lunedì 29 dicembre 2014

I Nove Sutra sulla pace di Raimon Panikkar

In occasione della fine di un anno caratterizzato non solo dalle difficoltà economiche di molti, ma soprattutto dal proliferare a livello individuale, sociale, politico, di una cultura della violenza, della discriminazione, del razzismo, dell'egoismo,  pubblico qui, quale proposta di riflessione per il prossimo 2015, un breve scritto del 2002 – ma di assoluta attualità – di Raimon Panikkar, sacerdote cattolico, filosofo, teologo e scrittore spagnolo, di cultura indiana e catalana, il quale dedicò gran parte della sua vita e dei suoi studi al dialogo interreligioso.
Il brano è tratto dal volume Pace e interculturalità, edito da Jaca Book, ed è stato pubblicato nel 2003 dalla rivista Mondialità dei Missionari Saveriani di Parma.

Raimon Panikkar (1918 - 2010)
1. La pace è partecipazione all'armonia del ritmo dell'Essere. La pace non altera il ritmo della realtà. Non è statica, né dinamica. Non è nemmeno un movimento dialettico. E non significa assenza di forze o di polarità. L'Essere è ritmico, è ritmo, integrazione a-dualista del movimento e del riposo. La cultura tecnocratica occidentale, coltivando l'accelerazione, ha sconvolto i ritmi naturali: è senza pace.

2. E' difficile vivere senza pace esterna; impossibile senza pace interna. Ogni giorno, dopo l'ultima guerra mondiale, mille persone muoiono vittime della guerra. In tutto il mondo vi sono milioni di profughi, bambini nelle strade e persone che muoiono di fame. Non si deve minimizzare questa degradazione umana della nostra razza. Ma se la pace interna sussiste c'è ancora speranza. D'altronde non si può godere di una pace interna se il nostro ambiente umano ed ecologico è vittima di violenze e di ingiustizie. In tal caso la pace interna è un'illusione. E nessun autentico saggio (da Buddha a Cristo) si rinchiude nell'egoismo e nell'autosufficienza.

3. La pace: non la si conquista per se stessi, né la si impone agli altri. È dono dello Spirito. La pace non proviene né da spiritualità masochiste, né da pedagogie sadiche. I regimi imposti non fondano la pace per chi li riceve: bambino, povero, famiglia o nazione che sia. A noi manca l'atteggiamento più femminile del ricevente. La natura della pace è d’essere grazia, dono. È frutto di una rivelazione: dell'amore, di Dio, della bellezza della realtà, è esistenza della provvidenza, bontà della creazione, speranza, giustizia. È Gabe e Aufgabe, dono e responsabilità.

4. La vittoria ottenuta con la sconfitta violenta del nemico non conduce mai alla pace. La maggior parte delle guerre ha trovato giustificazione come risposta a trattati di pace anteriori. I vinti riappaiono ed esigono ciò che è stato loro rifiutato. La stessa repressione del male non ha risultati durevoli. La pace non è il risultato di un processo dialettico del bene contro il male. Il giovane rabbino di Nazaret invitava a far crescere insieme grano e zizzania. La pace fugge il campo dei vittoriosi (Simone Weil). La vittoria è sempre sulle persone; e le persone non sono mai assolutamente cattive.

5. Il disarmo militare richiede un disarmo culturale. La civiltà occidentale ha sviluppato un arsenale di armamenti, qualitativamente e quantitativamente; deve esservi un che di inerente a questa cultura: spirito di competizione, soggettività, tendenza a trascurare il campo dei sentimenti, senso di superiorità, di universalità, ecc.. Il fatto che i discorsi [per la pace, nella civiltà occidentale] si concentrino sulla distruzione degli armamenti, senza prestare attenzione alle questioni più fondamentali, costituisce un esempio di questo stato spirituale. Allora il disarmo culturale - prerequisito per la pace - è difficile almeno come quello militare. Implica una critica alla cultura e un approccio autenticamente interculturale.

6. Nessuna cultura, religione o tradizione può risolvere isolatamente i problemi del nostro mondo. Oggi nessuna religione potrebbe fornire risposte universali (se non altro perché le domande non sono le stesse). Purtroppo nel momento in cui gran parte delle religioni tradizionali tendono a deporre il manto dell'imperialismo, del colonialismo e dell'universalismo, la cosiddetta visione "scientifica" del mondo sembra raccogliere l'eredità culturale di questi atteggiamenti. Qui bisognerebbe citare la parola pluralismo.

7. La pace appartiene principalmente all'ordine del mythos, non del logos. Shalom, pax, eirene, salam, Friede, shanti, ping-an...: la Pace è polisemica; ha numerosi significati. La mia nozione di pace può non essere pacifica per qualcun altro. La pace non è sinonimo di pacifismo. E un mito, qualcosa in cui si crede in quanto dato. Ma non è irrazionale, anzi rende intelligibile l'atto di intendere. Un tempo la pace veniva firmata in nome di Dio; nella nostra epoca la pace sembra un mito unificante emergente ed è anche in suo nome che si fa guerra. Il mythos non dev'essere separato dal logos, ma i due non dovrebbero venire identificati.

8. La religione, via verso la pace. La religione è stata sempre considerata in passato come via di salvezza. Perciò le religioni erano fattori di pace interiore per i propri adepti e di guerre per gli altri. È un fatto che gran parte delle guerre nel mondo sono state guerre religiose. Oggi siamo testimoni di una trasformazione della nozione stessa di religione: le religioni sono modi di raggiungere la pace (non significa ridurle ad un unico denominatore). E la strada per la pace è rivoluzionaria: esige l'eliminazione dell'ingiustizia, dell'egoismo e della cupidigia.

9. Perdono, riconciliazione, dialogo: solo essi conducono alla pace. Punizione, indennizzo, restituzione, riparazione e cose simili non portano alla pace, non spezzano la legge del karma. Credere che ristabilire l'ordine spezzato risolva la situazione è un modo di pensare grossolano, meccanicistico e immaturo. L'innocenza perduta esige la redenzione e non il sogno di una paradiso ritrovato. La via verso la pace è in avanti e non indietro. La storia umana esige perdono. Per perdonare ci vuole una forza che vada oltre l'ordine meccanico di azione-reazione, ci vuole lo Spirito Santo, Amore pilastro dell'universo. 




Per saperne di più:


giovedì 18 dicembre 2014

Rinascita?

In questo testo del 1987 il Ven. Bhikku Bodhi (Jeffrey Block, monaco Theravada di origine statunitense) svolge una interessante riflessione sul tema dell'importanza della dottrina della rinascita in relazione alla pratica del Dharma, in particolare in Occidente,
Una riflessione che definirei "sul filo del rasoio", tra la tentazione di trasformare il Dharma in una pratica di benessere (il "materialismo spirituale") e il rischio di voler aderire ad ogni costo ad una "ortodossia buddhista" che nulla ha a che vedere con l'autentico insegnamento del Buddha.




