mercoledì 23 marzo 2016

Fratture da stress

Nell’ultima parte del suo saggio sullo zen (http://zenvadoligure.blogspot.it/2016/03/leco-dello-zen.html), Umberto Eco riconosce che nel mondo contemporaneo “le leggi causali sono crollate [e] la probabilità do­mina la nostra interpretazione delle cose”; di conseguenza lo zen si è proposto “come un sostitutivo mitologico di una coscienza critica. Vi si è trovato l’invito a godere il mutevole in una serie di atti vitali anziché ammetterlo soltanto come freddo criterio metodologico”.
Ma la vera vocazione dell’Occidente è pur sempre secondo Eco quella di ridefinire continuamente ciò che è mutevole “attraverso le leggi provvisorie della probabilità e della statistica”, attraverso “l’ordine e l’intelligenza che distingue”.
 Manifesta quindi “le più ampie riserve” nei confronti “di una validità as­soluta del messaggio Zen per l’uomo occidentale”, in quanto l’ani­mo occidentale si distaccherà sempre da una visione buddhista “che celebra la accettazione positiva della vita”, a causa del suo “biso­gno ineliminabile di ricostruire questa vita accettata se­condo una direzione voluta dall’intelligenza. Il momen­to contemplativo non potrà che essere uno stadio di ri­presa, un toccare la madre terra per riprendere energia: mai l’uomo occidentale accetterà di smemorare nella con­templazione della molteplicità, ma si perderà sempre ten­tando di dominarla e ricomporla”.

Senza entrare nel merito di quanto possa essere corretta l’immagine del buddhismo (dei buddhismi), avanzata da Eco, come di una proposta di “smemoramento” nella contemplazione del molteplice, dell’indeterminato, dell’impermanente (e quindi della sofferenza, che in tal caso non potrebbe essere superata), pubblichiamo qui un altro testo, anch’esso del 1959-60, che propone una visione molto diversa rispetto a quella di Eco. Si tratta delle pagine finali di uno degli ultimi scritti di Carl Gustav Jung (1875-1961), la “Introduzione all’inconscio”, nelle quali l’A. evidenzia i limiti di un’esistenza interamente fondata sulla dea Ragione e i rischi della presunzione umana di aver grazie ad essa “conquistato la natura”, senza avvertire la profonda frattura interiore che l’uomo contemporaneo sta tragicamente vivendo.

Come sempre accade a chi scrive osservando i mostri creati dal sonno della Ragione, vien da chiedersi quali mostri la stessa Ragione potrebbe generare nel momento di un suo definitivo risveglio…

Il sonno della ragione genera mostri (Goya)

Scrive Jung:

Come sanare la frattura

Il nostro intelletto ha creato un mondo nuovo che domina la natura e lo ha popolato di macchine mostruose. Quest’ultime presentano una utilità così indiscutibile che non possiamo neanche immaginarci la possibilità di fare a meno di esse o di rinunciare a essere loro subordinati. L’uomo è costretto a seguire inevitabilmente i suggerimenti della sua mente scientifica e inventiva e a inebriarsi delle proprie splendide conquiste. Contemporaneamente, però, il suo genio rivela una terrificante tendenza a inventare cose che diventano sempre più pericolose, in quanto suscettibili di trasformarsi in micidiali strumenti di un suicidio universale.
Di fronte alla valanga crescente dell’aumento della popolazione mondiale, l’uomo ha già intrapreso la ricerca di metodi e strumenti per arginare questo pericolo. Ma la natura può anticipare tutti i nostri tentativi ritorcendo contro l’uomo la sua stessa mente creativa. La bomba H, per esempio, arresterebbe senz’altro la sovrappopolazione. Malgrado il nostro orgoglioso sentimento di dominio sulla natura, restiamo tuttora sue vittime, poiché non abbiamo ancora imparato a controllare la nostra intima natura. Lentamente ma, a quanto pare, con ostinazione irrevocabile, stiamo cercando il disastro.
Non ci sono più dei cui si possa ricorrere per invocare aiuto. Le grandi religioni del mondo soffrono di una crescente anemia: le soccorrevoli divinità hanno per sempre abbandonato i boschi, i fiumi, le montagne, gli animali e gli uomini-dei sono scomparsi nel profondo dell’inconscio. Poi inganniamo noi stessi tentando di persuaderci che colà essi conducano un’esistenza ignominiosa fra le reliquie del nostro passato. La nostra vita presente è dominata dalla dea Ragione che costituisce la nostra maggiore e più tragica illusione. Con l'aiuto della ragione - così tentiamo di rassicurarci - abbiamo “conquistato la natura”.
Però si tratta di un semplice slogan, poiché la cosiddetta conquista della natura si dimostra al di là delle nostre possibilità per il semplice fenomeno naturale della sovrappopolazione e si aggiunge agli altri nostri travagli dovuti alla nostra incapacità psicologica di realizzare i necessari ordinamenti politici. Per gli uomini resta più che naturale contrastarsi e combattersi reciprocamente per affermare la propria superiorità gli uni sugli altri. In che modo, quindi, abbiamo “conquistato la natura”?
Poiché ogni cambiamento deve originare da qualche parte, è il singolo individuo che dovrà sperimentarlo e condurlo a buon fine. Il cambiamento deve necessariamente avviarsi in un individuo e questi potrebbe essere chiunque di noi. Nessuno ha il diritto di starsi a guardare intorno aspettando che altri facciano quello che egli non è disposto a mettere in atto personalmente. Ma poiché nessuno sembra sapere ciò che deve fare, varrebbe la pena che ognuno di noi si chiedesse se per caso il proprio inconscio non sia a conoscenza di qualcosa che possa aiutarlo. Ciò che è certo è che la mente conscia appare incapace di rendere qualsiasi servigio di questo tipo. L'uomo è oggigiorno dolorosamente consapevole del fatto che né le grandi religioni, né le diverse filosofie risultano in grado di fornirgli quelle potenti idee animatrici che sole potrebbero dargli la sicurezza di cui ha attualmente bisogno per fronteggiare le condizioni del mondo contemporaneo.
Ricordo l'antico detto buddista: tutto andrebbe per il suo giusto verso se gli uomini si limitassero a seguire il “nobile sentiero dalle otto diramazioni” del Dharma (dottrina, legge) e se penetrassero a fondo la verità del Sé. Il cristiano ci dice che se gli uomini avessero fede in Dio, il mondo diventerebbe migliore. Il razionalista, infine, insiste nel dire che se gli uomini fossero intelligenti e ragionevoli, tutti i nostri problemi troverebbero una soluzione. Il guaio è che nessuno di loro si dà da fare per risolvere personalmente tutti questi problemi.
I Cristiani spesso si domandano come mai Dio non parli più loro, come si crede che abbia fatto nei tempi antichi. Quando sento porre questa domanda mi viene sempre in mente l'episodio di quel rabbino cui era stato chiesto come mai Dio si fosse mostrato spesso agli uomini nell'antichità e così non avvenisse più, invece, al giorno d'oggi. II rabbino rispose: “Oggigiorno non c'è più nessuno che sappia inchinarsi di fronte alla legge”.
Questa risposta coglie nel cuore della questione. Noi siamo a tal punto prigionieri della nostra coscienza soggettiva da esserci dimenticati del fatto, antico quanto il mondo, che Dio parla soprattutto per sogni e per visioni. Il buddista rinnega come illusioni senza senso l'intero mondo delle fantasie inconsce; il cristiano, da parte sua, interpone fra sé e il proprio inconscio la Chiesa e la Bibbia; l'intellettuale razionalista, infine, non arriva a capire che la coscienza non esaurisce la totalità della psiche. Questa forma d'ignoranza resiste nel nostro tempo nonostante il fatto che da più di settant’anni l'inconscio si sia affermato come concetto scientifico fondamentale senza il quale non è più possibile condurre alcuna seria indagine psicologica.
Noi non abbiamo più il diritto di considerarci tanto onnipotenti da porci come giudici dei meriti o dei demeriti dei fenomeni naturali. Noi non fondiamo più la botanica sull'antiquata divisione fra piante utili e piante inutili, o la zoologia sull'ingenua distinzione fra animali inermi e animali pericolosi. Eppure continuiamo a trastullarci col concetto che la coscienza rappresenti il senso e l'inconscio il non senso. In sede scientifica una opinione come questa verrebbe subito scartata per la sua ridicola inconsistenza. Forse si può dire che i microbi abbiano o non abbiano senso?
Qualunque cosa possa essere l'inconscio, esso è un fenomeno naturale produttore di simboli che si dimostrano significativi. Come non possiamo attenderci che una persona che non abbia mai guardato attraverso un microscopio possa esprimere interpretazioni autorevoli sul conto dei microbi, così nessuno che non abbia mai condotto un serio studio sui simboli naturali può essere considerato un giudice competente in materia. Tuttavia la generale scarsa stima sul conto dell'anima umana è così grande che né le grandi religioni, né le varie filosofie, né il razionalismo scientifico si sono voluti soffermare a considerarla a fondo.
Malgrado il fatto che la chiesa cattolica ammetta la realtà dei somnia a Deo missa, la maggioranza dei filosofi suoi seguaci non ha fatto alcun tentativo per interpretare a fondo i sogni. Io dubito che esista anche un solo trattato o una sola dottrina di confessione protestante che si sia abbassato fino al punto di ammettere la possibilità che la vox Dei possa venire avvertita in sogno. Ma se un teologo crede veramente in Dio, sulla base di quale autorità egli crede di poter affermare che Dio non possa parlare per mezzo dei sogni?
Io ho trascorso più di cinquant'anni a studiare i simboli naturali e sono giunto alla conclusione che né i sogni né i loro simboli sono delle sciocchezze. Al contrario, i sogni sono in grado di fornire informazioni del massimo interesse a coloro che si danno da fare per comprendere i loro simboli. I risultati che ne derivano, è vero, hanno poco a che fare con quelle che sono fra le principali occupazioni degli uomini, come vendere e comperare. Ma il significato della vita non si esaurisce nel mondo degli affari, né alle profonde aspirazioni del cuore umano si risponde con un conto in banca.
In un periodo della storia umana in cui tutte le energie disponibili vengono spese nello studio della natura, ben poca attenzione è dedicata all'essenza dell'uomo, cioè alla sua psiche, benché non poche ricerche siano condotte intorno alle sue funzioni inconsce. Eppure la zona veramente complessa e meno familiare della mente, quella da cui scaturiscono i simboli, resta tuttora praticamente da esplorare. Sembra quasi incredibile che, pur ricevendone segnali ogni notte, la decifrazione di queste comunicazioni sembri compito ingrato e fastidioso per la maggior parte di noi, pochissimi esclusi. Il maggior strumento di cui dispone l'uomo, la psiche, è oggetto di scarsa attenzione e viene spesso disprezzato e considerato vano. “È solo una questione psicologica” molto spesso significa semplicemente: non vale nulla.
Da dove deriva precisamente questo enorme pregiudizio? Noi ci siamo occupati tanto a fondo del problema di sapere che cosa pensiamo da esserci dimenticati di chiederci che cosa la psiche inconscia pensi di noi. Per molta gente le idee di Sigmund Freud non hanno servito ad altro che a ribadire il già diffuso disprezzo per la psiche. Prima di lui essa era stata semplicemente trascurata; ora si è trasformata in oggetto di disprezzo morale.
Il punto di vista moderno è indubbiamente unilaterale e ingiusto. Esso non si concilia neppure con i fatti a nostra conoscenza. Le nostre nozioni attuali sul conto dell'inconscio dimostrano che esso costituisce un fenomeno naturale e che, come la stessa Natura, anch'esso è per lo meno neutrale. Esso contiene tutti gli aspetti della natura umana - luce e oscurità, bello e brutto, buono e cattivo, profondità e vacua superficialità. Lo studio del simbolismo individuale e collettivo costituisce un compito enorme che non è mai stato dominato. Tuttavia ci si è finalmente incamminati ad assolverlo. I primi risultati sono incoraggianti e sembrano indicare una risposta per molte questioni fino a oggi irrisolte dell'umanità contemporanea.

