sabato 23 luglio 2016

Antonio Gramsci e il Buddha - III

Un’ultima annotazione gramsciana intorno al Buddhismo è infine leggibile, come la precedente, qui:
Essa ha per oggetto le tradizioni religiose del Giappone, in particolare lo Shinto, religione “nazionale” giapponese, e il Buddhismo, “tipo di religione extranazionale e supernazionale come il cristianesimo e l’islamismo”, diffusosi in Giappone a partire dalla Cina.
Ma leggiamo le parole dello stesso Gramsci, che si rifà ad un testo di R. Pettazzoni, storico delle religioni (1883-1959):


Nella “Nuova Antologia” del 1° giugno 1929 è pubblicata l’introduzione (La religione nazionale del Giappone e la politica religiosa dello Stato giapponese) al volume su La Mitologia Giapponese che Raffaele Pettazzoni ha pubblicato nella collana di “Testi e Documenti per la Storia della Religione” editi dalla Zanichelli di Bologna. 
Perché il Pettazzoni ha intitolato il suo libro Mitologia? C’è una certa differenza tra “Religione” e “Mitologia” e sarebbe bene tenere ben distinte le due parole. La religione è diventata nel Giappone una semplice «mitologia» cioè un elemento puramente “artistico” o di “folklore” oppure ha ancora il valore di una concezione del mondo ancora viva e operante? Poiché pare dall’introduzione che sia quest’ultimo il valore che il Pettazzoni dà alla religione giapponese, il titolo è equivoco. Da questa introduzione noto alcuni elementi che potranno essere utili per studiare un paragrafo “giapponese” alla rubrica degli “intellettuali”.
Introduzione del Buddismo nel Giappone, avvenuta nel 552 d.C. Fino allora il Giappone aveva conosciuto una sola religione, la sua religione nazionale. Dal 552 ad oggi la storia religiosa del Giappone è stata determinata dai rapporti e dalle interferenze fra questa religione nazionale e il Buddismo (tipo di religione extranazionale e supernazionale come il cristianesimo e l’islamismo); il cristianesimo, introdotto nel Giappone nel 1549 dai Gesuiti (Francesco Saverio), fu sradicato con la violenza nei primi decenni del secolo XVII; reintrodotto dai missionari protestanti e cattolici nella seconda metà del secolo XIX, non ha avuto grande importanza complessivamente.
Dopo l’introduzione del Buddismo, la religione nazionale fu chiamata con parola sinogiapponese
Shinto cioè “via (cinese: tao) degli dei (cinese: Shen)” mentre butsudo indicò il Buddismo (“do”via, “butsu”Budda). In giapponese Shinto si dice Kaminomichi (Kami-divinità).
Kami non significa «dio» nel senso occidentale, ma più genericamente “esseri divini” compresi anche gli antenati divinizzati. (Dalla Cina fu introdotto nel Giappone non solo il Buddismo, ma anche il culto degli antenati, che, a quanto pare, si incorporò più intimamente nella religione nazionale). Lo Shintoismo è però fondamentalmente una religione naturistica, un culto di divinità (Kami) della natura, tra cui primeggiano la dea del sole Amaterasu, il dio degli uragani Susanowo, la coppia Cielo e Terra, cioè Izanagi e Izanami ecc. È interessante il fatto che lo Shintoismo rappresenta un tipo di religione che è scomparso del tutto nel mondo moderno occidentale, ma che era frequente presso i popoli civile dell’antichità (religioni nazionali e politeistiche degli Egiziani, dei Babilonesi, degli Indiani, dei Greci, dei Romani, ecc.). Amaterazu è una divinità come Osiride, o Apollo o Artemide; è interessante che un popolo civile moderno come il giapponese, creda e adori una tale divinità. (Forse però le cose non sono così semplici come può apparire).