Dhamma Senza Rinascita?
di
Bhikku Bodhi

Copyright © 1987 Buddhist Publication Society. Solo per distribuzione gratuita

"Seguendo l'importanza che si avverte oggi di un insegnamento religioso che abbia rilevanza personale e che sia direttamente verificabile, in certi circoli di Dhamma la dottrina della rinascita di antica pratica è divenuta oggetto di un consistente riesame. Sebbene solo pochi pensatori buddhisti contemporanei siano tanto audaci da proporre che questa dottrina sia scartata in quanto "non scientifica", un'altra opinione sta acquistando consensi nel ritenere che il fatto che la rinascita sia o no un fatto reale, questa dottrina non ha un valore essenziale per quanto riguarda la pratica del Dhamma e quindi non può arrogarsi una collocazione certa tra gli insegnamenti buddhisti. Il Dhamma, si dice, tratta solo del "qui e adesso", dell'aiutarci a risolvere le nostre difficoltà con una crescente auto-consapevolezza ed onestà interiore. Tutto il resto del Buddhismo possiamo tralasciare quali orpelli di una cultura antica completamente inappropriata al Dhamma della nostra era tecnologica.
Bhikku Bodhi
Se per un momento mettiamo da parte le nostre inclinazioni personali e invece facciamo riferimento direttamente ai testi originali, incappiamo nell'indiscutibile fatto che lo stesso Buddha insegnava la rinascita e la insegnava quale un principio basilare della sua dottrina. Visti nella loro totalità i discorsi del Buddha ci mostrano che, ben al di là dall'essere una semplice concessione alle credenze prevalenti al suo tempo o un'invenzione della cultura asiatica, la dottrina della rinascita ha un impatto formidabile sull'intero percorso della pratica del Dhamma, influenzando sia la meta con la quale si intraprende la pratica sia la motivazione con la quale la si continua verso il suo naturale completamento.
Lo scopo del cammino Buddhista è la liberazione dalla sofferenza, e il Buddha esprime con grande chiarezza il concetto che la sofferenza dalla quale necessitiamo una liberazione è la sofferenza del legame al samsara, il ciclo delle ripetute nascite e morti. In verità, il Dhamma non si presenta in un modo tale da essere direttamente visibile e personalmente verificabile. Tramite ispezione delle nostre stesse esperienze possiamo constatare che il dolore, la tensione, la paura e l'afflizione sorgono sempre dalla nostra avidità, avversione e ignoranza, e quindi possono essere eliminati con la rimozione di quelle contaminazioni. L'importanza di questo lato direttamente visibile della pratica del Dhamma non può essere sottovalutata, giacché ci fornisce la ragione di avere fiducia nell'efficacia liberatrice del sentiero Buddhista. Tuttavia, sminuire la dottrina della rinascita e spiegare l'intera portata del Dhamma come il superamento della sofferenza mentale attraverso lo sviluppo dell'autocoscienza priva il Dhamma di quelle più vaste prospettive dalle quali ha tratto la sua ampia portata e profondità. Così facendo si corre il serio rischio di ridurlo alla fine a poco più di un sofisticato mezzo antico di psicoterapia umanistica.
Lo stesso Buddha ha chiaramente indicato che il problema alla radice dell'esistenza umana non è semplicemente il fatto che siamo vulnerabili al dolore, alla pena e alla paura, ma che ci leghiamo con la nostra tendenza egoistica ad un processo autogenerante di nascita, vecchiaia e morte nel quale sperimentiamo le specifiche forme di afflizione mentale. Egli ha anche mostrato come il rischio principale riguardo le contaminazioni consiste nel loro ruolo causale nel mantenere in vita il ciclo delle rinascite. Fintanto che permangono negli strati più profondi della mente, ci trasportano nei cicli del divenire nei quali spargiamo un fiume di lacrime "più ampio delle acque dell'oceano". Quando queste considerazioni sono prese in attenta considerazione si vede come la pratica del Dhamma non mira a procurarci una comoda riconciliazione con la nostra presente personalità e partecipazione al mondo ma a farci intraprendere una lunga e complessa trasformazione interiore che sfocerà nella nostra completa liberazione dal ciclo dell'esistenza mondana.
Sinceramente, per la maggior parte di noi la motivazione primaria per entrare nel cammino del Dhamma è la logorante insoddisfazione con la routine abitudinaria delle nostre vite non illuminate piuttosto che una precisa percezione dei pericoli insiti nel ciclo delle rinascite. Tuttavia, se seguiremo il Dhamma fino alla fine e sfruttiamo a pieno la sua potenzialità nel garantirci la pace e una più elevata saggezza, è necessario per dare motivazione alla nostra pratica maturare al di là di ciò che ci ha indotti all'inizio ad entrare nel cammino. La nostra motivazione di fondo deve crescere verso quelle verità essenziali che ci sono state svelate dal Buddha e, comprendendo quelle verità, dobbiamo servircene per alimentarne la capacità di guidarci verso il conseguimento della meta.
La nostra motivazione acquista la maturità richiesta attraverso la coltivazione di retta visione, il primo fattore del Nobile Ottuplice Sentiero, che cosi come è stato esposto dal Buddha include la comprensione dei principi di kamma e rinascita quali fondamenti della struttura della nostra esistenza. Sebbene la contemplazione del momento sia la chiave per lo sviluppo della meditazione di visione profonda, sarebbe un estremismo erroneo ritenere che la pratica del Dhamma consista interamente nel mantenere la consapevolezza del presente. Il sentiero Buddhista sottolinea il ruolo della saggezza quale strumento per la liberazione, e la saggezza deve includere non solo la penetrazione intuitiva del momento nella sua profondità verticale, ma anche la comprensione degli orizzonti passati e futuri entro i quali la nostra esistenza presente si sviluppa. Prendere pienamente coscienza del principio della rinascita ci darà quella prospettiva panoramica dalla quale possiamo avere una visione delle nostre vite nei loro più ampi contesti e nella totalità delle reti di relazioni. Questo ci spronerà nel nostro impegno lungo il cammino e ci rivelerà il significato profondo della meta verso la quale è orientata la nostra pratica, la fine del ciclo delle rinascite e la finale liberazione della mente dalla sofferenza."



giovedì 4 dicembre 2014

L'attenzione

Il testo che segue è la traduzione in italiano (purtroppo non ne conosco l'autore) di un insegnamento del maestro Zen Sando-Kaisen, che ho ritrovato tra alcune vecchie carte.
Lo propongo volentieri alla riflessione  dei lettori di questo blog, quale invito ad una autentica relazione con l'Altro, al di là dei giudizi, delle appartenenze di ogni tipo, del mi-piace/non-mi-piace.

