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venerdì 26 febbraio 2016

Milarepa mago, poeta e mistico tra storia e mito


Io sono Milarepa, grande per fama, la diretta progenie della Memoria e della Saggezza;
Eppure io sono un uomo vecchio, derelitto e nudo.
Dalle mie labbra esce una canzone breve, perché tutta la Natura, a cui io guardo, è il mio libro.
Il bastone di ferro, che le mie mani stringono, mi guida sull'Oceano della Vita che Cambia.
Maestro io sono della Mente e della Luce;
E mostrando azioni e miracoli, non dipendo da divinità terrene[1].

Con queste parole Milarepa ha descritto se stesso nei versi da lui composti, che fanno parte del Mila mgur-‘bun, i Centomila canti di Milarepa, raccolti molti anni dopo la sua morte.
Milarepa
Milarepa – una particolare figura di mago, eremita, mistico e poeta, uno dei più amati e venerati maestri del Buddhismo tibetano – nacque in un villaggio del Gungthang, nel Tibet di sud-ovest, vicino al confine con il Nepal, tra il 1040 e il 1052, in una piccola famiglia di agricoltori. Il suo nome era Mila Thö-pa-ga, laddove Mila significa “uomo”, o forse è una interiezione che esprime spavento, terrore; e Thö-pa-ga è traducibile con “piacevole da ascoltare” o “buona novella”. Solo in seguito divenne Milarepa, cioè Mila-vestito-di-cotone[2].
Colui che ancora oggi è considerato uno dei più grandi Santi e poeti del Buddhismo conobbe ben presto la sofferenza: a soli sette anni perse il padre per una grave malattia e rimase solo con la madre Karmo Kien (Bianca Ghirlanda) e la sorella di tre anni, Gön-ma-Kyit (Protettrice Fortunata), soprannominata Peta.
Uno dei suoi maggiori discepoli, Rechung, scriverà poi che Mila a seguito della morte del padre e dei successivi avvenimenti venne profondamente impressionato “dalla transitoria ed instabile natura di tutte le condizioni dell’esistenza mondana e dalle sofferenze e dalle bruttezze in cui vide immersi tutti gli esseri. A lui l’esistenza apparve come un’immane fornace in cui stavano bruciando tutti gli esseri viventi[3].
Prima di morire il padre affidò la sua famiglia e la cura di tutti i suoi beni allo zio e alla zia di Mila, che subito divisero tra loro mandrie, greggi, pascoli, campi, attrezzi, abiti e gioielli. La vedova e i due figli andarono a vivere presso i due parenti a turno. Gli zii approfittarono della situazione, e fu così, racconta Mila, “che venimmo privati di tutti i diritti sulla proprietà e non solo questo, ma fummo costretti a lavorare d’estate come braccianti sui campi di mio zio e d’inverno come filatori e cardatori di lana per mia zia. Il cibo che ci veniva dato era così scadente da essere adatto soltanto per i cani; e i nostri vestiti erano fatti di miseri stracci tenuti legati addosso ai nostri corpi con un cordone[4].
Al compimento dei quindici anni di Mila la madre chiese la restituzione dei beni, ma i parenti rifiutarono, affermando che tutto era da sempre di loro proprietà e che era stato concesso al defunto marito solo in prestito. La donna e i ragazzi furono addirittura scacciati dalla casa, e poterono sopravvivere solo grazie all’aiuto degli zii materni. Bianca Ghirlanda fu sopraffatta dall’odio e supplicò Mila di imparare la magia nera per vendicarsi di coloro che avevano fatto loro del male, direttamente o per indifferenza. Mila studiò le arti magiche presso il Lama Yungtung Trogyal, e grazie all’Arte Nera provocò la morte di trentacinque persone, tra cui tutti i figli dello zio: la casa in cui si trovavano per un banchetto nuziale fu assalita da insetti, serpenti, rane e da un gigantesco scorpione. I numerosi cavalli, che erano legati all’esterno, terrorizzati presero a calci i pilastri dell’abitazione, che cedettero. La casa crollò e seppellì gli ospiti.
Marpa
Poiché i vicini, impauriti, meditavano di uccidere la famiglia di Mila, egli scatenò una tempesta di grandine sui campi d’orzo del villaggio, provocando una grave carestia ed altre vittime. A quel punto, grazie alla magia nera, la vendetta era compiuta. Ma Mila rimase sconvolto dalle sofferenze che aveva causato, come pure dalla reazione della madre che invece ne gioiva, tanto era l’odio che provava. Iniziò a pentirsi delle sue azioni, e desiderò intraprendere la Via del Dharma, anche perché consapevole del karma negativo che lui stesso aveva generato. Il suo stesso maestro lo incoraggiò in questo senso, e il giovane si mise in cerca di un guru che lo addestrasse. Gli fu fatto il nome di Marpa Lotsava, noto come il Traduttore (1012-1097), discepolo di Naropa (1016-1100), un grande maestro indiano. Al solo sentire il nome di Marpa, racconta Mila, “la mia mente fu piena di un inesprimibile senso di gioia, ed un fremito percorse tutto il mio corpo, mettendo in movimento ogni pelo, mentre lacrime scendevano dai miei occhi, tanto forte era in sentimento di fede che sorgeva dentro di me[5]. Tale reazione era il segno dell’esistenza di un collegamento karmico stabilitosi tra i due in qualche vita precedente, che verrà confermato dagli sviluppi successivi del rapporto tra Marpa e Milarepa. Un rapporto tra guru e shishya, maestro e discepolo, che diverrà emblematico nella storia del Buddhismo.
Mila divenne quindi discepolo di Marpa, il quale anziché insegnargli il Dharma per prima cosa lo incaricò di costruire una casa per il proprio figlio. Quando il lavoro era a metà, Marpa fece demolire le mura già costruite e ordinò a Mila di ricominciare in un altro luogo, e la stessa cosa si ripeté più volte, per diversi anni, finché Mila si ritrovò con il corpo spezzato, ferito, la schiena piagata. Solo la moglie di Marpa, Dagmena, era gentile e materna con lui, lo curava e gli portava del cibo. Ma Marpa continuava a trattare Mila – che chiamava “Grande Stregone” – come uno schiavo, senza trasmettergli gli insegnamenti che egli desiderava ricevere. Infine, quando ritenne che il percorso di pentimento e di esaurimento del karma negativo di Mila fosse compiuto, gli conferì l’iniziazione, imponendoli il nome di Mila Dorje Gyaltsen (Vessillo di Diamante), e cominciò ad impartirgli gli insegnamenti della sua scuola. Mila trascorse undici mesi in una grotta immerso nella meditazione, poi ricevette ulteriori insegnamenti, tra cui quelli relativi alla pratica del tummo (gtum-mo), il “violento avvampare del fuoco interiore”, uno dei “Sei Yoga di Naropa”, noto soprattutto come tecnica per vincere le rigide temperature delle montagne himalayane, ma in realtà una importante pratica tantrica di realizzazione spirituale che sebbene originatasi nella scuola Kagyupa (di cui Milarepa è considerato il fondatore) si diffonderà anche tra i Gelugpa grazie a Tsongkhapa.
Lo stesso Mila – che da quel momento sarà per sempre Milarepa, Mila-vestito-di-cotone – canterà così la pratica del tummo:

