato strumentalmente le pratiche del Buddhismo trasformandole in tecniche – raffinate finché si vuole – per vincere il timore della morte, mettendosi al servizio di quel potere politico la cui frequentazione era stata poco prima descritta come causa dei frequenti coinvolgimenti dei buddhisti in guerre ed episodi di violenza.
Rambo e il Buddha
In tal modo, non si fa che rafforzare il mito dell’Eroe senza macchia né paura, per il quale la guerra e la violenza sono degli accidenti inevitabili anche se terribili, che vengono però giustificati o addirittura sublimati in una ricerca spirituale (la lotta contro il nemico interiore, la cerca del Graal o del vero Sè, l’uccisione del Drago,…) che non comporta necessariamente l’abbandono delle armi e dell’uso della violenza nella soluzione dei conflitti. Ciò che è avvenuto per i Samurai, i Templari, l’Ordine Teutonico, i Cavalieri Jedi o per figure come Achille, San Giorgio, Arjuna, Sigfrido, Parsifal… O per l’archetipo dell’Eroe delle guerre asimmetriche, quel Rambo che all’inizio del terzo film a lui dedicato si vede vivere in cerca della pace interiore in un monastero thailandese, tra i monaci buddhisti ai quali dona il ricavato degli incontri di lotta cui occasionalmente partecipa...
In ultima analisi, è parere di chi scrive che il volume manchi il proprio obiettivo, in quanto lungi dal dimostrare una così profonda “differenza” del Buddhismo sulla pratica della violenza e della guerra, presenta argomentazioni che possono essere invece applicate a qualsiasi tradizione.
Inoltre, se l’autentica tradizione buddhista non si pone di fronte alla guerra come “problema” in quanto non è una religione, non vuole o non può comunque proporre nessuna “soluzione” se non la realizzazione della vacuità dei fenomeni, che l’A. vede “incarnata” nell’atteggiamento eroico di una classe di guerrieri verso la paura del dolore e della morte.
Quella vacuità di cui egli dice – in maniera quanto meno approssimativa – essere il “nulla” oltre lo spirito, il “nulla” da cui trae origine ogni problema, ogni sofferenza. Una visione nichilista della vacuità che le scuole buddhiste concordemente rifiutano.

Come dicevano i Padri romani, ex nihilo nihil fit, nulla viene dal nulla.


Da leggere:

Pierre Crépon, Le religioni e la guerra, Ed. Il Melangolo - Genova

lunedì 16 maggio 2016

Fondamentalismo buddhista?

Per riprendere il tema del “fondamentalismo buddhista”, toccato nel post http://zenvadoligure.blogspot.it/2016/02/il-xiv-dalai-lama-e-laffaire-shugden_12.html 
del 12 febbraio, pubblichiamo qui un articolo apparso sul n. 19 del magazine Sette del Corriere della Sera del 13 maggio con il titolo “Ora le migrazioni vanno anche da Sud a Sud”.
Ne è autore Andrea Riccardi, storico, accademico, attivista e politico italiano, fondatore nel 1968 della Comunità di Sant'Egidio.
Il testo dell’articolo è leggibile anche qui:

