“Io sono Milarepa, grande per fama, la diretta
progenie della Memoria e della Saggezza;
Eppure io sono un
uomo vecchio, derelitto e nudo.
Dalle mie labbra
esce una canzone breve, perché tutta la Natura, a cui io guardo, è il mio
libro.
Il bastone di
ferro, che le mie mani stringono, mi guida sull'Oceano della Vita che Cambia.
Maestro io sono
della Mente e della Luce;
E mostrando azioni
e miracoli, non dipendo da divinità terrene”[1].
Con queste parole Milarepa ha descritto se stesso nei versi da lui composti, che
fanno parte del Mila mgur-‘bun, i Centomila canti di Milarepa, raccolti
molti anni dopo la sua morte.
Milarepa |
Milarepa – una particolare figura di mago,
eremita, mistico e poeta, uno dei più amati e venerati maestri del Buddhismo
tibetano – nacque in un villaggio del Gungthang, nel Tibet di sud-ovest, vicino
al confine con il Nepal, tra il 1040 e il 1052, in una piccola famiglia di
agricoltori. Il suo nome era Mila
Thö-pa-ga, laddove Mila significa
“uomo”, o forse è una interiezione che esprime spavento, terrore; e Thö-pa-ga è traducibile con “piacevole
da ascoltare” o “buona novella”. Solo in seguito divenne Milarepa, cioè
Mila-vestito-di-cotone[2].
Colui che ancora oggi è considerato uno
dei più grandi Santi e poeti del Buddhismo conobbe ben presto la sofferenza: a
soli sette anni perse il padre per una grave malattia e rimase solo con la
madre Karmo Kien (Bianca Ghirlanda) e la sorella di tre anni, Gön-ma-Kyit
(Protettrice Fortunata), soprannominata Peta.
Uno dei suoi maggiori discepoli, Rechung, scriverà poi che Mila a seguito
della morte del padre e dei successivi avvenimenti venne profondamente
impressionato “dalla transitoria ed
instabile natura di tutte le condizioni dell’esistenza mondana e dalle
sofferenze e dalle bruttezze in cui vide immersi tutti gli esseri. A lui l’esistenza
apparve come un’immane fornace in cui stavano bruciando tutti gli esseri
viventi”[3].
Prima di morire il padre affidò la sua
famiglia e la cura di tutti i suoi beni allo zio e alla zia di Mila, che subito
divisero tra loro mandrie, greggi, pascoli, campi, attrezzi, abiti e gioielli.
La vedova e i due figli andarono a vivere presso i due parenti a turno. Gli zii
approfittarono della situazione, e fu così, racconta Mila, “che venimmo privati di tutti i diritti sulla
proprietà e non solo questo, ma fummo costretti a lavorare d’estate come
braccianti sui campi di mio zio e d’inverno come filatori e cardatori di lana
per mia zia. Il cibo che ci veniva dato era così scadente da essere adatto
soltanto per i cani; e i nostri vestiti erano fatti di miseri stracci tenuti
legati addosso ai nostri corpi con un cordone”[4].
Al compimento dei quindici anni di Mila la
madre chiese la restituzione dei beni, ma i parenti rifiutarono, affermando che
tutto era da sempre di loro proprietà e che era stato concesso al defunto
marito solo in prestito. La donna e i ragazzi furono addirittura scacciati
dalla casa, e poterono sopravvivere solo grazie all’aiuto degli zii materni. Bianca
Ghirlanda fu sopraffatta dall’odio e supplicò Mila di imparare la magia nera
per vendicarsi di coloro che avevano fatto loro del male, direttamente o per
indifferenza. Mila studiò le arti magiche presso il Lama Yungtung Trogyal, e
grazie all’Arte Nera provocò la morte di trentacinque persone, tra cui tutti i
figli dello zio: la casa in cui si trovavano per un banchetto nuziale fu
assalita da insetti, serpenti, rane e da un gigantesco scorpione. I numerosi
cavalli, che erano legati all’esterno, terrorizzati presero a calci i pilastri
dell’abitazione, che cedettero. La casa crollò e seppellì gli ospiti.