“Disgustato della vita del mondo io cercavo la solitudine sulle pendici del Latchi Khang.
Il cielo e la terra, tenuto consiglio, mi inviarono la tempesta come loro messaggero.
Gli elementi dell'aria e dell'acqua, alleati alle fosche nebbie del sud, imprigionarono
il sole e la luna, soffiarono via dal cielo le piccole stelle
ed avvilupparono le grandi in un sudario di foschia.
Nevicò poi senza sosta per nove giorni e nove notti, i grossi fiocchi erano spessi
come fiocchi di lana, essi discendevano e volavano come uccelli.
I piccoli della grossezza dei piselli e dei grani di mostarda;
Essi discendevano roteando e turbinando.
L'immensità della neve era di là da ogni descrizione.
In alto, copriva le creste dei ghiacciai,
in basso, gli alberi della foresta ne erano sepolti fino alle cime.
I monti neri sembravano bianchi di calce, il gelo appiattiva le onde agitate dei laghi,
e i ruscelli dalle acque azzurre erano nascosti sotto il ghiaccio,
alture e vallate livellate sembravano un piano, gli uomini erano prigionieri nei villaggi,
gli animali domestici soffrivano la fame, gli uccelli e le bestie selvagge digiunavano.
I topi ed i ratti erano sigillati nella terra come tesori.
Durante questo periodo di calamità, la neve, l'uragano invernale, da un canto
e i miei abiti leggeri dall'altro, si combattevano uno contro l'altro sulle montagne bianche.
A mano a mano che cadeva, la neve si fondeva su me, mutato in ruscello.
La tempesta ruggiva e si rompeva sul mio leggero abito di cotone
che conteneva un calore ardente.
La lotta per la vita e la morte poteva allora essere vinta.
Ed avendo riportato la vittoria, io lasciai per gli eremiti un esempio
che dimostra la grande virtù del tummo[6].

Durante un ritiro, Mila sognò che la sua casa era andata distrutta, la madre era morta e la sorella andava errando senza alcun aiuto. Allora si separò da Marpa e tornò al suo villaggio, dove poté verificare che il sogno era stato veritiero. Il dolore e la disillusione che provò lo spinsero ancor più a dedicare la propria vita alla ricerca dell’Illuminazione. Prese con sé, raccogliendoli tra le rovine della casa, i resti della madre e i suoi vecchi testi e ripartì, facendo tesoro anche di questa dolorosa esperienza:
O Grazioso Signore, Tu l'Immutabile,
O Marpa il Traduttore; secondo la Tua Parola Profetica,
Un maestro della transitorietà delle cose io ho trovato
Nella mia terra natale - prigione di tentazioni;
E per mezzo della Tua Benedizione e della Tua Grazia, possa io,
Da questo nobile maestro, ottenere esperienza e fede.
Tutti i fenomeni, esistenti ed apparenti,
Sono sempre transeunti, mutabili ed instabili;
Ma, ancora di più, la vita mondana
Non ha realtà, [in essa] non c'è conquista permanente[7].

