giovedì 21 novembre 2019

Da Confucio a Xi Jinping


Una doverosa precisazione introduttiva: il consueto termine occidentale Confucianesimo non ha un preciso corrispettivo in lingua cinese. La parola usata in epoca Zhou (1045-256 a.C.) è rujia, che indicava quegli intellettuali (ru) che erano esperti (jia) nei rituali.
Se proprio si volesse esprimere invece il concetto di Confucianesimo quale religione – con tutte le consuete cautele del caso… – si potrebbe usare il termine rujiao, dove jiao non è però traducibile immediatamente con religione quanto piuttosto con dottrina, insegnamenti. Ciò che invece si avvicina maggiormente alla nozione occidentale di religione è il termine zongjiao, ovvero gli insegnamenti degli antenati [1].


 Quanto al nome Confucio, esso è la latinizzazione – operata dai missionari Gesuiti nel XVI secolo – del nome cinese Kongfuzi, ovvero Maestro Kong. Secondo quanto tradizionalmente riportato, Confucio nacque nel 551 a.C. nella regione di Lu (oggi nella provincia dello Shandong) in una famiglia modesta anche se di origini aristocratiche. Si impegnò ben presto nella vita politica del principato di Lu, ricoprendo incarichi amministrativi fino a divenire ministro della giustizia. Intorno ai cinquant’anni abbandonò il paese e la carriera politica, non approvando le scelte di sovrani che avevano perduto il senso del mandato del cielo (tianming).


Il mandato del Cielo
Il mandato celeste è una nozione di sovranità utilizzata per legittimare e sostenere la dinastia Zhou dopo il rovesciamento della dinastia Shang (XVIII – XVI sec. a.C.): i sovrani Shang si erano attribuiti l’appellativo di di, termine che indicava la divinità suprema che impone il suo volere (da cui shangdi, il Sovrano dall’alto), per cui il sovrano era la controparte del dio (visto come istanza ordinatrice più che creatrice) nell’ordine umano. Non vi era quindi alcun legame di parentela tra lignaggio regale e divinità: il Cielo (tian) è la fonte e il garante dell’armonia cosmica e quindi umana: in Cina ordinamento dell’universo e ordinamento della spazio umano si fondono. Ne consegue che un imperatore legittimo non necessariamente doveva appartenere a famiglie nobili.
Secondo Anne Cheng, “l’idea che il dio unico abbia la sua controparte nel sovrano universale in seno all’ordine umano [..] sarebbe rimasta alla base della prassi come del pensiero politico in Cina fino all’alba del XX secolo[2].
Il Cielo poteva altresì revocare il mandato: carestie, epidemie, alluvioni, cataclismi, apparizioni mostruose, potevano essere interpretati come segni della revoca del mandato celeste. È il concetto di mutamento del mandato (geming), che si tradurrà, nel XIX secolo, nella nozione di rivoluzione.
È ciò che accadde agli ultimi sovrani Shang, che si erano dimostrati indegni di regnare: il Cielo aveva tolto loro il mandato e aveva inviato gli Zhou per sostituirli, senza alcun problema di successione ereditaria.

Proprio sulla base della nozione di mandato celeste, Confucio perseguì la sua ricerca della Via, peregrinando per dodici anni da un reame all’altro. A sessant’anni fece ritorno a Lu, e lì rimase insegnando ai suoi discepoli e riordinando i testi che tuttora compongono il canone confuciano.
Egli stesso scrisse di sé nei Dialoghi: “A quindici anni decisi di apprendere, a trenta ero saldo sulla Via. A quaranta non avevo più dubbi. A cinquanta compresi il decreto del Cielo. A sessanta il mio orecchio era perfettamente intonato. A settanta agivo seguendo il mio cuore, senza per questo trasgredire alcuna norma[3].

Tre sono i punti cardinali dell’insegnamento di Confucio: l’apprendimento, la qualità umana, il rito.
Confucio fu essenzialmente un maestro: l’apprendimento è il cuore del suo pensiero, poiché per lui l’uomo è un essere perfettibile, tutti gli uomini sono in grado di imparare, di evolversi all’infinito. I suoi Dialoghi iniziano così: “Studiare e mettere costantemente in pratica non è una soddisfazione? Che un amico venga da luoghi lontani non è una gioia? Non esser conosciuti dagli uomini e non crucciarsene non è da Saggi?[4]. Non si tratta tanto di dottrina, di uso dell’intelletto, quanto piuttosto di esperienza di vita: lo studio è ciò che impegna l’uomo nella sua totalità. Non è solo un’educazione dai libri, è un sapere come più che un sapere cosa. Il fine è la formazione di un uomo in grado di essere al servizio della comunità in tutti i suoi aspetti: etica e politica si identificano, il servizio reso al sovrano è come il servizio reso al padre: “In casa il giovane osservi la pietà filiale, fuori casa la sottomissione fraterna[5]. E ancora: “E’ raro che un uomo filiale verso i genitori e sottomesso ai fratelli maggiori ami ribellarsi ai superiori[6].
L’uomo colto secondo Confucio deve svolgere un ruolo “politico”, in senso ampio: non tenersi in disparte, bensì adempiere al compito di impegnarsi nel processo di armonizzazione della comunità umana. 
è L’essere un uomo nobile, non per nascita, bensì divenire un uomo completo, un uomo di qualità, un uomo di valore, junzi, in contrapposizione all’uomo piccolo, l’uomo dappoco. Ecco il secondo punto cardinale della visione confuciana, la qualità umana. Apprendere è attualizzare l’umanità della persona, che non è un dato, ma una potenzialità da sviluppare, insita in chiunque.
È la nozione di ren, che Confucio riprende dal passato. Il carattere ren è composto dal radicale uomo (che si pronuncia ugualmente ren) e dal segno due (èr): ovvero, l’uomo diventa umano solo nella sua relazione con gli altri. L’io non è concepibile come una entità isolata, ma solo come punto di convergenza di relazioni interpersonali. Ren è così importante per Confucio “da non riconoscerlo praticamente a nessuno (e soprattutto non a se stesso) se non alle mitiche figure dei santi dell’antichità. Al tempo stesso, peraltro, egli lo dichiara assai prossimo: Ren è davvero inaccessibile? Desideralo con fervore ed eccolo in te[7].
Ren
 