Marpa |
Poiché i vicini, impauriti, meditavano di
uccidere la famiglia di Mila, egli scatenò una tempesta di grandine sui campi
d’orzo del villaggio, provocando una grave carestia ed altre vittime. A quel
punto, grazie alla magia nera, la vendetta era compiuta. Ma Mila rimase sconvolto
dalle sofferenze che aveva causato, come pure dalla reazione della madre che
invece ne gioiva, tanto era l’odio che provava. Iniziò a pentirsi delle sue
azioni, e desiderò intraprendere la Via del Dharma,
anche perché consapevole del karma
negativo che lui stesso aveva generato. Il suo stesso maestro lo incoraggiò in
questo senso, e il giovane si mise in cerca di un guru che lo addestrasse. Gli fu fatto il nome di Marpa Lotsava, noto come il Traduttore (1012-1097), discepolo di
Naropa (1016-1100), un grande maestro
indiano. Al solo sentire il nome di Marpa, racconta Mila, “la mia mente fu piena di un inesprimibile senso di gioia, ed un fremito
percorse tutto il mio corpo, mettendo in movimento ogni pelo, mentre lacrime
scendevano dai miei occhi, tanto forte era in sentimento di fede che sorgeva
dentro di me”[5].
Tale reazione era il segno dell’esistenza di un collegamento karmico
stabilitosi tra i due in qualche vita precedente, che verrà confermato dagli
sviluppi successivi del rapporto tra Marpa e Milarepa. Un rapporto tra guru e shishya, maestro e discepolo, che diverrà emblematico nella storia
del Buddhismo.
Mila divenne quindi discepolo di Marpa, il
quale anziché insegnargli il Dharma per prima cosa lo incaricò di costruire una
casa per il proprio figlio. Quando il lavoro era a metà, Marpa fece demolire le
mura già costruite e ordinò a Mila di ricominciare in un altro luogo, e la
stessa cosa si ripeté più volte, per diversi anni, finché Mila si ritrovò con
il corpo spezzato, ferito, la schiena piagata. Solo la moglie di Marpa,
Dagmena, era gentile e materna con lui, lo curava e gli portava del cibo. Ma
Marpa continuava a trattare Mila – che chiamava “Grande Stregone” – come uno
schiavo, senza trasmettergli gli insegnamenti che egli desiderava ricevere.
Infine, quando ritenne che il percorso di pentimento e di esaurimento del karma negativo di Mila fosse compiuto,
gli conferì l’iniziazione, imponendoli il nome di Mila Dorje Gyaltsen (Vessillo
di Diamante), e cominciò ad impartirgli gli insegnamenti della sua scuola. Mila
trascorse undici mesi in una grotta immerso nella meditazione, poi ricevette
ulteriori insegnamenti, tra cui quelli relativi alla pratica del tummo
(gtum-mo), il “violento avvampare del
fuoco interiore”, uno dei “Sei Yoga di
Naropa”, noto soprattutto come tecnica per vincere le rigide temperature
delle montagne himalayane, ma in realtà una importante pratica tantrica di
realizzazione spirituale che sebbene originatasi nella scuola Kagyupa (di cui Milarepa è considerato
il fondatore) si diffonderà anche tra i Gelugpa
grazie a Tsongkhapa.
Lo stesso Mila – che da quel momento sarà
per sempre Milarepa, Mila-vestito-di-cotone – canterà così la pratica del tummo:
“Disgustato
della vita del mondo io cercavo la solitudine sulle pendici del Latchi Khang.
Il cielo e la
terra, tenuto consiglio, mi inviarono la tempesta come loro messaggero.
Gli elementi
dell'aria e dell'acqua, alleati alle fosche nebbie del sud, imprigionarono
il sole e la
luna, soffiarono via dal cielo le piccole stelle
ed
avvilupparono le grandi in un sudario di foschia.
Nevicò poi
senza sosta per nove giorni e nove notti, i grossi fiocchi erano spessi
come fiocchi
di lana, essi discendevano e volavano come uccelli.
I piccoli
della grossezza dei piselli e dei grani di mostarda;
Essi
discendevano roteando e turbinando.
L'immensità
della neve era di là da ogni descrizione.
In alto,
copriva le creste dei ghiacciai,
in basso, gli
alberi della foresta ne erano sepolti fino alle cime.
I monti neri
sembravano bianchi di calce, il gelo appiattiva le onde agitate dei laghi,
e i ruscelli
dalle acque azzurre erano nascosti sotto il ghiaccio,
alture e
vallate livellate sembravano un piano, gli uomini erano prigionieri nei villaggi,
gli animali
domestici soffrivano la fame, gli uccelli e le bestie selvagge digiunavano.
I topi ed i
ratti erano sigillati nella terra come tesori.
Durante
questo periodo di calamità, la neve, l'uragano invernale, da un canto
e i miei
abiti leggeri dall'altro, si combattevano uno contro l'altro sulle montagne
bianche.
A mano a mano
che cadeva, la neve si fondeva su me, mutato in ruscello.