Tuttavia accanto a questa religione nazionale sussiste il Buddismo, tipo di religione supernazionale, per cui si può dire che anche in Giappone si è avuto fondamentalmente lo stesso sviluppo religioso che nell’Occidente (col Cristianesimo). Anzi Cristianesimo e Buddismo si diffondono ancora nelle rispettive zone sincronicamente e ancora: il Cristianesimo che si diffonde in Europa non è quello della Palestina, ma quello di Roma o di Bisanzio (con la lingua latina o greca per la liturgia) così come il Buddismo che si diffonde in Giappone non è quello dell’India, ma quello cinese, con la lingua cinese per la liturgia. Ma a differenza del Cristianesimo, il Buddismo lasciò sussistere le religioni nazionali preesistenti (in Europa le tendenze nazionali si manifestarono in seno al Cristianesimo).
All’inizio il Buddismo fu accolto nel Giappone dalle classi colte, insieme alla civiltà cinese portò solo il Buddismo?) Successe un sincretismo religioso: Buddismo-Shintoismo. Elementi di confucianismo. Nel secolo XVIII ci fu una reazione al sincretismo in nome della religione nazionale che culminò nel 1868 con l’avvento del Giappone moderno. <Lo Shintoismo> dichiarato religione di Stato. Persecuzione del Buddismo. Ma per breve tempo. Nel 1872 il Buddismo fu riconosciuto ufficialmente e parificato allo Shintoismo tanto nelle funzioni, tra cui principalmente quella pedagogica di educare il popolo ai sentimenti e ai principii del patriottismo, del civismo, e del lealismo, quanto nei diritti con la soppressione dell’“Ufficio dello Shinto” e la istituzione di un Ministero della religione, avente giurisdizione tanto sullo Shintoismo che sul Buddismo. Ma nel
1875 il governo mutò ancora la politica: le due religioni furono separate e <lo Shintoismo> andò assumendo una posizione speciale e unica. Provvedimenti burocratici vari andarono succedendosi che culminarono nella elevazione dello Shintoismo a istituzione patriottica e nazionale, con la rinuncia ufficiale al suo carattere religioso (divenne una istituzione – mi pare – del tipo di quella romana del culto dell’Imperatore, ma senza carattere religioso in senso stretto, per cui anche un Cristiano può esercitarlo). I Giapponesi possono appartenere a qualsiasi religione, ma devono inchinarsi dinanzi all’immagine dell’Imperatore. Così lo Shinto di Stato si è separato dallo Shinto delle sette religiose. Anche burocraticamente si ebbe una sanzione: esiste oggi un “Ufficio delle religioni” presso il Ministero dell’Educazione, per le varie chiese dello Shintoismo popolare, per le varie chiese buddistiche e cristiane e un “Ufficio dei santuari” per lo Shintoismo di Stato presso il Ministero dell’Interno. Secondo il Pettazzoni questa riforma fu dovuta all’applicazione meccanica delle Costituzioni occidentali al Giappone: per affermare cioè il principio della libertà religiosa e della uguaglianza di tutte le religioni dinanzi allo Stato e per togliere il Giappone dallo Stato di inferiorità e arretratezza che lo Shintoismo, come religione, gli conferiva in confronto col tipo di religione vigente in Occidente.
Mi pare artificiale la critica del Pettazzoni (vedere anche in Cina quel che avviene a proposito di Sun Yat Sen e dei tre principi: si sta formando un tipo di culto di Stato, areligioso: mi pare che l’immagine di Sun abbia un culto come quello dell’Imperatore vivente in Giappone). Nel popolo e anche nelle persone colte rimane però viva la coscienza e il sentimento dello Shinto come religione (ciò è naturale, ma mi pare innegabile l’importanza della Riforma, che tende, coscientemente o no, alla formazione di una coscienza laica, in forme paradossali quanto si vuole). (Questa discussione, se lo Shinto di Stato sia una religione o no mi pare la parte più importante del problema culturale giapponese: ma tale discussione non si può fare per il Cristianesimo, certamente).

