venerdì 30 settembre 2016

Yoga e scienza della mente

A partire da gennaio 2017 a cura della a.s.d. IL CERCHIO in Savona si svolgerà una serie di incontri teorico-pratici dedicati alla meditazione nell'ottica di Patanjali e nella visione tantrica.
Pubblichiamo qui di seguito il programma completo del percorso, che costituisce un'occasione unica nella realtà savonese per iniziare a conoscere o per approfondire la pratica eterna della meditazione, cuore autentico dello Yoga e di tutte le tradizioni spirituali d'Oriente e d'Occidente, strumento unico per conoscere se stessi e la realtà che ci circonda, al di là dei dualismi, delle concettualizzazioni, delle ideologie e dei dogmi.






Si veda anche:

http://ilcerchiosavona.blogspot.it

giovedì 15 settembre 2016

L'I Ching, la fantascienza e il Nazismo

Nel 1962 venne pubblicato negli Stati Uniti il romanzo The Man in the High Castle, di Philip K. Dick, uno dei più grandi scrittori americani di Science Fiction (SF), genere letterario noto in Italia come fantascienza ed erroneamente considerato come letteratura di serie B o per ragazzi.
Philip Dick (1928 – 1982) è molto conosciuto in Italia per i suoi romanzi e racconti tra i cultori della SF, ma è noto anche in un ambito più vasto, in quanto dai suoi scritti sono stati tratti film di un certo successo come Atto di forza e il remake Total Recall, Minority Report, Paycheck, Screamers, ed un vero capolavoro del cinema quale Blade Runner di Ridley Scott.

Philip K. Dick

The Man in the High Castle è una delle sue opere migliori (nel 1963 vinse il Premio Hugo come miglior romanzo di SF dell’anno) ed è stato più volte tradotto e pubblicato in Italia, col titolo La svastica sul sole o anche L’uomo nell’alto castello.
Si tratta di un romanzo del genere ucronico, - o anche distopico - in quanto si svolge negli anni ’60 di un’America divisa in tre parti dalle potenze uscite vincitrici dalla II Guerra Mondiale: la Germania nazista e l’impero giapponese, che dominano il mondo. L’Africa è stata distrutta da esperimenti genetici, il Terzo Reich si prepara alla conquista dello spazio e alla guerra col Giappone, i vincitori dominano il mondo con i metodi tipici del Nazismo – l’antisemitismo, i lager, la violenza poliziesca, la tecnologia – o con quelli più sottili e ambigui della civiltà giapponese – i valori culturali, l’apparente mitezza, il raffinato estetismo, l’esasperato senso della gerarchia e del rispetto. In questa storia alternativa, in un mondo da incubo, in un’America sottomessa e ormai priva di forze, si muovono i personaggi di Dick. Un operaio ebreo-americano, la sua ex moglie, un rivenditore di false antichità, un funzionario giapponese, un nazista che vuole avvertire i nipponici di un imminente attacco nucleare tedesco contro di loro, un italiano che deve uccidere uno scrittore di SF per conto della Gestapo…
Ma in realtà al centro del lavoro di Dick vi sono due libri, i veri protagonisti del romanzo: uno è The Grasshopper Lies Heavy (La cavalletta non si alzerà più, o anche La cavalletta ci opprime, secondo la traduzione di R. Rambelli), un racconto di SF di genere ucronico che si svolge in un mondo nel quale la Guerra è stata vinta dagli Americani e dai loro Alleati, scritto dal romanziere che dovrebbe essere ucciso dal killer italiano. L’altro, la cui funzione nel romanzo di Dick è ancor più fondamentale, è il famoso oracolo cinese I Ching, il cui uso è stato sottilmente imposto dai dominatori giapponesi e che viene costantemente consultato da molti dei protagonisti. Fino a scoprire che lo stesso romanzo The Grasshopper Lies Heavy è praticamente opera dell’I Ching, a cui l’autore si rivolgeva continuamente durante la stesura. Così come pare che Dick si sia veramente servito proprio dell’antichissimo testo oracolare cinese per comporre The Man in the High Castle
Ne nasce un continuo gioco di specchi, nel quale il testo di Dick (The Man...) si pone dinanzi a quello "interno" (The Grasshopper…), ma non come raffronto tra finzione e realtà: infatti nessuno dei due mondi corrisponde a quello in cui vive il lettore (nel meta-romanzo gli Americani hanno sì vinto la guerra, ma il comunismo è stato eliminato, e il mondo è diviso tra Americani e Inglesi). Si ha allora l’impressione di passare da una finzione all’altra, da un incubo all’altro, fino a che anche la realtà (o un terzo romanzo?) del lettore pare divenire a sua volta un ulteriore incubo… E se si pensa al mondo degli anni '60, con la guerra fredda, il confronto atomico, la Corea, il Vietnam...
Al di sopra di tutto, l’antico oracolo dell’I Ching che, alla domanda sul perché esso stesso avesse praticamente scritto La Cavalletta…, risponde con l’esagramma 61, Chung Fu, la Verità Interiore: “Significa che il [..] libro è vero, non è così? – Sì – [..] La Germania e il Giappone hanno perduto la guerra? – Sì”.
Il segno è composto da due linee intere sopra e due sotto, linee solide. Al centro due linee spezzate, ovvero un cuore aperto, capace di accogliere la verità. E i due segni parziali hanno al loro centro la linea intera, la forza della veracità. La verità è “terribilmente disgregatrice”, dice la protagonista femminile nelle ultime pagine, e può far incollerire. La verità del terzo romanzo, quello del lettore, la definitiva ucronia. Anch’essa opera dell’I Ching?

