domenica 26 marzo 2017

Il respiro del Pater

In un suo scritto, come si è visto (http://zenvadoligure.blogspot.it/2017/03/la-psicologia-analitica-e-loriente-carl.html), C.G. Jung ha affermato che lo stesso scopo della pratica orientale dello yoga è perseguito in Occidente, anche se a particolari condizioni, dagli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola (XVI sec.).

A tale proposito riproduciamo qui di seguito due passi, brevi ma significativi, dell’opera del fondatore della Compagnia di Gesù, nei quali vengono indicate due modalità di preghiera, con precise indicazioni sulla postura del corpo, sulla respirazione e sulla corretta attitudine della mente nel corso della pratica.

Il testo è tratto da:

Ignacio de Loyola, Esercizi spirituali, trad. di G. Giudici, Ed. Mondadori, pag. 96 e segg.

§ 2522° modo di pregare – Il secondo modo di pregare è che, in ginocchio o da seduto, a seconda di come più si trovi disposto e della maggior devozione che l’accompagni, tenendo gli occhi chiusi o fissi su un punto senza andar con essi vagando, uno dica Pater, e resti a meditare su questa parola per tutto il tempo che riuscirà a trovare significati, confronti, diletti e consolazione nelle meditazioni a tale parola pertinenti, e nella stessa maniera faccia per ciascuna parola del Pater noster o di qualunque altra preghiera che in questa maniera volesse pregare.


§ 2583° modo di pregare – Il terzo modo di pregare è che ad ogni anelito o respiro si deve pregare mentalmente dicendo una parola del Pater noster o di altra preghiera che si reciti, in maniera che soltanto una parola sia detta fra un anelito e l’altro, e intanto che duri l’intervallo fra un anelito e l’altro, si pensi principalmente al significato di tale parola, o alla persona cui la preghiera è diretta, o alla propria bassezza, o alla differenza fra una così grande altezza e questa bassezza nostra; e con la medesima forma e regola si procederà per le altre parole del Pater noster; e per le altre preghiere, vale a dire: Ave Maria, Anima Christi, Credo e Salve Regina, si farà come al solito.

Ignazio di Loyola

giovedì 23 marzo 2017

La religione, le religioni e il terrore

Quale temporaneo sollievo alle analisi delle motivazioni ‘religiose’ del ‘terrorismo’ che ci stanno arrivando in queste ore dalle pagine dei giornali e, in TV, da quelle brevi pause urlate tra un break pubblicitario e l’altro dette talk show, propongo la lettura di uno scritto di René Guénon su religione e religioni.

Il testo è stato tratto dai siti:
http://www.tradizioneiniziatica.org/la_religione_e_le_religioni.htm e http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/reneguenon/relitradi.htm



Ha scritto Guénon (le sottolineature sono mie):