Maschera rituale tibetana

Il testo di Jung è pubblicato qui: 

AA.VV., L’uomo e i suoi simboli, Ed. Longanesi

martedì 22 marzo 2016

L'Eco dello Zen

Di Umberto Eco, che pochi giorni or sono ha lasciato il corpo, è assolutamente inutile dire altro. Val meglio leggere, e rileggere.
Eco ha scritto, nel lontano 1959, anche di Zen, e qui proponiamo il suo breve saggio, lasciando al tempo, e a chi ne sentisse il bisogno, l’onere del giudizio.
                                          
Il testo in formato pdf è leggibile qui:
http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/zen/ecozen.pdf

Si veda anche:
http://www.lastelladelmattino.org/altro-materiale/lo-zen-e-i-68

Padre Jorge, uno dei personaggi de Il nome della rosa

LO ZEN E L’OCCIDENTE
di Umberto Eco

Questo saggio risale al 1959, quando in Italia cominciavano ad agitarsi le prime curiosità sullo zen. Siamo stati incerti se inserirlo in questa seconda edizione per due motivi:
1)      La “vague” dello zen non ha poi lasciato segni degni di nota sulla produzione artistica fuori d'America, e il discorso e oggi molto meno urgente di otto anni fa.
2)      Benché il nostro saggio circoscrivesse molto esplicitamente l'esperienza zen tra i fenomeni di una “moda” culturale, ricercandone ma non propagandandone le ragioni, è accaduto che lettori frettolosi (o in malafede) lo denunciassero come un manifesto, come l'incauto tentativo di un trapianto – che è invece chiaramente criticato nel­l'ultimo capoverso del saggio.
Abbiamo comunque deciso di conservare il capitolo perché:
1)      I fenomeni culturali che la moda zen simboleggiava permangono validi negli Stati Uniti – e             ovunque si instaurano forme di reazione a-ideologica, mistico-erotica alla civiltà industriale (magari attraverso il ricorso agli allucinogeni).
2)      Non bisogna mai farsi ricattare dalla stupidità altrui.