Ren, con il numero due, èr
Coerentemente con lo stile del suo insegnamento, Confucio non fornisce una definizione esplicita di ren, per non limitarne la potenzialità, nemmeno da un punto di vista lessicale e pedagogico.
Una volta disse comunque che ren è amare gli altri. E nei Dialoghi è scritto che ren è collegato alla mansuetudine: “Mansuetudine è forse la parola chiave? Ciò che non vuoi sia fatto a te non farlo agli altri [..]. Per praticare ren occorre cominciare da se stessi: desiderare la sicurezza altrui quanto la propria, auspicare il successo altrui quanto il proprio. Attingi in te l’idea di ciò che puoi fare per gli altri – questo ti porrà sulla via di ren![8].
Anche la grafia del termine shu, mansuetudine, ne chiarisce il senso profondo: sotto è xin, il cuore; al di sopra, l’elemento che stabilisce una equivalenza tra i due termini: ovvero una relazione tra i cuori, tra sé e l’altro.
Shu, la mansuetudine

Come dissero molti filosofi della Grecia classica:
Non fare al tuo vicino quello che ti offenderebbe se fatto da lui” (Pittaco)
Evita di fare quello che rimprovereresti agli altri di fare” (Talete)
Non fare agli altri ciò che ti riempirebbe di ira se fatto a te dagli altri” (Isocrate)
Ciò che tu eviteresti di sopportare per te, cerca di non imporlo agli altri” (Epitteto)
O ciò che si legge nel Levitico, 19,18: “Ama il tuo prossimo come te stesso”.
Oppure ciò che disse il rabbino Hillel (60 a.C. – 7 d.C.): “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te: questa è tutta la Torah. Il resto è commento”.
E, naturalmente, ciò che è costantemente ripetuto nei Vangeli, dai quali non sarebbe qui possibile riportare tutte le citazioni:
Matteo, 7,12: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti”.
Luca, 6, 31: “Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”.
Luca, 10,27: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso”.
Giovanni, 15,12: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”.

Quindi attraverso il lavoro su se stessi, con l’apprendimento, l’uomo sviluppa la propria umanità nella relazione con gli altri, che si esplica nella mansuetudine e nel rispetto, mantenendo integri comunque i rapporti gerarchici esistenti: una armonica relazione tra persone gerarchicamente distinte non comporta la scomparsa della gerarchia, non fa sì che la relazione divenga un rapporto egualitario.
La natura di tale relazione è percepita da Confucio, coerentemente con la cultura cinese più antica, come rituale. Comportarsi umanamente equivale a comportarsi ritualmente. Come egli disse, il ren consiste nel “vincere il proprio io per rivolgersi ai riti”. È dunque indispensabile “un’ascesi volta a disciplinare la tendenza all’egocentrismo e ad interiorizzare ritualmente l’umanità delle proprie relazioni con gli altri[9].
Il termine che indica il rito in lingua cinese è li. Esso è composto da un elemento che rappresenta ciò che è sacro a cui si aggiungono le rappresentazioni di una minestra di cereali e di una coppa che la contiene. Nel complesso indica un vaso sacrificale, e per estensione il rituale del sacrificio. Ciò che interessa a Confucio “non è l’aspetto propriamente religioso del sacrificio alla divinità, ma l’atteggiamento rituale di colui che vi partecipa[10]. È un atteggiamento soprattutto interiore, ma che si manifesta anche esteriormente e si traduce in un comportamento formalmente controllato. Non si tratta dunque di una forma repressiva di autocontrollo e nemmeno di bellezza formale e di raffinatezza dei gesti, in quanto vi è alla base l’armonia complessiva della persona nella propria individualità e nelle sue relazioni con il mondo esterno. Forma esteriore e sincerità dell’intenzione sono in perfetto accordo, quindi non vi è qui spazio per la vacuità di molti cerimoniali dell’epoca di Confucio – e dell’attuale. 
Li, il rito
 Li, il rito, è ciò che contraddistingue l’umanità sia dell’individuo sia del gruppo cui egli appartiene: rappresenta la linea di demarcazione tra l’uomo e l’animale, nonché tra l’uomo civilizzato e il “barbaro” – che non è quindi riconducibile a fattori esclusivamente etnici.
Con il Maestro Kong la lettera è nuovamente animata dallo spirito. La sacralità del rito non è annullata, ma mantenuta e integrata con l’ambito propriamente umano. Il sacro non si identifica per lui con il culto reso alla divinità, ma con la coscienza morale individuale: in questo consiste essere fedeli alla Via, il Tao. Aderire al Tao ha il valore di decreto del Cielo, tianming, lo stesso decreto che conferiva il mandato dell’imperatore. Più volte Confucio fu minacciato di morte, ma sempre dichiarò di non avere alcun timore, poiché egli costantemente si appellava a quel mandato celeste che aveva conosciuto a cinquant’anni.

Quanto la Via confuciana si ricolleghi alla Via di cui parlava Laozi – e quanto entrambe non costituissero affatto una novità nella Cina del V secolo a.C. – è riaffermato con forza dalle parole dello stesso Confucio: “Trasmetto l’insegnamento degli antichi senza creare nulla di nuovo poiché mi sembra degno di fede e di adesione”, ed anche: “Buon maestro è colui che pur ripetendo l’antico è capace di trovarvi del nuovo[11]. Confucio (come Laozi, e come il Buddha, Gesù, Vyāsa, Dogen…) non si era dato il compito di creare qualcosa ex novo e nemmeno di modificare i principi della tradizione, bensì di trasmetterli interiorizzandoli. In questo consiste la grandezza sua e degli altri maestri della Tradizione, la quale non viene sclerotizzata in una vuota riproposizione di un modello né trasformata secondo personali reinterpretazioni, bensì costantemente rivitalizzata in base alle trasformazioni della realtà storica. In tal senso ogni Via è autenticamente universale.

