lunedì 4 aprile 2022

Rileggere Pinocchio - Fiaba per Burattini o Discesa agli Inferi? - IV parte

 

Protagonisti, deuteragonisti, antagonisti: la Bambina dai capelli turchini

 Prima del tragico ma provvisorio epilogo della vicenda di Pinocchio, durante il suo tentativo di sfuggire agli assassini fa una brevissima apparizione, quasi un sogno all’interno di un sogno, una figura fondamentale, una vera protagonista del racconto, la bambina dai capelli turchini, che si manifesta in una modalità spettrale, fantasmatica. Si affaccia alla finestra di una casina che biancheggiava in lontananza candida come la neve, con il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto. Parla senza muovere le labbra, e la sua voce pare giungere dall’altro mondo. Le sue parole sono inequivocabili: In questa casa non c’è nessuno. Sono tutti morti. E conferma: Sono morta anch’io... Aspetto la bara che venga a portarmi via.

 La bambina morta rappresenta secondo Zolla “la femminilità eterna, epurata da ogni traccia temporale”: in tal senso morta, perché fuori dalla temporalità, dalla contingenza. È il principio femminile, il punto della salvezza, il grembo nel quale rinascere a nuova vita (Incipit vita nova, aveva scritto Dante). Ella è de-funta, nel senso etimologico del termine, allontanata (per il momento) dalla sua funzione. Pinocchio le chiede di essere caritatevole e compassionevole – aprimi per carità! Abbi compassione di un povero ragazzo… e così sarà. Ma egli dovrà prima bere il calice fino in fondo.

 In questo breve episodio, in cui Pinocchio incontra per la seconda volta la morte (la prima è l’uccisione del Grillo), è leggibile secondo l’interpretazione del testo suggerita da Zolla (la storia di una trasmutazione e di una rinascita, di una liberazione, di una rottura dei propri limiti) un primo indizio operativo: “Il primo suggerimento è frequentare i morti”. Ovvero vedere la fine e il principio delle cose, la loro natura autentica, impermanente, secondo la terminologia buddhista; conoscere se stessi, vedere il proprio volto originario prima della nascita dei nostri genitori, come si dice nel Buddhismo Zen. Gnōthi seautón, era scritto nel tempio di Apollo a Delfi… e conoscerai l’universo.

Alla fine del racconto il tema si ripresenterà, a conferma dell’indicazione operativa suggerita da Collodi: nella notte che precedette la sua trasformazione, a Pinocchio “parve di vedere in sogno la Fata, tutta bella e sorridente…

Ma per ora Pinocchio deve percorrere il suo Calvario. Non è casuale questo termine così evocativo, tali e tante sono le affinità tra la sua vicenda e quella della Passione di Cristo.

 Dopo una lunga fuga, nella guazza profetizzata dal Grillo, sulla cima di un pino dato alle fiamme (ma da cui il burattino fugge via, essendo il pino simbolo di immortalità), tra campi e vigneti, Pinocchio viene catturato dagli assassini, che lo torturano per impadronirsi delle monete, dono di Mangiafoco, che teneva in bocca. Prima lo colpiscono sulle reni con lunghi coltelli, poi, al grido “Impicchiamolo, impicchiamolo!”, ripetuto da entrambi, lo appendono per la gola ad una grande quercia.

Così, nei racconti della Passione leggiamo ad esempio:

Disse loro Pilato: «Che farò dunque di Gesù chiamato il Cristo?». Tutti gli risposero: «Sia crocifisso!». Ed egli aggiunse: «Ma che male ha fatto?». Essi allora urlarono: «Sia crocifisso!» (Matteo 27).

E in Marco: Pilato replicò: «Che farò dunque di quello che voi chiamate il re dei Giudei?». Ed essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo!». Ma Pilato diceva loro: «Che male ha fatto?». Allora essi gridarono più forte: «Crocifiggilo!» (Marco 15).


  E Pinocchio viene così appeso ad un albero, la Quercia grande.