 Durante gli ultimi anni in America una piccola pa­rola giapponese, con un suono ronzante e pungente, ha cominciato a farsi sentire con casuali o esatti riferimenti nei più svariati luoghi, nelle conversazioni delle signore, nelle riunioni accademiche, ai cocktail parties... Questa piccola eccitante parola è Zen”. Così verso la fine degli anni cinquanta una diffusa rivista americana nel fare il punto su uno dei fenomeni culturali e di costume più curiosi degli ultimi tempi. Intendiamoci: il buddismo Zen oltrepassa i limiti del “fenomeno di costume”, per­ché rappresenta una specificazione del buddismo che af­fonda le sue radici nei secoli e che ha profondamente influenzato la cultura cinese e giapponese; basti pensare che le tecniche della scherma, del tiro all’arco, le arti del tè e della disposizione dei fiori, l’architettura, la pittura, la poesia nipponica hanno subito l’influenza di questa dottrina, quando non ne sono state l’espressione diretta. Ma per il mondo occidentale lo Zen è diventato feno­meno di costume da pochi anni e da pochi anni il pub­blico ha cominciato a rilevare i richiami allo Zen che appaiono in una serie di discorsi critici apparentemente indipendenti: lo Zen e la beat generation, lo Zen e la psicoanalisi, lo Zen e la musica di avanguardia in Ame­rica, lo Zen e la pittura informale, e infine lo Zen e la filosofia di Wittgenstein, lo Zen e Heidegger, lo Zen e Jung... I richiami cominciano a divenire sospetti, il fi­lologo subodora la truffa, il lettore comune perde l’orien­tamento, qualsiasi persona assennata si inalbera decisa­mente quando apprende che R. L. Blyth ha scritto un libro sullo Zen e la letteratura inglese, identificando si­tuazioni “Zen” nei poeti inglesi da Shakespeare e Milton a Wordsworth, Tennyson, Shelley, Keats, sino ai pre­raffaelliti. Tuttavia il fenomeno esiste, persone degne del­la massima considerazione se ne sono occupate, Inghil­terra e Stati Uniti stanno sfornando una massa di volumi sull’argomento, che vanno dalla semplice divulgazione allo studio erudito, e specie in America gruppi di persone vanno ad ascoltare le parole di maestri Zen emigrati dal Giappone, e specialmente del dottor Daisetz Teitaro Suzuki, un vegliardo che ha dedicato la sua vita alla di­vulgazione di questa dottrina in Occidente scrivendo una serie di volumi e qualificandosi come la massima autorità sull’argomento.
Ci sarà dunque da chiedersi quali possano essere i motivi della fortuna dello Zen in Occidente: perché lo Zen e perché ora. Certi fenomeni non accadono a caso. In questa scoperta dello Zen da parte dell’Occidente ci può essere molta ingenuità e parecchia superficialità nel mutuare idee e sistemi: ma se il fatto è avvenuto è percuna certa congiuntura culturale e psicologica ha favorito l’incontro.
Non è in questa sede che si dovrà dare una giustifica­zione interna dello Zen: esiste in proposito una lette­ratura assai ricca, più o meno specializzata, alla quale rifarsi per i necessari approfondimenti e le verifiche or­ganiche del sistema.[1] Quello che piuttosto ci interessa qui è di vedere quali elementi dello Zen abbiano potuto affascinare gli occidentali e trovarli preparati ad acco­glierlo.
C'è nello Zen un atteggiamento fondamentalmente antintellettualistico, di elementare, decisa accettazione della vita nella sua immediatezza, senza tentare di sovrap­porvi spiegazioni che la irrigidirebbero e la ucciderebbero, impedendoci di coglierla nel suo fluire libero, nella sua positiva discontinuità. E forse abbiamo detto la parola esatta. La discontinuità è, nelle scienze come nei rap­porti comuni, la categoria del nostro tempo: la cultura occidentale moderna ha definitivamente distrutto i con­cetti classici di continuità, di legge universale, di rap­porto causale, di prevedibilità dei fenomeni: ha insom­ma rinunciato ad elaborare formule generali che pre­tendano di definire il complesso del mondo in termini semplici e definitivi. Nuove categorie hanno fatto il loro ingresso nel linguaggio contemporaneo: ambiguità, insi­curezza, possibilità, probabilità. È pericolosissimo far di ogni erba un fascio e assimilare come stiamo facendo idee provenienti dai più diversi settori della cultura con­temporanea con le loro accezioni precise e distinte, ma il fatto stesso che un discorso come questo sia vaga­mente possibile e che qualcuno possa indulgentemente accettarlo come corretto, significa che tutti questi elementi della cultura contemporanea sono unificati da uno stato d'animo fondamentale: la coscienza che l’universo ordi­nato e immutabile di un tempo, nel mondo contempo­raneo rappresenta al massimo una nostalgia: ma non è più il nostro. Di qui – c'è bisogno di dirlo? –   la pro­blematica della crisi, perché occorre una salda struttura morale e molta fede nelle possibilità dell’uomo per ac­cettare a cuor leggero un mondo in cui pare impossibile introdurre moduli d'ordine definitivi.
Improvvisamente qualcuno ha incontrato lo Zen; fat­ta autorevole dalla sua età venerabile questa dottrina veniva ad insegnare che l’universo, il tutto, è mutevole, indefinibile, sfuggente, paradossale; che l’ordine degli eventi è una illusione della nostra intelligenza sclerotizzante, che ogni tentativo di definirlo e fissarlo in leggi è votato allo scacco... Ma che appunto nella piena coscien­za e nella accettazione gioiosa di questa condizione sta l’estrema saggezza, l’illuminazione definitiva; e che la crisi eterna dell’uomo non nasce perché egli deve de­finire il mondo e non vi riesce, ma perché vuole definirlo mentre non deve. Estrema proliferazione del buddismo mahayana, lo Zen sostiene che la divinità è presente nella viva molteplicità di tutte le cose, e che la beatitudine non consiste nel sottrarsi al flusso della vita per svanire nel­l’incoscienza del Nirvana come nulla, ma nell’accettare tutte le cose, nel vedere in ciascuna l’immensità del tutto, nell’essere felici della felicità del mondo che vive e pul­lula di eventi. L’uomo occidentale ha scoperto nello Zen l’invito a realizzare questa accettazione rinunciando ai moduli logici e operando solo prese di contatto diretto con la vita.
Per questo in America oggi si usa distinguere tra Beat Zen e Square Zen. Lo Square Zen è lo Zen “quadrato”, regolare, ortodosso, a cui si rivolgono quelle persone che avvertono confusamente di aver trovato una fede, una disciplina, una “via” di salvezza (e quante non sono, irrequiete, confuse, disponibili, in America, pronte ad an­dare dalla Christian Science all’Esercito della Salvezza ed ora, perché no, allo Zen), e sotto la guida dei maestri giapponesi partecipano a veri e propri corsi di esercizi spirituali, apprendendo la tecnica del “sitting”, passano lunghe ore di meditazione silenziosa controllando la pro­pria respirazione per arrivare a rovesciare, come insegna­no alcuni maestri, la posizione cartesiana affermando: “Respiro, tuttavia esisto”. II Beat Zen è invece lo Zen di cui si sono fatti una bandiera gli hypsters del gruppo di San Francisco, i Jack Kerouac, i Ferlinghetti, i Ginsberg, trovando nei precetti e nella logica (anzi nella “il­logica”) Zen le indicazioni per un certo tipo di poesia, nonché i moduli qualificati per un rifiuto della american way of life; la beat generation si rivolta all’ordine esistente non cercando di cambiarlo ma ponendosene ai margini e “cercando il significato della vita in una esperienza, soggettiva piuttosto che in un risultato oggettivo”.[2] I beatniks usano lo Zen come qualificazione del proprio individualismo anarchico: e come ha fatto notare Harold E. McCarthy in un suo studio sul “naturale” e lo “in­naturale” nel pensiero di Suzuki[3] hanno accettato sen­za troppe discriminazioni certe affermazioni del maestro giapponese per cui i principi e i modi dell’organizzazione sociale sono artificiali. Questo spontaneismo è suonato sug­gestivo alle orecchie di una generazione già educata da certo tipo di naturalismo e nessuno degli hypsters ha posto mente al fatto che lo Zen non rifiuta la socialità tout court, ma rifiuta una socialità conformizzata per cercare una socialità spontanea i cui rapporti si fondino su di una adesione libera e felice, ciascuno riconoscen­do l’altro come parte di uno stesso corpo universale. Senza accorgersi di non aver fatto altro che adottare i modi esteriori di un conformismo orientale, i profeti della generazione battuta hanno sbandierato lo Zen come la giustificazione dei loro religiosi vagabondaggi notturni e delle loro sacrali intemperanze. La parola a Jack Kerouac:
La nuova poesia americana tipizzata dalla San Francisco Renaissance – vale a dire Ginsberg, io, Rexroth, Ferlinghetti, Mc-Clure, Corso, Gary Snyder, Phil Lamantia, Philip Whalen, almeno penso – è un genere di vecchia e nuova follia poetica Zen, lo scrivere tutto quello che vi salta in testa cosi come viene, poesia tornata alle origini, veramente ORA­LE, come dice Ferlinghetti, non un barboso cavillo accade­mico... Questi nuovi puri poeti si confessano per la semplice gioia della confessione. Sono FANCIULLI... Essi CANTA­NO, cedono al ritmo. Il che è diametralmente opposto alla sparata di Eliot che ci consiglia le sue costernanti e desolanti regole come il ‘correlativo’ e così via, nient’altro che un in­sieme di stitichezza e infine di castrazione del maschio biso­gno di cantare liberamente... Ma la San Francisco Renais­sance è la poesia di una nuova Santa Follia come quella dei tempi antichi (Li Po, Hanshan, Tom O Bedlam, Kit Smart, Blake), ed è anche una disciplina mentale tipizzata nello haiku, vale a dire il metodo di puntare direttamente alle cose, puramente, concretamente, senza né astrazioni né spiegazioni, wham wham the true blue song of man”.[4]