Amaterasu
 Come si può evincere dai brevi appunti tratti dai Quaderni e dalle Lettere, in Gramsci non è possibile trovare i segni di un particolare interesse per il buddhismo (o altre religioni dell’Oriente). Ciò che si rileva nei suoi scritti è invece un profondo interesse per il fenomeno religioso, che diviene una vera e propria “questione” per il marxismo e per il socialismo. La religione è per Gramsci una questione politica, certamente, ma intendendo tale termine nella maniera più ampia. Ed anche il termine “religione” deve essere considerato sotto tutti gli aspetti: “dottrinale, storico, etico, culturale, sociale, individuale, comunitario” (T. La Rocca). È quindi del tutto evidente che gli interessi di Gramsci siano principalmente rivolti alla religione cattolica in Italia e alle sue espressioni “istituzionali”: la Chiesa e le chiese, le gerarchie, il Vaticano, il Partito Popolare, le organizzazioni cattoliche ecc.
Le analisi gramsciane del fenomeno religioso sono sempre molto lucide e significative: Gramsci non cade mai in un anticlericalismo superato dalla storia; critica non solo le posizioni idealistiche crociane, ma anche le interpretazioni materialistiche volgari (Bucharin), che distingue nettamente dalla “filosofia della prassi” (il marxismo); sembra anche giungere a non disconoscere “del tutto i bisogni metafisici della religione” (T. La Rocca), legandosi così alle pagine del giovane Marx sulla religione come “alienazione”.
A mo’ di conclusione proponiamo la lettura di un breve passo tratto dai Quaderni. Qui Gramsci parla del Cattolicesimo, ma le sue parole mettono in luce un metodo di analisi del fenomeno religioso da cui non si può prescindere, di qualsiasi tradizione si stia parlando. Dice il rivoluzionario sardo: “Ogni religione è in realtà una molteplicità di religioni distinte e spesso contraddittorie: c’è un cattolicesimo dei contadini, un cattolicesimo dei piccoli borghesi e operai di città, un cattolicesimo delle donne e un cattolicesimo degli intellettuali anch’esso variegato e sconnesso…”
Considerazioni che paiono quasi scontate, ma che è facile dimenticare quando si mettono a confronto fenomeni apparentemente simili ma che tali non sono. E questo soprattutto oggi, in un momento storico in cui proprio nelle società occidentali desacralizzate (o che così si raccontano) non si è mai parlato tanto di religioni – spesso senza nemmeno conoscere i termini che vengono utilizzati.

Da leggere:
Tommaso La Rocca, Gramsci e la religione, Ed. Queriniana

mercoledì 20 luglio 2016

Antonio Gramsci e il Buddha - II

Anche nei Quaderni del carcere si trovano un paio di annotazioni di Antonio Gramsci sul buddhismo. Una di esse è leggibile qui: https://quadernidelcarcere.wordpress.com/2014/01/10/noterelle-sulla-cultura-giapponese/ 
(Quaderno 5 (IX) § 50).



Riportiamo di seguito il breve passo nel quale Gramsci accenna al buddhismo, in questo caso quello cinese, rifacendosi ad una pubblicazione del 1927 di A. Forke e ad una Storia della filosofia cinese del 1919 di Hu Shi.

Nel «Marzocco» del 23 ottobre 1927 Alberto Castellani dà notizia del libro di Alfredo Forke: Die Gedankenwelt des chinesischen Kulturkreises, München Berlin, 1927 (Filosofia cinese in veste europea e… giapponese). Il Forke è professore di lingua e civiltà della Cina all’Università di Amburgo ed è noto come specialista dello studio della filosofia cinese. Lo studio del pensiero cinese è difficile per un occidentale per varie ragioni: 1) i filosofi cinesi non hanno scritto trattati sistematici del loro pensiero: furono i discepoli a raccogliere le parole dei maestri, non i maestri a scriverle per eventuali discepoli; 2) la filosofia vera e propria era intrecciata e come soffocata nelle tre grandi correnti religiose, Confucianismo, Taoismo, Buddismo; così i cinesi passarono spesso agli occhi dell’europeo non specialista o come privi di filosofia vera e propria o come aventi tre religioni filosofiche (questo fatto però, che la filosofia sia stata intrecciata alla religione ha un significato dal punto di vista della cultura e caratterizza la posizione storica degli intellettuali cinesi). Il Forke appunto ha cercato di presentare il pensiero cinese secondo le forme europee, ha cioè liberato la filosofia vera e propria dai miscugli e dalle promiscuità eterogenee; quindi ha reso possibile qualche parallelo tra il pensiero europeo e quello cinese. L’Etica è la parte più rigogliosa di questa ricostruzione: la logica è meno importante «perché anche i Cinesi stessi ne hanno avuto sempre più un senso istintivo, come intuizione, che non un concetto esatto, come scienza». (Questo punto è molto importante, come momento culturale). Solo alcuni anni fa, uno scrittore cinese, il prof. Hu Shi, nella sua Storia della Filosofia Cinese (Scianghai, 1919) assegna alla Logica un posto eminente, ridisseppellendola dagli antichi testi classici, di cui, non senza qualche sforzo, tenta di rivelare il magistero. Forse il rapido invadere del Confucianesimo, del Taoismo e del Buddismo, che non hanno interesse per i problemi della Logica, può avere intralciato il suo divenire come scienza. «Sta di fatto che i Cinesi non hanno mai avuto un’opera come il Nyàya di Gautama e come l’Organon di Aristotile». Così manca in Cina una disciplina filosofica sulla «conoscenza» (Erkenntnistheorie). Il Forke non vi trova che credenze.