Ecco di seguito due brani da cui si evidenzia il ruolo dell’I Ching nello svolgimento degli avvenimenti e nelle vite dei protagonisti:

Peccato che non abbia il mio oracolo, qui, pensò Frink. Potrei consultarlo, a questo proposito; attingere ai suoi cinquemila anni di saggezza. Poi ricordò che c’era una copia di I Ching nell’atrio degli uffici della W-M. Così si allontanò dall'officina, lungo il corridoio, at­traversò frettoloso gli uffici, verso l’atrio.
Sedette in una delle poltrone di cromo e di plastica, e scrisse la sua domanda sul tergo d’una busta: - Do­vrei tentare di mettermi in affari come mi è appena sta­to consigliato? — Poi cominciò a lanciare le monete.
L’ultima linea era un sette, e così pure la seconda e la terza. Il trigramma di fondo è Ch’ien, pensò. Buon segno: Ch’ien era la creatività. Poi la linea Quattro, un otto. Yin. E la linea Cinque, un altro otto, una linea yin. Buon Dio, pensò, eccitato, un’altra linea yin e avrò l’Esagramma Undici, T’ai, Pace. Un giudizio molto favo­revole. Oppure. . . le mani gli tremarono mentre agitava le monete. Una linea yang e avrebbe ottenuto l’Esagramma Ventisei, Ta Ch’u, la Forza Dominatrice del Grande. Tutti e due sono giudizi favorevoli, e deve esse­re uno o l’altro. Lanciò le tre monete.
Yin. Un sei. Era Pace.
Aprì il libro e lesse il giudizio.
PACE. Il piccolo si allontana, Il grande si avvicina. Buona fortuna. Successo.
Quindi, dovrei fare come dice Ed McCarthy. Metter­mi in proprio. E adesso, il sei in cima, la mia unica li­nea mobile. Voltò pagina. Cosa diceva il testo? Non riusciva a ricordare; probabilmente favorevole perché 1'esagramma era così favorevole. Unione del cielo e della terra… ma la prima e l’ultima linea erano sempre fuori dall’esagramma, così forse il sei in cima…
I suoi occhi individuarono il versetto, lo lessero in un lampo.
Il muro crolla nel fossato.
Ormai non servono gli eserciti.
Fai conoscere i tuoi comandi nella tua città.
La perseveranza porta umiliazione.
Io, fallito! esclamò, pieno d'orrore. E il commento:
Il mutamento a cui allude il centro dell’esagramma ha co­minciato a verificarsi. Le mura della città crollano nel fossato dal quale sono state costruite. L'ora del giudizio finale è pros­sima. ..
Era, senza dubbio, uno dei versetti più avvilenti dell’intero libro, su tremila che ve n'erano contenuti. Eppu­re il giudizio dell’esagramma era buono.
In che cosa doveva credere?
E come potevano essere tanto diversi? Non gli era mai accaduto, prima, buona fortuna e catastrofe mesco­lati insieme nella profezia dell'oracolo; era un destino bizzarro, come se l'oracolo avesse raschiato il fondo del tino, avesse estratto dall'oscurità ogni specie di stracci, di ossa e di escrementi e poi l'avesse rovesciati in piena luce, come un cuoco impazzito. Debbo aver schiacciato due pulsanti contemporaneamente, stabili; ho confuso le parole ed ho ottenuto questa visione da schlimazl del­la realtà. Solo per un secondo, fortunatamente. Non è durato.
Al diavolo, pensò, deve essere l'uno o l'altro; non può essere l'uno e l'altro. Non si può avere contempora­neamente buona fortuna e catastrofe. O forse sì?
La produzione di gioielli porterà fortuna; il giudizio si riferisce a questo. Ma quella linea, quella linea danna­ta; si riferisce a qualcosa di più profondo, a una cata­strofe futura che probabilmente non è neppure connessa con i gioielli. C’è una disgrazia in serbo per me, in ogni caso. . .
La guerra! pensò. La Terza Guerra Mondiale! Tutti noi, due miliardi, morti, la nostra civiltà spazzata via. Bombe all’idrogeno che piovono come grandine.
Oy gewalt! [Onnipotente!] pensò. Cosa sta succedendo? Sono stato io a darvi l’avvio? O c'è qualcun altro, di mezzo, qualcu­no che io non conosco neppure? O forse… tutti noi. È colpa di quei fisici e di quella teoria del sincronismo, secondo la quale ogni particella è connessa a tutte le al­tre; non puoi soffiare senza cambiare l'equilibrio dell’universo. Questo rende la vita una barzelletta, e non hai nessuno intorno che ne ride. Io apro un libro e ottengo un rapporto sugli eventi del futuro che persino Iddio vorrebbe archiviare e dimenticare. E io chi sono? La persona sbagliata: questo posso dirlo
Dovrei prendere i miei ferri, dare retta a McCarthy, aprire il mio laboratorio, mettermi in affari, nonostante quella linea orribile. Lavorare, farmi una strada per risa­lire fino alla fine, vivere meglio che posso, più attiva­mente che posso, fino a che le mura crolleranno nel fos­sato per noi tutti, per tutta l’umanità. È questo che mi dice l’oracolo. Il fato ci annienterà in ogni caso, alla fi­ne, ma nel frattempo io ho il mio lavoro. Devo usare la mia mente, le mie mani.
Il giudizio era soltanto per me, per il mio lavoro; ma quella linea era per noi tutti. (Pag.49 segg.)