Proprio su questo punto si accentrò l’attenzione del maggiore studioso occidentale della Tradizione, il francese René Guénon (1886-1951). A prima vista potrebbe parere che la Via di Laozi non abbia alcun punto di contatto con la Via del maestro Kong. Anzi, il saggio taoista sembra contrapporsi nettamente al saggio confuciano. In realtà dette Vie hanno una base comune nell’antica tradizione cinese, in particolare negli insegnamenti esposti nel Libro dei Mutamenti, il plurimillenario Yijing, che l’Occidente continua spesso a considerare come un mero testo oracolare.   
Come mostra un antico aneddoto lo stesso Confucio era consapevole della reale natura del legame esistente tra le due dottrine: un giorno i due Maestri si incontrarono, e Laozi chiese a Confucio se avesse scoperto il Tao. “L’ho cercato a ventisette anni – rispose il Maestro Kong – e non l’ho trovato”. Allora Laozi gli diede questi insegnamenti: “Il saggio ama l’oscurità, non si apre al primo venuto, studia i tempi e le circostanze. Se il momento è propizio parla, se no, tace. Colui che possiede un tesoro non lo mostra a tutti: così chi è veramente saggio non svela la sua saggezza a tutti”. Al suo ritorno Confucio affermò: “Ho visto Laozi: egli assomiglia al drago. Quanto al drago io ignoro come esso possa essere portato dai venti e dalle nubi ed elevarsi fino al cielo[12].
Secondo Guénon quindi non è corretto, relativamente a Taoismo e Confucianesimo, parlare di due dottrine in opposizione tra loro. Si tratta invece di due branche della stessa dottrina, in cui ormai stava dividendosi la tradizione estremo orientale: l’una, il Taoismo, comportante essenzialmente la metafisica pura, con una portata speculativa, conoscitiva. L’altra confinata nel dominio pratico, nella sfera delle applicazioni sociali e politiche [13]. Non a caso, nell’aneddoto citato, Confucio confermava di non aver penetrato l’aspetto più profondo della Via, la conoscenza metafisica. Quindi la sua opera doveva rimanere confinata al dominio di sua competenza, quello del particolare, del contingente. Nessuna rivalità, dunque, ma ruoli distinti e separati: in un certo senso si può dire che il punto di arrivo del Saggio confuciano coincide con il punto di partenza, nella Via evolutiva, del Saggio taoista. Non a caso in Cina “il Taoismo non ha mai avuto una diffusione molto larga e non ha mai mirato ad averla, essendosi sempre astenuto da ogni propaganda[14]. Era infatti, necessariamente, una dottrina chiusa, iniziatica, destinata ad una élite, non proponibile a chiunque né da chiunque realizzabile. Una Via interiore, a differenza della esteriorità del Confucianesimo, che costituisce una sorta di “applicazione” pratica, nella sfera del contingente e della vita ordinaria, dei principi taoisti, ai quali è necessariamente subordinata. Una distinzione questa, osserva Guénon, che non si trova invece nella tradizione indiana, nella quale “non vi è che un unico corpo di dottrina, il Brahmanesimo, comportante ad un tempo il principio e tutte le sue applicazioni[15], senza alcuna soluzione di continuità. Come probabilmente era avvenuto in Cina fino all’epoca di Laozi e Confucio.

Quale provvisoria conclusione si può cercare di gettare un fugace sguardo sulla Cina di oggi attraverso l’immagine di Confucio, o sulla dottrina di Confucio attraverso la Cina di oggi…
Anche a causa di storici fallimenti politici quali la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria degli anni ’60, gli attuali leader cinesi guardano oggi nuovamente ai principi di governo che in passato hanno consentito all’impero di rimanere sostanzialmente unito per millenni. “L’ideologia dominante all’interno del PCC si rifà sempre più a dottrine e ideali propri di sistemi di pensiero – primo fra tutti il confucianesimo – fino a poco tempo fa messi al bando perché ritenuti contrari all’edificazione di una moderna società socialista[16]. Un rivolgimento ideologico vero e proprio rispetto ai primi decenni del regime comunista, che esprime la volontà di riappropriarsi di un sistema etico-politico ritenuto nuovamente funzionale alla politica cinese, soprattutto alla politica interna. È il tentativo di innestare le “dottrine promosse da Confucio nel corpo del liberalismo economico introdotto da Deng Xiaoping e del pensiero di ispirazione marxista-leninista di Mao Zedong, a cui non s’intende in alcun modo rinunciare e di cui Xi Jinping si erge a massimo interprete e difensore[17].
Dopo la Rivoluzione Culturale lo studio delle radici culturali tradizionali si è intensificato, a partire da piccoli gruppi di intellettuali per poi diffondersi nella scuole di ogni grado, elementari comprese. Nelle università si sono tenute conferenze e convegni su Confucio, sono nati centri di studio e associazioni per diffonderne il pensiero, utilizzando anche i nuovi strumenti di comunicazione informatici. Sono stati dedicati luoghi di culto al Maestro Kong e ai maggiori discepoli, ai quali i fedeli dedicano riti e preghiere. Pare così tramontato, anche dal punto di vista “religioso”, il periodo culminato nei primi anni ’70 con milioni di cinesi che scandivano lo slogan pi Lin pi Kong, “critichiamo Lin [Biao], critichiamo Confucio[18], e indicavano nelle due figure coloro che volevano portare indietro le lancette della storia, contrastando Mao il primo e restaurando gli Zhou il secondo.
Lo stesso Xi Jinping, Segretario del PCC dal 2012, è un esempio di tale tendenza: da subito si distinse infatti per aver introdotto citazioni dai classici confuciani nei suoi discorsi ufficiali. Citazioni sempre più frequenti (più di 30 in un solo discorso, nel 2014), non a caso raccolte in un volume dal Quotidiano del Popolo, Renmin ribao, l’organo del PCC. Xi dimostra quindi, nonostante sia cresciuto in un’epoca in cui i classici erano messi al bando, una padronanza approfondita delle opere di Confucio e Mencio, ma anche di Laozi, Mozi e altri pensatori. Ma soprattutto egli sembra volersi ispirare alla figura del junzi confuciano, l’uomo esemplare per virtù e nobiltà d’animo. Colto, raffinato, retto, capace di agire in armonia con il mondo in cui vive e di trarre insegnamenti dai maestri del passato. Come diceva Confucio nei suoi Dialoghi, “chi governa tramite l’eccellenza morale può essere paragonato alla stella polare, fissa al suo posto mentre tutte le stelle attorno le rendono omaggio[19]. Questa è l’immagine che Xi Jinping pare voler dare di sé, all’interno e all’estero.
Una rinascita della Tradizione, o Kungfuzi 2.0, un nuovo brand del made in China?