Milarepa continuò a vivere in solitudine tra le montagne, nutrendosi spesso di sole ortiche – il che causò il colorito verdastro della pelle con cui è spesso raffigurato –, sempre profondamente immerso in meditazione. Un giorno la pentola con cui cucinava le ortiche cadde e si spezzò, ma anche questo incidente costituì per lui un’occasione di pratica, che così descrisse:

Anche la pentola di terracotta, che una volta esisteva ed ora non esiste più,
Dimostra la natura di tutte le cose [composte];
Ma essa simbolizza ancora di più la vita umana.
Perciò io, Mila il devoto,
Sono risoluto a perseverare senza vacillare.
La pentola di terracotta, che costituisce la mia ricchezza,
Rompendosi è ora diventata un Guru
Perché predica per me un sermone sulla Precarietà[8].

Dopo aver incontrato la sorella, che divenne poi sua discepola, ottenne infine il Risveglio durante un ritiro invernale tra le montagne. La sua reputazione come grande yogi cominciò a diffondersi e molte persone si recavano presso di lui.  Secondo la tradizione ebbe ventuno discepoli, uomini e donne: otto maggiori, i “figli del cuore[9], e tredici minori, i “figli consociati”; oltre a molte centinaia di seguaci. Non solo umani, in quanto tra di essi vi furono le Cinque Dee Sorelle, delle orchesse ed altri esseri spirituali che si erano dedicati alla protezione del Dharma.
Il suo metodo di insegnamento è spesso considerato non convenzionale, sia per lo stile in cui era espresso sia perché utilizzava sovente i poteri psichici di cui era dotato (il tummo, la levitazione, il canto sacro spontaneo, la chiaroveggenza, l’ubiquità…) per indurre i suoi seguaci ad avere fede.
Anche la vicenda della sua morte, avvenuta nel 1136, costituisce un perfetto esempio di come ogni istante dell’esistenza possa diventare un insegnamento per sé e per gli altri. Milarepa aveva suscitato l’invidia e l’odio da parte di un erudito, il Geshe Tsaphuwa, al quale aveva mostrato come la sapienza libresca generi solo confusione mentale e non conduca ad una reale comprensione. In preda all’ira, il Geshe lo fece avvelenare dalla propria compagna con una mistura di caglio e veleno. Milarepa conosceva bene, grazie ai suoi poteri psichici, le intenzioni di Tsaphuwa, ma, consapevole di essere ormai giunto al termine della sua esistenza terrena e della sua missione, bevette lo yogurt avvelenato, trasformando ancora una volta ogni evento della sua vita in un’occasione di pratica spirituale. Benché ormai vicino alla morte, diede ancora insegnamenti ai suoi discepoli; inoltre perdonò e convertì con il suo atteggiamento compassionevole anche il Geshe che lo aveva avvelenato: grazie ai poteri psichici di Milarepa questi poté sperimentare in piccola parte la sofferenza che il Santo stava provando, ma questo fu sufficiente per farlo sinceramente pentire del suo gesto dettato dalla gelosia e dall’avversione.
Alla sua morte e durante la cremazione i discepoli assistettero a meravigliosi fenomeni ed apparizioni, che certificarono il raggiungimento del Nirvana da parte del Maestro.
Milarepa è rinomato in Tibet per la sue determinazione al raggiungimento della più alta vetta degli ottenimenti spirituali, senza badare alle difficoltà e alle fatiche. Il suo coraggio nell’affrontare le condizioni avverse e l’ottenimento finale del suo scopo hanno fatto di lui il più conosciuto e riverito Santo del Tibet e i suoi canti sono motivo di ispirazione continua per i praticanti in tutte le occasioni[10].

Il film

Nel 1973-74 uscì nelle sale cinematografiche il film Milarepa, della regista Liliana Cavani (nt. 1933), ad oggi autrice di opere quali Il portiere di notte, Al di là del bene e del male, La pelle, Il gioco di Ripley e di ben tre film sulla figura di Francesco di Assisi (1966, 1989, 2014).