Il m° Sando-Kaisen
Prendere il tempo di guardare qualcuno, di ascoltarlo, non pensare ad altro mentre ci parla, capirlo veramente, non giudicare, non interferire in nulla con la mia mente personale. 
Completamente vuoti, diventiamo completamente disponibili per la persona, come uno specchio.
Mediante l'attenzione, possiamo diventare uno specchio, acquisire una forma di libertà capace di riflettere tutti i fenomeni, senza soffrire, senza dipendere da questi fenomeni e senza giudizio.
Uno solo dei nostri pensieri influenza tutto l'universo. E' come uno stagno.
Gettate un sasso presso una riva, e si formano onde fino all'altra riva. Tutto lo stagno sarà influenzato da questo sassolino. E' lo stesso per la mente e l'universo.
Un cattivo pensiero o una cattiva azione danneggerà qualcosa all'altro capo dell'universo.
Per questo è importante sviluppare l'attenzione, una forma di meditazione, e calmare le nostre emozioni, trovare la pace dentro, mai agire senza avere una pace stabilita all'interno di sé, senza riflessione.
Bisogna evitare di produrre continuamente cattivi pensieri.
Bisogna evitare di far del male agli altri, con la parola, con il corpo, e anche con il pensiero.
Bisogna sviluppare gli aspetti positivi della mente.
E' il solo modo di metter fine, o di aiutare un po' a mettere fine alla sofferenza sulla terra.
E' possibile se tutti noi, tutti gli esseri umani del pianeta, decidiamo effettivamente, individualmente, di cambiare il nostro modo di vivere e di pensare.
Sapete, arriva un momento dove un semplice sguardo è un insegnamento. Un incontro, una stretta di mano, a volte perfino lo sguardo di un cane. Un bello sguardo. Ciò vi trasforma, da quando avete dell'attenzione.
Le religioni hanno perso la loro potenza perché hanno perso l'attenzione. Non si pratica più l'attenzione, la vera attenzione, come per esempio: sollevare questo bicchiere e posarlo là', seguendo il gesto fino in fondo. Se facciamo attenzione, non viviamo che il gesto, senza pensare ad altro. Per abitudine, compiendo un gesto, pensiamo ad altro; quando camminiamo, quando lavoriamo, quando mangiamo, quando guardiamo la televisione... pensiamo ad altro.
A volte parliamo con qualcuno, e pensiamo ad altro. E arriviamo al pensare di notte!
Allora accade che il nostro computer interno sia stanco, il sistema nervoso cominci a mollare e desideriamo continuamente il riposo. Siamo sempre stanchi e pensiamo continuamente alle ferie.
Ma l'attenzione è' proprio la freschezza!
Sapete, è un piacere di sedersi, un piacere di camminare, un piacere di fare tutto ciò che si fa, anche mangiare.
Ma più nessuno ha piacere nel mangiare: si va al ristorante, si discute, e non ci si rende conto di ciò che si mangia.
Non si ha più il piacere di apprezzare un buon pasto, il piacere di bere un bicchiere d'acqua, o di vino, poco importa, di apprezzarlo fino in fondo.
Andare fino in fondo. Nell'attenzione.
Allora, l'attenzione ci rende vivi, veramente vivi.
E quando si è vivi, non si è tristi.
Si è tristi a partire dal momento in cui non si è più presenti. Dal punto in cui ci mettiamo a sognare, cadiamo nella tristezza e nella malinconia. Diventiamo incurvati, viviamo col mento nel palmo della mano, come quelli che sognano, che pensano.
Affondano sempre di più nei loro pensieri e la loro postura sprofonda sempre di più...
L'attenzione, è vivere, è raddrizzarsi.
Nel momento in cui ci si incurva, ci si raddrizza, si rialza la testa e si vive.
Si ritrova uno sguardo più forte, più profondo, e così, si ritorna alla realtà.
Allora, la vita si esprime in noi. Se non facciamo ciò, affondiamo.
E tutto il giorno, abbiamo l’impressione di vivere, ma in effetti, non viviamo. Portiamo il peso delle nostre miserie dal mattino alla sera e non vogliamo raddrizzarci, ricominciare ad ogni istante, ripartire da zero.
Lo zero è molto importante.
Io chiamo questo lo zero della coscienza.
A partire da questo zero, si può' veramente vivere.
Non bisogna, nella vostra mente, fare: 1+2 + 3 + 4 ...accumulare.
Bisogna, ogni volta, fare: zero, uno - zero, uno - zero, uno ...
Diventare freschi, nuovi e vivi, mediante l'attenzione, ad ogni istante.
Per me, è la più grande delle religioni, poiché, mediante l'attenzione, commettiamo sempre meno errori.
E quando siamo attenti, siamo in uno stato d'osservazione. E' naturale.
Se prendo un oggetto, se vivo il gesto e guardo dove lo poso, osservo e dunque, ho la saggezza contemporaneamente. Dunque, attenzione vuol dire saggezza.
Più sarete attenti, più la saggezza si manifesterà. Mediante l'attenzione.

L'ideogramma di "ascoltare"
Poiché non esiste saggezza senza attenzione.
Può esistere una filosofia, ma la filosofia non è la saggezza. E' solo una filosofia, una fantasia, una creazione mentale.
Invece la saggezza di cui parlo è nella luce dell'attenzione.
E dato che noi possediamo tutta la saggezza dell'universo nel fondo della nostra luce, più siamo attenti, più questa luce zampilla e appare.
Poiché abbiamo già la conoscenza in noi, pronta a manifestarsi ad ogni istante.
E' per questo che il buddhismo si è interessato prima di tutto alla meditazione: ritornare al silenzio, all'attenzione, non cercare alcuna verità, né di diventare un Buddha, né di trovare un Dio qualsiasi. Sappiamo che essendo direttamente dentro questa luce, tramite l'attenzione, tutta la saggezza dell'universo si manifesta ogni giorno mediante 1'esperienza della pratica.
Infatti, non abbiamo nulla da cercare dato che in verità, tutto è nel fondo di noi.
Invece la gente d'oggi cerca di capire tutto, conoscere tutto, leggere molto, cercare molto.
Alla fine, ciò crea facce stanche.
Dovremmo piuttosto fermarci un po' nel momento in cui sia possibile.
Dopo il lavoro, distendersi, non pensare più a nulla, essere attenti a un respiro, all'attività interiore.
Vedrete allora come la freschezza apparirà di colpo, la voglia di vivere. E ad ogni istante, un nuovo slancio verrà a sollevarvi.
Forse anche altre forme di saggezza appariranno in questo modo, senza fare nulla di particolare.
E questa saggezza vi mostrerà anche ciò che siete.

Kannon, il bodhisattva che ascolta i suoni del mondo


Il sito Internet del m° Kaisen:    http://www.zenkaisen.fr/

mercoledì 19 novembre 2014

Su alcune fonti della vita del Buddha - III


Le opere di Asvaghosa e la letteratura Kavya e Mahakavya


Il passaggio dai Jataka del Canone Pali al Jatakamala di Arya Sura, testo che del Canone non fa parte, segna il definitivo manifestarsi dell’interesse del mondo buddhista nei confronti della biografia del Buddha, che continua ancora ad essere visto come un essere umano (le vite passate non sono una particolarità dei Risvegliati, lo è semmai la capacità di ricordarle), ma che diviene sempre più oggetto di venerazione quasi come una divinità, un oggetto devozionale, cosa che indubbiamente è lontana dalla lettera e dallo spirito dei suoi ultimi insegnamenti, anche se lo spirito di compassione deve sempre spingere a comprendere i bisogni degli uomini, i quali non si trovano tutti ad uno stesso grado di maturazione spirituale (anche qui, la legge del karma è in opera!).