Xi Jinping
 
NOTE

1) Cfr. M. Scarpari, Ritorno a Confucio, Ed. Il Mulino, p. 104 nota 1. Nell’attuale Costituzione cinese sono riconosciute cinque religioni: Taoismo, Buddhismo, Islam, Cattolicesimo, Protestantesimo. Non il Confucianesimo, in quanto è ritenuto un sistema filosofico-sociale, senza connotazioni di tipo trascendente. Cfr. id., pag. 101.
2) A. Cheng, Storia del pensiero cinese, Ed. Einaudi, vol. I, pag. 37.
3) Cit. in Cheng, pag. 48.
4) Confucio, I Dialoghi, I,1, Ed. BUR, pag. 59.
5) id., I,6, pag. 60.
6) id., I,2, pag. 59.
7) A. Cheng, pag. 53.
8) XV, 23 e VI, 28, cit. in Cheng, pag. 54.
9) Cheng, pag. 58.
10) id., pag. 59.
11) id., pag. 70.
12) Riportato in R. Guénon, Taoismo e Confucianesimo, in: La metafisica orientale, Ed. Studi Esoterici, pag. 59-60. Si rammenti Matteo 7,6: “Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi”.
13) Cfr. Guénon, pag. 60.
14) id. pag. 71.
15) id., pag. 72.
16) Scarpari, pag. 97.
17) id. pag. 98.
18) cfr. id., pag. 102.
19) cit. in Scarpari, pag. 114.

giovedì 7 novembre 2019

Azione e non-azione nel Taoismo e nell’Induismo


 Tre sono le principali dottrine tradizionali che è possibile individuare nella plurimillenaria storia della Cina:
-          il Taoismo e il Confucianesimo, che sono parte integrante della cultura cinese originaria
-          il Buddhismo, che si diffuse in Cina, provenendo dall’India del Nord e del Sud, a partire dalla metà del I secolo d.C.
Ognuna di esse sfugge alle categorie con cui in Occidente si è cercato di “definire” in qualche modo le Vie Spirituali, le Vie di Saggezza e di Liberazione, soprattutto orientali. Si parla infatti sovente di “religione” a proposito del Buddhismo, del Taoismo, del Confucianesimo, dell’Induismo, nello stesso modo in cui se ne parla per l’Ebraismo, il Cristianesimo, l’Islam. Oppure vengono definite “filosofie”, come avviene per gli insegnamenti di Aristotele, Kant, Marx o Croce.
In realtà i termini “religione” e “filosofia” sono apparsi molto più tardi nelle lingue dell’India, della Cina o del Giappone, e solo dopo che quelle civiltà erano venute in contatto con l’Occidente. Esse infatti non conoscevano, non ammettevano, la distinzione tra sapere filosofico, religioso, scientifico, sociale: le varie dottrine costituivano invece le forme, le modalità specificamente assunte dalla Conoscenza Tradizionale, di per sé unica, nel suo adattarsi alle necessità del tempo e degli ambienti.
È significativo a questo proposito il fatto che il termine Taoismo, con cui l’Occidente designa ciò di cui qui si parla, tragga la sua origine da Tao, parola della lingua cinese alla quale gli Occidentali hanno aggiunto il consueto, inflazionato, perfino irritante, suffisso –ismo, che risponde all’eurocentrico bisogno di definire, concettualizzare, categorizzare, storicizzare ciò che in realtà sfugge alle definizioni, ai concetti, alle categorie, alle storicizzazioni.
E il termine Tao (o Dao, a seconda della traslitterazione) è correttamente traducibile proprio con Via, Sentiero, nonché metodo, disciplina, dottrina, padronanza di un’arte.
Tao è traducibile, forse, ma non è comunque definibile con concetti.
È detto nei testi: “Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao, il nome che può essere nominato non è l’eterno nome”.
E ancora: “Io non conosco il suo nome, lo designo come la Via”.
Il Tao è il Principio Primo, il Sostentatore, la Meta. È l’Assoluto privo di origine che di tutto è l’Origine. È la Realtà Ultima nella sua totalità, è privo di connotazioni antropologiche. È trascendente, ma anche immanente, poiché è il corso naturale delle cose: è la Via, ed è anche le vie, nella loro specificità. 
L’ideogramma Tao può aiutare a comprendere quanto si è detto:



Esso è composto da due parti: una, chuò (camminare), raffigura un piede che lascia delle orme:

.

L’altra parte, shou (testa), è a sua volta composta da due elementi. Il primo è (occhio), ovvero ciò che rende riconoscibile un volto, la consapevolezza di sé:


Il secondo, sulla sommità, è composto da due segni che richiamano delle ciocche di capelli raccolti sul capo, così come erano portati da persone di alto rango:
.