 Peccato che non abbia consultato l'oracolo; avrebbe potuto saperlo e avvertirmi. Perché non 1' ho fatto? Avrei potuto interrogarlo in qualsiasi momento, in qualsiasi posto, durante il viaggio o anche prima che partissimo. Cominciò a gemere, involontariamente; il rumore, un ululato che non aveva mai udito uscire da sé, l'inorridì, ma non riuscì a reprimerlo, sebbene serrasse con forza i denti. Era un cantilenare, un gemere orribile che le filtrava attraverso il naso.
Quando si fu fermata rimase seduta, con il motore acceso, rabbrividendo, con le mani infilate nelle tasche della pelliccia. Cristo, si disse disperata. Ecco, credo che siano le cose che capitano. Scese dalla macchina e prese la valigia del portabagagli; sul sedile posteriore della macchina, con il motore acceso, cominciò a lanciare tre monete degli Stati delle Montagne Rocciose, nel riverbero della vetrina di un emporio.
Esagramma Quarantadue, Guadagno, con linee mobili nel secondo, nel terzo e nel primo posto; e perciò cambiava nell'Esagramma Quarantatre, Superamento. Studiò famelica il testo, raccogliendo le fasi successive di significato nella sua mente, raccogliendole e comprendendole; Gesù, dipingeva esattamente la situazione. . . un miracolo, ancora una volta. Tutto ciò che era accaduto, là davanti ai suoi occhi, nitido, schematico:
Esorta
A intraprendere qualcosa.
Esorta a varcare la grande acqua.
Un viaggio, andare e fare qualcosa d'importante, non rimanere qui. Adesso le linee. Le sue labbra si mossero, cercando. . .
Dieci paia di testuggini non possono opporglisi.
Costante perseveranza porta buona fortuna.
Il re lo presenta davanti a Dio.
Ora sei nella terza. Quando lesse, si senti in preda alle vertigini.
Ci si arricchisce attraverso eventi sfortunati.
Nessun biasimo, se tu sei sincero,
E cammini nel mezzo,
E ti presenti con un sigillo al principe.
Il principe. . . significava Abendsen. Il sigillo, la copia nuova del suo libro. Eventi sfortunati. . . l'oracolo sapeva che cosa le era accaduto, la cosa spaventosa accaduta con Joe. . . o chiunque egli fosse. Lesse il sei nel quarto posto:
Se tu cammini nel mezzo
E ti presenti al principe,
Lui ti seguirà.
Devo andare là, pensò, anche se Joe mi insegue. Divorò l'ultima linea mobile, nove, in cima:
Egli non porta guadagno a nessuno.
Qualcuno lo colpisce.
Non tiene il cuore costantemente fermo.
Sfortuna.
Oh, Dio pensò; intende gli assassini, quelli della Gestapo; mi dice che Joe o qualcun altro come lui, qualcun altro, arriverà là e ucciderà Abendsen. Cercò rapidamente all'Esagramma Quarantatre. Il giudizio:
Bisogna risolutamente rendere nota la cosa
Alla corte del re.
Deve essere annunciata sinceramente. Pericolo.
È necessario avvertire la propria città.
Non esorta a ricorrere alle armi.
Esorta a intraprendere qualcosa.
Cosi è inutile ritornare in albergo e assicurarmi sul suo conto; è una situazione disperata, perché ne manderanno altri. E l'oracolo dice, con enfasi anche maggiore: Va' a Cheyenne e avverti Abendsen, per quanto sia pericoloso. Devo portargli la verità. Chiuse il volume”. (Pag. 221 segg.)