Cosi Kerouac nel Dharma Bums descrive i suoi vaga­bondaggi nei boschi, colmi di meditazioni e aspirazioni alla completa libertà; la sua è l’autobiografia di una pre­sunta illuminazione (di un satori, come direbbero i mae­stri Zen) raggiunta in una serie di estasi silvestri e soli­tarie: “...sotto la luna io vidi la verità: qui, questo è Cio' il mondo com’è il Nirvana, io sto cercando il Cielo al di fuori mentre il Cielo è qui, il Cielo è nient'altro che questo povero pietoso mondo. Ah, se potessi comprendere, se potessi dimenticare me stesso, e dedicare le mie meditazioni alla liberazione, alla coscienza e alla beati­tudine di tutte le creature viventi, io comprenderei che tutto quel che c’è è estasi”. Ma sorge il dubbio che questo sia appunto Beat Zen, uno Zen personalissimo, che quando Kerouac afferma: “Non so. Non me ne importa. Non fa alcuna differenza”, in questa dichiara­zione non ci sia tanto del distacco quanto una certa osti­lità, una autodifesa irosa, molto lontana dal sereno e affettuoso disimpegno del vero “illuminato”.
Nelle sue estasi boscherecce Kerouac scopre che “ogni cosa è buona per sempre, e per sempre e per sempre”; e scrive I WAS FREE in tutte maiuscole: ma questa è pura eccitazione, e infine è un tentativo di comunicare agli altri una esperienza che lo Zen ritiene incomunica­bile, e di comunicarla attraverso artifici emotivi là dove lo Zen offre al neofita la lunga, decennale meditazione su di un problema paradossale per depurare la mente sovraccarica nel pieno scacco dell’intelligenza. Non sarà allora il Beat Zen uno Zen molto facile, fatto per indi­vidui inclini al disimpegno che lo accettano come i fe­gatosi di quarant’anni fa eleggevano il superuomo nietzs­chiano a bandiera della loro intemperanza? Dove è fi­nita la pura silenziosa serenità del maestro Zen e “il virile bisogno di cantare liberamente” nella imitazione catulliana di Allen Ginsberg (Malest Cornifici tuo Catullo) che domanda comprensione per la sua onesta propensione verso gli adolescenti, e conclude: “ You’re angry at me. For all my lovers? – It’s hard to eat shit, without having vision – & when they have eyes for me it’s Heaven”?
Ruth Fuller Sasaki, una signora americana che nel '58 fu ordinata prete Zen (grande onore per una occi­dentale e donna per giunta), rappresentante di uno Zen molto square, afferma: “In Occidente lo Zen sembra stia attraversando una fase cultuale. Lo Zen non è un culto.Il problema con gli occidentali è che vogliono credere a qualcosa e contemporaneamente vogliono farlo nel mo­do più facile. Lo Zen è un lavoro di autodisciplina e stu­dio che dura tutta la vita”. Questo non è certo il caso della beat generation, ma c'è chi si domanda se anche l’atteggiamento dei giovani anarchici individualisti non rappresenti un aspetto complementare di un sistema di vita Zen; il più comprensivo è Alan Watts, che nell’ar­ticolo citato si rifà ad un apologo indiano, per cui esisto­no due “vie”, quella del gatto e quella della scimmia: il gattino non fa sforzi per vivere, perché la madre lo porta in bocca; la scimmia segue la via dello sforzo per­ché si tiene stretta al dorso della madre afferrandola per i peli del capo. I beatniks seguirebbero la via del gattino. E con molta indulgenza Watts conclude, nel suo ar­ticolo su Beat e Square Zen, che se qualcuno vuole pas­sare alcuni anni in un monastero giapponese, non c'è ragione, perché non lo faccia; ma se altri preferisce ru­bare automobili e girare tutto il santo giorno dischi di Charlie Parker, l’America è infine un paese libero.
Vi sono però altre zone dell’avanguardia dove possia­mo trovare influenze Zen più interessanti ed esatte: più interessanti perché qui lo Zen non serve tanto a giu­stificare un atteggiamento etico quanto a promuovere del­le strategie stilistiche; e più esatte, appunto, perché il ri­chiamo può essere controllato su particolarità formali di una corrente o di un artista. Una caratteristica fondamen­tale sia dell’arte che della non-logica Zen è il rifiuto della simmetria. La ragione ne è intuitiva, la simmetria rap­presenta pur sempre un modulo d'ordine, una rete get­tata sulla spontaneità, l’effetto di un calcolo: e lo Zen tende a lasciar crescere gli esseri e gli eventi senza preor­dinare gli esiti. Le arti della scherma e della lotta non fanno altro che raccomandare un atteggiamento di flessi­bile adattabilità al tipo di attacco portato, una rinuncia alla risposta calcolata, un invito alla reazione come as­secondamento dell’avversario. E nel teatro Kabuki la disposizione a piramide rovesciata, che caratterizza i rap­porti gerarchici dei personaggi in scena, è sempre par­zialmente alterata e “sbilanciata”, in modo che l’ordine suggerito abbia sempre qualcosa di naturale, spontaneo, imprevisto.[5] La pittura classica Zen non solo accetta tutti questi presupposti enfatizzando l’asimmetria, ma va­lorizza anche lo spazio come entità positiva in sé, non come ricettacolo delle cose che vi si stagliano, ma come matrice di esse: c'è in questo trattamento dello spazio la presunzione dell’unità dell’universo, una onnivalorizzazione di tutte le cose: uomini, animali e piante sono trattati con stile impressionistico, confusi con il fondo. Ciò significa che in questa pittura vi è una prevalenza della macchia sulla linea; certa pittura giapponese con­temporanea ampiamente influenzata dallo Zen è vera e propria pittura tachiste, e non è un caso se nelle attuali esposizioni di pittura informale i giapponesi sono sempre ben rappresentati. In America pittori come Tobey o Graves sono esplicitamente considerati come rappresentanti di una poetica abbondantemente imbevuta di zenismo, e nella critica corrente il richiamo all’asimmetria Zen per qualificare le attuali tendenze dell’art brut appare con una certa frequenza.[6]
D’altra parte è evidente – ed è stato detto più volte – come nelle produzioni dell’arte “informale” vi sia una chiara tendenza all'apertura, una esigenza di non con­chiudere il fatto plastico in una struttura definita, di non determinare lo spettatore ad accettare la comunica­zione di una data configurazione; e di lasciarlo disponi­bile per una serie di fruizioni libere, in cui egli scelga gli esiti formali che gli appaiono congeniali. In un quadro di Pollock non ci viene presentato un universo figurativo conchiuso: l’ambiguo, il vischioso, l’asimmetrico vi intervengono proprio per far sì che lo spunto plastico-colori­stico proliferi continuamente in una incoatività di forme possibili. In questa offerta di possibilità, in questa ri­chiesta di libertà fruitiva sta una accettazione dell’inde­terminato e un rifiuto della casualità univoca. Non po­tremmo immaginarci un seguace dell’action painting che cerca nella filosofia aristotelica della sostanza la giustifi­cazione della sua arte. Quando un critico si richiama all’asimmetria e all’apertura Zen possiamo anche avan­zare riserve filologiche; quando un pittore esibisce giusti­ficazioni in termini Zen possiamo sospettare della chia­rezza critica del suo atteggiamento: ma non possiamo negare una fondamentale identità di atmosfera, un co­mune richiamo al movimento come non-definizione del­la nostra posizione nel mondo. Una autorizzazione del­l’avventura nell’apertura.
Ma dove l’influenza dello Zen si è fatta sentire nel modo più sensibile e paradossale è nell’avanguardia mu­sicale d'oltre oceano. Ci riferiamo in particolare a John Cage, la figura più discussa della musica americana (la più paradossale senz'altro di tutta la musica contempo­ranea), il musicista col quale molti compositori post-weberniani ed elettronici sono spesso in polemica senza po­ter fare a meno di subire comunque il fascino e l’inevi­tabile magistero del suo esempio. Cage è il profeta della disorganizzazione musicale, il gran sacerdote del caso: la disgregazione delle strutture tradizionali che la nuova musica seriale persegue con una decisione quasi scien­tifica, trova in Cage un eversore privo del minimo ritegno. Sono noti i suoi concerti in cui due esecutori, alternando le emissioni dei suoni a lunghissimi periodi di silenzio, traggono dal pianoforte le più eterodosse sonorità pizzi­candone le corde, percotendone i fianchi e infine alzan­dosi e sintonizzando una radio su di una lunghezza d'onda scelta a caso in modo che qualsiasi apporto sonoro (musica, parola o disturbo indistinto) si possa inserire nel fatto esecutivo. A chi lo interpella circa le finalità della sua musica Cage risponde citando Lao Tzu e av­vertendo il pubblico che solo urtando nella piena incom­prensione e misurando la propria stoltezza esso potrà co­gliere il senso profondo del Tao. A chi gli oppone che la sua non è musica, Cage risponde che in effetti non intende far della musica; a chi pone questioni troppo sottili risponde pregando di ripetere la domanda: a do­manda ripetuta prega ancora di rinnovare l’interroga­zione; alla terza preghiera di ripetere, l’interlocutore si rende conto che: “Prego, vuole ripetere la domanda?” non costituisce una preghiera ma la risposta alla doman­da stessa. Il più delle volte Cage prepara per i suoi con­traddittori risposte prefabbricate, buone per qualsiasi do­manda, dal momento che vogliono essere prive di senso. L’ascoltatore superficiale ama pensare a Cage come ad un fumista neppure troppo abile, ma i suoi continui riferimenti alle dottrine orientali dovrebbero mettere in guardia sul suo conto: prima che come musicista di avanguardia egli deve essere visto come il più inopinato dei maestri Zen, e la struttura dei suoi contraddittori è perfettamente identica a quella dei mondo, le tipiche interrogazioni dalle risposte assolutamente casuali con le quali i maestri giapponesi conducono il discepolo alla illuminazione. Sul piano musicale si può utilmente di­scutere se il destino della nuova musica stia nel com­pleto abbandono alla felicità del caso oppure nella dispo­sizione di strutture “aperte” ma tuttavia orientate se­condo moduli di possibilità formale[7]: ma sul piano filosofico Cage è intoccabile, la sua dialettica Zen per­fettamente ortodossa, la sua funzione di pietra dello scan­dalo e di stimolatore delle intelligenze assopite, impa­reggiabile. E c'è da chiedersi se egli stia portando acqua al mulino della soteriologia Zen o al mulino musicale, perseguendo un lavaggio delle menti dalle abitudini musicali acquisite. Il pubblico italiano ha avuto occasione di conoscere John Cage nelle vesti di concorrente di Lascia o Raddoppia impegnato a rispondere sui funghi; ha riso di fronte a questo eccentrico americano che organizzava concerti per caffettiere sotto pressione e frullatori elettrici davanti agli occhi esterrefatti di Mike Bongiorno, e ha probabilmente concluso che ci si trovava di fronte ad un pagliaccio capace di sfruttare l’imbecillità delle folle e la compiacenza dei mass media. Ma in effetti Cage af­frontava questa esperienza con lo stesso disinteressato umorismo con cui il seguace dello Zen affronta qualsiasi evento della vita, con cui i maestri Zen si chiamano l’un l’altro “vecchio sacco di riso”, con cui il professor Suzuki, interrogato sul significato del suo primo nome — Daisetz — impostogli da un prete Zen, risponde che significa “grande stupidità” (mentre in effetti significa “grande semplicità”). Cage si divertiva a mettere Bon­giorno e il pubblico di fronte al non-senso dell’esistenza, cosi come il maestro Zen obbliga il discepolo a riflettere sul koan, l’indovinello senza soluzione dal quale dovrà scaturire la sconfitta dell’intelligenza e l’illuminazione. È dubbio che Mike Bongiorno sia rimasto illuminato, ma Cage avrebbe potuto rispondergli come rispose alla anziana signora che, dopo un suo concerto a Roma, si alzò per dirgli che la sua musica era scandalosa, ripu­gnante e immorale: “C'era una volta in Cina una signora bellissima che faceva impazzire d'amore tutti gli uomini della città; una volta cadde nel profondo del lago e spaventò i pesci”. E infine, al di fuori di questi at­teggiamenti pratici la musica stessa di Cage rivela – se pure il suo autore non ne parlasse esplicitamente – molte e precise affinità con la tecnica dei No  e delle rappre­sentazioni del teatro Kabuki, non foss’altro che per le lunghissime pause alternate da momenti musicali asso­lutamente puntuali. Chi poi ha potuto seguire Cage nel montaggio della banda magnetica con rumori concreti e sonorità elettroniche per il suo Fontana Mix (per so­prano e banda magnetica), ha visto come egli abbia as­segnato a diversi nastri già registrati una linea di diverso colore; come poi abbia condotto su di un modulo gra­fico queste linee ad interallacciarsi casualmente su di un foglio di carta; e come infine, fissati i punti in cui le linee si intersecavano, abbia scelto e montato le parti del nastro che corrispondevano ai punti prescelti dallo hasard, ottenendone una sequenza sonora retta dalla lo­gica dell’imponderabile. Nella consolante unità del Tao ogni suono vale tutti i suoni, ogni incontro sonoro sarà il più felice e il più ricco di rivelazioni: all’ascoltatore non rimarrà che abdicare alla propria cultura e perdersi nella puntualità di un infinito musicale ritrovato.
Questo per Cage; autorizzati a rifiutarlo o a conte­nerlo nei limiti di un neodadaismo di rottura; autoriz­zati a pensare, e non è impossibile, che il suo buddismo non sia che una scelta metodologica che gli permette di qualificare la propria avventura musicale. Tuttavia ecco un altro filone per cui lo Zen appartiene di diritto alla cultura occidentale contemporanea.
Si è detto neo-Dada: e occorre domandarsi se uno dei motivi per cui lo Zen è riuscito congeniale all’Occi­dente non consista nel fatto che le strutture immagina­tive dell’uomo occidentale sono state rese ormai agili dalla ginnastica surrealistica e dalle celebrazioni dell’au­tomatismo. C'è molta differenza tra questo dialogo: “Cosa è il Buddha? Tre libbre di lino”, e quest'altro: “Cos'è il violetto? Una doppia mosca”? Formalmente no. I motivi sono diversi, ma è certo che viviamo in un mondo disposto ad accettare con colta e maligna soddi­sfazione gli attentati alla logica.
Ionesco avrà letto i dialoghi della tradizione Zen? Non risulta, ma non sapremmo quale differenza di struttura vi sia tra un mondo e questa battuta del Salon de l'Automobile: “Quanto costa questa macchina? Dipende dal prezzo”. C'è qui la stessa circolarità aporetica che esiste nei koan, la risposta ripropone la domanda e cosi via al­l’infinito sinché la ragione non firmi un atto di resa ac­cettando l’assurdo come tessuto del mondo. Lo stesso as­surdo di cui sono imbevuti i dialoghi di Beckett. Con una differenza, naturalmente: che la beffa di Ionesco e Beckett trasuda angoscia – e quindi non ha nulla a che vedere con la serenità del saggio Zen. Ma proprio qui sta il sapore di novità del messaggio orientale, l’indubbio perché del suo successo: attacca un mondo con gli stessi schemi illogici cui lo sta abituando una letteratura della crisi e lo avverte che proprio nel fondo degli schemi illo­gici, nella loro piena assunzione, sta la soluzione della crisi, la pace. Una certa soluzione, una certa pace: non la nostra, direi, non quella che cerchiamo, ma alfine, per chi ha i nervi logori, una soluzione e una pace.