 L’Albero, simbolo fondamentale in ogni cultura tradizionale, in Occidente come in Oriente. Simbolo di vita: la crescita, la proliferazione, la rigenerazione. Simbolo del collegamento fra i tre mondi:

il mondo ctonio, sotterraneo, assimilabile all’inconscio;

il mondo terrestre, della manifestazione, assimilabile la coscienza;

il mondo celeste, superiore, lo Spirito, la Sapienza.

Per la sua verticalità l’Albero è axis mundi, il che rimanda alla Montagna e alla Piramide. E, relativamente alle fisiologia umana, alla colonna vertebrale.

Nel mito nordico l’albero cosmico, Yggdrasil, affonda le sue radici negli Inferi.

Nelle culture tradizionali dei Nativi Americani, l’Albero totemico è il centro del villaggio, della Nazione, dell’Universo.

Per il Cristianesimo è assimilabile alla Croce, l’albero della Redenzione e della vita. 

 

Nel Paradiso Terrestre l’albero è duplicato:

Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l'uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male…. Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”. Secondo alcune leggende, con il suo legno è fabbricata la Croce.

Il Buddha conseguì il Risveglio, la Saggezza Suprema, l’autentico Sé, sotto le fronte di un albero, il ficus religiosa.

Gli alberi sono sempre presenti nelle tradizioni religiose e popolari: l’albero della cuccagna, e l’albero di Natale, al quale ben prima dei doni e degli addobbi in vetro, o in plastica cinese, venivano appese noci, frutta, dolci.   .

La quercia cui Pinocchio è appeso è albero sacro per eccellenza. Era consacrato a Giove, era simbolo di forza e di durata nel tempo. Di legno di quercia era la clava di Eracle. Per i popoli Celti, la quercia era l’albero della vita, vicino ad essa i sacerdoti Druidi celebravano i riti sacri.

La forza della quercia è ciò di cui Pinocchio necessita per proseguire il suo viaggio.

Egli muore sulla quercia di una morte iniziatica.

Si legge in Matteo 27 e in Marco 15: Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: “Elì, Elì, lemà sabactàni?”, “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.

E Pinocchio, impiccato alla quercia, balbettò quasi moribondo: “Oh babbo mio! Se tu fossi qui!”

Prima della morte di Cristo sulla croce, secondo Matteo 27, dall'ora sesta fino all'ora nona si fecero tenebre su tutto il paese. Ed ugualmente per tre ore il burattino, prima di morire, sgambettò per ad occhi aperti e bocca chiusa.

 Ma tutte queste analogie, come osserva Carosi, non devono indurre a ritenere che Pinocchio sia in qualche modo assimilabile alla figura del Cristo: “Pinocchio non è l’Essere che preso su di sé il male di tutta l’umanità… ne effettua la redenzione… è invece l’essere che… rivive l’evento similare mantenendo le proprie attitudini, le proprie imperfezioni”. Pinocchio vive la lotta fra Bene e Male, quindi ha in sé la manifestazione del Cristo, ma anche la manifestazione di Giuda Iscariota.

Vari elementi in qualche modo evidenziano la presenza della figura di Giuda in Pinocchio: in primis l’impiccagione all’albero, che rimanda al suicidio di Giuda, nella versione di Matteo 27: Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d'argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo: “Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente”. Ma quelli dissero: “Che ci riguarda? Veditela tu!”. Ed egli, gettate le monete d'argento nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi.

Inoltre nelle vicende che riguardano Pinocchio, la Volpe ed il Gatto (ovvero gli Assassini) rivestono grande importanza due fattori: le monete (5, poi 4) donate da Mangiafoco, che Pinocchio tiene in bocca fino all’impiccagione, e il Campo dei Miracoli, nel quale avrebbe dovuto seppellirle per moltiplicarle. Elementi che rinviano alle trenta monete ottenute da Giuda dai sacerdoti quale ricompensa del tradimento e al Campo del Vasaio di cui parla lo stesso Matteo 27 (“Ma i sommi sacerdoti, raccolto quel denaro, dissero: “Non è lecito metterlo nel tesoro, perché è prezzo di sangue”. E tenuto consiglio, comprarono con esso il Campo del vasaio per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo fu denominato "Campo di sangue" fino al giorno d'oggi”).