Philip K. Dick, LA SVASTICA SUL SOLE, Editrice Nord, 1977
I KING, Ed. Astrolabio



Seminario di Taijiquan









lunedì 5 settembre 2016

Ecologia dell'uomo, fine dell'uomo

Ancora sul tema dell’ecologia dell’uomo, qui di seguito una significativa riflessione di un fisico di fama internazionale, Carlo Rovelli, autore tra l’altro di un aureo libretto, le “Sette brevi lezioni di fisica”, un testo di nemmeno 100 pagine capace però di aprire degli spiragli su una visione non convenzionale della realtà. Come spesso si dice, ognuno di noi osserva il mondo attraverso una cannuccia di paglia. E’ un dato di fatto – il problema è che molto spesso scambiamo la nostra scheggia di realtà con il mondo intero, come un girino in una pozza d’acqua che crede di conoscere l’oceano. Leggere il testo di Rovelli può avere l’effetto di una felice sbadataggine: colpire quella cannuccia che teniamo vicino all’occhio e con essa pungerci un poco, quel tanto che basta per rammentarci i limiti della nostra visione e invitarci a cambiare il nostro punto di osservazione. Senza per questo credere che quello nuovo sia più completo ed esaustivo del precedente…
La riflessione di Rovelli qui riportata “chiude” la settima ed ultima lezione, e, ben lungi dall’essere apocalittica – o meglio, lo è nel senso più profondo della parola –, non fa che riportarci alla bellezza e alla preziosità della vita umana e del mistero in cui si svolge, in totale unità con ogni aspetto dell’universo.