Tale fenomeno ha comunque contribuito, dal punto di vista letterario, alla nascita di quello che probabilmente è il testo classico più conosciuto e più bello sulla vita di Siddhartha Gautama Shakyamuni, il Buddhacarita ("Le gesta del Buddha") di Asvaghosa.

È difficile attribuire una esatta datazione alla vita e alle opere di Asvaghosa (in effetti non esiste una vera e propria storiografia per quanto riguarda l’India fino a circa l’anno 1000 d.C.): visse nell’India del Nord all’epoca della dinastia

Asvaghosa nell'iconografia cinese
Kushana, una popolazione indoeuropea che dal I al III sec. d.C. dominò le terre dall’Afghanistan alla Valle del Gange e a nord fino al Pamir, e che ebbe molti contatti con i mondi romano, greco-ellenistico e cinese, assorbendone importanti elementi culturali (si pensi all’arte del Gandhara). Asvaghosa visse probabilmente tra il 50 a.C. e il 100 d.C., apparteneva sicuramente alla casta brahmanica, conosceva infatti molto bene il sanscrito e la tradizione vedica. Solo in tarda età, si dice perché sconfitto in un pubblico dibattito, si convertì e prese i voti, divenendo discepolo di colui che lo aveva battuto, come tradizionalmente accadeva. Forse, divenne poi poeta di corte al seguito del re Kaniska. Viene ricordato tradizionalmente come uno dei “padri fondatori” del buddhismo Mahayana.

La sua opera principale è il Buddhacarita, “Le gesta del Buddha(1), una biografia del Buddha Shakyamuni che si differenzia nettamente dalla letteratura precedente relativa alla vita del Buddha (cioè i singoli episodi riportati nei sutra o negli altri testi del Canone Pali), in quanto non è discontinua né frammentaria nella narrazione, ed è priva altresì della ripetitività tipica dei testi canonici. Si distacca inoltre dalle altre “vite” sanscrite ormai perdute e risalenti ai primi anni della nostra era “in quanto opera unitaria, completa [..], colta e scritta in un sanscrito estremamente curato rispetto alla lingua mista delle altre produzioni coeve” (2).

La traduzione italiana del testo, pubblicata nella Biblioteca Adelphi, comprende i canti I-XIV, ovvero dalla nascita di Siddhartha fino al Risveglio sotto l’albero pipal. I canti successivi (da XV a XXVIII) non sono stati inclusi in quanto l’originale sanscrito è andato perduto e ancora non esistono traduzioni critiche delle versioni cinese e tibetana.

Può essere interessante, dal punto di vista letterario, sottolineare come l’opera di Asvaghosa possa essere definita come un kavya, uno stile usato dai poeti di corte indiani e caratterizzato dall’uso di metafore, similitudini ed altre figure letterarie, con un esplicito intento estetico. Il Buddhacarita è anzi un mahakavya (un “gran poema”), secondo la codifica del critico indiano Dandin (VII sec.): infatti un mahakavya deve essere diviso in canti, è “sorto da una narrazione storica o è comunque munito di verità; è aderente al quadruplice vantaggio (3), ha un eroe ingegnoso e nobile. È adornato da descrizioni di città, oceani, montagne [..], da bevute e feste d’amore, da separazioni, da matrimoni, da descrizioni dei successi di un principe [..] e dal trionfo dell’eroe(4). Un ulteriore importante requisito è il rasa, il gusto, il sapore, ovvero l’esperienza estetica che l’opera suscita nello spettatore/lettore. E il rasa prevalente del Buddhacarita nel suo complesso è lo shanta rasa, il “gusto” della pace interiore, mentre in singoli passi si può riscontrare il rasa della compassione (Siddhartha che conosce le sofferenze degli esseri umani), o del disgusto (le donne addormentate) ecc.
Una apsara, ninfa celeste
Un’altra famosa opera di Asvaghosa, che dimostra ulteriormente l’interesse del mondo buddhista della sua epoca per le vite dei Santi e che rientra anch’esso nella “categoria” letteraria del mahakavya, è il Saundarananda (“Nanda il Bello”), nel quale si narra la vicenda di Nanda, un fratellastro del Buddha Shakyamuni (5): “fonte di gioia senza fine in famiglia. Lungo di braccia e ampio di petto, leonine le spalle, taurino lo sguardo, egli, per il sublime aspetto era noto col soprannome di Bello. Come l’inizio del mese di Madhu (6), come il sorgere della luna nuova, come il dio disincarnato reincarnato (7), egli splendeva di maestà graziosa(8).
Nanda è profondamente tormentato: ha scelto di seguire il Buddha ed è divenuto monaco, ma il ricordo e il desiderio della bellissima moglie Sundari lo perseguitano. Allora il Buddha, ricorrendo alla sua capacità di usare gli abili mezzi, lo porta al cospetto delle meravigliose ninfe celesti, le Apsaras, al cui confronto la bellezza della moglie scompare. Nanda rivolge allora il proprio desiderio verso le ninfe e approfondisce la sua pratica del Dharma, unico mezzo, gli viene detto, per conquistarle. Ma proprio la pratica stessa fa sì che il desiderio si estingua, e Nanda può quindi ottenere il Risveglio.

La presenza delle caratteristiche kavya e mahakavya nell’opera di Asvaghosa spiega certamente la fortuna che ebbe nel suo tempo, nonché il fatto che tuttora il lettore rimanga affascinato e meravigliato dalla sua narrazione. Non per nulla, diceva il critico Dandin, un mahakavya è una “delizia per l’umanità e [..] dura per più di un’epoca cosmica(9).