Comunque, autorizzati o meno che fossero i filoni, lo Zen conquistando l’Occidente ha invitato a riflettere an­che le persone criticamente più agguerrite. La psicoana­lisi in America si è talora impadronita dei metodi Zen, la psicoterapia in genere ha trovato in certe sue tecniche un ausilio particolare[8]. Jung si è interessato agli studi del professor Suzuki[9], e questo accettare con perfetta serenità il non-senso del mondo risolvendolo in una con­templazione del divino può apparire una via di subli­mazione della nevrosi del nostro tempo. Uno dei motivi a cui i maestri Zen ricorrono più sovente nell’accogliere i discepoli, è quello dello svuotamento della propria co­scienza da tutto ciò che può turbare l’iniziazione. Un discepolo si presenta ad un maestro Zen per chiedere dei lumi: il maestro lo invita a sedersi e gli offre quindi una ciotola di tè secondo il complesso rituale che presiede alla cerimonia. Come l’infuso è pronto egli lo versa nella ciotola del visitatore e continua anche quando il liquido comincia a debordarne. Alla fine il discepolo allarmato tenta di fermarlo avvertendolo che la ciotola "è piena". Allora il maestro risponde: “Come questa ciotola tu sei pieno delle tue opinioni e dei tuoi ragionamenti. Come posso mostrarti lo Zen sinché tu non avrai vuotato la tua tazza?” Notiamo che questo non è l’invito di Bacone a sbarazzarsi degli idola, o quello di Cartesio a disfarsi delle idee confuse: è l’invito a liberarsi di tutte le turbe e i complessi, meglio, dell’intelligenza sillogizzante come turba e come complesso; tanto che la mossa successiva non consisterà nell’esperimento empirico e nella ricerca di nuove idee, ma nella meditazione sul koan, dunque in un'azione nettamente terapeutica. Non c'è da stupirsi se psichiatri e psicanalisti abbiano qui trovato delle indi­cazioni avvincenti.
Ma le analogie sono state trovate anche in altri settori. Quando usci nel 1957 il Der Satz vom Grund di Hei­degger da varie parti furono notate le implicazioni orien­tali della sua filosofia e vi fu chi si rifece espressamente allo Zen osservando come lo scritto del filosofo tedesco facesse pensare ad un dialogo con un maestro Zen di Kioto, Tsujimura[10].
Quanto ad altre dottrine filosofiche, Watts stesso, nel­l’introduzione al suo libro, parla di connessioni con la semantica, il metalinguaggio, il neopositivismo in gene­re[11]. Alla radice, i riferimenti più espliciti sono stati fatti per la filosofia di Wittgenstein. Nel suo saggio Zen and the Work of Wittgenstein[12] Paul Wienpahl osser­va: “Wittgenstein ha raggiunto uno stato spirituale si­mile a quello che i maestri Zen chiamano satori, e ha elaborato un metodo educativo che sembra il metodo dei mondo e dei koan”. A prima vista questo trovare la mentalità Zen alla radice del neopositivismo logico può sembrare almeno tanto stupefacente quanto trovarla in­ Shakespeare: ma occorre pur sempre ricordare che, al­meno ad incoraggiare tali analogie, vi è in Wittgenstein la rinuncia alla filosofia come spiegazione totale del mon­do. Ce una primalità conferita al fatto atomico (e quindi “puntuale”) in quanto irrelato, il rifiuto della filosofia come posizione di relazioni generali tra questi fatti e la sua riduzione a pura metodologia di una descrizione cor­retta di essi. Le proposizioni linguistiche non interpre­tano il fatto e nemmeno lo spiegano: esse lo “mostrano”, ne indicano, ne riproducono specularmente le connessio­ni. Una proposizione riproduce la realtà come una sua particolare proiezione, ma nulla può essere detto circa l’accordo tra i due piani: esso può solo venire mostrato. Né la proposizione, se pure in accordo con la realtà, può venire comunicata: perché in tal caso non avremmo più una affermazione verificabile circa la natura delle cose, ma circa il comportamento di chi ha fatto l’affermazione (insomma “oggi piove” non può venire comunicata co­me “oggi piove”, ma come “X ha detto che oggi piove”).
Che se poi della proposizione si volesse esprimere la forma logica, neppur questo sarebbe possibile:
Le proposizioni possono rappresentare l’intera realtà ma non possono rappresentare ciò che debbono avere in co­mune con essa per poterla rappresentare: la forma logica. Per poter rappresentare la forma logica dovremmo essere ca­paci di porre noi stessi, con le proposizioni, al di fuori della logica, cioè al di fuori del mondo” (4.12).
 Questo rifiutarsi di uscire dal mondo e irrigidirlo in spiegazioni giustifica i riferimenti allo Zen. Il Watts cita l’esempio del monaco che, al discepolo che lo interrogava sul significato delle cose, risponde alzando il proprio ba­stone; il discepolo spiega con molta sottigliezza teologica il significato del gesto, ma il monaco ribatte che la sua spiegazione è troppo complessa. Il discepolo domanda allora quale sia la spiegazione esatta del gesto. Il monaco risponde alzando di nuovo il bastone. Si legga ora Witt­genstein: “Ciò che può essere mostrato non può essere detto”. (4.1212) L’analogia è ancora esteriore, ma affa­scinante; cosi come è affascinante l’impegno fondamen­tale della filosofia wittgensteiniana, di dimostrare cioè come tutti i problemi filosofici siano irresolubili perché privi di senso: i mondo e i koan non hanno altro obiet­tivo.
Il Tractatus Logico-Philosophicus può essere visto co­me un crescendo tale di affermazioni da colpire chi ab­bia familiarità con il linguaggio Zen:
"Il mondo è tutto ciò che accade [1]. Le maggiori tra le proposizioni e i problemi che sono stati esposti intorno ad argomenti filosofici non sono falsi, ma sono privi di sen­so. Quindi non possiamo rispondere a domande di questo genere, ma soltanto affermare la loro mancanza di senso. La maggior parte delle proposizioni e dei problemi dei filo­sofi risultano dal fatto che noi non conosciamo la logica del nostro linguaggio... E quindi non c'è da meravigliarsi se i problemi più profondi in realtà non sono affatto problemi [4.003]. Non come il mondo è, è il mistico (das Mystische), ma che è [6.44]. La soluzione del problema della vita si vede nello, svanire di questo problema [6521]. C’è davvero l’inesprimibile. Esso si mostra; è il mistico [6.522]. Le mie pro­posizioni sono esplicative in questo modo: chi mi com­prende alla fine le riconosce prive di significato, quando è salito attraverso di esse, su di esse, al di là di esse. (Egli deve per così dire gettar via la scala dopo esservi salito so­pra.) Deve passare al di sopra di queste proposizioni: allora vede il mondo al modo giusto [654]”.
Non c'è bisogno di molti commenti. Quanto all’ultima affermazione, ricorda stranamente, come è stato notato, il fatto che la filosofia cinese usi l’espressione “rete di parole” per indicare l’irrigidimento dell’esistenza nelle strutture della logica; e che i cinesi dicono: “La rete serve a prender il pesce: fate che si prenda il pesce e si dimentichi la rete”. Gettare la rete, o la scala, e ve­dere il mondo: coglierlo in una presa diretta in cui ogni parola sia d'impaccio: questo è il satori. Chi rapporta Wittgenstein allo Zen pensa che ci sia solo la salvezza del satori per chi ha pronunciato sulla scena della filo­sofia occidentale queste terribili parole: “Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”.
Occorre ricordare come i maestri Zen, quando il disce­polo arzigogola con troppa sottigliezza, gli appioppino un bel ceffone, non per punirlo, ma perché uno schiaffo è una presa di contatto con la vita sulla quale non si può ragionare: lo si sente, e basta. Ora Wittgenstein, do­po aver esortato parecchie volte i propri discepoli a non occuparsi di filosofia, abbandonò l’attività scientifica e l’insegnamento accademico, per dedicarsi alle attività ospedaliere, all’insegnamento spicciolo nelle scuole ele­mentari dei villaggi austriaci. Scelse insomma la vita, l’esperienza, contro la scienza.
Tuttavia è facile lavorare di illazioni e analogie su Wittgenstein e uscire dai limiti dell’esegesi corretta. Wienpahl ritiene che il filosofo austriaco si sia avvicinato ad uno stato d'animo di tale distacco da teorie e con­cetti da credere che tutti i problemi fossero risolti perché dissolti. Ma il distacco di Wittgenstein è del tutto uguale a quello buddista? Quando il filosofo scrive che la ne­cessità di accadere, per una cosa, perché un'altra è acca­duta, non esiste perché si tratta solo di una necessità logica, Wienpahl ha buon gioco ad interpretare: la ne­cessità è dovuta alle convenzioni del linguaggio, non è reale, il mondo reale si risolve in un mondo di concetti e quindi in un falso mondo. Ma per Wittgenstein le proposizioni logiche descrivono l’impalcatura del mondo (6.124). È vero che sono tautologiche e non dicono as­solutamente nulla circa la conoscenza effettiva del mondo empirico, ma non sono in contrasto con il mondo e non negano i fatti: si muovono in una dimensione che non è quella dei fatti ma consentono di descriverli [13]. In­somma, il paradosso di una intelligenza sconfitta, da but­tar via dopo che è servita, da buttar via quando si è sco­perto che non serve, è presente in Wittgenstein come nello Zen: ma per il filosofo occidentale sussiste, mal­grado la scelta apparente del silenzio, il bisogno di usare pur sempre l’intelligenza per ridurre a chiarezza almeno una parte del mondo. Non si deve tacere su tutto: solo su ciò di cui non si può parlare, e cioè sulla filosofia. Ma rimangono aperte le vie della scienza naturale. In Wittgenstein l’intelligenza si sconfigge da sola perché si nega nel momento stesso che si adopera a offrirci un metodo di verifica: ma il risultato finale non è il silenzio completo, almeno nelle intenzioni.