L’insieme raffigura quindi una persona che ha piena consapevolezza di sé (mostra il suo volto) e cammina speditamente sulla strada che ha scelto, lasciando delle tracce per chi intende seguire lo stesso sentiero.

Il Taoista è quindi colui che studia, pratica, percorre la Via del Tao, incamminandosi verso l’Origine, verso l’Armonia con la Sorgente del Tutto. In tal senso il Tao costituisce sia il cammino sia la meta.
Innumerevoli sono gli aspetti della dottrina taoista, le cui origini vengono fatte storicamente risalire al VI-V secolo a.C., ma in realtà quella è l’epoca in cui essa fu sistematizzata, codificata. Nel Taoismo si ritrovano infatti elementi dello sciamanesimo, delle tradizioni alchemiche, del simbolismo cosmologico del Libro dei Mutamenti (Yijing) e molti altri ancora, ovvero insegnamenti e pratiche che risalgono a quella che in Occidente, in mancanza di “documenti”, si è soliti chiamare pre-istoria.
Secondo quanto scrive Vincenzo di Ieso, (Li Xuanzong), responsabile della Chiesa Taoista d’Italia, i principi fondamentali del Taoismo, in estrema sintesi, sono l’Unità del Tutto, l’Armonia, il Mutamento, la Spontaneità, la Non-interferenza (www.daoitaly.org).

Non è ovviamente possibile in questa sede esaminarli tutti, per cui, ben consapevoli del fatto che essi sono profondamente interdipendenti, ci si limiterà a qualche breve considerazione sulla nozione di non-interferenza, ovvero il non-agire, in cinese wu wei.
Il testo in cui la modalità del non-agire è esposta è l’opera fondamentale del Taoismo, il Daodejing (Tao Te Ching), il Libro del Tao e della sua Virtù, dove jing (ching, king) indica un testo classico o a contenuto religioso, e de (te) è generalmente tradotto con Virtù, parola che qui non ha (solo) una valenza etica, bensì designa piuttosto il potere, la potenzialità del Tao.
Il Daodejing è tradizionalmente attribuito a Laozi (Lao Tzu, Lao Tse), una figura di cui non si sa quasi nulla, se non che fu probabilmente   un contemporaneo più anziano di Confucio (551 - 479 a.C.).
Il Tao, secondo il Daodejing, si attua mediante il non-agire (wu wei), ovvero l’agire che è non-agire (wei wu wei). Agire secondo il Tao, ovvero l’agire del Saggio, significa non cercare di trasformare il mondo, bensì essere ricettivo nei confronti delle leggi che ne guidano la trasformazione, non sforzarsi, essere spontaneo, e quindi in perfetta armonia col mondo.
Secondo Laozi il modo migliore di agire, a maggior ragione quando il Tao declina e si manifestano epoche di violenza, di confusione, di disgregazione dell’ordine cosmico, sociale ed umano, è non-agire, in quanto la forza finisce sempre per ritorcersi contro se stessa.
È detto nel Daodejing (64): “Chi opera fallisce / chi afferra perde / per questo il Saggio / non opera perciò non fallisce / non afferra perciò non perde / quando il volgare fa delle cose / sempre fallisce all’ultimo momento”. La violenza viene assorbita, quindi l’aggressione diviene inutile.
Si tratta di un paradosso, soltanto apparente, che Laozi spiega ricorrendo ad una metafora molto comune nel pensiero cinese: l’acqua. Un elemento umile, che riesce però ad avere la meglio su materiali più solidi non resistendo ad essi. Come il Tao, anche l’acqua scaturisce da una unica fonte, per poi manifestarsi in innumerevoli forme. È inafferrabile, in perenne mutamento, si adatta ad ogni situazione. Scorre sempre verso il basso, favorisce la vita, ed è perciò simbolo dell’energia Yin, il femminile, che conquista lo Yang. Ciò che è debole prevale sul forte: “Nel mondo non c’è cosa più molle e debole dell’acqua / eppure attacca il duro e il forte / nessuno può vincerla / nessuna cosa può sostituirla / il debole vince il forte / il molle vince il duro / nel mondo tutti lo sanno / ma non possono praticarlo” (78).
Nel famoso testo L’Arte della Guerra di Sunzi (Sun Tzu, V – IV sec. a.C.) si legge: “La disposizione delle truppe è a somiglianza dell’acqua. Come l’acqua tende ad evitare ogni altezza per scorrere verso il basso, così le truppe tenderanno ad evitare i punti forti del nemico per attaccarne i punti deboli; come l’acqua determina il suo corso in funzione del terreno così le truppe determinano le loro strategie vittoriose in funzione del nemico”. Come il Saggio di Laozi, così secondo Sunzi “il più grande condottiero è colui che vince senza combattere”, ma non – si badi – colui che rinuncia al combattimento.
Ugualmente, il non-agire è alla base delle arti marziali cinesi (wu shu, dove wu è guerra, shu è arte, metodo) che si diffusero in tutto l’Estremo Oriente (il famoso judo, ad esempio, è la lettura giapponese del termine ruodao, la Via del molle…): colui che usa la forza è già per questo in una posizione di inferiorità, poiché la sua stessa forza si ritorcerà contro di lui.
La nozione di wu wei costituisce anche il fondamento della riflessione e dell’azione politica: agire secondo il Tao, agire nel non-agire, permette di mantenere ordine ed equilibrio tra gli uomini e le istituzioni.
È detto nel Daodejing (3): “Se non si esaltano gli uomini di talento, si ottiene che il popolo non lotti. / Se non si dà valore ai beni difficili da ottenere, si ottiene che il popolo non rubi. / Se non gli si mostra ciò che potrebbe bramare, si ottiene che il cuore del popolo non sia turbato. / Ecco per quale ragione il Santo, nella sua opera di governo, svuota il cuore (degli uomini) e riempie il loro ventre, indebolisce la loro volontà e rafforza le loro ossa, in modo da ottenere che il popolo sia costantemente ignaro e senza desideri, e che coloro che sanno non osino agire. Egli pratica il Non-agire, e in questo caso non c'è nulla che non sia ben governato”.
E ancora: “Un paese si governa con la dirittura / Una guerra si conduce con gli espedienti / Ma è con il non-fare che si conquista il mondo / Come lo so? / Da questo: / Quanto più regnano al mondo divieti e proibizioni / Tanto più il popolo s’impoverisce. / Quanto più il popolo possiede armi taglienti / Tanto più imperversa il disordine nel paese / Più abbondano sagacia e destrezza / E più ne risultano stravaganti oggetti / Più si moltiplicano leggi e decreti / E più abbondano ladri e banditi / Perciò il Santo dice: / Se pratico il non-agire, da sé il popolo si trasformerà / Se amo la quiete, da sé il popolo si correggerà / Se sto senza far nulla, da sé il popolo si arricchirà / Se sto senza desideri, da sé il popolo tornerà alla semplicità” (57).
Anche il ritualismo di Confucio trovò solide basi nel wu wei taoista. Come è scritto nei Dialoghi, “il Maestro disse: Chi meglio di Shun seppe governare tramite il non-agire? Gli bastava, per far regnare la pace, star seduto in tutta la sua maestà col viso rivolto a mezzogiorno.
Colui che governa tramite il suo solo potere morale [de, te] è come la stella polare, immobile sul suo asse, ma centro d’attrazione per ogni pianeta”.