NOTE
(1) Asvaghosa, Le gesta del Buddha, Ed. Adelphi.
(2) A. Passi, Il Buddhacarita e il suo autore, in: Asvaghosa, Le gesta del Buddha, pag. 232. Due sono le “vite” a cui si fa qui riferimento: il Mahavastu (la “Grande Storia”, tra il II sec. a.C. e il IV d.C.) e il Lalitavistara Sutra (il “Sutra dei Giochi”), di poco posteriore.
(3) I “quattro vantaggi” corrispondono alle quattro finalità della vita umana secondo la tradizione hindu: il piacere, l’amore (kama), il lavoro, il benessere materiale (artha), il dovere civile, morale, religioso (dharma), la liberazione dal ciclo delle rinascite (moksha). Nel caso del kavya buddhista, solo il quarto elemento ha valore, la liberazione dalla sofferenza, il Nirvana. Gli altri tre possono anzi divenire un ostacolo. Cfr. A. Passi, Il Buddhacarita e il suo autore, pagg. 236-237.
(4) Id., pag. 236.
(5) Asvaghosa, Nanda il Bello, Ed. Adelphi.
(6) In sanscrito madhu indica il miele, forse il riferimento è all’inizio della primavera.
(7) È Kama, dio dell’amore, incenerito dallo sguardo di Shiva.
(8) Asvaghosa, Nanda il Bello, pag.25.
(9) A. Passi, Il Buddhacarita e il suo autore, pag. 236.

mercoledì 5 novembre 2014

Su alcune fonti della vita del Buddha - II

Dalla letteratura dei Jataka al Jatakamala di Arya Sura

Nel Maha Saccaka Sutta (Il discorso maggiore a Saccako) il Buddha narra al giovane Saccako la propria esperienza sotto l’albero del Risveglio. Quando giunge a parlare del quarto livello della meditazione, afferma: “Diressi il mio spirito alla contemplazione delle mie vite anteriori: una nascita, due nascite, tre nascite, quattro... cinque... dieci... venti... trenta... quaranta... cinquanta... cento... mille... cinquemila nascite, dieci epoche di riproduzione del mondo, dieci epoche di distruzione del mondo, dieci epoche di distruzione e riproduzione del mondo. Tutto ricordai con precisione: in un certo luogo mi trovavo, avevo un certo nome, appartenevo ad una certa stirpe e a una certa famiglia, un mestiere esercitavo; provai gioia e dolore, e così terminai la mia esistenza, per nascere di nuovo in un’altra vita… Così richiamai alla mia memoria un gran numero delle mie vite anteriori, contemplando ciascuna di esse in tutti i suoi caratteri e fin nei suoi più piccoli dettagli(1).

Il processo della reincarnazione
 Come è noto, Siddhartha Gautama era nato all’interno di un contesto culturale (l’India del VI sec. a.C.) per il quale la dottrina della reincarnazione era un dato di fatto (quasi) universalmente accettato. Ma la reincarnazione presuppone l’esistenza di un “sé” individuale e permanente (atman) che passa da un corpo all’altro, vita dopo vita. Questa nozione del sé venne però nettamente rifiutata dal Buddha, per il quale il sé esiste solo in dipendenza dei cinque aggregati (corpo, sensazioni, percezioni, volizioni, coscienza), che a loro volta sono fenomeni composti, impermanenti, soggetti alla causalità e alla distruzione. Per il buddhismo, “non esiste anima immortale e [..] tutto il mondo fenomenico compare e scompare in un flusso perennemente mutevole(2).
Il buddhismo accetta però la realtà del processo di rinascita, negando nel contempo che esso sia sostenuto da una sostanza soggiacente (l’atman, un’anima immortale). E’ come una fiamma, si dice, che è trasmessa da una fonte (es. una torcia) ad un’altra: la fiamma non è identica alla fonte, ma non ne è nemmeno totalmente differente. Nello stesso modo, l’eredità karmica delle azioni passate origina formazioni psicofisiche sempre nuove. “Non è quindi la stessa ‘persona’ a fare ritorno(3), bensì un “continuum”, un flusso di coscienza, privo di sostanza autonoma, una serie di istanti psichici collegati tra loro da rapporti causali, in continuo e ininterrotto divenire, e privo altresì di una origine, di una “causa prima”, in quanto ogni istante è causato da un istante precedente, in una catena senza inizio.

In un contesto di cultura “popolare”, cioè all’interno delle modalità con cui veniva comunemente interpretata e vissuta la nozione di “rinascita”, si innesta la concezione secondo la quale la natura di Buddha, la natura del Risveglio, è sì presente in tutti gli esseri, ma la sua piena manifestazione è il risultato di una progressiva evoluzione spirituale, che si compie attraverso la pratica delle sei “perfezioni” (la generosità, l’etica, la pazienza, l’energia, la concentrazione, la saggezza) e dei quattro “incommensurabili” (l’equanimità, l’amore, la compassione, la gioia compartecipe).

Il bodhisattva della compassione
Il combinato delle concezioni di un processo nascita-morte-rinascita e di una evoluzione spirituale verso la piena realizzazione del Risveglio attraverso un “accumulo” dei meriti di azioni virtuose, diede origine all’interno delle comunità del buddhismo indiano ad un vero e proprio “genere” letterario, centrato sulla figura del Bodhisattva (4), cioè colui che diverrà, vita dopo vita, il Buddha dell’era presente, Siddhartha Shakyamuni. Sono i Jataka (le “Nascite”), ovvero le narrazioni delle grandi gesta (in senso etico) compiute dal Buddha nelle sue vite precedenti, sotto forme non solo umane, ma anche divine e animali.
I racconti dei Jataka provengono quindi direttamente dalla bocca del Buddha, sono i ricordi delle sue esistenze precedenti da lui stesso raccontate ai discepoli. Ed infatti i 547 racconti dei Jataka fanno parte integrante del Canone Pali (nel Khuddaka Nikaya, la Raccolta dei Testi Brevi del Sutta Pitaka). Benché la raccolta sia stata redatta nei secoli successivi, gli episodi che la costituiscono risalgono ad epoche precedenti, probabilmente al periodo della vita del Buddha storico (VI sec. a.C.).
I Jataka, come si è detto, non sono esposizioni sistematiche degli insegnamenti del Buddha, come i Sutra, e non contengono dissertazioni filosofiche. Sono invece racconti semplici, di facile lettura, con una forte valenza di edificazione, di insegnamento etico; sono volti ad infondere negli ascoltatori e nei lettori sentimenti di devozione e di fiducia nel valore del compimento del bene in vista della liberazione finale. I Jataka infatti “racchiudono una psicologia e un sistema etico raffinati, basati sulle intuizioni del Buddha riguardo alle leggi naturali che governano tutto l’esistente. [..] Sono una efficacissima rappresentazione del funzionamento del karma, così come esso si dispiega nell’arco di vite successive(5).
Il Buddha insegna che il karmanon si dispiega in una semplice progressione lineare(6) di causa-effetto; è difficile rintracciare l’evolversi del karma nella vita di tutti i giorni (propria e altrui), vedere le connessioni tra le azioni di corpo, parola e mente ed i loro effetti. Si può perfino giungere a pensare che tale relazione nemmeno esista, credendo nell’idea che le azioni non abbiano conseguenze morali o psicologiche. Oppure, mal comprendendo il karma, si può cadere nell’estremo opposto, per cui tutte le azioni sarebbero predeterminate (dal destino, dai condizionamenti sociali, ambientali, biologici), negando ogni possibile libertà all’agire umano. In entrambi i casi, non avremmo nessun controllo sulla vita, nessuna responsabilità etica. E questa forma di ignoranza darebbe origine – come in effetti accade – a nuove sofferenze.
La lettura dei Jataka era – ed è tuttora – una occasione per riflettere sulle scelte morali, aprire gli occhi alla realtà del karma, ripensare ad un’autentica qualità della vita, capire le conseguenze delle azioni umane, liberare la mente da schemi distruttivi di comportamento consolidati nel tempo e divenuti veri e propri automatismi (7).
I Jataka esprimono pertanto, a partire dai primi secoli dell’era presente, un primo autentico interesse da parte dei praticanti, monaci e laici, per la vita del Buddha, per la sua “biografia” in quanto bodhisattva. Parallelamente, cresce all’interno del “movimento” buddhista l’importanza dei laici, ai quali fino ad allora era solo attribuita la possibilità di acquisire meriti attraverso il sostentamento della comunità monastica, le donazioni, la costruzione di templi e monasteri. Fino ad allora, l’Illuminazione era rimasta invece a coronamento della vita monastica, ma non di quella laicale.
In altre parole, nasce, anche a partire di qui, il grande movimento riformatore noto come Mahayana, il Grande Veicolo (in – apparente – contrapposizione con lo Hinayana, il Piccolo Veicolo, ma più correttamente Theravada, la Via degli Anziani), nel quale la figura del bodhisattva, l’essere autenticamente compassionevole alla ricerca della liberazione dalla sofferenza per tutte le esistenze e non solo per se stesso, è assolutamente centrale.
Per questi motivi i Jataka ebbero da subito una grandissima diffusione in tutti i territori dell’Asia in cui si irradiò il buddhismo, influenzando profondamente anche le letterature locali. Addirittura in molte zone nacquero altre storie, che si aggiunsero alle raccolte originarie provenienti dall’India attraverso il Tibet o la Cina.
A partire dai Jataka, vennero composte opere poetiche e si allestirono rappresentazioni sceniche, sia per edificazione delle persone, sia per puro senso estetico, ed anche per alleviare la sofferenza durante le veglie funebri. Tradizioni tuttora vive in molte aree dell’Asia.