Un notazione di Gramsci (o forse dell’autore da lui citato, ma che comunque Gramsci non contesta) può colpire il lettore. Egli dice, a proposito delle tre grandi scuole della spiritualità cinese, che “non hanno interesse per i problemi della logica”. Questo può magari corrispondere al vero per ciò che concerne il buddhismo cinese, ma non lo è per il buddhismo indo-tibetano, che al contrario ha sviluppato al massimo grado l’argomentazione logica nel contesto del training spirituale del praticante. È da dire però: 1) che a Gramsci non interessava, almeno in quel contesto, approfondire in modo specifico la sua conoscenza delle tradizioni buddhiste, e 2) che per quanto riguarda il buddhismo indo-tibetano egli non aveva a disposizione gli strumenti per studiarlo, in quanto come sappiamo fu detenuto nelle carceri fasciste dal 1927 al 1934, anno in cui ottenne la libertà condizionata per le sue gravi condizioni di salute.

L'Istituto di Dialettica Buddhista
di Dharamsala (1991)

venerdì 15 luglio 2016

Ci vorrebbe Guareschi!

Ancora dal sito www.asianews.it un articolo un po’ datato (11 settembre 2014), ma da non perdere! Non tanto per l’ipotesi, già tante volte riportata dai media, secondo cui l’attuale XIV Dalai Lama sarà l’ultimo, quanto piuttosto per le affermazioni del governo cinese (un governo comunista, quindi fondato su una ideologia atea e materialista, il marxismo), al quale competerebbe il ruolo di scegliere il Dalai Lama, ovvero il capo spirituale del buddhismo tibetano. Non solo, quindi, dei politici marxisti-leninisti seguiranno la formazione politica del bambino che viene considerato l’incarnazione del bodhisattva Avalokiteshvara, ma, non si sa se sulla base delle dottrine del materialismo dialettico, lo identificheranno tra i vari candidati, riconosceranno l’autenticità della sua rinascita e lo guideranno nella sua crescita spirituale!
Forse solo la penna di un Giovannino Guareschi avrebbe potuto adeguatamente commentare un paradosso così grottesco! Epperò tragico per il popolo tibetano, e per quello cinese...
Giovannino Guareschi

Pechino si scopre teologa (del buddismo): Solo noi possiamo riconoscere un Dalai Lama