Il 20 aprile scorso un barcone pieno di migranti è affondato al largo delle coste birmane con una sessantina di persone a bordo. Venti sono morti, tra cui alcuni bambini.
Migranti Rohingya
Si tratta di rohingya, un'etnia birmana. Si parla pochissimo del loro dramma, pur trattandosi di un gruppo etnico tra i più perseguitati del mondo, secondo quanto affermano le Nazioni Unite. Il terribile incidente in mare non è il primo, anzi viene dopo molti altri e, probabilmente, non sarà l`ultimo, finché non si porrà seriamente attenzione al problema di questa gente. Sono lontani geograficamente da noi, ma vivono un`esperienza simile ai profughi sul Mediterraneo.
Perché i rohingya fuggono? Dietro alla vicenda c'è un pesante conflitto etnicoreligioso tra maggioranza birmana e buddista al potere a Myanmar e minoranza rohingya di religione musulmana. Si tratta di un piccolo popolo, all`incirca un milione, che parla una lingua d'origine indoeuropea vicina a quelle bengalesi. Sono senza cittadinanza, senza terra, senza diritti. Il governo birmano li ha considerati a lungo stranieri, sostenendo fossero immigrati durante il dominio britannico. In realtà la loro residenza nello Stato birmano del Rakhine settentrionale (dove sono minoritari) pare molto più antica.
Niente giustifica le incredibili limitazioni da loro subite, che - dopo la fine del regime militare birmano - sono impensabili per il nuovo governo democratico. Vivono in campi con una ridottissima possibilità di muoversi e di lavorare. Una vera condizione inumana.
Lo scorso anno, in una situazione di grave tensione interetnica, migliaia di boat people con a bordo famiglie rohingya hanno preso il mare cercando approdi migliori. Altri si sono rifugiati in Bangladesh (circa 200.000), dove un certo numero è stato respinto l`anno passato. La Malaysia e l`Indonesia, Paesi entrambi musulmani, hanno cominciato ad accogliere i boat people, ma poi hanno preso a praticare una politica di respingimento che ha causato tante morti in mare. Anche la Thailandia ha fatto la stessa scelta. La Malaysia ospita circa 45.00o rohingya nei campi. Di fronte alla pressione dei migranti, s`incrina la solidarietà di musulmani, come gli indonesiani e i malesi, verso altri musulmani come i rohingya (solo la provincia islamista di Aceh in Indonesia li ha accolti).
Un monaco buddhista "accoglie" i migranti Rohingya
La questione dei rohingya è rivelatrice di un volto "politico" del buddismo. II buddismo theravada, diffuso nell`Asia Meridionale e nel Sud Est asiatico, ha esercitato una forte pressione per la democratizzazione di Myanmar. Si ricordano le immagini delle processioni dei monaci buddisti con la ciotola in mano, che manifestavano contro i generali birmani. Tuttavia l'identificazione tra nazione e buddismo ha provocato anche fenomeni d`intolleranza verso i non buddisti, tanto che Time già nel 2013 denunziava la diffusione del "veleno fondamentalista" tra i monaci buddisti birmani e la loro lotta antimusulmana. In genere il buddismo ha in Occidente invece una generale immagine pacifica. Ma sono in molti a sostenere che l`espressione "fondamentalismo" vada oggi applicata non solo all`islam, all`induismo e al cristianesimo, ma anche al buddismo.
Nella crisi che ha travagliato lo Sri Lanka, si è visto il forte ruolo politico di una parte del buddismo dell`isola, che ancora mantiene una forza notevole. Spesso, da parte buddista, si parla dell`islam come di una minaccia da cui difendersi. Qualcosa di simile a quanto si dice in Occidente. Ma che c'entrano i poveri rohingya con la minaccia islamica? La realtà è che sono veri paria asiatici, un popolo "invisibile" senza diritti e senza terra. Uno degli esempi più evidenti che ormai le migrazioni vanno non solo dal Sud al Nord del mondo, ma anche dal Sud al Sud.

Il passo evidenziato si ricollega direttamente a quanto già accennato a proposito del fondamentalismo, un veleno – come giustamente lo definisce Riccardi – che ha intossicato e continua a contaminare non solo le religioni monoteiste, più o meno profondamente a seconda dei periodi storici, ma che sembra interessare anche il buddhismo, al di là del fatto che lo si voglia o meno definire una religione. Questione che diviene del tutto secondaria di fronte ai fatti concreti di cui si parla.
È quindi necessario per i praticanti buddhisti occidentali andare al di là dell’immagine stereotipata del buddhismo stesso, che è molto diffusa nella nostra società, come di una tradizione immune da ogni forma di violenza e di prevaricazione. Un’immagine superficiale, un wishful thinking che non sempre corrisponde alle modalità con cui il buddhismo si è storicamente manifestato nelle società in cui si è diffuso e radicato.

Ignorare volutamente taluni aspetti della sua storia passata e della sua realtà presente - specialmente per quanto concerne la formazione di "istituzioni" all'interno del mondo buddhista (monasteri, associazioni, istituti, ecc.) e le vicende dei loro rapporti con le istituzioni politiche - costituisce a parere di chi scrive un grave pericolo sia per l’evoluzione della propria pratica personale sia per il futuro degli insegnamenti del Buddha, in Occidente quanto in Oriente.