Le grotte di Ajanta
Inoltre, scene ed episodi tratti dai Jataka vennero scolpiti o dipinti sui monumenti e nei siti buddhisti, ad es. in India (le grotte di Ajanta, i reliquiari di Sanci, Amaravati ecc.), a Giava (il famoso Borobudur), in Birmania.

Raffigurazione dei Jataka ad Ajanta
Anche le letterature non buddhiste ne furono influenzate: diverse opere composte successivamente nella tradizione hindu si fondarono sui Jataka o ne riportarono alcuni. Basti ricordare il Pancha-tantra, un’opera in cinque sezioni (pancha = cinque, tantra = capitoli) attribuita a Vishnusharman, redatta nel V sec. d.C. perché servisse all’educazione dei figli del re Amarashakti (i Jataka erano invece destinati a tutta la popolazione). Si tratta di una raccolta di fiabe, che a sua volta divenne la base delle narrazioni favolistiche medio-orientali, e che influenzò anche le letterature del Medio Evo europeo. Ai Jataka (attraverso il “filtro” del Pancha-tantra tradotto in arabo, siriano, persiano) attinsero scrittori come Boccaccio, Ariosto, Matteo Bandello, La Fontaine, Chaucer.

Tra le diverse raccolte di Jataka pubblicate nel tempo, al di fuori del Canone Pali, riveste particolare importanza quella attribuita ad un grande poeta indiano, Arya Sura, vissuto nel III – IV sec. d.C., di cui non si sa quasi nulla. Alcuni lo identificano con Asvaghosa, l’autore del Buddhacarita (“Le gesta del Buddha”), ma pare un’ipotesi non sostenibile. Arya Sura compose una raccolta di 34 Jataka, conosciuta come Jatakamala, la “Ghirlanda delle nascite” (mala = rosario, ghirlanda, corona). Egli non fu un semplice compilatore, infatti rielaborò le storie scelte in uno stile estremamente raffinato che fece di lui uno dei maggiori scrittori indiani, e del suo Jatakamala una delle opere più importanti e più amate di tutta la letteratura sanscrita.
Nel Jatakamala, come si è già detto a proposito dei Jataka del Canone Pali, è efficacemente rappresentato il funzionamento della legge del karma, termine sanscrito che significa “azione”, ma in un senso molto ampio, che va a comprendere le connessioni causali tra le azioni umane e i loro effetti. Dal punto di vista buddhista studiare e comprendere la natura del karma e il suo modo di operare può realmente trasformare il corso della propria vita. Il meccanismo delle leggi karmiche è estremamente complesso, come il Buddha stesso affermava, non sempre esso si manifesta in maniera lineare e immediatamente comprensibile: molto spesso possiamo vedere come chi opera il male prosperi tranquillamente nella propria esistenza, mentre operatori di bene altrettanto spesso soffrono in povertà e malattie o sono vittime di violenza. Il che ci pare ingiusto e incomprensibile, e rende scettici sulla reale operatività del karma. Ciò che i Jataka ed il Jatakamala insegnano è che il nostro sguardo deve essere il più possibile ampio e proiettarsi su interi cicli di esistenze. In questa prospettiva nulla va perduto, nulla si crea dal nulla, nulla avviene in maniera casuale. “Ogni azione mette in moto forze che produrranno risultati in preciso accordo con la natura dell’azione stessa(8). Il fatto stesso di nascere in un corpo umano è uno dei frutti preziosi (non a caso nel buddhismo si parla di “preziosa rinascita umana”) di azioni positive compiute nelle passate esistenze.

Il bodhisattva offre se stesso alla tigre affamata (dai Jataka)


NOTE
(1)    Cit. in V. Cucchi (a cura di) La vita di Buddha nei testi del Canone Pali, pag. 48.
(2)    V. la voce Karman in: M. Eliade (a cura di), Enciclopedia delle Religioni, Ed. Jaca Book, vol. 10 – Buddhismo, pag. 318.
(3)    P. Cornu, Dizionario del buddhismo, Ed. Bruno Mondadori, pag. 685.
(4)    Alla lettera “Essere la cui essenza è il Risveglio”; colui che rinuncia al Nirvana per aiutare gli altri esseri a raggiungerlo.
(5)    Introduzione a: Arya Sura, Le vite passate del Buddha, Ed. Ubaldini, pag. 9.
(6)    Id..
(7)    Id., pagg. 10-11.
(8)    Introduzione a: Arya Sura, Le vite passate del Buddha, pag. 10.


venerdì 31 ottobre 2014

Su alcune fonti della vita del Buddha - I

Le fonti nel Canone Pali

Nella sesta ed ultima sezione del Sutra del Nirvana Definitivo (Mahaparinibbanasuttanta), poco prima di abbandonare il corpo, il Buddha Shakyamuni, rivolgendosi al discepolo Ananda, dice: “Tu forse potresti pensare: l’insegnamento del Maestro è finito per sempre, adesso non abbiamo più un maestro. Non devi pensare così, Ananda, poiché quello che vi ho spiegato e insegnato è che il Dhamma e la disciplina, alla mia morte, saranno il vostro maestro(1).
Già qualche tempo prima aveva detto: “Ananda, coloro i quali, ora o dopo la mia morte, riusciranno a essere isole per se stessi [..], che faranno del Dhamma e di null’altro la loro isola e il loro rifugio, costoro diverranno i monaci migliori e lo saranno in virtù del desiderio di imparare(2).