 ‘Onorate la Religione, diffidate delle religioni’: è questa una delle massime principali che il Taoismo ha inscritto sulla porta di tutti i suoi templi; e tale tesi (che d’altronde è stata sviluppata in questa Rivista anche dal nostro Maestro e collaboratore Matgioi) non è affatto specifica della metafisica estremo-orientale, ma si deduce immediatamente anche dagli insegnamenti della Gnosi pura che esclude qualunque spirito settario o di sistema, dunque qualunque tendenza all’individualizzazione della Dottrina.
Se la Religione è necessariamente una come la Verità, le religioni non possono essere altro che delle deviazioni dalla Dottrina primordiale; e non si devono affatto confondere con lo stesso Albero della Tradizione i vegetali parassiti, antichi o recenti, che si allacciano al suo tronco, e che, vivendo completamente della sua stessa sostanza, si sforzano di soffocarlo: sforzi vani, perché delle modificazioni temporanee non possono intaccare per nulla la Verità immutabile ed eterna.
Da questo, risulta evidentemente che non può essere accordata alcuna autorità a nessun sistema religioso che derivi da uno o più individui, poiché, dinnanzi alla Dottrina vera ed impersonale, gli individui non esistono affatto; e, con questo, si comprende anche tutta l’inanità di questa domanda, posta tuttavia così sovente: "Le circostanze della vita dei fondatori di religioni, così come ci sono state riportate, devono essere considerate come dei fatti storici reali, o come delle semplici leggende aventi un carattere puramente simbolico?".
Che si siano introdotte nel racconto della vita del fondatore, vero o presunto, di tale o talaltra religione, delle circostanze che primitivamente erano dei puri simboli, e che in seguito sono state prese per dei fatti storici da parte di coloro che ne ignoravano il significato, questo è del tutto verosimile, e persino probabile in più di un caso. È ugualmente possibile, è vero, che delle simili circostanze si siano talvolta verificate, nel corso dell’esistenza di certi esseri aventi una natura del tutto speciale, così come ce l’hanno i Messia o i Salvatori; ma questo c’importa poco, perché non toglie nulla al loro valore simbolico, il quale deriva da tutt’altra cosa che dei semplici fatti materiali.
Diremo di più: l’esistenza stessa di tali esseri, considerati nella loro apparenza individuale, dev’essere anch’essa considerata come simbolica. "il Verbo si è fatto carne", dice il Vangelo di Giovanni; e dire che il Verbo, manifestandosi, si è fatto carne, significa dire che si è materializzato, o, per esprimersi in modo più generale ed allo stesso tempo più esatto, ch’esso si è in qualche modo cristallizzato nella forma; e la cristallizzazione del Verbo, è il Simbolo. Così, la manifestazione del Verbo, a qualunque grado e sotto qualunque aspetto essa sia considerata in rapporto a noi, vale a dire dal punto di vista individuale, è un puro simbolo; le individualità che rappresentano per noi il Verbo, ch’esse siano o meno dei personaggi storici, sono tutte simboliche in quanto esse manifestano un principio, ed è solo il principio che conta.
Non dobbiamo dunque per nulla preoccuparci della storia delle religioni, il che d’altronde non vuol affatto dire che questa scienza non abbia altrettanto interesse relativo così come qualunque altra; ci è persino permesso, ma da un punto di vista che non ha nulla di gnostico, di augurarci ch’essa un giorno realizzi dei progressi più autentici di quelli che hanno fatto la reputazione, forse insufficientemente giustificata, di alcuni dei suoi rappresentanti, e che si sbarazzi prontamente di tutte le ipotesi troppo fantasiose, per non dire fantastiche, di cui l’hanno ingombrata degli esegeti male accorti. Ma non è affatto qui il caso d’insistere su questo argomento, che, non ci stancheremo di ripeterlo, è del tutto al di fuori della Dottrina e non potrebbe riguardarla in nessun modo, perché si tratta di una semplice questione di fatti, e, davanti alla Dottrina, non esiste nient’altro che l’idea pura.
Se le religioni, indipendentemente dal problema della loro origine, appaiono come delle deviazioni della Religione, ci si deve domandare che cosa questa sia nella sua essenza.
Etimologicamente, la parola Religione, derivando da religare, rilegare, implica un’idea di legame, e, di conseguenza, di unione. Dunque, ponendoci nel dominio esclusivamente metafisico, il solo che c’importi, possiamo dire che la Religione consiste essenzialmente nell’unione dell’individuo con gli stati superiori del suo essere, e, attraverso questi, con lo Spirito Universale, unione mediante la quale scompare l’individualità, così come ogni altra distinzione illusoria; ed essa, di conseguenza, comprende anche i mezzi per realizzare questa unione, mezzi che ci sono stati insegnati dai Saggi che ci hanno preceduto nella Via.
Questo significato è precisamente quello che ha in sanscrito la parola Yoga, checché pretendano coloro secondo i quali tale parola designerebbe sia ‘una filosofia’ sia ‘un metodo di sviluppo dei poteri latenti dell’organismo umano’.
La Religione, sottolineiamolo, è l’unione con il Sé interiore, che è a sua volta uno con lo Spirito Universale, ed essa non pretende affatto di ricollegarci ad un qualche essere esterno rispetto a noi, e quindi necessariamente illusorio nella misura in cui fosse considerato come esterno. A fortiori essa non è affatto un legame fra degli individui umani, cosa che avrebbe ragion d’essere solo nel dominio sociale; quest’ultimo caso, di contro, è quello della maggior parte delle religioni, che hanno come principale preoccupazione quella di predicare una morale, vale a dire una Legge che gli uomini devono osservare per vivere in società. In effetti, se si scarta ogni considerazione mistica o semplicemente sentimentale, e a questo che si riduce la morale, la quale non avrebbe alcun senso al di fuori della vita sociale, e che si deve modificare assieme alle condizioni di quella. Se dunque le religioni possono avere, e certamente hanno, infatti, la loro utilità da tale punto di vista, esse avrebbero dovuto limitarsi a questo ruolo sociale, senza avanzare alcuna pretesa dottrinale; ma, malauguratamente, le cose sono andate in modo del tutto diverso, almeno in Occidente.