 Una fine provvisoria

 Le informazioni storiche sull’opera ci dicono che Collodi concluse qui, con l’impiccagione del burattino, la pubblicazione delle sue avventure, che sarebbero quindi terminate con un finale coerente con i comportamenti imprevedibili e sconsiderati del personaggio.

Si rammenti però quanto Collodi fece dire a Pinocchio di se stesso: “Ma io non sono come gli altri ragazzi! Io sono più buono di tutti e dico sempre la verità. Vi prometto, babbo, che imparerò un’arte e che sarò la consolazione e il bastone della vostra vecchiaia”. Era il preannuncio di uno sviluppo, di un seguito nella storia delle sue avventure e soprattutto nella storia della sua evoluzione interiore.

La sua morte, come detto, è una morte iniziatica, necessaria. Costituisce un nuovo inizio. Come indica Carosi, se effettivamente Collodi “costituiva il tramite per la delineazione di un messaggio-modello immaginativo per l’evoluzione dell’umanità, non poteva concludere l’opera con la sola indicazione della confessione del male, senza dare l’indicazione del conseguimento del superamento del male stesso”.

Dopo quattro mesi la pubblicazione delle avventure di Pinocchio riprese, anche sotto la spinta di pressioni esterne, da parte dei lettori e dell’editore.

È già stato osservato, e lo si rileva da una lettura anche superficiale, che mentre la prima parte del testo ha un carattere impetuoso, un ritmo molto veloce, spezzato, i capitoli successivi sono più lenti, il che corrisponde all’evoluzione del burattino, alla progressiva maturazione di una autocoscienza sempre più profonda, che lo porterà alla sua Trasumanazione finale, al conseguimento della Saggezza, che è qualità dell’elemento femminile (Iside, Sofia, Atena-Minerva, Beatrice, Laura, Prajnaparamita, Lakshmi, Sarasvati,…). Elemento che già era comparso nell’esistenza di Pinocchio, nel capitolo della sua morte, sotto l’aspetto della bambina dai capelli turchini, defunta, con il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto.

 La Fata dai capelli turchini

 Secondo il Card. Biffi – ma è questo un dato di per sé evidente – la Bambina/Fata dai capelli turchini è figura assolutamente centrale del racconto, è al centro del rapporto tra il padre e il figlio; non diventa parte della “famiglia” ma grazie a lei al termine si instaura un legame perfetto e definitivo.


 Ella rappresenta la “Sapienza”, in greco Sophia, che la Rivelazione presenta esplicitamente come personificazione femminile.

Si rammenti che il Libro della Sapienza o Sapienza di Salomone è un testo contenuto nella Bibbia cattolica (Settanta e Vulgata) ma non accolto nella Bibbia ebraica.

La redazione finale, secondo la maggior parte degli studiosi e la ricerca più recente, è avvenuta nel primo secolo a.C.

Molti studiosi pensano che il libro abbia non un solo autore, ma che sia opera di più autori. La Sapienza, in ordine cronologico, è l'ultimo libro dell'Antico Testamento.

 Per Biffi la “sapienza” non è pura idealità, ma si è inverata nel creato: “non fatichiamo a vedere nella Fata del racconto una splendida allusione alla Madre di Dio e alla sua sollecitudine a nostro favore”. In Maria diviene attuale la realtà ecclesiale: “L’immagine della Fata esprime con molta opportunità la realtà ecclesiale: la bella Bambina dai capelli turchini è la Sposa senza macchia”.

Acutamente lo stesso Biffi rileva però che la centralità della figura della Fata faccia sì che la sua simbologia sia molto complessa: pare quindi più che plausibile ritenere che la figura della Fata/Bambina vada molto al di là della sua identificazione con Maria e con la realtà storica della Chiesa Cattolica.

La Fata, la Bambina, Maria, Iside, Sophia, sono allora manifestazioni determinate in epoche e culture diverse di un’immagine “archetipica” che pre-esiste ad esse su un piano orizzontale, temporale, storico, quanto piuttosto ad un livello superiore, ideale, ontologico. 