Il Milarepa di Liliana Cavani
L’autrice aveva letto nel 1970 il libro sulla vita di Milarepa narrata dal discepolo Rechung, all’epoca non tradotto in italiano, che le era stato prestato dalla scrittrice Elsa Morante, e ne era rimasta profondamente colpita, al punto da volerne ricavare un film. A questo proposito la regista ha scritto: “La lettura di Milarepa ha fatto muovere in me le letture di Jung che a suo tempo mi avevano molto appassionato. Ho ritrovato anche in Milarepa i miti della mia stessa cultura: la liberazione dal padre, dalla madre, dal paese, dal background, la ricerca del maestro, la liberazione dal maestro ecc. Il collegamento tra i miti della cultura occidentale e orientale è stimolante per la ricerca del quid in comune, per l’indagine sul profondo; ricerca che non finisce mai e tutto quello che mi ci conduce mi affascina. […] Il film è la storia di una persona, un ragazzo di oggi che s’identifica con la vicenda di Milarepa restando quel che è, cioè viaggiando soltanto con il pensiero, entrando in un’avventura che solo apparentemente sembra escluderlo, mentre invece lo riguarda molto da vicino. […] Il viaggio del protagonista è immaginario: lo immagina attraverso e parole del testo di Milarepa. Una ricostruzione semplice e complessa a un tempo. Un oriente più onirico che reale, non tanto suggerito dalle nozioni di chi è esperto ma dall’emozione della lettura. Potevo solo raccontare le cose così come sono state per me: un viaggio dalla mia cultura in un’altra in cui c‘è qualcosa che io cerco[11].
Un oriente onirico, dice Cavani, un luogo della mente, in un’opera che non vuole essere realistica, bensì il racconto di un’esperienza che non è solo quella di un individuo speciale vissuto nel Tibet dell’XI secolo (come sarà invece il Siddhartha del Piccolo Buddha di Bertolucci), ma che è nelle possibilità di tutti gli esseri. Così il film è girato a Torino e sui monti dell’Abruzzo, senza alcun effetto speciale, nemmeno quando racconta i devastanti sortilegi di Milarepa; i costumi, le case, i sentieri “himalayani” appartengono ad un Tibet immaginario che non è così lontano dalle vie della (ex) capitale dell’auto, dall’appartamento proletario in cui vive Leo con la madre e la sorella, dalla strada percorsa dall’auto di Bennet. Lo studente universitario post-sessantottino che fa fatica a rapportarsi col suo docente (e traduttore di testi, come Marpa) è il Milarepa che non riesce a vincere gli incontri di lotta e a persuadere Marpa a insegnargli il Dharma; la madre operaia che vorrebbe emanciparsi per interposta persona, attraverso i futuribili successi accademici del figlio (dalla lotta di classe all’invidia sociale?) si riflette nella vedova che vuole vendicarsi dei torti e dello sfruttamento con la magia nera operata da Milarepa; e così per tutti i personaggi principali, che non a caso sono interpretati dagli stessi attori, in un gioco di specchi che sembra anch’esso appartenere a quella “geometricità religiosa-filosofica” di cui ha parlato Pier Paolo Pasolini in un suo saggio sul Milarepa di Cavani[12]: secondo P.P.P. la vita di Milarepa ha “i caratteri della visione religiosa del reale, che è appunto sempre polivalente e onnicomprensiva (lo sguardo della santità “razionale” è quello di un perfetto e sublime pittore cubista, che vede contemporaneamente tutte le superfici di una realtà oggettiva). L’andirivieni di Milarepa che cerca il sapere o un modello inaugurale di sapere attraverso cui interpretare la vita, si cristallizza nel film della Cavani in una serie di linee quasi rigidamente ritmiche: una successione di inquadrature ferme, di panoramiche per lo più irregolari […] su un mondo “profilmico” stranamente geometrico anch’esso: un Abruzzo brullo e azzurro, spesso con nuvole o nebbie vaganti su distese di rocce perdute in una solitudine particolarmente profonda. Anche nella parte moderna, che fa da cornice e da fondamento all’esperienza religiosa di Milarepa, e che ha la funzione di renderla esplicitamente onirica, la Geometria […] è perfetta. Onirica anch’essa. Un sogno su cui s’impianta un altro sogno[13].
Quest’ultima espressione di Pasolini potrebbe essere applicata anche ad un altro “sognatore”, lo spettatore, colui che impianta un sogno, il film, in quello che per il Buddhismo è a sua volta un sogno: la propria vita – la vida es sueño, diceva Calderòn, rifacendosi inconsapevolmente alle vicende del Bodhisattva indiano…[14]
Lo stesso gioco di specchi, la stessa “geometria”, si ripete nelle ultime sequenze del film: nella solitudine di Leo, che torna a piedi lungo la strada, senza accompagnare Bennet sull’ambulanza, e nella solitudine di Milarepa, ormai emancipato (lo è anche Leo?), che riprende il suo cammino tra i monti e oltrepassa l’ombra spettrale di Marpa senza guardarla, in accordo con il suo ultimo insegnamento: “Non voltarti, non distrarre la tua mente… E tutto quello che penserai e dirai sia quello che hai conosciuto da te stesso. Non voltarti, non voltarti…


Scheda del film:
Regia:             Liliana Cavani
Soggetto:        Liliana Cavani
Sceneggiatura: Liliana Cavani, Italo Moscati
Fotografia:      Armando Nannuzzi
Scenografia:    Jean Marie Simon
Costumi:         Jean Marie Simon

Interpreti e personaggi:
Lajos Balászovits:       Milarepa/Leo
Paolo Bonacelli:         Marpa/professor Bennet
Marisa Fabbri:           madre di Milarepa/madre di Leo
Marcella Michelangeli: Dagmema, moglie di Marpa/Karin, moglie di Bennet

Da leggere:
il breve saggio del monaco zen M. Yushin Marassi in
http://www.lastelladelmattino.org/cinema-buddista/milarepa
la scheda di D. Bardelli in
http://www.lankelot.eu/cinema/cavani-liliana-milarepa.html
la scheda di F. Prono in
http://www.torinocittadelcinema.it/schedafilm.php?film_id=475&stile=large