Diciamo in Occidente, perché, in Oriente, non poteva prodursi nessuna confusione fra i due domini metafisico e sociale (o morale), che sono profondamente separati, di modo tale che non e possibile nessuna azione dell’uno sull’altro; e, in effetti, non vi si può trovare nulla che corrisponda, anche solo approssimativamente, a quel che gli Occidentali definiscono come una religione. Al contrario, la Religione, così come l’abbiamo definita, vi è onorata e praticata costantemente, mentre, nell’Occidente moderno, la stragrande maggioranza la ignora perfettamente, e non ne suppone neanche l’esistenza, forse neppure la possibilità.
Senza dubbio ci si obbietterà che tuttavia il Buddismo è qualcosa di analogo alle religioni occidentali, ed è vero che è quel che vi si avvicina di più (ed e forse per questo che taluni studiosi vogliono vedere, in Oriente, del Buddismo un po’ dappertutto, persino dove non ne è presente la benché minima traccia); ma ne è ancora molto lontano, e i filosofi o gli storici che l’hanno mostrato sotto tale aspetto l’hanno singolarmente sfigurato. Esso non è più deista che ateo, non più panteista che nichilista, nel senso che queste denominazioni hanno preso nella filosofia moderna, e che è anche quello in cui le hanno utilizzate degli individui che hanno preteso interpretare e discutere delle teorie ch’essi ignoravano. D’altra parte, non diciamo questo per riabilitare oltre misura il Buddismo, che è un’eresia manifesta (soprattutto nella sua forma originale, ch’esso ha conservato solo in India, perché le razze gialle l’hanno a tal punto trasformato che lo si riconosce appena) poiché rigetta l’autorità della Tradizione ortodossa, allo stesso tempo in cui permette l’introduzione di certe considerazioni sentimentali nella Dottrina. Ma bisogna riconoscere ch’esso almeno non arriva fino al punto di porre un Essere Supremo esteriore rispetto a noi, errore (nel senso di illusione) che ha dato nascita alla concezione antropomorfica, che non ha tardato a divenire persino del tutto materialistica, e dalla quale derivano tutte le religioni occidentali.
D’altra parte, non ci si deve illudere riguardo al carattere, per nulla religioso malgrado le apparenze, di certi riti esteriori, che si collegano strettamente alle istituzioni sociali; diciamo riti esteriori, per distinguerli dai riti iniziatici, che sono tutt’altra cosa. Questi riti esteriori, per il fatto stesso ch’essi sono sociali, non possono essere affatto religiosi, quale che sia il senso che si dà a questa parola (a meno che non si voglia con ciò dire ch’essi costituiscono un legame fra degli individui), e non appartengono ad alcuna setta ad esclusione di altre; ma sono inerenti all’organizzazione della società, e tutti i membri di questa vi partecipano, a qualunque organizzazione esoterica essi possano appartenere, così come nel caso che essi non appartengano a nessuna. Quali esempi di questi riti di carattere sociale (come le religioni, ma totalmente differenti da esse, come si può giudicare comparando i risultati degli uni e delle altre nelle organizzazioni sociali corrispondenti), possiamo citare, in Cina, quelli il cui insieme costituisce ciò che si chiama Confucianesimo, che non ha nulla di una religione.
Aggiungiamo che si potrebbero ritrovare le tracce di qualcosa di questo genere nella stessa antichità greco-romana, nella quale ciascun popolo, ciascuna tribù, e persino ciascuna città, aveva i propri riti particolari, in rapporto con le proprie istituzioni, il che non impediva affatto che un uomo potesse praticare successivamente dei riti assai diversi, secondo i costumi dei luoghi nei quali si trovava, e questo senza che nessuno se ne meravigliasse minimamente. Non sarebbe stato cosi, se tali riti avessero costituito una sorta di religione di Stato, la cui sola idea sarebbe stata senza dubbio un nonsenso per un uomo di quell’epoca, come lo sarebbe ancor oggi per un Orientale, e soprattutto per un Estremo-Orientale.

Un ottimo testo di René Guénon

È facile così accorgersi come gli Occidentali moderni deformino le cose che sono loro estranee, allorché le considerano attraverso la mentalità a loro propria; si deve tuttavia riconoscere, e questo li giustifica almeno fino ad un certo punto, che è assai difficile per degli individui sbarazzarsi dei pregiudizi di cui la loro razza si è imbevuta da molti secoli. Così non è tanto agli individui che si deve rimproverare lo stato attuale delle cose, bensì ai fattori che hanno contribuito a creare la mentalità della razza; e, fra questi fattori, sembra proprio che si debba assegnare il primo posto alle religioni: la loro utilità sociale, sicuramente incontestabile, è sufficiente a compensare questo inconveniente intellettuale?





 

martedì 21 marzo 2017

La psicologia analitica e l'Oriente: I - Carl Gustav Jung


Carl Gustav Jung nacque nel 1875 a Kesswil, in Svizzera, da una famiglia di origine tedesca: il nonno paterno era un affermato medico, il padre teologo e pastore. Dalla madre imparò ben presto a conoscere le religioni e i miti di tutti i popoli, e ne rimase per sempre affascinato, in particolare dalle immagini delle divinità dell’India. Fu ugualmente attratto dall’archeologia, dalla filosofia e dai fenomeni spiritici, verso i quali in quegli anni gran parte della società europea provava un grande interesse. Egli stesso raccontò nei suoi scritti diverse esperienze di cui fu protagonista o testimone diretto [1].
Nonostante questi suoi interessi, spinto probabilmente dalla forte figura del nonno paterno, si dedicò agli studi di medicina ed infine alla psichiatria, nella quale trovò un “campo di esperienza comune ai fatti spirituali e biologici[2].