Il non-agire vince quindi per attrazione, per assorbimento, non per costrizione, in quanto si fonda sull’armonia, sulle qualità dell’essere anziché su quelle dell’avere o del fare.
Non si tratta affatto di superiorità etica, non è la rivincita del mite nei confronti del violento, della vittima verso il carnefice. E neppure è l’astuzia di Ulisse contro Polifemo o l’abilità di Davide contro Golia.
E nemmeno – punto che deve essere chiaro – si tratta di non fare nulla, di passività, men che meno di rassegnazione. Non-agire è essere in armonia con l’Universo, in modo tale che il Te (la potenza) del Tao possa manifestare la sua efficacia.
Il Saggio, dice Laozi, “si occupa del non-agire / pratica l’insegnamento senza parlare / lascia sviluppare gli esseri senza ostacolarli” (2). In un’altra versione: egli “si applica a non studiare e torna al punto che tutti oltrepassano. / Così egli sostiene il corso naturale dei diecimila esseri senza osare agire”.
Non-agire significa in ultima analisi astenersi dalle azioni intenzionali, dirette, che si fondano sull’attaccamento e generano ulteriore attaccamento, che si oppongono alla spontaneità, alla natura originaria dell’essere.
Si legga il Daodejing (28):
Riconosci in te ciò che è maschile / Ma attieniti a ciò che è femminile / Fatti burrone del mondo / Essere burrone del mondo / E’ unirsi alla Virtù costante / E’ tornare alla prima infanzia. / Riconosci in te il bianco / Ma attieniti al nero / Fatti norma del mondo / Essere norma del mondo / E’ partecipare della Virtù costante / E’ tornare al senza-limiti. / Riconosci in te la gloria / Ma attieniti all'oscurità / Fatti valle del mondo / Essere valle del mondo / E’ avere in abbondanza la Virtù costante / E’ tornare alla semplicità del legno grezzo. / Il blocco della semplicità originaria / Viene intagliato in utensili / Ma il Santo è il blocco integro e intatto / Ch'egli adotta come ministro / Poiché il Maestro dell'Arte si guarda dal tagliare”.
Come si nota Laozi preferisce il femminile al maschile, il bianco al nero, l’oscurità alla luminosità, il debole al forte. Ma non esclude il maschile, il forte ecc. Gli elementi che compongono le coppie degli opposti (a partire dalla coppia fondamentale Yin/Yang) non hanno un carattere esclusivo, sono invece complementari, questo perché il loro rapporto non è di tipo logico (aut-aut), bensì organico, relazionale (et-et), secondo un modello ciclico tipico della culture tradizionali e particolarmente evidente in Oriente.
Si è detto che la nozione di wu wei – assolutamente centrale nel Taoismo – può essere confusa con un atteggiamento passivo nei confronti della vita. Questa erronea visione è tipica dell’Occidente, l’Occidente della modernità, rivolto esclusivamente verso l’azione esteriore, la trasformazione del mondo, la produzione (oggettivazione-alienazione) di beni/merci, gli aspetti quantitativi, numericamente misurabili, della realtà.
Ma wu wei non è inazione, inerzia, quietismo. Lo comprese molto bene lo studioso francese della Tradizione René Guénon (1886 – 1951), che dedicò al Taoismo molte pagine delle sue opere. E lo ribadì ulteriormente in un articolo pubblicato postumo, Contro il “quietismo”. Qui egli affermò che “gli orientalisti non comprendono affatto il vero significato” del non-agire. Esso costituisce, contrariamente alla vulgata, “l’attività suprema, e questo perché esso è il più possibile distante dalla sfera dell’azione esteriore, ed è totalmente affrancato da tutte le limitazioni che a quest’ultima sono imposte dalla sua stessa natura [..]. È ovvio che il non- agire [..] implica, per colui che è giunto ad esso, un perfetto distacco non solo nei confronti dell’azione esteriore, ma anche nei confronti di ogni altra cosa contingente, e ciò perché un essere simile si pone al centro stesso della ‘ruota cosmica’, mentre le cose appartengono soltanto alla sua circonferenza”.
Il Saggio taoista è il vuoto al centro della ruota, il motore immobile di Aristotele.
Per Guénon dunque l’autentica forma dell’attività umana è il non-agire, l’attività spirituale, ovvero la contemplazione, ciò che agli occhi della mentalità occidentale risulta essere una attività inutile, una forma di oziosità che non “produce” alcuna ricchezza, che non accresce alcun PIL.