[1] Cit. in: W.Y. Evans-Wentz (a cura di), Milarepa – Il grande Yogi tibetano, Ed. Newton Compton, pag. 47.
[2] La traslitterazione corretta dal tibetano è Mi-la-ras-pa.
[3] Cit. in Milarepa – Il grande Yogi tibetano, pag. 49.
[4] Id., pag. 71.
[5] Id., pag. 100.
[6] Cit. in: A. David-Neel, Mistici e maghi del Tibet, Ed. Astrolabio, pag. 182.
[7] Milarepa – Il grande Yogi tibetano, pag. 169.
[8] Id., pag. 199.
[9] Tra cui Rechung Dorje Tagpa, autore della vita di Milarepa qui citata.
[10] J.P. Lodro, Milarepa, pag. XCVI dell’allegato alla rivista Occidente Buddhista.
[11] Da: L. Cavani, Milarepa, Ed. Cappelli, in: http://www.torinocittadelcinema.it/schedafilm.php?film_id=475&stile=small
[12] P.P. Pasolini, in Cinema Nuovo n. 229/1974, cit. in: ttp://www.torinocittadelcinema.it/schedafilm.php?film_id=475&stile=small
[13] Id.; a questo proposito si può ricordare che come Cavani ha ambientato in Abruzzo la vita di Milarepa, così Pasolini nel 1964 aveva ambientato in Basilicata quella di Cristo, ne Il Vangelo secondo Matteo.
[14] Si veda. http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/02/il-beato-iacopo-da-varagine-e-la-strana.html, con la storia di Joasaf, il “Buddha cristiano”, narrata da Iacopo da Varagine nella Leggenda Aurea.

martedì 16 ottobre 2012

Perchè Bodhidharma è partito per Hollywood? - 1 - Orizzonte perduto

Quando Hollywood sogna l’Oriente: “Orizzonte Perduto” da James Hilton a Frank Capra

…e gli orizzonti perduti non ritornano mai.
La stagione dell’amore tornerà,
con le paure e le scommesse questa volta quanto durerà.

(F. Battiato, 1983)

Il romanzo & il film

“Orizzonte perduto” (“Lost Horizon”) è il più famoso romanzo di James Hilton, autore e sceneggiatore inglese, che lo scrisse nel 1933.
James Hilton
E’ un romanzo fantastico, forse un poco datato per il lettore odierno, che racconta la vicenda di 4 persone che raggiungono avventurosamente una valle nascosta tra i monti himalayani, Shangri-La, ed il suo misterioso monastero. Lì vive una pacifica popolazione, governata da una comunità segreta di saggi, provenienti da ogni parte del mondo, estremamente longevi, dediti alla meditazione e alla preservazione dei valori spirituali, artistici, culturali, dell’umanità. Ciò che fa di Shangri-La un luogo veramente speciale non è in effetti una particolare saggezza dei suoi abitanti originari, bensì la missione dei monaci venuti dall’Occidente, consacrati al salvataggio della civiltà dal disastro ormai imminente, la guerra mondiale. La comunità è felicemente guidata dal “Gran Lama”, Padre Perrault, un frate cappuccino belga giunto a Shangri-La nel 1734, all’età di 53 anni. Poiché il romanzo si svolge nei primi anni ’30, il Gran Lama ha quasi 250 anni, il che è reso possibile dalle meditazioni, dalle pratiche Yoga e da particolari sostanze presenti a Shangri-La. Infatti, allontanarsi dalla valle significa per i suoi abitanti tornare ad invecchiare secondo il comune flusso del tempo e manifestare la propria età effettiva nel giro di pochi giorni. Per i più anziani, quindi, morire e divenire polvere.
Shangri La ?
Come si scopre, i 4 protagonisti, che erano fuggiti da una guerra, sono stati rapiti e poi condotti a Shangri-La, in quanto uno di loro, Conway, era stato prescelto per prendere il posto del Gran Lama, ormai morente. Un tentativo di fuga messo in atto dal fratello di Conway e da una donna di Shangri-La, apparentemente giovane e bella, accompagnati dallo stesso Conway per amore fraterno, finisce tragicamente, ed il solo Conway cercherà di tornare nella valle, dove, già dal primo giorno, aveva provato la sensazione di “avere finalmente raggiunto la meta” (1).
Dopo aver scritto “Orizzonte perduto” (e un altro famoso romanzo portato sullo schermo, “Addio, Mr. Chips!”), Hilton si trasferì negli USA e si dedicò all’attività di sceneggiatore negli studi di Hollywood.
Nel 1937 collaborò proprio alla sceneggiatura del film tratto dal suo romanzo, con la regia del grande maestro Frank Capra, autore di film come “Accadde una notte” con Clark Gable, “Mr. Smith va a Washington” e “La vita è meravigliosa” con James Stewart, “E’ arrivata la felicità” con Gary Cooper, nonché vincitore di 4 Premi Oscar per la regia, un Golden Globe, un Leone d’Oro alla carriera e molti altri premi. Il suo film “Orizzonte perduto” ricalca abbastanza fedelmente il romanzo, sia nell’intreccio sia nello spirito. L’avventura vissuta dai protagonisti (5 nel film) si svolge in un periodo, gli anni ’30, durante il quale diversi totalitarismi nel mondo (il Nazismo, il Fascismo, il Comunismo staliniano) cercavano di plasmare l’Uomo Nuovo, di costruire la società perfetta, al prezzo di bagni di sangue ed enormi sofferenze, libertà e diritti umani calpestati, fame e carestie, genocidi e conflitti sempre più estesi. A quanto stava avvenendo in Europa e altrove, si contrappone la visione di Hilton: a Shangri-La, dice Chang, uno degli anziani, “noi siamo persuasi che per governare bene bisogna evitare di governare troppo” (2). Gli abitanti sono passabilmente felici, moderatamente attivi, non vi sono “né uomini dissoluti né asceti” (3), le donne sono moderatamente caste. La moderazione è la regola (nulla a che vedere, sia chiaro, con la Via del Mezzo di cui parlano gli insegnamenti buddhisti!).
Così pure, Frank Capra traspone nel film la sua visione di quegli anni, difficili anche per gli USA: la Grande Crisi del ‘29, la depressione economica, le masse dei disoccupati, la dittatura che avanza in tutto il mondo. Ma al di là di questo egli intravvede Shangri-La: la speranza, la solidarietà, la politica illuminata del Presidente Franklin Delano Roosevelt e il suo New Deal, tutti quei valori di libertà e progresso di cui l’America si sentiva portatrice (4). E’ un mondo, quello di Frank Capra, conflittuale, insicuro, anche drammatico. Ma il finale dei suoi film è sempre improntato ad una visione ottimistica (l’ “happy end”), nella quale i protagonisti (qui, Conway), spesso uomini come gli altri, “eroi per caso”, riescono a prevalere senza utilizzare i mezzi messi in atto dalle forze che ad essi si oppongono: l’inganno, la violenza, l’immoralità. Sono figure nelle quali gli spettatori possono facilmente e positivamente identificarsi. Infatti, “la suggestione che il film lascia è enorme, quanto il successo che ottiene” (5), sia da parte dei critici che del pubblico (ebbe ben 7 nomination all’Oscar, vincendone 2, anche se non per il miglior film o per la regia).