Queste poche parole sono già sufficienti a dimostrare la centralità del Dharma, dell’insegnamento, rispetto alla figura umana, storica, del Buddha, del Maestro.
Ciò che il Buddha sempre indicava ai suoi discepoli non era la sua persona, men che meno se stesso come una qualche manifestazione divina o comunque trascendente, e nemmeno la sua propria esperienza del Risveglio, bensì il Dharma (Dhamma in lingua pali), il suo insegnamento concreto, così come si era espresso nel corso di 40 anni, a partire dal primo sermone nel Parco delle Gazzelle a Sarnath, presso Varanasi, nei giorni successivi al Risveglio sotto l’albero pipal.
Il primo sermone del Buddha a Sarnath
A sua volta, il Dharma non è una nuova scoperta, una “invenzione” del Buddha Shakyamuni, una nuova visione del mondo che avrebbe dovuto sostituirne una precedente, bensì è lo stesso Dharma da sempre esposto dai Risvegliati di ogni tempo e luogo.
Il Buddha non fu quindi un “mediatore” tra il mondo ordinario ed un ipotetico mondo trascendente, tra il mondo degli uomini e il mondo degli dei, tra il samsara e il nirvana intesi come due universi distinti e separati. Il suo insegnamento si pose da subito al di là del ruolo svolto dalla casta sacerdotale hindu, i brahmani, che officiavano i sacrifici agli dei secondo complicati riti che essi solo conoscevano e potevano quindi svolgere correttamente, pena la nullità del rito stesso.
Uomo tra gli uomini, il suo ruolo fu quello di un insegnante, un amico spirituale, un medico che prescrive una terapia, colui che semplicemente indica la Via, non la percorre al posto di nessuno. Sta poi al discepolo camminare con le proprie gambe, seguire la terapia, assumere le medicine sperimentandone di persona l’efficacia.
Per questi motivi succintamente esposti, dopo la morte del Buddha i suoi discepoli si concentrarono soprattutto sulla raccolta e sulla corretta trasmissione degli insegnamenti, dapprima in forma orale e successivamente per iscritto, fino alla redazione del Canone così come lo conosciamo (tra il II Concilio – 340 a.C. – ed il III, nel 247 a.C.).
Si noti che anche l’arte buddhista (se si può usare tale espressione) risentì di questa impostazione: per diverso tempo infatti il Buddha non venne raffigurato come persona, ma mediante l’immagine di un seggio vuoto o altri simboli iconografici (la ruota del Dharma, l’ombrello, l’impronta dei piedi…). Solo nei secoli successivi comparirà l’immagine del Buddha come persona, anche sotto l’influenza dell’arte greca.

Dopo questa indispensabile premessa intorno al primato degli insegnamenti rispetto alla figura del Maestro, è da dire che negli stessi testi del Canone Pali è comunque possibile reperire preziose informazioni in merito a molti episodi della vita del Buddha Shakyamuni, da lui stesso riferiti nel corso dei suoi sermoni quali elementi integranti degli stessi.
Si è già citato il Sutra (in pali: sutta) del Nirvana Definitivo, che si trova nel Suttapitaka, il Canestro (pitaka) dei Sutra (gli altri due canestri (3) in cui è diviso il Canone Pali sono il Vinayapitaka, con i testi delle regole monastiche, e l’Abhidhammapitaka, il canestro della conoscenza superiore dei fenomeni, con insegnamenti sull’etica, la psicologia, la filosofia, la cosmologia…). Qui vengono narrati gli eventi relativi all’ultimo periodo della vita del Buddha, i suoi ultimi spostamenti, la sua infermità, il famoso episodio dell’ospitalità da parte del fabbro Cunda e dell’ultimo pasto del Buddha, le indicazioni impartite ai monaci sul da farsi dopo la sua morte, l’abbandono del corpo e l’entrata nel Parinirvana. Non si tratta, è chiaro, di un testo storico né apologetico, esso è, come gli altri sutra, soprattutto una raccolta di insegnamenti, per quanto ricca di indicazioni biografiche e di spunti letterari estremamente interessanti.

Il Parinirvana del Buddha
Per quanto concerne invece la nascita e la vita di Siddhartha Gautama Shakyamuni, colui che diverrà il Buddha, il Risvegliato, molti episodi sono narrati nel canestro delle regole monastiche, il Vinayapitaka, nelle sezioni denominate Mahavagga (discorsi lunghi) e Cullavagga (discorsi brevi).
Altri testi ancora, oltre al Sutra del Nirvana Definitivo, sono ospitati nel già citato canestro dei Sutra (il Suttapitaka).(4)
A questo punto, può risultare utile una cronologia essenziale della vita del Buddha Shakyamuni, tratta dall’antologia “La vita di Buddha nei testi del Canone Pali”. Le date sono ovviamente ipotetiche:

8 aprile 566 a.C. (o una data intermedia fra il 557 e il 570)
Il principe Siddhartha (“Colui che ha raggiunto lo scopo”) nasce nel Parco di Lumbini, presso Kapilavastu, capitale dello stato himalayano degli Shakya, una oligarchia guerriera che vantava fra i suoi antenati Gautama, veggente dell'epoca vedica. Il padre è il re Suddhodana, la madre la regina Maya; a una settimana dal parto Maya muore e il principino viene lasciato alle cure della zia materna Mahaprajapati.

550 a.C.
Vengono celebrate le nozze del principe sedicenne con la cugina Yashodhara (sembra tuttavia che successivamente egli abbia avuto anche un'altra moglie di nome Gopa).

537 a.C.
A 29 anni abbandona la reggia di Kapilavastu e rinuncia alle ricchezze per dedicarsi alla vita ascetica.

536 523 a.C.
Segue alcuni guru del suo tempo. A Vaisali (odierna Besarh) diviene discepolo di Arada Kalama che lo istruisce sulla "sfera del nulla". Insoddisfatto dei risultati, si trasferisce nel Magadha, regione nord orientale dell'India. Qui, nei pressi del Gange, diviene discepolo di Udraka Ramaputra, assieme ad altri cinque discepoli. In seguito Siddhartha abbandona anche questo guru e diviene un libero anacoreta della giungla. Affiancato dai cinque compagni, si dedica a pratiche penitenziali di mortificazione e di digiuno.

523 a.C.
Dopo aver abbandonato la via della mortificazione ed essere stato, per questo motivo, respinto dai cinque compagni, siede in meditazione sotto l'albero pipal (Ficus religiosa) e medita per sette giorni. Alla fine, nella notte del plenilunio dell'8 dicembre secondo la tradizione conquista l'illuminazione e diviene un Buddha.

522 a.C.
Recatosi a Benares, città sacra sita in riva al Gange, ritrova i cinque compagni e predica loro il cosiddetto Sermone di Benares, che contiene la prima esposizione della Legge buddhista. Nello stesso anno Bimbisara, re del Magadha, mecenate e amico personale del Buddha, gli fa dono della Foresta di bambù, favorendo così la diffusione del suo insegnamento.