Penso che la nostra specie non durerà a lungo. Non pare avere la stoffa delle tartarughe, che hanno continuato ad esistere simili a se stesse per centinaia di milioni di anni, centinaia di volte di più di quanto siamo esistiti noi. Apparteniamo a un genere di specie a vita breve. I nostri cugini si sono già tutti e-stinti. E noi facciamo danni. I cambiamenti climatici e ambientali che abbiamo innescato sono stati brutali e difficilmente ci risparmieranno. Per la Terra sarà un piccolo blip irrilevante, ma non credo che noi li passeremo indenni; tanto più dato che l'opinione pubblica e la politica preferiscono ignorare i pericoli che stiamo correndo e mettere la testa sotto la sabbia. Siamo forse la sola specie sulla Terra consapevole dell'inevitabilità della nostra morte individuale: temo che presto dovremmo diventare anche la specie che vedrà consapevolmente arrivare la propria fine, o quanto meno la fine della propria civiltà. Come sappiamo affrontare, più o meno bene, la nostra morte individuale, così affronteremo il crollo della nostra civiltà. Non è molto diverso. E non sarà certo la prima civiltà a crollare. I Maya e Creta ci sono già passati. Nasciamo e moriamo come nascono e muoiono le stelle, sia individualmente che collettivamente. Questa è la nostra realtà. Per noi, proprio per la sua natura effimera, la vita è preziosa. Perché, come scrive Lucrezio, “il nostro appetito di vita è vorace, la nostra sete di vita insaziabile” (De rerum natura, III, 1084). Ma immersi in questa natura che ci ha fatto e che ci porta, non siamo esseri senza casa, sospesi fra due mondi, parti solo in parte della natura, con la nostalgia di qualcosa d'altro. No: siamo a casa.
La natura è la nostra casa e nella natura siamo a casa. Questo mondo strano, variopinto e stupefacente che esploriamo, dove lo spazio si sgrana, il tempo non esiste e le cose possono non essere in alcun luogo, non è qualcosa che ci allontana da noi: è solo ciò che la nostra naturale curiosità ci mostra della nostra casa. Della trama di cui siamo fatti noi stessi. Noi siamo fatti della stessa polvere di stelle di cui sono fatte le cose e sia quando siamo immersi nel dolore sia quando ridiamo e risplende la gioia non facciamo che essere quello che non possiamo che essere: una parte del nostro mondo. Lucrezio lo dice con parole meravigliose:
... siamo tutti nati dal seme celeste;
tutti abbiamo lo stesso padre, da cui la terra, la madre che ci alimenta,
riceve limpide gocce di pioggia, e quindi produce il luminoso frumento,
e gli alberi rigogliosi, e la razza umana,
e le stirpi delle fiere, offrendo i cibi con cui tutti nutrono i corpi,
per condurre una vita dolce e generare la prole...
(II, 991-997)
Per natura amiamo e siamo onesti. E per natura vogliamo sapere di più. E continuiamo a imparare. La nostra conoscenza del mondo continua a crescere. Ci sono frontiere, dove stiamo imparando, e brucia il nostro desiderio di sapere. Sono nelle profondità più minute del tessuto dello spazio, nelle origini del cosmo, nella natura del tempo, nel fato dei buchi neri, e nel funzionamento del nostro stesso pensiero.
Qui, sul bordo di quello che sappiamo, a contatto con l'oceano di quanto non sappiamo, brillano il mistero del mondo, la bellezza del mondo, e ci lasciano senza fiato”.




Da leggere:

Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Ed. Adelphi
Carlo Rovelli, La realtà non è come ci appare, Ed. Cortina
Fritjof Capra, Il Tao della fisica, Ed. Adelphi

giovedì 1 settembre 2016

Benedetto XVI e l'ecologia dell'uomo

Ancora un testo del Pontefice Emerito Benedetto XVI. Si tratta del discorso tenuto il 22 settembre 2011 a Berlino, davanti al Parlamento Federale.
Oggetto del discorso sono i fondamenti dello Stato liberale di diritto, la natura e la ragione, e nello sviluppo dell’argomentazione Benedetto XVI tocca un tema sempre più importante, quello dell’ecologia: oikos, la casa, l’ambiente; e logos, discorso, parola, studio, ragione.
Ma ne parla in termini che non si prestano alle semplificazioni dei media e alla superficialità dei social. Benedetto XVI non è dotato di un particolare appeal mediatico, e le sue parole ben difficilmente possono diventare facili titoli da prima pagina. Per fortuna, secondo il parere di chi scrive.
Dice infatti: “Vorrei però affrontare con forza un punto che – mi pare – venga trascurato oggi come ieri: esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana”.
Una profonda riflessione - su cui meditare attentamente - sulle autentiche basi della libertà umana, che mostra come ciò che comunemente si intende per libertà non sia l’arbitrio di chi ritiene se stesso autonomo da tutto ciò che vede come altro-da-sé. È quella una falsa nozione di libertà, centrata su un ego prometeico, sui propri desideri scambiati per bisogni ineludibili. Dimenticarsene, rende arduo, forse impossibile, impegnarsi sia nelle responsabilità ai massimi livelli sia nei piccoli gesti della vita quotidiana per creare pace in se stessi e giustizia per gli altri.

Ecco il testo completo del discorso, tratto dal sito:
https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2011/september/documents/hf_ben-xvi_spe_20110922_reichstag-berlin.html