Il mito

Shangri-La è stata una felice creazione di James Hilton. Infatti a partire dal successo del romanzo e poi del film (un vero e proprio effetto di feed back) è nato il mito di Shangri-La, sinonimo di oasi di pace, dove il tempo rallenta, il male non esiste, la vita è quieta ricerca del bello – una riedizione del Giardino dell’Eden.
Così oggi, quando i miti, merci in un mondo di merci, diventano spot, si chiamano Shangri-La centri di fitness, villaggi turistici, ristoranti, bagni marini. Molti, poi, pensano che Shangri-La sia un luogo reale, in cui si può ottenere qualche cosa, e allora partono per l’Oriente a cercarlo, con viaggi organizzati da tour operator “spirituali”.

Zhongdian
E nel 2001 il governo cinese, indubbiamente molto abile nella promozione di se stesso (Olimpiade 2008 docet), ha dichiarato che la vera Shangri-La è la cittadina di Zhongdian, nello Yunnan, ai confini del(l’ex) Tibet. Così, oggi Shangri-La esiste veramente, ed il mito è definitivamente morto!
Ma, se si scava più a fondo, si scopre che Hilton e Capra, non si sa quanto consapevolmente, non hanno inventato nulla di nuovo (il nome Shangri-La, forse), bensì hanno dato nuova linfa ad un mito ancestrale e ricco di profondi significati spirituali – quasi come un antico fiume che, dopo un lungo percorso a cielo aperto, poi incanalatosi nelle viscere della terra, sconosciuto ai più, sia tornato dopo secoli a scorrere in superficie, visibile a tutti, ma incomprensibile alla maggior parte delle persone, ormai indifferenti e ostili ai valori dello spirito.
E’ il mito (e qui mito non vuol dire leggenda, bensì concreta pratica spirituale) di Śambhala, termine tibetano che significa “terra nascosta”. E’ la storia di “un regno situato nel profondo Nord dell’India (..) intimamente legata a quella del Kālacakratantra” (6). Secondo questa vicenda, che appartiene alle tradizioni del buddhismo Vajrayana (il buddhismo tantrico), il Buddha stesso rivelò gli insegnamenti del Kālacakratantra (7) a Sucandra, re di Śambhala, il quale li studiò, li praticò e li propagò tra i suoi sudditi, nel suo regno nascosto tra i monti.
Il mantra di Kalachakra
In seguito, nel X sec. d.C., gli insegnamenti tornarono in India, dove il Buddha li aveva impartiti al re, e lì si diffusero grazie a grandi Guru come Nāropa e Atīśa. Durante le invasioni musulmane, essi furono nuovamente portati in Tibet, e lì preservati. Il Kālacakratantra è tuttora praticato dai meditanti buddhisti delle scuole Vajrayana, dopo le indispensabili iniziazioni (conferite direttamente dal Dalai Lama o da grandi Maestri quali Kalu Rinpoche e Sakya Trizin Rinpoche).
Secondo questi insegnamenti (e qui il mito si fa pratica concretamente vissuta) Śambhala è un regno circondato da cime innevate, non accessibile a chiunque. Dice Lozang Pelden Yeshe, III Panchen Lama, che “chi vuole recarsi in questo paese con la sua forma corporea deve essere un uomo che possiede la forza del merito della virtù e la conoscenza dei tantra” (8). E l’attuale XIV Dalai Lama ha dichiarato che “sebbene Śambhala sia un luogo situato da qualche parte su questo pianeta, esso può essere visto solo da coloro che sono dotati di mente e propensioni karmiche pure” (9).