Le parole di Guénon rinviano immediatamente all’India tradizionale, che ugualmente attribuisce all’attività interiore, alla spiritualità, alla contemplazione, un ruolo superiore rispetto all’azione esteriore, che si svolge in un ambito puramente corporeo, fisico. Non a caso si parla in Occidente di passività, di inerzia, di inazione – gli stessi termini usati per il wu wei taoista - anche a proposito della pratica dello Yoga (ovviamente si fa qui riferimento all’autentico Yoga, non certo a quello proposto quasi sempre nelle metropoli occidentali).
Il nesso tra il wu wei taoista e l’agire secondo la dottrina induista fu colto anche dal grande orientalista italiano Giuseppe Tucci (1894 – 1984), che nella sua Apologia del Taoismo del 1924 scrisse: “L’azione – come dice la Bhagavadgītā, affermando un principio non del tutto dissimile da quello taoista, non può sopprimersi per il fatto semplicissimo che la vita stessa è azione”. L’approccio di Tucci è in parte diverso da quello di Guénon, soprattutto per il significato attribuito al termine azione, che Guénon distingue da attività, ma significativo è il rimando al mondo induista, e specificamente al testo che ne mostra l’essenza, la Bhagavadgītā citata da Tucci. Vediamolo più da vicino.
La Bhagavadgītā, il Canto del Beato, è un’opera in lingua sanscrita di circa 700 strofe, ed è parte integrante, il cuore stesso, dell’immensa epopea indiana del Mahābhārata, il più grande poema dell’umanità.
Secondo molti studiosi la Gītā fu composta nel II secolo a.C., ma Sarvepalli Radhakrishnan ne anticipa la redazione al V secolo, all’incirca l’epoca di Laozi, di Confucio, del Buddha, di Socrate.
Se il termine Yoga viene inteso nel suo corretto significato quale meta di una Via di Conoscenza e di Liberazione e nello stesso tempo come insieme dei metodi e delle applicazioni che a tale meta possono condurre, la Gītā, come afferma Radhakrishnan, “fornisce uno yogaśāstra [disciplina] comprensivo, ampio, elastico e multilaterale e che include varie fasi dello sviluppo e dell’ascesa dell’anima verso il divino. I vari yoga sono applicazioni particolari della disciplina interiore che mena alla liberazione dell’anima e ad un nuovo modo di intendere l’unità e il significato dell’essere uomo. Qualsiasi cosa si riferisca ad una siffatta disciplina prende il nome di yoga, come lo jñāna yoga o via della conoscenza, il bhakti yoga o via devozionale, il karma yoga o via dell’azione” (in sanscrito karma mārga).
Dal punto di vista letterario la Gītā è un dialogo tra due figure: Arjuna, il grande guerriero che è alla guida di uno dei due eserciti schierati in attesa della battaglia decisiva per le sorti del mondo – e Kṛṣṇa, Auriga del carro di Arjuna, suo Amico e Maestro Spirituale, ma che è in realtà l’incarnazione del Divino, la Persona Suprema, la Verità immutabile che sta dietro a tutte le apparenza e che si manifesta per rendere accessibile agli uomini la Conoscenza Suprema.
Nel primo capitolo della Gītā Arjuna, scorgendo in entrambi gli eserciti contrapposti molti suoi familiari, parenti, amici, compagni, esita a dare il segnale della battaglia, scende dal carro e manifesta a Kṛṣṇa i suoi dubbi e i suoi timori. Nonostante sia un principe del varṇa (casta) degli Kṣatriya, i guerrieri, egli è in preda allo sgomento, non distingue più una valida norma dell’agire:
Arjuna disse: Caro Kṛṣṇa, nel vedere i miei amici e parenti schierati davanti a me con spirito bellicoso, sento le mie membra tremare e la mia bocca seccarsi. Tutto il mio corpo rabbrividisce e i miei capelli si rizzano. Il mio arco Gāṇḍiva mi scivola dalle mani e la pelle mi brucia. O uccisore del demone Keśī, non posso più restare qui. Non sono più padrone di me, e la mia mente si smarrisce. Prevedo solo avvenimenti funesti. Non vedo che cosa posso portare di buono l’uccisione dei miei parenti in questa battaglia; mio caro Kṛṣṇa, non potrei neppure desiderare un’eventuale vittoria, il regno o la felicità” (I, 28-31).
Kṛṣṇa, l’Auriga, il Maestro Supremo, inizia allora a guidare Arjuna esponendogli le Vie dello Yoga, fino al conseguimento di quella condizione superiore che il discepolo in realtà già possiede dentro di sé.
Il problema che Arjuna si pone – perché tutti gli uomini lo pongano a se stessi – è se sia miglior cosa agire o rinunciare all’azione, ritirarsi dal mondo. Ciò che Kṛṣṇa gli propone in risposta è la necessità dell’azione, di una vita attiva nel mondo, fondata però sulla vita interiore, in indissolubile unione con lo Spirito Eterno. L’azione, secondo la Gītā è ciò che l’uomo è tenuto a compiere, non solo perché è un essere sociale, ma in quanto individuo destinato alla realizzazione spirituale. Astenersi dall’azione è impossibile. Kṛṣṇa non sta affatto difendendo l’opportunità della guerra. La guerra, che proprio Kṛṣṇa – come racconta il Mahābhārata – non era riuscito ad evitare nonostante tutti i suoi sforzi, rappresenta qui l’occasione che Egli, quale Divino Maestro, utilizza per far comprendere in che modo, con quale spirito, ogni opera, anche la guerra, debba essere compiuta.
L’esitazione di Arjuna, il quale peraltro aveva già affrontato innumerevoli battaglie, non è dovuta ad una scelta etica di non-violenza, non è il frutto di una evoluzione spirituale, ma al contrario è causata dall’ignoranza, dall’offuscamento determinato dagli attaccamenti. Egli stesso ne è consapevole: “Ora sono confuso, non so più qual è il mio dovere e ho perso la calma a causa di una debolezza meschina” (II, 7). E Kṛṣṇa conferma quale sia la causa: “Non si deve mai rinunciare al dovere prescritto. Se, nell’illusione, l’uomo abbandona il dovere prescritto, la sua rinuncia è sotto l’influenza dell’ignoranza” (XVIII, 7).