Carl Gustav Jung
A partire dal 1900 prestò servizio presso l’Ospedale Psichiatrico di Zurigo e nel 1902 completò la tesi di dottorato su Psicologia e patologia dei cosiddetti fenomeni occulti, nella quale è già rintracciabile, tra gli altri, un tema fondamentale di tutto il suo pensiero, qui esemplificato dalla somiglianza tra un concetto mitologico esposto un giorno da una giovane medium [3] (della quale il testo junghiano analizzava le sedute spiritiche) e altri elementi esistenti in opere a lei sicuramente sconosciute. Anni dopo, Jung scrisse: “Si potrebbe quasi dire che se tutte le tradizioni del mondo venissero cancellate in un solo colpo, l’intera mitologia e l’intera storia delle religioni ricomincerebbero daccapo con la generazione seguente[4].
Nel 1905 divenne docente di Psichiatria presso l’Università di Zurigo, dove si occupò di ipnosi e sonnambulismo. L’anno successivo conobbe Sigmund Freud, prima attraverso uno scambio epistolare e poi di persona, e del quale aveva già letto diversi scritti, soprattutto la fondamentale Interpretazione dei sogni, del 1899. Iniziò così un lungo periodo di collaborazione tra Jung, Freud e gli altri studiosi del nascente movimento psicoanalitico. Il rapporto tra i due fu molto profondo, ma attraversò momenti sempre più critici, anche a causa del rifiuto e dell’avversione di Freud nei confronti della nera marea di fango, come quest’ultimo definiva l’occultismo. Ma Jung non poteva accettare la visione freudiana, per la quale “occultismo era praticamente tutto ciò che filosofia, religione e anche la scienza allora nascente, la parapsicologia, avevano da dire dell’anima. Secondo me la teoria sessuale era ‘occulta’, e cioè un’ipotesi non provata, esattamente allo stesso modo di altre concezioni [5]. Altrettanto inaccettabile era quindi l’invito, rivoltogli da Freud, di “non abbandonare mai la teoria della sessualità [e di] farne un dogma[6].
La collaborazione tra Jung e Freud, benché si trattasse evidentemente di due persone con visioni inconciliabili, durò fino al 1917, ma in realtà l’inevitabile rottura era già stata sancita nel 1911-12, con la pubblicazione di Trasformazione e simboli della libido (poi Simboli della trasformazione), un’opera decisiva per il pensiero e l’attività di Jung maturata a partire dal 1909, quando aveva intrapreso lo studio della mitologia e dello gnosticismo, ispirato e guidato anche dalla lettura delle fantasie – dal carattere chiaramente mitologico – di una giovane americana affetta da schizofrenia, riportate nel volume citato [7]. Un’opera, afferma lo stesso Jung, scritta “di furia”, “come una frana impossibile a trattenere”, “l’esplosione di tutti i contenuti psichici che non potevano trovar posto nelle strettoie opprimenti della psicologia freudiana e della sua visione del mondo[8].
Fu l’inizio della fase della maturità nella vita e nell’opera di Jung.
Molte cose cambiarono nella sua vita: i suoi interessi si spostarono decisamente “dal mondo quotidiano di spazio, tempo e personalità umane a una dimensione immutabile e atemporale di satiri, ninfe, centauri e draghi da uccidere[9]. Lasciò il lavoro in ospedale, e si dedicò interamente all’attività privata. Nel rapporto coi pazienti non si basò più tanto sui presupposti teorici, ma si predispose piuttosto all’ascolto delle loro parole, a partire dai sogni e dalle fantasie che essi spontaneamente gli riferivano. Egli stesso, nel 1913, ebbe visioni terrificanti, che anticipavano la feroce guerra che dall’anno successivo avrebbe devastato l’Europa.
Si dedicò anche al disegno e alla pittura, realizzando forme sempre più simili ai mandala [10], gli psicocosmogrammi studiati da Giuseppe Tucci, tipici della spiritualità orientale ma presenti in tante culture tradizionali – nonché nelle creazioni di molti pazienti dello stesso Jung.
Nel 1921 apparve un’altra opera fondamentale nel pensiero di Jung, Tipi psicologici, dove egli descrisse quelle che chiamò le quattro funzioni della coscienza, divise in due coppie: la sensazione e l’intuizione, ovvero le funzioni attraverso cui vengono appresi i fatti e il mondo della realtà fattuale; il sentimento e il pensiero, ovvero le funzioni del giudizio e della valutazione [11].
Secondo Jung solo una delle funzioni, di regola, assume il ruolo di guida nella vita delle persone, assecondata da una sola dell’altra coppia. In linea di massima, in Occidente vengono privilegiati il pensiero e la sensazione, mentre intuizione e sentimento sono poco sviluppati o addirittura repressi e relegati nell’inconscio, talora con gravi danni per l’equilibrio e la salute della persona. “L’idea di Jung è che lo scopo della vita di un individuo [..] debba essere non di sopprimere o reprimere, ma di arrivare a conoscere l’altro lato di sé, e in questo modo poter sia godere, sia controllare l’intera gamma delle proprie capacità: vale a dire, nel significato pieno, conoscere se stesso[12]. È il processo di individuazione, che attraverso l’integrazione delle quattro funzioni ci permette di guardare al centro, una sorta di quinta facoltà, la funzione trascendente, “per vedere, pensare, sentire e intuire il trascendente e agire di conseguenza[13].
In quegli stessi anni Jung intraprese diversi viaggi, grazie ai quali trovò ulteriori conferme alla sua visione della realtà umana. Nel 1920 fu ad Algeri e Tunisi, poi (1924) nel Nuovo Messico presso gli Indiani Pueblo, in Kenia e Uganda (1925-26), in India (1938).
Nel 1928 un grande sinologo, Richard Wilhelm, gli inviò un antico testo cinese, Il segreto del fiore d’oro, che è non solo “un testo taoistico dello yoga cinese bensì anche un trattato alchemico[14]. Grazie ad esso Jung scoprì come le tradizioni alchemiche – fondate in Occidente sulla filosofia naturale del Medio Evo – costituissero un ponte, un “anello di congiunzione, da tanto tempo cercato, tra la gnosi e i processi dell’inconscio collettivo osservabili nell’uomo d’oggi[15]. Con un ulteriore fondamentale elemento: l’alchimia gli si rivelò come una tradizione capace di riportare un equilibrio nel pensiero europeo tra il ruolo maschile e quello femminile, laddove invece le tradizioni ebraico-cristiane avevano fino ad allora assolutamente enfatizzato il principio maschile-patriarcale.