Secondo una profezia, nel 2327, quando regnerà su Śambhala il re Rudra Cakrī, il suo reame sarà scoperto da ostili forze materialiste, e nel 2425 verrà invaso per essere depredato. Ma le forze negative saranno sconfitte e il Dharma di Kālacakra sarà ristabilito per altri 1800 anni.
Da un punto di vista strettamente storicistico, il mito di Śambhala ebbe probabilmente origine in India, nel XII secolo d.C., sotto la minaccia dell’invasione musulmana, la quale in effetti fu determinante nella sparizione del buddhismo dalla sua terra d’origine. Il regno puro e inviolabile era il luogo in cui gli insegnamenti del Buddha sarebbero stati conservati e tramandati (il Tibet?).
In Occidente, il mito si intrecciò con la leggenda medioevale del regno del “Prete Gianni”, di cui parla anche Marco Polo nel “Milione” (1298-99) (10). In realtà il Prete Gianni era il re dei Keraiti, una etnia mongola convertita al cristianesimo nestoriano (11). Egli fu dapprima alleato e poi nemico di Temujin, il sovrano mongolo più noto come Gengis Khan, da cui fu sconfitto nel 1203.
Queste sono le fonti da cui, consapevole o meno, attinse Hilton: il mito di Śambhala, la leggenda del Prete Gianni, la storia dei Cristiani Nestoriani, nonché le biografie di missionari cristiani quali Matteo Ricci (nt. 1552) e Ippolito Desideri (nt. 1684), che forse gli ispirò la figura di Padre Perrault (12). Vanno poi citati due esploratori portoghesi, Joao Cabral e Estevao Cacella, che nel XVII sec., mentre ricercavano una pista che collegasse India e Cina attraverso il Tibet, sentirono parlare del regno di “Xembala”.
Altra fonte dell’opera di Hilton fu probabilmente il mito (moderno, questo) di Agarttha, misterioso centro iniziatico governato dal “Re del Mondo” (13), con cui negli anni ’20 sarebbe entrato in contatto lo scrittore Ferdinand Ossendowski durante un viaggio in Asia. E con gli abitanti di Agarttha (o Agarthi), antichi misteriosi sapienti, sarebbe stata in stretto contatto Elena Petrovna Blavatsky (1831-1891), fondatrice della Società Teosofica (in questi casi, l’uso del condizionale è d’obbligo!).
Infine (ma si potrebbe continuare a lungo), tra le possibili fonti di Shangri-La, sono da citare i miti veterotestamentari del Giardino dell’Eden e della longevità dei patriarchi prediluviani: Adamo, che secondo Genesi, capp. 5 e 9, visse 930 anni, Set (912), Matusalemme (969), Noè (950).
Più tardi, Śambhala entrò nel “Grande Gioco”, la feroce battaglia diplomatico-militare che nel XIX secolo vide Russia e Inghilterra contendersi il controllo dell’Asia Centrale.
Alla ricerca dei poteri sovrannaturali celati nelle misteriose valli himalayane, nonché delle mitiche origini dei popoli “ariani” (14), partì poi, dalla Germania hitleriana, la spedizione guidata da Ernst Schäfer e Bruno Beger, fermamente voluta dal capo delle SS Heinrich Himmler e dai circoli esoterici che coinvolgevano parte della gerarchia nazista (15).
Era il 1938: l’anno prima, era uscito nelle sale cinematografiche americane “Orizzonte perduto” di Frank Capra. Per alcuni, la ricerca di Shangri-La si esauriva nelle poltrone del cinema sotto casa, con la sola speranza di dimenticare per un paio d’ore la paura della crisi economica. Per altri, significava attraversare a piedi il Tetto del Mondo, con lo zaino sulle spalle e la svastica sugli stendardi (16), alla ricerca di nuovi strumenti per dominare il mondo.