È peraltro vero che le analogie si fanno più serrate – e il discorso di Wienpahl più persuasivo – con le Philosophische Untersuchungen. Viene fatta notare una im­pressionante analogia tra una affermazione di quest'opera (“La chiarezza che stiamo cercando è chiarezza completa . Ma ciò significa semplicemente che i problemi filo­sofici devono sparire completamente[133]) e il dialogo tra il maestro Yao-Shan e un discepolo che gli chiedeva cosa mai stesse facendo a gambe incrociate (risposta: “Pensavo a ciò che è al di là del pensiero”. Domanda: “Ma come fai a pensare a ciò che sta al di là del pen­siero?” Risposta: “Non pensando”). Certe frasi delle Indagini filosofiche — quella ad esempio per cui il com­pito della filosofia sarebbe “insegnare alla mosca la via della bottiglia” — sono di nuovo espressioni da maestro Zen. E nelle Lecture Notes di Cambridge, Wittgenstein ha indicato il compito della filosofia come una “lotta con­tro il fascino esercitato dalle forme di rappresentazione”, come un trattamento psicoanalitico per liberare “chi sof­fra di certi crampi mentali prodotti dall’incompleta co­scienza delle strutture del proprio linguaggio”. È inu­tile ricordare l’episodio del maestro che versa il tè. Que­sto di Wittgenstein è stato definito un “positivismo terapeutico” e appare come un insegnamento che, invece di dare la verità, mette sulla strada per ottenerla personal­mente.
A tirare le somme non si può non concludere che in Wittgenstein vi sia effettivamente lo svanire della filoso­fia nel silenzio, nel momento stesso in cui si ha l’in­staurazione di un metodo di rigorosa verifica logica di pretta tradizione occidentale. Non si dicono cose nuove. Wittgenstein ha questi due volti, e il secondo è quello che è stato accolto dal positivismo logico. Dire del primo, quello del silenzio che è un volto Zen significa in realtà fare un abile gioco di parole per dire che si tratta di un volto mistico. E Wittgenstein fa parte indubbiamente della grande tradizione mistica germanica, e si allinea coi celebratori dell’estasi, dell’abisso e del silenzio, da Eckhart a Suso e a Ruysbroek. C'è chi — come Ananda Coomaraswamy — ha scritto a lungo sulle analogie tra pensiero indiano e mistica tedesca, e Suzuki ha detto che per Meister Eckhart occorre parlare di vero e proprio satori .[14] Ma qui le equazioni diventano fluide e tanto vale dire che il momento mistico dell’abbandono dell’in­telligenza classificante è un momento ricorrente nella sto­ria dell’uomo. E per il pensiero orientale è una costante.
Dato Zen = misticismo  allora si possono instaurare molti paragoni. Le ricerche di Blyth sullo Zen nella let­teratura anglosassone sono di questo tipo, mi pare. Si veda ad esempio l’analisi di una poesia di Dante Gabriele Rossetti, in cui si descrive un uomo in preda all’angoscia che cerca una qualsiasi risposta al mistero dell’esistenza. Mentre erra per i campi alla vana ricerca di un segno o di una voce, a un certo punto, abbattutosi ginocchia a terra, in posa di preghiera, il capo piegato contro le gambe, gli occhi fissi a pochi centimetri dalle erbe, scorge ad un tratto una euforbia selvatica (euphorbia amigdaloydes) dalla caratteristica triplice infiorescenza a coppa: The woodspurge flowered, three cups in one.
A quella vista l’anima si apre in un lampo, come in una illuminazione repentina, e il poeta comprende: “From perfect grief there need not be / Wisdom or even memory / One thing then learnt remains to me,  / The woodspurge has a cup of three".
Di tutto il complesso problema che lo piegava, ora ri­mane una sola verità, semplice ma assoluta, inattaccabile: l'euforbia ha un triplice calice. È una proposizione ato­mica, e il resto è silenzio. Non v'è dubbio. Ed è una sco­perta molto Zen, come quella del poeta P'ang Yun che canta: “Quale meraviglia soprannaturale / quale mira­colo è questo! / Tiro l’acqua dal pozzo / e porto la legna!”. Ma siccome lo stesso Blyth ammette che questi momenti Zen sono involontari, tanto vale dire che nei momenti di comunione panica con la natura, l’uomo è portato a scoprire l’assoluta e puntuale importanza di ogni cosa. Su questo piano si potrebbe fare una analisi di tutto il pensiero occidentale, e andare a finire, ad esempio, al concetto di complicatio in Niccolò Cusano. Ma sarebbe appunto un altro discorso.
Di tutte queste “scoperte” e analogie ci rimane tut­tavia un dato di sociologia culturale: lo Zen ha affasci­nato alcuni gruppi di persone e ha offerto loro una for­mula per ridefinire i momenti mistici della cultura occi­dentale e della loro storia psicologica individuale.
E ciò è avvenuto anche perché, indubbiamente, tra tutte le sfumature del pensiero orientale, spesso cosi estra­neo alla nostra mentalità, lo Zen è quello che poteva riuscire più familiare all’Occidente, per il fatto che il suo rifiuto del sapere oggettivo non è un rifiuto della vita, ma è anzi una accettazione gioiosa di essa, un invito a viverla più intensamente, una rivalutazione della stessa attività pratica come condensazione, in un gesto perse­guito con amore, di tutta la verità dell’universo vissuta nella facilità e nella semplicità. Un richiamo alla vita vissuta, alle cose stesse; zu den Sachen selbst.
Il riferimento a una espressione husserliana viene istin­tivo di fronte a espressioni come quella usata da Watts nell’articolo citato: “…Lo Zen vuole che abbiate la cosa stessa, the thing itself, senza commento.” Occorre ricor­dare come nel perfezionarsi in un certo “atto”, ad esem­pio il tiro all’arco, il discepolo dello Zen ottiene il Ko-tsu, vale a dire una certa facilità di contatto con la cosa stessa nella spontaneità dell’atto; il Ko-tsu viene interpretato co­me un tipo di satori e il satori è visto in termini di “vi­sione” del noumeno (e potremmo dire visione delle es­senze); un intenzionare, diremmo, a tal punto la cosa conosciuta da divenire tutt'uno con essa.[15] Chi abbia qualche familiarità con la filosofia di Husserl potrà ri­levare certe innegabili analogie; e al postutto nella fe­nomenologia vi è un richiamo alla contemplazione delle cose al di qua degli irrigidimenti delle abitudini percet­tive e intellettuali, un “mettere tra parentesi” la cosa quale si è abituati a vederla e interpretarla comunemen­te per cogliere con assoluta e vitale freschezza la novità e l’essenzialità di un suo “profilo”. Per la fenomeno­logia husserliana noi dobbiamo rifarci all’evidenza indi­scutibile dell’esperienza attuale, accettare il flusso della vita e viverlo prima di separarlo e fissarlo nelle costru­zioni dell’intelligenza, accettandolo in quella che è, come è stato detto, “una complicità primordiale con l’oggetto”. La filosofia come modo di sentire e come “guarigione”. Guarire, in fondo, disapprendendo, ripulendo il pensiero dalle pre-costruzioni, ritrovando l’intensità originaria del mondo della vita (Lebenswelt). Sono parole di un mae­stro Zen mentre versa il tè al discepolo? “Il rapporto al mondo, come si pronuncia infaticabilmente in noi, non è nulla che possa essere reso più chiaro da una analisi: la filosofia non può che rimetterlo sotto il nostro sguardo, offrirlo alla nostra constatazione... Il solo Logos che pree­sista è il mondo stesso...” Sono parole di Maurice Mer­leau-Ponty nella sua Phénoménologie de la perception...
Se per i testi husserliani il riferimento allo Zen può avere il valore di un richiamo dovuto a una certa agi­lità di associazioni, per altre manifestazioni della feno­menologia possiamo basarci su accenni espliciti. Basti ci­tare Enzo Paci che in alcune occasioni si è rifatto a certe posizioni del taoismo e dello zenismo per chiarire taluni suoi atteggiamenti[16]. E chi vada a leggere o rileggere gli ultimi due capitoli di Dall'esistenzialismo al relazionismo troverà un atteggiamento di contatto immediato con le cose, un sentire gli oggetti nella loro epifanicità imme­diata, che ha molto del “ritorno alle cose” dei poeti orien­tali che sentono la profonda verità del gesto in cui at­tingono acqua dal pozzo. E anche qui è interessante ve­dere come la sensibilità occidentale possa avvertire in queste epifanie-contatto della mistica Zen qualcosa di molto simile alla visione degli alberi apparsa al Narra­tore della Recherche dietro una svolta di strada, alla ra­gazza-uccello di James Joyce, alla falena impazzita dei Vecchi versi di Montale...