Il laboratorio alchemico

I viaggi, gli incontri con culture lontane nello spazio e nel tempo, le pericolose discese nelle profondità della sua stessa mente, segnarono gli anni della vecchiaia di Jung. Nel 1946 lasciò l’insegnamento presso l’Università di Basilea e approfondì ciò che era andato scoprendo in sé e nei suoi pazienti, ovvero il ripetersi nelle fantasie oniriche di certe figure stereotipate simili a quelle già incontrate nello studio della mitologia. Cercò di riconoscerle, di identificarne i ruoli, di classificarle, ritrovando i personaggi comuni ricorrenti nei sogni, nei miti, nelle fiabe di tutta la storia dell’umanità. Le definì, con un termine ormai inflazionato, gli archetipi dell’inconscio, forme a priori (come lo spazio e il tempo di Kant) che non si identificano con le loro rappresentazioni ma che le precedono, costituendo la possibilità delle rappresentazioni stesse. Nacque così nel 1951 una delle sue opere maggiori, Aion: ricerche sul simbolismo del Sé, quindi continuò gli studi sull’alchimia (completati con il Mysterium coniunctionis – 1955), fino alla sua morte, sopraggiunta nel 1961 dopo una breve malattia.

Jung, l’Oriente, lo Yoga

Come si è visto, l’Oriente è stato ripetutamente e profondamente presente nella vita, nel pensiero e nell’opera di Jung, a partire dai racconti materni sugli dei dell’Induismo e dallo studio di Schopenhauer, fino ai viaggi in India e Sri Lanka e alle approfondite letture dei testi classici delle grandi tradizioni spirituali, ormai facilmente accessibili, e delle opere di personalità quali Richard Wilhelm, Edwin Arnold, Max Müller, Hermann Oldemberg, Paul Deussen, Heinrich Zimmer, Rudolf Otto, Mircea Eliade.
Recano testimonianza concreta del suo interesse per l’Oriente i numerosi scritti sull’argomento, opportunamente raccolti in Italia in uno specifico volume del Corpus junghiano minore, curato da L. Aurigemma e pubblicato presso l’Editore Boringhieri con il titolo La saggezza orientale.
Qui troviamo un commento psicologico al Bardo Thödol, il cosiddetto Libro tibetano dei morti, ed uno al Libro tibetano della grande liberazione. Alcuni articoli sul suo viaggio in India e sullo Yoga. Diverse prefazioni: ad un testo sullo Zen di D.T. Suzuki, lo studioso giapponese incontrato da Heidegger; ad un volume di Zimmer, La via del Sé; ai Discorsi di Gautama Buddha curati da Neumann; al famoso testo cinese dell’I Ching, tradotto in tedesco da Wilhelm.
Nel volume Psicologia e alchimia è poi leggibile il fondamentale saggio su Il simbolismo dei mandala [16], mentre il Commento europeo al già citato Segreto del fiore d’oro è pubblicato in un libro che contiene anche il testo del Segreto, in cinese T’ai Chin Hua Tsung Chih, tradotto e curato da Wilhelm [17].