È per me un onore e una gioia parlare davanti a questa Camera alta – davanti al Parlamento della mia Patria tedesca, che si riunisce qui come rappresentanza del popolo, eletta democraticamente, per lavorare per il bene della Repubblica Federale della Germania. Vorrei ringraziare il Signor Presidente del Bundestag per il suo invito a tenere questo discorso, così come per le gentili parole di benvenuto e di apprezzamento con cui mi ha accolto. In questa ora mi rivolgo a Voi, stimati Signori e Signore – certamente anche come connazionale che si sa legato per tutta la vita alle sue origini e segue con partecipazione le vicende della Patria tedesca. Ma l’invito a tenere questo discorso è rivolto a me in quanto Papa, in quanto Vescovo di Roma, che porta la suprema responsabilità per la cristianità cattolica. Con ciò Voi riconoscete il ruolo che spetta alla Santa Sede quale partner all’interno della Comunità dei Popoli e degli Stati. In base a questa mia responsabilità internazionale vorrei proporVi alcune considerazioni sui fondamenti dello Stato liberale di diritto.
Mi si consenta di cominciare le mie riflessioni sui fondamenti del diritto con una piccola narrazione tratta dalla Sacra Scrittura. Nel Primo Libro dei Re si racconta che al giovane re Salomone, in occasione della sua intronizzazione, Dio concesse di avanzare una richiesta. Che cosa chiederà il giovane sovrano in questo momento? Successo, ricchezza, una lunga vita, l’eliminazione dei nemici? Nulla di tutto questo egli chiede. Domanda invece: “Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male” (1Re 3,9). Con questo racconto la Bibbia vuole indicarci che cosa, in definitiva, deve essere importante per un politico. Il suo criterio ultimo e la motivazione per il suo lavoro come politico non deve essere il successo e tanto meno il profitto materiale. La politica deve essere un impegno per la giustizia e creare così le condizioni di fondo per la pace. Naturalmente un politico cercherà il successo senza il quale non potrebbe mai avere la possibilità dell’azione politica effettiva. Ma il successo è subordinato al criterio della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e all’intelligenza del diritto. Il successo può essere anche una seduzione e così può aprire la strada alla contraffazione del diritto, alla distruzione della giustizia. “Togli il diritto – e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?” ha sentenziato una volta sant’Agostino [1]. Noi tedeschi sappiamo per nostra esperienza che queste parole non sono un vuoto spauracchio. Noi abbiamo sperimentato il separarsi del potere dal diritto, il porsi del potere contro il diritto, il suo calpestare il diritto, così che lo Stato era diventato lo strumento per la distruzione del diritto – era diventato una banda di briganti molto ben organizzata, che poteva minacciare il mondo intero e spingerlo sull’orlo del precipizio. Servire il diritto e combattere il dominio dell’ingiustizia è e rimane il compito fondamentale del politico. In un momento storico in cui l’uomo ha acquistato un potere finora inimmaginabile, questo compito diventa particolarmente urgente. L’uomo è in grado di distruggere il mondo. Può manipolare se stesso. Può, per così dire, creare esseri umani ed escludere altri esseri umani dall’essere uomini. Come riconosciamo che cosa è giusto? Come possiamo distinguere tra il bene e il male, tra il vero diritto e il diritto solo apparente? La richiesta salomonica resta la questione decisiva davanti alla quale l’uomo politico e la politica si trovano anche oggi.
In gran parte della materia da regolare giuridicamente, quello della maggioranza può essere un criterio sufficiente. Ma è evidente che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario non basta: nel processo di formazione del diritto, ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del proprio orientamento. Nel terzo secolo, il grande teologo Origene ha giustificato così la resistenza dei cristiani a certi ordinamenti giuridici in vigore: “Se qualcuno si trovasse presso il popolo della Scizia che ha leggi irreligiose e fosse costretto a vivere in mezzo a loro … questi senz’altro agirebbe in modo molto ragionevole se, in nome della legge della verità che presso il popolo della Scizia è appunto illegalità, insieme con altri che hanno la stessa opinione, formasse associazioni anche contro l’ordinamento in vigore…”[2]
In base a questa convinzione, i combattenti della resistenza hanno agito contro il regime nazista e contro altri regimi totalitari, rendendo così un servizio al diritto e all’intera umanità. Per queste persone era evidente in modo incontestabile che il diritto vigente, in realtà, era ingiustizia. Ma nelle decisioni di un politico democratico, la domanda su che cosa ora corrisponda alla legge della verità, che cosa sia veramente giusto e possa diventare legge non è altrettanto evidente. Ciò che in riferimento alle fondamentali questioni antropologiche sia la cosa giusta e possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé. Alla questione come si possa riconoscere ciò che veramente è giusto e servire così la giustizia nella legislazione, non è mai stato facile trovare la risposta e oggi, nell’abbondanza delle nostre conoscenze e delle nostre capacità, tale questione è diventata ancora molto più difficile.