Vorrei tuttavia che il lettore avvertisse esattamente che qui si tenta sempre di spiegare perché lo Zen ha affa­scinato l’Occidente. Quanto a parlare di una validità as­soluta del messaggio Zen per l’uomo occidentale, avanzerei le più ampie riserve. Anche di fronte ad un bud­dismo che celebra la accettazione positiva della vita, l’ani­mo occidentale se ne distaccherà sempre per un biso­gno ineliminabile di ricostruire questa vita accettata se­condo una direzione voluta dall’intelligenza. Il momen­to contemplativo non potrà che essere uno stadio di ri­presa, un toccare la madre terra per riprendere energia: mai l’uomo occidentale accetterà di smemorare nella con­templazione della molteplicità, ma si perderà sempre ten­tando di dominarla e ricomporla. Se lo Zen gli ha ri­confermato con la sua voce antichissima che l’ordine eter­no del mondo consiste nel suo fecondo disordine e che ogni tentativo di sistemare la vita in leggi unidirezionali è un modo di perdere il vero senso delle cose, l’uomo occidentale accetterà criticamente di riconoscere la rela­tività delle leggi, ma le reintrodurrà nella dialettica della conoscenza e dell’azione sotto forma di ipotesi di lavoro.
L’uomo occidentale ha appreso dalla fisica moderna che il Caso domina la vita del mondo subatomico e che le leggi e le previsioni da cui ci facciamo guidare per comprendere i fenomeni della vita quotidiana sono va­lide solo perché esprimono delle medie statistiche ap­prossimative. L’incertezza è diventata il criterio essen­ziale per la comprensione del mondo: sappiamo che non possiamo più dire “all’istante X l’elettrone A si troverà nel punto B”, ma “all’istante X vi sarà una certa pro­babilità che l’elettrone A si trovi nel punto B”. Sappia­mo che ogni nostra descrizione dei fenomeni atomici è complementare, che una descrizione può opporsi ad una altra senza che una sia vera e l’altra falsa.
Pluralità ed equivalenza delle descrizioni del mondo. È vero, le leggi causali sono crollate, la probabilità do­mina la nostra interpretazione delle cose: ma la scienza occidentale non si è lasciata cogliere dal terrore della di­sgregazione. Noi non possiamo giustificare il fatto che possano valere delle leggi di probabilità: ma possiamo accettare il fatto che esse funzionano, afferma Reichenbach. L’incertezza e l’indeterminazione sono una oggettiva proprietà del mondo fisico. Ma la scoperta di questo comportamento del microcosmo e l’accettazione delle leggi di probabilità come l’unico mezzo atto a conoscerlo, devono venire intesi come un risultato di altissimo or­dine.[17]
C'è in questa accettazione la stessa gioia con cui lo Zen accetta il fatto che le cose siano elusive e mutevoli: il taoismo chiama questa accettazione Wu.
In una cultura sotterraneamente fecondata da questa forma mentis, lo Zen ha trovato orecchie pronte ad ac­coglierne il messaggio come un sostitutivo mitologico di una coscienza critica. Vi si è trovato l’invito a godere il mutevole in una serie di atti vitali anziché ammetterlo soltanto come freddo criterio metodologico. E tutto que­sto è positivo. Ma l’Occidente, anche quando accetta con gioia il mutevole e rifiuta le leggi causali che lo immo­bilizzano, non rinuncia tuttavia a ridefinirlo attraverso le leggi provvisorie della probabilità e della statistica, perché – sia pure in questa nuova plastica accezione – l’ordine e l’intelligenza che “distingue” sono la sua vo­cazione.