Grazie alla sua formazione antidogmatica e alla sua straordinaria apertura mentale, Jung pur ammirando le conquiste della cultura occidentale ne aveva rilevato i limiti e l’unilateralità. Egli “riteneva che l’Occidente avesse molto da imparare dallo studio del pensiero orientale, e che l’Oriente offrisse la possibilità di sottoporre i presupposti e i pregiudizi occidentali a una critica feconda[18].
Non cadde mai però – come sovente cominciava ad accadere in quegli anni e tuttora accade – in una facile esaltazione di ciò che giungeva da Oriente, anzi mise ripetutamente in guardia “contro la così spesso tentata imitazione e assimilazione delle pratiche orientali. Di regola – ebbe a scrivere nel 1943 – non ne viene che un istupidimento particolarmente artificioso del nostro intelletto occidentale[19]. E aggiunse che chi potesse completamente rinunciare all’Europa per non “essere altro che uno yogi con tutte le conseguenze etiche e pratiche, fino a dileguarsi sulla pelle di gazzella sotto un polveroso banano, seduto nella posizione del loto [..], a costui io dovrei concedere ch’egli ha capito lo yoga come un indiano. Chi non può fare questo, non deve nemmeno fingere di capirlo. Egli non può e non deve rinunciare al suo intelletto occidentale, ma deve invece applicarlo a intendere onestamente, senza imitazione e assimilazione, quanto dello yoga è possibile al nostro intelletto[20].
Nello stesso testo, commentando il Sūtra buddhista, Jung approfondì ulteriormente l’analisi, mettendo a confronto la scienza della mente dello yoga con quella dell’Occidente. Il rischio che può correre un praticante occidentale è che svuotando lo spirito delle rappresentazioni esterne egli diventi preda delle proprie fantasie soggettive, i kleśa – le passioni, le emozioni negative, le afflizioni mentali [21] – proprio ciò che lo yoga vuole aggiogare (yoga e iugum, ‘giogo’ in latino, hanno la stessa etimologia). Infatti “illuminando l’inconscio s’incappa alla prima nella sfera del caotico inconscio personale, in cui si trova tutto ciò che volentieri si dimentica e che ad ogni modo non si vorrebbe confessare né a sé né ad altri, e di cui in genere non si vorrebbe rendersi conto. Si crede quindi che la cosa migliore sia di non guardare in questo ango­lo oscuro. Certo, chi si comporta così non svolterà mai quest’angolo. In nessun caso egli giungerà neppure a una traccia di ciò che pro­mette lo yoga. Soltanto chi attraversa questa tenebra può sperare di progredire in qualche modo. Perciò io sono per principio contrario all’accettazione acritica delle pratiche yogi da parte degli europei, perché so troppo bene che essi sperano di scansare con quelle il loro angolo buio: impresa completamente insensata e senza valore[22].


Lo stesso scopo dello yoga è perseguito in Occidente dagli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola (XVI sec.), ma secondo Jung vi sono con essi possibilità di successo solo se “l’esercizio della meditazione si svolge in una significativa cornice ecclesiastica[23]. Non molto diversamente, quindi, da quanto già detto in merito al praticare lo yoga avendo del tutto rinunciato all’Europa, all’essere europei.
La sola alternativa per un occidentale è costituita dalla psicologia dell’inconscio che, a differenza dello yoga, deve però prima risolvere per noi – proprio in quanto occidentali – un dilemma etico, il problema del male nella natura: infatti “lo spirito dell’India si sviluppa dalla natura, il nostro è contro la natura[24].
Il Sūtra qui analizzato da Jung descrive infine, una volta attraversato il mondo personale dei kleśa, uno strato più profondo dell’inconscio, questo però ordinato ed armonico, che rappresenta l’unità al di là della molteplicità caotica degli istinti e delle passioni. È visto come una figura geometrica, divisa in otto parti, al cui centro siede un Buddha, che è il meditante stesso: l’Io si spegne, è l’esperienza decisiva, l’illuminazione. Detto con le parole della psicologia, è ciò che appare quando l’inconscio personale diviene “trasparente”: emerge cioè un fondamento che Jung definisce inconscio collettivo, le cui immagini non hanno un carattere personale bensì mitologico, ovvero “concordano, per forma e contenuto, con quelle rappresentazioni primordiali, universalmente diffuse, quali le troviamo alla base dei miti. Esse non sono più di natura personale, ma nettamente sovrapersonale, e perciò comuni a tutti gli uomini. Per questo si possono rintracciare in tutti i miti e le favole di tutti i popoli e i tempi, come negli individui singoli anche senza che questi abbiano la minima nozione cosciente di mitologia[25]. È il tema già accennato del mandala – termine sanscrito che indica il cerchio –, un’immagine e un concetto che Jung utilizzò nei suoi studi e nella sua pratica terapeutica avendo intuito e verificato la concordanza delle nozioni dello yoga con i risultati della ricerca psicologica e di quella storica, potendosi infatti ritrovare simili raffigurazioni circolari nella cristianità medioevale, spesso quadripartite, con le immagini degli Evangelisti o dei quattro fiumi del Paradiso. E qui, coerentemente con il suo pensiero, Jung non poté esimersi dal sottolineare una importante distinzione, quella per cui al termine del percorso il Sūtra buddhista afferma “Tu riconoscerai che Buddha sei tu”, mentre il meditante cristiano non potrà che dire con Paolo “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me[26].