Agire, quindi, ma la qualità dell’azione è di fondamentale importanza: Kṛṣṇa esorta Arjuna a combattere senza passione e malanimo, senza odio né collera. Lottare contro il male spinti dall’avversione porta ad una sicura sconfitta. L’agire con animo devoto e sincero, senza attaccamento nei confronti dei risultati, con una attitudine mentale di distacco significa camminare sulla Via della evoluzione interiore.
L’azione deve essere conseguente alla propria natura. È questo un punto imprescindibile per comprendere come la radice delle due concezioni, il non-agire taoista e l’azione secondo la Gītā, sia la medesima: Arjuna, precisa Radhakrishnan, “è un capo famiglia, che appartiene alla casta dei guerrieri, parla tuttavia come un saṃnyāsin, e non perché si sia elevato allo stadio della pura profonda mancanza di passioni e dell’amore per l’umanità, ma perché si fa prendere da una compassione falsa. Ciascuno deve svilupparsi ed elevarsi a partire dal punto nel quale si trova”.
Questo è infatti l’insegnamento della Gītā, nella sezione conclusiva dell’opera: “Nessuno, né sulla Terra né tra gli esseri celesti, sui pianeti superiori, è libero dalle tre influenze della natura materiale. Brāhmaṇa, kṣatriya, vaiśya e śūdra si distinguono per le qualità che mani­festano nell'azione, o vincitore dei nemici, secondo le tre influenze della natura materiale. Serenità, controllo di sé, austerità, purezza, tolleranza, onestà, saggezza, conoscenza e pietà sono le qualità che accompagnano l'attività del brāhmaṇa. Eroismo, potenza, determinazione, ingegnosità, coraggio in battaglia, generosità e arte di governare sono le qualità che accompagnano le attività dello kṣatriya. La tendenza a coltivare la terra, ad allevare il bestiame e a commerciare sono legate all'attività del vaiśya. Il śūdra, invece, serve gli altri col suo la­voro. Seguendo, nelle sue attività, la propria natura, ogni uomo può diventare perfetto. Ascolta ora, ti prego, come si giunge a questo. Adorando il Signore, che è la fonte di tutti gli esseri ed è onnipresente, l'uomo può, compiendo il proprio dovere, raggiungere la perfezione. È meglio compiere il proprio dovere, anche se in modo imperfetto, che accettare il dovere di un altro e compierlo perfettamente. Eseguendo i doveri prescritti secondo la propria natura non s'incorre mai nel peccato” (XVIII, 40-47).
Agire in armonia con il Dharma, con il Tao, quindi con il cosmo, è agire nella modalità dell’essere e non in quella del fare, dell’avere. È ciò che consente il perfetto equilibrio tra tutti gli esseri, tra tutti gli elementi dell’Universo. L’alternativa è il caos, il disordine tra gli individui e nelle comunità, la rovina dei mondi: Kṛṣṇa stesso compie i doveri prescritti, pur non mancando di nulla e non essendovi alcun dovere prescritto per lui, in quanto Persona Divina (III, 22). “Se mi astenessi dal compiere i doveri prescritti – Egli afferma – tutti questi mondi andrebbero in rovina”, turbando così la pace degli esseri (III, 24).
Ovvero, come annota Radhakrishnan, la vita dell’uomo e la vita divina non sono termini in opposizione tra loro, non vi è separazione, ma solo l’illusione della separazione.
Non è dunque possibile non agire, ma mentre “l’ignorante compie il suo dovere con attaccamento al risultato, così anche il saggio agisce, ma senza attaccamento” (III, 25). Ciononostante il saggio non deve sconvolgere la mente degli ignoranti attaccati all’azione interessata, non deve incoraggiarli ad astenersi dall’azione, ma ad agire con spirito di devozione (III, 26).
In tal modo – come Arjuna giunge infine a comprendere – viene superata la dicotomia tra vittoria e sconfitta, tra successo e insuccesso, tra attaccamento e avversione. L’uomo ideale della Gītā va al di là degli estremi del quietismo e dell’azione compiuta in vista dei frutti del molteplice mondano. Egli compie le opere senza trasformarle in effetti. Fine dell’azione è il perfezionamento dell’individuo. In tal modo secondo la Gītā il karma yoga ha il suo culmine nel conseguimento della Conoscenza Superiore. Infatti esso non è separato da jñāna yoga e da bhakti yoga: la Gītā, scrive Radhakrishnan, “insiste sull’unità della vita dello spirito, che non può essere risolta nel sapere filosofico, nell’amore devoto o nell’azione strenua. L’opera, la conoscenza e la devozione sono complementari, tanto quando andiamo ancora alla ricerca del fine, come quando lo abbiamo raggiunto”.

Una citazione finale, quale spunto di riflessione per l’uomo occidentale, anche se ormai irrimediabilmente avviluppato nelle modalità del fare e dell’avere:
“Mentre erano in cammino, [Gesù] entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: ‘Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti’. Ma Gesù le rispose: ‘Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta’.” (Lc 10, 38-42)


Testi utilizzati

Il Tao Te King, Ed. Laterza
Tao tē ching, Ed. Adelphi
A. Cheng, Storia del pensiero cinese, Ed. Einaudi
P. Filippani Ronconi, Storia del pensiero cinese, Ed. Boringhieri
R. Guénon, Contro il “quietismo”, in Iniziazione e realizzazione spirituale, Ed. Luni
G. Tucci, Apologia del Taoismo, Ed. Luni
S. Radhakrishnan, Bhagavadgītā, Ed. Ubaldini
La Bhagavadgītā così com’è, Ed. Bhaktivedanta