[1] Citeremo in particolare: H. Dumoulin, Zen Geschichte und Gestalt, München, Francke Verlag, 1959; Ch. Humphreis, Zen Buddhism, London, Allen & Unwin, 1958; N. Senzaki e P. Reps, Zen Flesh, Zen Bones, Tokio, Tuttle, 1957; Chen-Chi-Chang, The Practice of Zen, N. Y., Harper, 1959; D. T. Suzuki, Introduction to Zen Buddhism, London, Rider, 1949; R. Powell, Zen and Reality, London, Allen & Unwin, 1961; A. W. Watts, La via dello Zen, Milano, Feltrinelli, 1960; per una bibliografia più vasta cfr. A. W. Watts, Lo Zen, Milano, Bompiani, 1959.
[2] Cfr. A.W. Watts, Beat Zen, Square Zen and Zen in “Chicago Review”, Summer 1958 (numero unico sullo Zen). Sui rapporti tra Zen e beat generation cfr. anche R. M. Adams, Strains of Discords, Ithaca, Cornell Un. Pr. 1958, pag. 188.
[3] H.E. McCarthy, The Natural and Unnatural in Suzuki's Zen in “Chic Rev.”, cit.
[4] The Origins of Joy in Poetry, in “Chicago Review”, Spring 1958.
[5] Cfr. ad es. E. Ernst, The Kabuki Theatre, London, 1956 (pagg. 182-184).
[6] Si veda la nota di G. Dorfles in Il divenire delle arti, Torino, Einaudi, 1959, pag. 81 (Il tendere verso l'Asimmetrico). Dorfles ha poi ripreso il tema in un ampio saggio dedicato allo Zen, pubblicato prima sulla “Rivista di Estetica” e poi in Simbolo, Comunicazione, Consumo, Torino, Einaudi, 1962.
[7] Come esempio di due opposti atteggiamenti critici, si vedano nel n. 3 (agosto 1959) di “Incontri Musicali” i saggi di P. BOULEZ (Alea) H.K. Metzger (J. Cage o della liberazione).
[8] Cfr. ad es. A. Kondo, Zen in Psychotherapy: The Virtue of Sitting, in “Chicago Review”, Summer 1958. Si veda pure E. Fromm, D.T. Suzuki, De Martino, Zen Buddhims and Psychoanalysis, N. Y., Harper & Bros., 1960.
[9] Cfr. la prefazione di C.G. Jung a D. T. Suzuki, Infroduction to Zen Buddhism, London, Rider, 1949.
[10] Cfr. l’articolo di E. Vietta, Heidegger e il maestro Zen, in “Frankfurter Allgemeinc Zeitung”, 17 aprile 1957. Cfr. anche N.C. Nielsen Jr., Zen Buddhism and the Philosophy of M. Heidegger, Atti del XII Congresso Int. di Filosofia, vol. X, pag. 131.
[11] Citiamo pure la discussione svoltasi sulla rivista Philosophy East and West della Università di Honolulu: Van Meter Ames, Zen and American Philosophy (n. 5, 1955-56, pagg. 305-320); D.T. Suzuki, Zen: a Reply to V. M. Ames (ib.); Chen-Chi-Chang, The Nature of Zen Buddhism (n. 6, 1956-57, pag. 333).
[12] “Chicago Review”, Summer 1958.
[13]In opposizione ad atteggiamenti di stampo bergsoniano abbiamo in lui la più alta valorizzazione della pura struttura logica dell'espressione: comprendere questa... significa giungere ad una autentica comprensione della realtà” (F. Barone, Il solipsismo linguistico di L. Wittgenstein, in “Filosofia”, ottobre 1951).
[14] D.T. Suzuki, Mysticism Christian and Buddhist, London, Allen & Unwin, 1957, pag. 79. Cfr. pure Sohaku Ogata, Zen for the West, London, Rider & Co., 1959, pagg. 17-20: dove viene svolta una comparazione fra testi Zen e pagine di Eckhart.
[15] Si veda sulla natura del Ko-tsu l'articolo di Shiniki Hisamatsu, Zen and the Various Acts, in “Chicago Review”, Summer 1958.
[16] Cfr. Esistenzialismo e storicismo, Milano, Mondadori, 1950, Pagg. 273-280; e, più esplicitamente, la conversazione radiofonica La crisi dell'indagine critica andata in onda per il ciclo “La crisi dei valori nel mondo contemporaneo” nell'agosto 1957.
[17] H. Reichenbach, Modern Philosophy of Science, London, 1959, pagg. 67-78.