 Infatti Pietro Citati nell’Introduzione a Pinocchio amplia e approfondisce l’interpretazione, e vede rivivere nella Bambina la figura della Fata delle favole antiche: è la Signora degli Animali, la Regina delle Metamorfosi, la Tessitrice dei destini. Soprattutto individua due punti, che Biffi lascia ai margini della sua analisi:

1. il legame della Bambina con il regno della morte, e

2. l’evoluzione dell’immagine con cui la Fata si manifesta a Pinocchio: bambina de-funta, bambina/sorella-guaritrice, bambina morta di dolore, donna/madre che nutre ed educa, Caprettina turchina, madre malata, Sogno che trasforma.

 Il signor Serpente

 Nel capitolo XX, Pinocchio, liberato dalla prigione, si avvia per tornare a casa della Fata; ma lungo la strada trova un serpente orribile, e poi rimane preso alla tagliuola.

 Incontra infatti “un grosso Serpente, disteso attraverso alla strada, che aveva la pelle verde, gli occhi di fuoco e la coda appuntuta, che gli fumava come una cappa di camino.

…Che sia morto davvero?... – disse Pinocchio, dandosi una fregatina di mani dalla gran contentezza: e senza mettere tempo in mezzo, fece l’atto di scavalcarlo, per passare dall’altra parte della strada. Ma non aveva ancora finito di alzare la gamba, che il Serpente si rizzò all’improvviso, come una molla scattata: e il burattino, nel tirarsi indietro, spaventato, inciampò e cadde per terra.

E per l’appunto cadde così male, che restò col capo conficcato nel fango della strada e con le gambe ritte su in aria. Alla vista di quel burattino, che sgambettava a capofitto con una velocità incredibile il Serpente fu preso da una tal convulsione di risa, che ridi, ridi, ridi, alla fine, dallo sforzo del troppo ridere, gli si strappò una vena sul petto: e quella volta morì davvero.

 Un episodio breve, apparentemente di scarsa rilevanza nel contesto della narrazione, ma ricco di elementi simbolici profondi.

Il primo è la figura del grosso Serpente, di colore verde, con gli occhi infuocati e la coda fumante. ­

Il Serpente nell’ottica del simbolismo si identifica con le energie, le correnti cosmiche del cielo e della terra. Ad un primo approccio l’Occidente pare attribuire al serpente un potere malefico, negativo, che rimanda immediatamente al suo ruolo vetero-testamentario di tentatore e di causa prima della cacciata dall’Eden di Adamo ed Eva. Anche nell’Apocalisse di Giovanni esso è identificato con il Male, è detto il serpente antico, che è diavolo e il Satana.

Analoga sorte è toccata al simbolo che al serpente è indissolubilmente associato, il Drago. Proprio Giovanni lo definisce il grande drago, il serpente antico che seduce il mondo intero. Scrive Giovanni: “Vidi un angelo che scendeva dal cielo con la chiave dell’abisso e una catena grande sulla sua mano. E tenne saldamente il drago, il serpente antico, che è Diavolo e il Satana, e lo legò per mille anni e lo gettò nell’abisso e lo chiuse e pose un sigillo su esso, affinché non traviasse più le genti fino a che si compissero i mille anni”. E dopo i mille anni, “il diavolo [..] fu gettato nella palude del fuoco e zolfo, dove anche si trovano la bestia e lo pseudoprofeta e saranno tormentati giorno e notte per i secoli dei secoli.

A tutti è poi noto il mito di San Giorgio, che per salvare una fanciulla destinata a diventare cibo per un drago, fattosi il segno della croce si gettò sul drago, vibrò con forza la lancia e, raccomandandosi a Dio, gravemente lo ferì e lo rese mansueto come un cagnolino, per poi ucciderlo dopo che tutti gli abitanti del posto ebbero ricevuto il battesimo.

Ma ad un’osservazione più attenta non può sfuggire il fatto che in tutte le tradizioni la figura del serpente-drago è molto più complessa, incarna molteplici significati, e non si appiattisce in una visione negativa del simbolo, trasformato in un’icona del Male, da abbattere. E questo anche in Occidente, dove, al di fuori della tradizione cristiana, il drago personifica la Potenza. In quanto tale figurava ad esempio sugli stendardi assiri, parti, sciti, romani, bretoni, e sulle prue delle navi vichinghe.