Pechino (AsiaNews) - Il titolo e la carica di Dalai Lama “sono conferiti dal governo centrale cinese, e questa pratica ha secoli di storia. L'attuale XIV Dalai Lama ha motivazioni distorte e cerca di negare la storia, danneggiando il normale ordine religioso”. A parlare non è un teologo buddista o uno studioso, ma la portavoce del governo cinese - ateo e comunista - Hua Chunying. La quale ha risposto con questa perentoria affermazione all'ipotesi, suggerita dall'attuale leader buddista tibetano, di interrompere il proprio lignaggio alla sua morte.
Tenzin Gyatso, 14esima reincarnazione di Avalokiteśvara (il santo buddista della compassione), ha chiarito parlando con un quotidiano tedesco che la propria figura “non ha più molto senso, ormai. Abbiamo avuto un Dalai Lama per quasi cinque secoli, forse è il momento di finirla. Anche perché non c'è più un ruolo politico, ma solo una guida spirituale”. Anche se alcuni funzionari tibetani hanno voluto chiarire che la frase è stata estrapolata dal contesto, la questione del prossimo Dalai Lama rimane un tema caldo per Pechino.
Il buddismo tibetano è ancora molto sentito e praticato in Tibet e nel resto del Paese, e la figura dell'attuale guida spirituale è molto amata nonostante sia stato costretto ad andare in esilio in India nel 1959. Il governo cinese cerca sin da allora di demolirne la statura, ma senza successo. Per cercare di mettere la situazione sotto controllo, nel 1995 ha spezzato la contiguità fra la figura del Dalai e quella del Panchen Lama (“numero 2” del lignaggio tibetano) rapendo il giovane individuato come legittimo XI Panchen proprio dall'attuale Dalai. Al suo posto ha messo un monaco fantoccio, e spera di fare lo stesso con il prossimo vertice della “setta dei berretti gialli”.
In base alla tradizione del buddismo tibetano, per riconoscere l'incarnazione di un “Buddha vivente” i monaci deputati all'incarico devono identificare un bambino che presenti dei segni mediante i quali possa essere identificato come la reincarnazione dell'ultima guida spirituale. I religiosi partono seguendo la direzione dell'ultimo sguardo del defunto e cercano segni soprannaturali riguardo i neonati e i bambini dell'area indicata. Una volta identificato un possibile erede, lo sottopongono a una serie di prove come il riconoscere gli oggetti appartenuti in vita dal predecessore. L'attuale Dalai Lama riconobbe immediatamente, in una stanza con migliaia di pantofole, quelle appartenute a chi lo aveva preceduto.
Un'altra tradizione, più recente ma comunque valida, aggiunge alla ricerca un rituale religioso complicato che può essere effettuato soltanto all'interno del Tempio dei Lama di Pechino. Qui si trova l'urna d'oro dalla quale vennero estratti i nomi delle reincarnazioni di alcuni fra i più importanti Buddha viventi degli ultimi tre secoli, dono di un imperatore manciù al Reggente tibetano. Basandosi su questa struttura, in teoria decaduta con la Rivoluzione maoista e la nascita della Repubblica popolare, ora la Cina avanza le sue richieste di controllare le prossime reincarnazioni.
Tuttavia il XIV Dalai Lama ha già ipotizzato in passato una rottura con tale tradizione, avanzando l'ipotesi di scegliere lui stesso un successore prima della morte o fra i tibetani in esilio, oppure mediante un'elezione. All'epoca la reazione del governo cinese venne affidata al portavoce del ministero cinese degli Esteri, Hong Lei, che disse: “Il XIV Dalai Lama è stato approvato dal governo. E nessun leader buddista ha mai identificato la propria reincarnazione o scelto il suo successore”.




Da rileggere:

G. Guareschi, Mondo piccolo - Il compagno Don Camillo, Ed. Rizzoli

martedì 5 luglio 2016

Avviso ai praticanti

Dal sito www.AsiaNews.it, un articolo che proponiamo quale memento per chiunque, ma in particolare per quei praticanti del Dharma che ritengono se stessi e la propria fede forniti di una innata immunità nei confronti del virus del fondamentalismo.

Sri Lanka: a due anni dalle violenze buddiste i musulmani soffrono, ma perdonano
di Melani Manel Perera

Dharga Town – A due anni di distanza dalla brutale aggressione dei radicali buddisti contro la minoranza musulmana nel sud-ovest dello Sri Lanka [http://www.asianews.it/notizie-it/Sri-Lanka,-non-si-ferma-la-violenza-dei-buddisti-radicali-contro-i-musulmani-31387.html], i sopravvissuti di quelle violenze ancora vivono nel dolore del ricordo di quanto avvenuto. Alcuni di loro dicono ad AsiaNews: “Non avevamo mai assistito a tanta violenza. Non solo ci hanno attaccati alla luce del giorno, ma lo hanno fatto di fronte alla polizia, che ha visto perpetrare minacce, ferimenti, uccisioni senza motivo. Il dolore non può essere cancellato e la frattura mai ricomposta”.