Nel 1936, prima del suo viaggio in India, Jung aveva già scritto intorno allo yoga, le cui dottrine e pratiche erano giunte in Europa da circa un secolo e vi si stavano diffondendo velocemente, anche grazie all’attività della Società Teosofica di Helena Blavatsky (1831-1891) e dei suoi successori.
E anche allora, nell’articolo su Lo yoga e l’Occidente, egli aveva voluto subito evidenziare le differenze tra l’India e l’Occidente, dove già esisteva, al momento della comparsa dello yoga, una rigida separazione tra scienza e fede: un fenomeno iniziato secoli prima, a seguito del quale le chiese “sopravvissero per le esigenze strettamente religiose dei popoli, ma cessarono di essere guida in campo culturale[27]. Tale scissione, sconosciuta in India, almeno fino ad allora, “si è impadronita anche della dottrina yoga penetrata in Occidente, facendola da una parte oggetto di scienza, dall’altra salutandola come via di salvezza[28]. Fu questo – e forse ancora lo è – uno dei motivi del successo dello yoga, in quanto “se un metodo ‘religioso’ si presenta anche come ‘scientifico’ può essere certo di trovare un pubblico in Occidente[29], offrendo da un lato una profonda dottrina filosofica e soddisfacendo dall’altro il bisogno di fatti, di esperienze verificabili, tipico della ‘modernità’.
Ma se la scissione nell’uomo occidentale tra fede e scienza crea le condizioni del successo dello yoga, ovvero il bisogno di ricomporre la frattura, essa stessa ne determina lo scacco, l’impossibilità della realizzazione delle sue finalità. Infatti in Occidente lo yoga o è “un fenomeno strettamente religioso o un training di tecnica mnemonica, ginnastica respiratoria, euritmia eccetera, nei quali non si trova traccia di quell’unità e interezza dell’essere[30] che lo caratterizza. Questo perché “l’indiano non può dimenticare né il corpo né lo spirito; l’europeo dimentica sempre o l’uno o l’altro [..]. L’indiano non soltanto conosce la sua natura; sa anche fino a che punto sia natura egli stesso. L’europeo invece ha una scienza della natura e stupisce per la sua ignoranza della propria natura, della natura in lui[31]. Di conseguenza l’occidentale “farà immancabilmente un cattivo uso dello yoga, perché la sua disposizione psicologica è completamente diversa da quella dell’orientale. Dico a quanti più posso: ‘Studiate lo yoga; vi imparerete un’infinità di cose, ma non lo praticate, perché noi europei non siamo fatti in modo da poter usare senz’altro quei metodi come si conviene. Un guru indiano vi può spiegare tutto e voi potete imitare tutto. Ma sapete chi pratica lo yoga? In altre parole, sapete chi siete e come siete fatti?[32].

Conosci te stesso
Con queste parole, Jung ci riporta dunque al punto iniziale del cammino, al tempio di Apollo in Delfi, nel quale al pellegrino era rivolta una domanda ineludibile, il più perentorio dei moniti, quel γνῶθι σεαυτόνconosci te stesso, cui pochi a tutt’oggi hanno saputo rispondere compiutamente.