La tempesta
ruggiva e si rompeva sul mio leggero abito di cotone
che conteneva
un calore ardente.
La lotta per la
vita e la morte poteva allora essere vinta.
Ed avendo
riportato la vittoria, io lasciai per gli eremiti un esempio
Durante un ritiro, Mila sognò che la sua
casa era andata distrutta, la madre era morta e la sorella andava errando senza
alcun aiuto. Allora si separò da Marpa e tornò al suo villaggio, dove poté
verificare che il sogno era stato veritiero. Il dolore e la disillusione che
provò lo spinsero ancor più a dedicare la propria vita alla ricerca
dell’Illuminazione. Prese con sé, raccogliendoli tra le rovine della casa, i
resti della madre e i suoi vecchi testi e ripartì, facendo tesoro anche di
questa dolorosa esperienza:
“O Grazioso Signore, Tu l'Immutabile,
O
Marpa il Traduttore; secondo la Tua Parola Profetica,
Un
maestro della transitorietà delle cose io ho trovato
Nella
mia terra natale - prigione di tentazioni;
E
per mezzo della Tua Benedizione e della Tua Grazia, possa io,
Da
questo nobile maestro, ottenere esperienza e fede.
Tutti
i fenomeni, esistenti ed apparenti,
Sono
sempre transeunti, mutabili ed instabili;
Ma,
ancora di più, la vita mondana
Non
ha realtà, [in essa] non c'è conquista permanente”[7].
Milarepa continuò a vivere in solitudine tra le montagne, nutrendosi spesso
di sole ortiche – il che causò il colorito verdastro della pelle con cui è
spesso raffigurato –, sempre profondamente immerso in meditazione. Un giorno la
pentola con cui cucinava le ortiche cadde e si spezzò, ma anche questo
incidente costituì per lui un’occasione di pratica, che così descrisse:
“Anche la pentola
di terracotta, che una volta esisteva ed ora non esiste più,
Dimostra
la natura di tutte le cose [composte];
Ma
essa simbolizza ancora di più la vita umana.
Perciò
io, Mila il devoto,
Sono
risoluto a perseverare senza vacillare.
La
pentola di terracotta, che costituisce la mia ricchezza,
Rompendosi
è ora diventata un Guru
Perché
predica per me un sermone sulla Precarietà”[8].
Dopo aver incontrato la sorella, che
divenne poi sua discepola, ottenne infine il Risveglio durante un ritiro
invernale tra le montagne. La sua reputazione come grande yogi cominciò a diffondersi e molte persone si recavano presso di
lui. Secondo la tradizione ebbe ventuno
discepoli, uomini e donne: otto maggiori, i “figli del cuore”[9],
e tredici minori, i “figli consociati”;
oltre a molte centinaia di seguaci. Non solo umani, in quanto tra di essi vi
furono le Cinque Dee Sorelle, delle orchesse ed altri esseri spirituali che si
erano dedicati alla protezione del Dharma.
Il suo metodo di insegnamento è spesso
considerato non convenzionale, sia per lo stile in cui era espresso sia perché
utilizzava sovente i poteri psichici di cui era dotato (il tummo, la levitazione, il canto sacro spontaneo, la chiaroveggenza,
l’ubiquità…) per indurre i suoi seguaci ad avere fede.
Anche la vicenda della sua morte, avvenuta
nel 1136, costituisce un perfetto esempio di come ogni istante dell’esistenza
possa diventare un insegnamento per sé e per gli altri. Milarepa aveva suscitato
l’invidia e l’odio da parte di un erudito, il Geshe Tsaphuwa, al quale aveva mostrato come la sapienza libresca
generi solo confusione mentale e non conduca ad una reale comprensione. In
preda all’ira, il Geshe lo fece
avvelenare dalla propria compagna con una mistura di caglio e veleno. Milarepa
conosceva bene, grazie ai suoi poteri psichici, le intenzioni di Tsaphuwa, ma,
consapevole di essere ormai giunto al termine della sua esistenza terrena e
della sua missione, bevette lo yogurt avvelenato, trasformando ancora una volta
ogni evento della sua vita in un’occasione di pratica spirituale. Benché ormai
vicino alla morte, diede ancora insegnamenti ai suoi discepoli; inoltre perdonò
e convertì con il suo atteggiamento compassionevole anche il Geshe che lo aveva avvelenato: grazie ai
poteri psichici di Milarepa questi poté sperimentare in piccola parte la
sofferenza che il Santo stava provando, ma questo fu sufficiente per farlo
sinceramente pentire del suo gesto dettato dalla gelosia e dall’avversione.