Come si riconosce ciò che è giusto? Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio. Con ciò i teologi cristiani si sono associati ad un movimento filosofico e giuridico che si era formato sin dal secolo II a. Cr. Nella prima metà del secondo secolo precristiano si ebbe un incontro tra il diritto naturale sociale sviluppato dai filosofi stoici e autorevoli maestri del diritto romano [3]. In questo contatto è nata la cultura giuridica occidentale, che è stata ed è tuttora di un’importanza determinante per la cultura giuridica dell’umanità. Da questo legame precristiano tra diritto e filosofia parte la via che porta, attraverso il Medioevo cristiano, allo sviluppo giuridico dell’Illuminismo fino alla Dichiarazione dei Diritti umani e fino alla nostra Legge Fondamentale tedesca, con cui il nostro popolo, nel 1949, ha riconosciuto “gli inviolabili e inalienabili diritti dell'uomo come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo”.
Per lo sviluppo del diritto e per lo sviluppo dell’umanità è stato decisivo che i teologi cristiani abbiano preso posizione contro il diritto religioso, richiesto dalla fede nelle divinità, e si siano messi dalla parte della filosofia, riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro correlazione. Questa scelta l’aveva già compiuta san Paolo, quando, nella sua Lettera ai Romani, afferma: “Quando i pagani, che non hanno la Legge [la Torà di Israele], per natura agiscono secondo la Legge, essi … sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza…” (Rm 2,14s). Qui compaiono i due concetti fondamentali di natura e di coscienza, in cui “coscienza” non è altro che il “cuore docile” di Salomone, la ragione aperta al linguaggio dell’essere. Se con ciò fino all’epoca dell’Illuminismo, della Dichiarazione dei Diritti umani dopo la seconda guerra mondiale e fino alla formazione della nostra Legge Fondamentale la questione circa i fondamenti della legislazione sembrava chiarita, nell’ultimo mezzo secolo è avvenuto un drammatico cambiamento della situazione. L’idea del diritto naturale è considerata oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare, su cui non varrebbe la pena discutere al di fuori dell’ambito cattolico, così che quasi ci si vergogna di menzionarne anche soltanto il termine. Vorrei brevemente indicare come mai si sia creata questa situazione. È fondamentale anzitutto la tesi secondo cui tra l’essere e il dover essere ci sarebbe un abisso insormontabile. Dall’essere non potrebbe derivare un dovere, perché si tratterebbe di due ambiti assolutamente diversi. La base di tale opinione è la concezione positivista, oggi quasi generalmente adottata, di natura. Se si considera la natura – con le parole di Hans Kelsen – “un aggregato di dati oggettivi, congiunti gli uni agli altri quali cause ed effetti”, allora da essa realmente non può derivare alcuna indicazione che sia in qualche modo di carattere etico [4]. Una concezione positivista di natura, che comprende la natura in modo puramente funzionale, così come le scienze naturali la riconoscono, non può creare alcun ponte verso l’ethos e il diritto, ma suscitare nuovamente solo risposte funzionali. La stessa cosa, però, vale anche per la ragione in una visione positivista, che da molti è considerata come l’unica visione scientifica. In essa, ciò che non è verificabile o falsificabile non rientra nell’ambito della ragione nel senso stretto. Per questo l’ethos e la religione devono essere assegnati all’ambito del soggettivo e cadono fuori dall’ambito della ragione nel senso stretto della parola. Dove vige il dominio esclusivo della ragione positivista – e ciò è in gran parte il caso nella nostra coscienza pubblica – le fonti classiche di conoscenza dell’ethos e del diritto sono messe fuori gioco. Questa è una situazione drammatica che interessa tutti e su cui è necessaria una discussione pubblica; invitare urgentemente ad essa è un’intenzione essenziale di questo discorso.
Il Reichstag di Berlino
Il concetto positivista di natura e ragione, la visione positivista del mondo è nel suo insieme una parte grandiosa della conoscenza umana e della capacità umana, alla quale non dobbiamo assolutamente rinunciare. Ma essa stessa nel suo insieme non è una cultura che corrisponda e sia sufficiente all’essere uomini in tutta la sua ampiezza. Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi, minaccia la sua umanità. Lo dico proprio in vista dell’Europa, in cui vasti ambienti cercano di riconoscere solo il positivismo come cultura comune e come fondamento comune per la formazione del diritto, riducendo tutte le altre convinzioni e gli altri valori della nostra cultura allo stato di una sottocultura. Con ciò si pone l’Europa, di fronte alle altre culture del mondo, in una condizione di mancanza di cultura e vengono suscitate, al contempo, correnti estremiste e radicali. La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in tale mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle “risorse” di Dio, che trasformiamo in prodotti nostri. Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto.