Il Mahasiddha Tilopa
Né gli uni né gli altri, in realtà, avevano compreso ciò che invece è narrato con semplicità da una vecchia storia tibetana. Un giorno il Mahasiddha Tilopa, un grande Yogi tibetano (17), decise di recarsi nel regno di Śambhala per approfondire la conoscenza della dottrina del Kālacakratantra. Durante il cammino tra le montagne, incontrò uno straniero, che gli chiese dove stesse andando. “A Śambhala, alla ricerca della saggezza dei Bodhisattva” (18), rispose Tilopa. E l’altro: “La strada è lunga e molto faticosa; se avete l’ardore di apprendere, potrete acquisire questa conoscenza proprio qui”. A quel punto Tilopa riconobbe in lui il Bodhisattva della Saggezza, Maňjusrī, e gli si prosternò dinanzi. Quindi Maňjusrī lo iniziò ai segreti del Kālacakratantra. “Il pellegrinaggio verso Śambhala diventa così una cammino verso la Luce interiore” (19).
Śambhala non è quindi un favoloso “altrove” da raggiungere in qualche modo. Se correttamente inteso, è invece il luogo in cui ci troviamo in ogni istante della vita. Il “qui ed ora” su cui vertono gli insegnamenti dello Zen e di tutte le scuole buddiste.
Come disse Gesù parlando di un altro Regno (o forse è lo stesso?): “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!” (20).

Note


(1) J. Hilton, Orizzonte perduto, Ed. Sellerio, pag. 75.
(2) id., pag.119.
(3) id., pag.158.
(4) Con New Deal si intende il piano di riforme economiche e sociali promosso dal presidente americano
Franklin D. Roosevelt fra il 1933 e il 1937, allo scopo di risollevare il Paese dalla grande depressione che aveva travolto gli USA dal 1929. E’ significativo ricordare che la residenza di campagna dei Presidenti USA, oggi nota come Camp David, fu fatta costruire proprio da F.D. Roosevelt, che la chiamò Shangri-La. Da quell’oasi di pace il presidente Truman annunciò i bombardamenti atomici sul Giappone nel 1945.
(5) G. Martini (a cura di), Cinema e Buddismo, Ed. Centro Ambrosiano, pag. 87.
(6) P. Cornu, Dizionario del Buddhismo, Ed. Bruno Mondadori, pag. 531.
(7) Kālacakra è una delle più importanti deità di meditazione dell’Anuttarayogatantra, la classe superiore dei Tantra praticati nel buddhismo tibetano, il Vajrayana, il veicolo del fulmine-diamante.
(8) Dizionario, pag. 531. Il Panchen Lama è la seconda carica spirituale del buddhismo tibetano, dopo il Dalai Lama.
(9) Dizionario, pag. 532.
(10) M. Polo, Il Milione (versione di M. Bellonci), Ed. ERI, pag. 62 e segg.
(11) Il Cristianesimo Nestoriano (dal nome del Patriarca di Costantinopoli, Nestorio – V sec.) ebbe grande diffusione in Asia. Sostiene la presenza in Cristo di due distinte persone, umana e divina. Di qui il rifiuto di definire Maria come Madre di Dio. Le sue origini vengono fatte tradizionalmente risalire all’apostolato di San Tommaso. Sopravvive oggi solo in piccole comunità dell’Oriente. E’ all’origine della Chiesa Caldea, uno dei cui fedeli fu Tarek Aziz, ministro irakeno al tempo di Saddam Hussein.
(12) Si ricordi che Charles Perrault fu il noto scrittore francese (1628/1703) autore di fiabe come Cappuccetto Rosso, La Bella Addormentata, Cenerentola, Il Gatto con gli stivali, Barbablù, ecc.
(13) Sull’argomento si veda: René Guénon, Il Re del Mondo, Ed. Adelphi.
(14) Il termine sanscrito “arya” significa “nobile”.
(15) Si veda: C. Hale, La Crociata di Himmler, Ed. Garzanti. Come si può intuire, nemmeno i film di Steven Spielberg “I predatori dell’arca perduta” e “Indiana Jones e l’ultima Crociata” sono del tutto privi di basi storiche.
(16) L’antico emblema della svastica (dal sanscrito “su” = bene, e “asti” = essere, quindi “di buona fortuna”) è associato nella cultura vedica al Sole, ed è simbolo della ruota del modo, l’Universo che gira intorno ad un centro immobile. Vedi M. e J. Stutley, Dizionario dell’Induismo, Ed. Ubaldini, pag. 438.
(17) I Mahasiddha, cioè “grandi Realizzati” in sanscrito, erano maestri indiani della scuola Vajrayana, vissuti tra il VII e il XII secolo. In particolare, Tilopa (988-1069) fu all’origine del lignaggio che proseguì con Naropa, Marpa il Traduttore e il famoso Milarepa (a cui Liliana Cavani nel 1974 dedicò l’omonimo film), fondatore della scuola buddhista Kagyüpa.
(18) Il termine bodhisattva, alla lettera “essere del Risveglio”, indica coloro che rinunciano ad entrare nello stato del Nirvana per aiutare tutti gli esseri a liberarsi dalla sofferenza e dalle sue cause. Figura già presente nel buddhismo Theravada, diviene assolutamente centrale nelle scuole Mahayana.
(19) J. Rivière, Kalachakra. Iniziazione tantrica del Dalai Lama, Ed. Mediterranee, pag. 43.
(20) Luca 17, 21.


m. mauro tonko, novembre 2008