Due anni fa i buddisti hanno aggredito, saccheggiato e raso al suolo Dharga Nagar, Beruwela e Aluthgama, tre città a maggioranza islamica. Le violenze sono iniziate il 15 giugno e continuate per due giorni senza sosta. Circa 10mila persone sono state costrette a fuggire dalle proprie case, 8mila musulmani e 2mila singalesi. Sono stati i musulmani a pagare il prezzo più alto: il bilancio finale è stato di 4 morti, 80 feriti, 90 case distrutte, negozi, proprietà e moschee danneggiate per milioni di rupie srilankesi.
Le aggressioni sono state capeggiate dal gruppo radicale buddista Bodu Bala Sena (Bbs), che avrebbe agito per ritorsione contro il presunto attacco ai danni del ven. Ayagama Samitha Thero. Appreso dell’incidente, Galagoda Aththe Gnanasara Thero, monaco buddista leader del Bbs, ha radunato i seguaci e incitato alla violenza radicale tra singalesi buddisti e musulmani. Al termine del raduno, i militanti del Bbs hanno marciato nelle zone a maggioranza islamica delle città.
Ogni proprietà dei musulmani è stata presa di mira, mentre venivano risparmiati i negozi singalesi. M. Fazaal e Imran Mohomad, due musulmani testimoni delle violenze, dicono ad AsiaNews: “I buddisti cantavano slogan anti-islamici. Poi si sono avvicinati alla moschea dove stavamo pregando, ci hanno rivolto parole oscene e fatto il gesto della pistola contro uno di noi”.
M. Hanifa Mohomad Zarook Hajiyar, un ricco commerciante musulmano di 70 anni, ha assistito al saccheggio e al rogo della sua casa, il tutto di fronte al personale della Special Task Force dislocata dal governo per sedare le violenze. L’uomo racconta: “La polizia era lì, ma non è intervenuta per impedire quello che stava accadendo. Quando ho implorato ‘Fratello, non permettere tutto questo’, essi hanno rivolto le armi verso di me e mi hanno intimato di non avvicinarmi, altrimenti mi avrebbero ucciso”. Il commerciante alla fine è scappato e ha messo in salvo la moglie, un figlio e la figlia con il proprio bambino, che i musulmani avevano tentato di prendere con la forza.
Le perdite dell’uomo sono state ingenti, perché la folla ha incendiato anche il suo autosalone. Nonostante tutto, Zarook Hajiyar dice: “Dio mi ha dato tutto. Mi ha dato il coraggio di affrontare tutto questo. Io confido in lui. Non ho risentimento contro nessun buddista o la folla di radicali Bbs. Viviamo in pace con i buddisti nel nostro villaggio, anche in mezzo a tale disastro”.
M. N. Imbran, un uomo di 33 anni, ha perso il suo piccolo negozio di alimentari. Oggi però è “sereno e soddisfatto perché l’esercito ha ricostruito la mia casa”.
Mohomad Asjath, un ragazzo di 20 anni, vive invece nella disperazione. Quei giorni hanno cambiato per sempre la sua vita: uscito di notte per controllare la situazione, un ufficiale della Task Force gli ha sparato ad una gamba. Dopo diverse ore è stato trasportato all’ospedale di Dharga Town, ma i medici si sono rifiutati di curarlo. In seguito si è recato all’ospedale di Nagoda, ma il personale sanitario lo ha sbeffeggiato e ritardato i soccorsi. Alla fine la famiglia ha noleggiato un’ambulanza privata che lo ha trasportato al National Hospital di Colombo. “Qui i dottori – racconta – hanno provato a salvare la mia gamba. Dopo cinque giorni, un medico si è avvicinato e mi ha detto: ‘Mi dispiace, dobbiamo amputare la gamba’. Ricordo ancora la sua voce tremante che mi diceva che se il proiettile fosse stato rimosso a Nagoda, avrei salvato la gamba”. Il ragazzo lavorava come aiuto meccanico in tre officine e guadagnava 25mila rupie al mese (215 euro). Dopo l’incidente ha perso il lavoro e con esso un’importante fonte di reddito per tutta la famiglia.

L'intero articolo e quelli ad esso correlati sono leggibili qui:

http://www.asianews.it/