Alla sua morte e durante la cremazione i
discepoli assistettero a meravigliosi fenomeni ed apparizioni, che
certificarono il raggiungimento del Nirvana
da parte del Maestro.
“Milarepa
è rinomato in Tibet per la sue determinazione al raggiungimento della più alta
vetta degli ottenimenti spirituali, senza badare alle difficoltà e alle
fatiche. Il suo coraggio nell’affrontare le condizioni avverse e l’ottenimento
finale del suo scopo hanno fatto di lui il più conosciuto e riverito Santo del
Tibet e i suoi canti sono motivo di ispirazione continua per i praticanti in
tutte le occasioni”[10].
Il film
Nel 1973-74 uscì nelle sale
cinematografiche il film Milarepa, della regista Liliana Cavani (nt. 1933), ad oggi
autrice di opere quali Il portiere di
notte, Al di là del bene e del male,
La pelle, Il gioco di Ripley e di ben tre film sulla figura di Francesco di
Assisi (1966, 1989, 2014).
Il Milarepa di Liliana Cavani |
L’autrice aveva letto nel 1970 il libro
sulla vita di Milarepa narrata dal discepolo Rechung, all’epoca non tradotto in
italiano, che le era stato prestato dalla scrittrice Elsa Morante, e ne era
rimasta profondamente colpita, al punto da volerne ricavare un film. A questo
proposito la regista ha scritto: “La
lettura di Milarepa ha fatto muovere in me le letture di Jung che a suo tempo
mi avevano molto appassionato. Ho ritrovato anche in Milarepa i miti della mia
stessa cultura: la liberazione dal padre, dalla madre, dal paese, dal
background, la ricerca del maestro, la liberazione dal maestro ecc. Il
collegamento tra i miti della cultura occidentale e orientale è stimolante per
la ricerca del quid in comune, per l’indagine sul profondo; ricerca che non
finisce mai e tutto quello che mi ci conduce mi affascina. […] Il film è la
storia di una persona, un ragazzo di oggi che s’identifica con la vicenda di
Milarepa restando quel che è, cioè viaggiando soltanto con il pensiero,
entrando in un’avventura che solo apparentemente sembra escluderlo, mentre
invece lo riguarda molto da vicino. […] Il viaggio del protagonista è
immaginario: lo immagina attraverso e parole del testo di Milarepa. Una
ricostruzione semplice e complessa a un tempo. Un oriente più onirico che
reale, non tanto suggerito dalle nozioni di chi è esperto ma dall’emozione
della lettura. Potevo solo raccontare le cose così come sono state per me: un
viaggio dalla mia cultura in un’altra in cui c‘è qualcosa che io cerco”[11].
Un oriente onirico, dice Cavani, un luogo della mente, in un’opera che non
vuole essere realistica, bensì il racconto di un’esperienza che non è solo
quella di un individuo speciale vissuto nel Tibet dell’XI secolo (come sarà
invece il Siddhartha del Piccolo Buddha
di Bertolucci), ma che è nelle possibilità di tutti gli esseri. Così il film è
girato a Torino e sui monti dell’Abruzzo, senza alcun effetto speciale, nemmeno
quando racconta i devastanti sortilegi di Milarepa; i costumi, le case, i
sentieri “himalayani” appartengono ad un Tibet immaginario che non è così lontano
dalle vie della (ex) capitale dell’auto, dall’appartamento proletario in cui
vive Leo con la madre e la sorella, dalla strada percorsa dall’auto di Bennet.
Lo studente universitario post-sessantottino che fa fatica a rapportarsi col suo
docente (e traduttore di testi, come Marpa) è il Milarepa che non riesce a
vincere gli incontri di lotta e a persuadere Marpa a insegnargli il Dharma; la madre operaia che vorrebbe
emanciparsi per interposta persona, attraverso i futuribili successi accademici
del figlio (dalla lotta di classe all’invidia sociale?) si riflette nella
vedova che vuole vendicarsi dei torti e dello sfruttamento con la magia nera operata
da Milarepa; e così per tutti i personaggi principali, che non a caso sono
interpretati dagli stessi attori, in un gioco di specchi che sembra anch’esso
appartenere a quella “geometricità
religiosa-filosofica” di cui ha parlato Pier Paolo Pasolini in un suo
saggio sul Milarepa di Cavani[12]:
secondo P.P.P. la vita di Milarepa ha “i
caratteri della visione religiosa del reale, che è appunto sempre polivalente e
onnicomprensiva (lo sguardo della santità “razionale” è quello di un perfetto e
sublime pittore cubista, che vede contemporaneamente tutte le superfici di una
realtà oggettiva). L’andirivieni di Milarepa che cerca il sapere o un modello
inaugurale di sapere attraverso cui interpretare la vita, si cristallizza nel
film della Cavani in una serie di linee quasi rigidamente ritmiche: una
successione di inquadrature ferme, di panoramiche per lo più irregolari […] su
un mondo “profilmico” stranamente geometrico anch’esso: un Abruzzo brullo e
azzurro, spesso con nuvole o nebbie vaganti su distese di rocce perdute in una
solitudine particolarmente profonda. Anche nella parte moderna, che fa da
cornice e da fondamento all’esperienza religiosa di Milarepa, e che ha la
funzione di renderla esplicitamente onirica, la Geometria […] è perfetta.