Nei miti di quasi tutte le culture umane il serpente-drago è l’espressione delle più profonde energie interiori dell’uomo, che custodiscono il tesoro della vita spirituale, la natura umana autentica, il Sé, rappresentato dall’oro o dalle gemme. Sono in definitiva le immagini dei nostri desideri e delle nostre passioni, che possono ostacolare la conoscenza e l’accesso al tesoro che è in noi, nelle profondità dello spirito, o, per dirlo in termini più “scientifici”, dell’inconscio (ben rappresentato dalle caverne, dagli abissi oceanici, dai palazzi scavati nel sottosuolo). Il serpente-drago, quindi, è sì custode di tali ricchezze, ma può diventarne estremamente geloso, e quindi distruttivo, se si è troppo accondiscendenti nei suoi confronti, ovvero nei confronti delle nostre pulsioni più egoistiche e distruttive.

Nelle tradizioni orientali, in quella cinese per tutte, il drago (in cinese lóng, in giapponese ryū) ricopre un ruolo egemone, fino a divenire un vero modello archetipico per l’Oriente, nonché il simbolo stesso del Paese. Qui il drago rappresenta la vita stessa, è la forza creatrice e vivificante, il simbolo della potenza imperiale. È intermediario tra il Cielo e l’Imperatore, al quale “trasmette la forza cosmica che consente all’ordine di regnare e alla vita di svilupparsi armoniosamente. Se i ritmi sono dimenticati, se la vita cosmica o sociale è disorganizzata, soltanto l’Imperatore, detentore del mandato celeste, ha il potere di rigenerare la sua forza creatrice e di ristabilire l’ordine”. In difetto, il drago gli ritira il mandato del Cielo e l’Imperatore è delegittimato.

Non a caso il drago è il simbolo principe tra i dodici segni dello zodiaco cinese. Nel buddhismo sino-giapponese (chan-zen) il drago che dal cielo si tuffa nelle profondità del mare rappresenta il conseguimento della suprema Saggezza, la conoscenza del Sé, la liberazione. E nei miti sulla vita del Buddha, il principe Siddhartha seduto in meditazione sotto l’albero del Risveglio fu riparato dalla pioggia proprio da un enorme cobra, che distese il suo cappuccio sul capo del futuro Buddha.

La polivalenza del simbolismo del serpente, ben al di là dell’identificazione con il male e la negatività, è dimostrata da molti altri aspetti: il serpente rappresenta la rinascita (muta la pelle ma resta se stesso); similmente, nella forma di urobòro, il serpente o il drago che si morde la coda formando un cerchio, apparentemente immobile, ma in eterno movimento, rappresenta, l’energia universale che si consuma e si rinnova di continuo, la natura ciclica delle cose; vivendo sottoterra cela lo spirito dei morti, ma possiede altresì i segreti del tempo (il tesoro custodito dai draghi).

Collodi stesso ci fornisce la chiave di lettura della polivalenza del simbolismo ofidico: l’episodio è sì spaventoso, ma è anche umoristico: infatti il Serpente muore, non per mano di Pinocchio o di altri, bensì per il troppo ridere: “fu preso da una tal convulsione di risa, che ridi, ridi, ridi, alla fine, dallo sforzo del troppo ridere, gli si strappò una vena sul petto: e quella volta morì davvero”.

 Troviamo proprio qui un secondo elemento significativo del breve episodio: Pinocchio, con il corpo conficcato nella terra e le gambe in aria (come i simoniaci di Inferno XIX), prende coscienza di quel mondo sotterraneo, il mondo degli spiriti, a cui il simbolo del serpente-drago ci rimanda. Lì, come una pianta, vive fino in fondo la sua natura vegetale. Può, secondo un’espressione molto diffusa in Europa, manger les pissenlits par la racine, sich die Radieschen von unten ansehen, mangiare l’insalata dalle radici…

Quando il serpente muore, Pinocchio esce dal sottosuolo, così come Dante nel canto XXXIV dell’Inferno porta a compimento la discesa agli Inferi, ruota su se stesso ed esce a riveder le stelle.