Ma come lo si realizza? Come troviamo l’ingresso nella vastità, nell’insieme? Come può la ragione ritrovare la sua grandezza senza scivolare nell’irrazionale? Come può la natura apparire nuovamente nella sua vera profondità, nelle sue esigenze e con le sue indicazioni? Richiamo alla memoria un processo della recente storia politica, nella speranza di non essere troppo frainteso né di suscitare troppe polemiche unilaterali. Direi che la comparsa del movimento ecologico nella politica tedesca a partire dagli anni Settanta, pur non avendo forse spalancato finestre, tuttavia è stata e rimane un grido che anela all’aria fresca, un grido che non si può ignorare né accantonare, perché vi si intravede troppa irrazionalità. Persone giovani si erano rese conto che nei nostri rapporti con la natura c’è qualcosa che non va; che la materia non è soltanto un materiale per il nostro fare, ma che la terra stessa porta in sé la propria dignità e noi dobbiamo seguire le sue indicazioni. È chiaro che qui non faccio propaganda per un determinato partito politico – nulla mi è più estraneo di questo. Quando nel nostro rapporto con la realtà c’è qualcosa che non va, allora dobbiamo tutti riflettere seriamente sull’insieme e tutti siamo rinviati alla questione circa i fondamenti della nostra stessa cultura. Mi sia concesso di soffermarmi ancora un momento su questo punto. L’importanza dell’ecologia è ormai indiscussa. Dobbiamo ascoltare il linguaggio della natura e rispondervi coerentemente. Vorrei però affrontare con forza un punto che – mi pare – venga trascurato oggi come ieri: esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana.
Torniamo ai concetti fondamentali di natura e ragione da cui eravamo partiti. Il grande teorico del positivismo giuridico, Kelsen, all’età di 84 anni – nel 1965 – abbandonò il dualismo di essere e dover essere. (Mi consola il fatto che, evidentemente, a 84 anni si sia ancora in grado di pensare qualcosa di ragionevole.) Aveva detto prima che le norme possono derivare solo dalla volontà. Di conseguenza – aggiunge – la natura potrebbe racchiudere in sé delle norme solo se una volontà avesse messo in essa queste norme. Ciò, d’altra parte – dice – presupporrebbe un Dio creatore, la cui volontà si è inserita nella natura. “Discutere sulla verità di questa fede è una cosa assolutamente vana”, egli nota a proposito [5]. Lo è veramente? – vorrei domandare. È veramente privo di senso riflettere se la ragione oggettiva che si manifesta nella natura non presupponga una Ragione creativa, un Creator Spiritus?
A questo punto dovrebbe venirci in aiuto il patrimonio culturale dell’Europa. Sulla base della convinzione circa l’esistenza di un Dio creatore sono state sviluppate l’idea dei diritti umani, l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la conoscenza dell’inviolabilità della dignità umana in ogni singola persona e la consapevolezza della responsabilità degli uomini per il loro agire. Queste conoscenze della ragione costituiscono la nostra memoria culturale. Ignorarla o considerarla come mero passato sarebbe un’amputazione della nostra cultura nel suo insieme e la priverebbe della sua interezza. La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma – dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa. Nella consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio e nel riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo, questo incontro ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico.
Al giovane re Salomone, nell’ora dell’assunzione del potere, è stata concessa una sua richiesta.
Che cosa sarebbe se a noi, legislatori di oggi, venisse concesso di avanzare una richiesta? Che cosa chiederemmo? Penso che anche oggi, in ultima analisi, non potremmo desiderare altro che un cuore docile – la capacità di distinguere il bene dal male e di stabilire così un vero diritto, di servire la giustizia e la pace. Vi ringrazio per la vostra attenzione.

[1] De civitate Dei IV, 4, 1.
[2] Contra Celsum GCS Orig. 428 (Koetschau); cfr A. Fürst, Monotheismus und Monarchie. Zum
Zusammenhang von Heil und Herrschaft in der Antike. In: Theol.Phil. 81 (2006) 321 – 338;
citazione p. 336; cfr anche J. Ratzinger, Die Einheit der Nationen. Eine Vision der Kirchenväter
(Salzburg – München 1971) 60.
[3] Cfr W. Waldstein, Ins Herz geschrieben. Das Naturrecht als Fundament einer menschlichen
Gesellschaft (Augsburg 2010) 11ss; 31 – 61.
[4] Waldstein, op. cit. 15 – 21.
[5] Citato secondo Waldstein, op. cit. 19.”