Onirica anch’essa. Un sogno su cui s’impianta un altro sogno”[13].
Quest’ultima espressione di Pasolini
potrebbe essere applicata anche ad un altro “sognatore”, lo spettatore, colui
che impianta un sogno, il film, in quello che per il Buddhismo è a sua volta un
sogno: la propria vita – la vida es sueño,
diceva Calderòn, rifacendosi inconsapevolmente alle vicende del Bodhisattva indiano…[14]
Lo stesso gioco di specchi, la stessa “geometria”, si ripete nelle ultime
sequenze del film: nella solitudine di Leo, che torna a piedi lungo la strada,
senza accompagnare Bennet sull’ambulanza, e nella solitudine di Milarepa, ormai
emancipato (lo è anche Leo?), che riprende il suo cammino tra i monti e
oltrepassa l’ombra spettrale di Marpa senza guardarla, in accordo con il suo
ultimo insegnamento: “Non voltarti, non
distrarre la tua mente… E tutto quello che penserai e dirai sia quello che hai
conosciuto da te stesso. Non voltarti, non voltarti…”
Scheda del film:
Regia: Liliana
Cavani
Soggetto: Liliana
Cavani
Sceneggiatura:
Liliana Cavani, Italo Moscati
Fotografia: Armando
Nannuzzi
Scenografia: Jean
Marie Simon
Costumi: Jean
Marie Simon
Interpreti e
personaggi:
Lajos Balászovits: Milarepa/Leo
Paolo Bonacelli: Marpa/professor Bennet
Marisa Fabbri: madre di Milarepa/madre di Leo
Marcella
Michelangeli:
Dagmema, moglie di Marpa/Karin, moglie di Bennet
Da leggere:
il
breve saggio del monaco zen M. Yushin
Marassi in
http://www.lastelladelmattino.org/cinema-buddista/milarepa
la
scheda di D. Bardelli in
http://www.lankelot.eu/cinema/cavani-liliana-milarepa.html
la
scheda di F. Prono in
http://www.torinocittadelcinema.it/schedafilm.php?film_id=475&stile=large
[1] Cit. in: W.Y.
Evans-Wentz (a cura di), Milarepa – Il grande Yogi tibetano,
Ed. Newton Compton, pag. 47.
[2] La
traslitterazione corretta dal tibetano è Mi-la-ras-pa.
[3] Cit. in Milarepa
– Il grande Yogi tibetano, pag. 49.
[4] Id., pag. 71.
[5] Id., pag. 100.
[6] Cit. in: A.
David-Neel, Mistici e maghi del Tibet, Ed. Astrolabio, pag. 182.
[7] Milarepa
– Il grande Yogi tibetano, pag. 169.
[8] Id., pag. 199.
[9] Tra cui Rechung Dorje Tagpa, autore della vita
di Milarepa qui citata.
[10] J.P. Lodro, Milarepa,
pag. XCVI dell’allegato alla rivista Occidente Buddhista.
[11] Da: L. Cavani, Milarepa,
Ed. Cappelli, in: http://www.torinocittadelcinema.it/schedafilm.php?film_id=475&stile=small
[12] P.P. Pasolini, in Cinema
Nuovo n. 229/1974, cit. in: ttp://www.torinocittadelcinema.it/schedafilm.php?film_id=475&stile=small
[13] Id.; a questo
proposito si può ricordare che come Cavani ha ambientato in Abruzzo la vita di
Milarepa, così Pasolini nel 1964 aveva ambientato in Basilicata quella di
Cristo, ne Il Vangelo secondo Matteo.
[14] Si veda. http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/02/il-beato-iacopo-da-varagine-e-la-strana.html,
con la storia di Joasaf, il “Buddha cristiano”, narrata da Iacopo da Varagine
nella Leggenda Aurea.