522 a.C. e post
Per una quarantina di anni il Buddha si dedica alla vita della Comunità e a un fecondo proselitismo: converte laici, asceti erranti, briganti, giovani brahmani e ricche cortigiane.

507 a.C.
Si sceglie come servitore il fedele Ananda: divenuto eminente discepolo, quest'ultimo ricordava a memoria tutti i grandi discorsi del Buddha e li recitò nel primo concilio di Rajagrha.

486 a.C. (o una data Intermedia fra il 477 e il 486)
Il Buddha entra nel Parinirvana: il suo corpo viene cremato e le reliquie vengono divise fra la Comunità. (5)

Tra i tanti episodi della vita del Buddha che sarebbe possibile citare, se ne riporta qui uno in particolare, forse non molto noto, che può rivestire un particolare interesse per il lettore occidentale in quanto riporta alla mente la vicenda, narrata nel Vangelo di Luca, della presentazione al Tempio di Gesù e dell’incontro con Simeone.
Asita rende visita al futuro Buddha
È la storia del veggente Asita, un grande yogi, il quale, avendo saputo della nascita del futuro Buddha, si reca al palazzo degli Shakya per vederlo.
Infatti Asita, grazie ai suoi poteri yogici, aveva osservato un gruppo di Deva che manifestavano grande felicità e aveva chiesto loro il motivo di tanta gioia. Gli dei gli avevano così risposto:
"Nella città degli Shakya, nel parco di Lumbini, è venuto al mondo il Bodhisatta [in sanscrito bodhisattva], la perla mirabile, l'incomparabile; egli viene per il bene e per la felicità degli uomini, e per questo noi siamo così felici e gioiosi. Colui che è la più eccelsa di tutte le creature, l'uomo superiore, il primo degli uomini, il più grande di tutti gli esseri, farà girare la Ruota del Dhamma nel bosco dei Veggenti, lui che ruggisce come un leone, il poderoso re degli animali".
All'udire queste parole l'eremita Asita scese rapidamente dal cielo e si recò al palazzo di Suddhodana, dove si sedette al cospetto degli Shakya e domandò loro: "Dov'è il principe? Anch'io desidero vederlo". Allora gli Shakya mostrarono ad Asita il bambino, il loro principe, splendente come l'oro fuso nel crogiolo da un valente artigiano, mirabile nella sua gloria e nella sua bellezza incomparabile. Quando vide il principe splendente come una fiamma viva e come le stelle del firmamento, come il sole d'autunno quando è limpido e non offuscato da nubi, Asita si abbandonò alla gioia e fu rapito in estasi.
I Deva del cielo tenevano sospeso nello spazio etereo che divide il cielo dalla terra un baldacchino, sontuoso nel dedalo di una miriade di stoffe e drappeggi, e agitavano code di yak impugnandole con manici d'oro; ma i Deva che sostenevano il baldacchino e agitavano le code di yak erano visibili solo all'asceta. Al colmo della felicità l'eremita Asita, chiamato la Gloria Nera, che portava i capelli a trecce, accolse quel bambino simile a una pietra preziosa scintillante su una stoffa color arancio, maestoso sotto il baldacchino innalzato in suo onore; esperto nell'interpretazione dei segni e dei presagi, Asita fece allora risuonare la sua voce gioiosa per salutare come si conviene il capo degli Shakya: "Ecco l'Incomparabile, il Capo di tutti gli esseri umani".
Ma poi, ricordandosi della sua età ormai avanzata, cadde in uno stato di profonda tristezza e si mise a piangere. Di fronte alle sue lacrime, gli Shakya chiesero ad Asita: "Forse che il bambino corre qualche pericolo?". Per tranquillizzare gli Shakya l'eremita rispose: "Non prevedo nulla di funesto per il bambino, e non c'è alcun pericolo per lui, perché non è un essere inferiore: non è, infatti, di casta inferiore; non abbiate allora alcun timore.
"Questo principe raggiungerà il grado più alto dell'Illuminazione perfetta e farà girare la Ruota del Dhamma; lui che possiede lo sguardo puro, e vede ciò che per gli uomini è bene, diffonderà lontano la Via Santa.
"Ma la mia vita volge ormai alla fine, e la morte mi coglierà mentre il bambino sorriderà alla vita; io non ascolterò il Dhamma dell'Incomparabile: ecco perché sono così triste".
Dopo aver riempito di gioia gli Shakya egli lasciò il palazzo per andare a riprendere la sua vita religiosa(6).

Alcuni secoli dopo, si leggerà nel Vangelo di Luca, 2,22-35:
Quando venne il tempo della loro purificazione secondo la Legge di Mosè, [Giuseppe e Maria] portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore, come è scritto nella Legge del Signore: ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore; e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la Legge del Signore.
La presentazione al Tempio di Rembrandt
Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, che aspettava il conforto d'Israele; lo Spirito Santo che era sopra di lui, gli aveva preannunziato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Messia del Signore. Mosso dunque dallo Spirito, si recò al tempio; e mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere la Legge, lo prese tra le braccia e benedisse Dio:
«Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola; perché i miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele».
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l'anima»”.


Senza addentrarsi ulteriormente nelle ricerca di analogie tra storie appartenenti ad epoche, luoghi e tradizioni molto lontane tra loro, è sufficiente osservare i due diversi atteggiamenti umani: Asita, dopo aver provato gioia ed essere entrato in uno stato estatico, si rattrista e piange pensando alla sua prossima morte e quindi all’impossibilità di ascoltare gli insegnamenti del futuro Buddha. Al contrario, Simeone si abbandona “in pace” alla volontà divina, e quindi alla morte, avendo potuto vedere di persona la luce della salvezza per tutti i popoli.

NOTE

(1)    In: La rivelazione del Buddha, vol. I – I testi antichi, a cura di R. Gnoli, Ed. Mondadori, pag. 1181.
(2)    Id., pag. 1141.
(3)    Si tratta probabilmente dei canestri nei quali venivano conservati gli insegnamenti scritti su supporti di origine vegetale.
(4)    Molti testi del Canone Pali sono leggibili, tradotti in italiano a cura di Enzo Alfano, nel prezioso sito Internet: http://www.canonepali.net/index.html.
(5)    Dall’Introduzione di G. Burrini a: V. Cucchi (a cura di), La vita di Buddha nei testi del Canone Pali, Ed. Xenia, pagg. XI-XI.
(6)    L’episodio di Asita è narrato nel Mahavagga 679-697, ed è leggibile nel sito “in quiete” di Gianfranco Bertagni: (http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/buddhismo/cucchi.txt). L’incontro tra Asita e Siddhartha è riportato in maniera estesa nel più tardivo Buddhacarita di Asvaghosa (di cui si parlerà successivamente), nel Canto I, 49-80.

ottobre 2014