Note

1. Si veda in particolare A. Jaffé (a cura di), Ricordi, sogni, riflessioni di C.G. Jung, Ed. Rizzoli
2. J. Campbell, Carl Gustav Jung, in: C.G. Jung, Scritti scelti, Ed. red, pag. XIII
3. Secondo l’Enciclopedia Treccani on line: “Persona che si pretende dotata di speciali facoltà, grazie alle quali sarebbe in grado di provocare, in particolari condizioni (trance), fenomeni ‘non normali’ (detti medianici: levitazione, telecinesi ecc.), in contrasto con le leggi fisiche. Secondo i cultori dello spiritismo, il m. agirebbe come intermediario tra il mondo terreno e una qualche entità soprannaturale”. In: www.treccani.it/enciclopedia
4. Cit. in J. Campbell, pag. XV
5. A. Jaffé, pag. 192
6. Id. pag. 191
7. Si veda C.G. Jung, Simboli della trasformazione, Ed. Boringhieri, parte prima
8. C.G. Jung, Prefazione alla quarta edizione, in C.G. Jung, Simboli, pag. 11
9. J. Campbell, pag. XXV
10. Si veda: http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/12/mandala-e-yantra.html
11. Cfr. J. Campbell, pag. XXVII e segg.
12. Id. pag. XXVIII-XXIX
13. Id. pag. XXX
14. C.G. Jung, Prefazione alla II edizione in C.G. Jung – R. Wilhelm, Il Segreto del fiore d’oro, Ed. Boringhieri, pag. 8
15. Id.
16. C.G. Jung, Psicologia e alchimia, Ed. Boringhieri, pag. 103 e segg.
17. Jung-Wilhelm, op. cit., pag. 13 e segg.
18. J.J. Clarke, Jung e l’Oriente, Ed. ECIG, pag. 81
19. C.G. Jung, Psicologia della meditazione orientale, in C.G. Jung, La saggezza orientale, Ed. Boringhieri, pag. 137
20. Id, pag. 137-138. Lo yoga di cui Jung parla qui è quello esposto in un testo buddhista, lo Amitāyurdhyāna Sūtra, il Trattato sulla meditazione di Amitābha, un’opera in lingua sanscrita del V secolo d.C.
21. Ad esempio, le 6 passioni-radice sono: attaccamento, avversione, ignoranza, orgoglio, dubbio, opinioni erronee
22. C.G. Jung, La saggezza orientale, pag. 141
23. Id.
24. Id. pag. 142
25. Id. pag. 143
26. Cfr. id. pag. 145-146. La citazione di Paolo è in Galati 2, 20
27. C.G. Jung, Lo yoga e l’Occidente, in C.G. Jung, La saggezza orientale, pag. 33
28. Id. pag. 34
29. Id. pag. 35
30. Id. pag. 36-37
31. Id. pag. 37
32. Id. pag. 37-38.



Free Tibet: 10 marzo 1959 - 10 marzo 2017

Il 10 marzo non è una data come tutte le altre per i tibetani. In questa data, nel 1959, a nove anni dall’occupazione cinese e dopo tre anni dall’inizio di una guerriglia anticinese nella parte orientale del Paese, diffusasi la voce di un progetto di rapimento del Dalai Lama, in Tibet si verificò una prima rivolta popolare a Lhasa. La sommossa scoppiò per un evento apparentemente banale: i cinesi invitarono Tenzin Gyatso a uno spettacolo teatrale nel quartiere generale dell’esercito, invitandolo a venire rinunciando alla scorta e senza nessuna cerimonia pubblica per la processione del Dalai Lama dal palazzo al campo, in contrasto con la tradizione. In città si diffuse l’idea che la manovra celasse un piano per rapire l’autorità religiosa. La gente della capitale scese in strada per fare da scudo al Dalai Lama e migliaia di persone circondarono la sua residenza. Così iniziò la rivolta. Una settimana dopo, il 17 marzo, il primo proiettile raggiunse palazzo del Dalai Lama, suggerendo al 21enne leader spirituale di prendere la strada dell’esilio.

Testo tratto dal sito:
http://www.ilprimatonazionale.it/esteri/assalto-al-tetto-del-mondo-58-anni-fa-la-rivolta-di-lhasa-e-la-fine-del-tibet-libero-59020/


Nel ricordo dei fatti di Lhasa, e in totale solidarietà con il popolo tibetano, desidero riproporre qui il testo di un articolo di Padre Enzo Bianchi, priore di Bose, apparso su La Stampa del 20 marzo 2008, valido oggi come allora.
Infatti sono passati 9 anni, ma nulla è cambiato da allora per il Tibet e i tibetani, se non in peggio, grazie alla politica del governo comunista cinese e alla complicità, al silenzio o alle ipocrite ed inutili condanne di principio dei governi occidentali, accecati dalla difesa dei propri interessi politici ed economici.

Per cosa combatte il Tibet

 “Etichettando come nemici le autorità cinesi, potremmo pronunciare una ipocrita condanna della loro brutalità, ma non è così che si ottengono la pace e l’armonia”. Risuonano tragicamente attuali queste parole che il Dalai Lama va ripetendo ormai da 50 anni - una delle occasioni più vicine a noi nello spazio e nel tempo è stata la sua conferenza a Milano nel dicembre scorso su La pace interiore e la nonviolenza - ma proprio per questo il poco che ci è dato di conoscere degli eventi di questi giorni in Tibet riveste una drammaticità estrema.
Un popolo pacifico, con una propria lingua e cultura - intesa come modo di porsi di fronte agli eventi della vita quotidiana e alle attese ideali - con una religione intrinsecamente nonviolenta, subisce da decenni aggressioni di ogni tipo, le più pericolose delle quali sono quelli interiori e morali: il fatto che periodicamente folle di giovani e meno giovani, di monaci e di civili si ribellino con proteste prive di qualsiasi possibilità di successo, andando incontro a feroci repressioni, può sorprendere noi occidentali così devoti al calcolo, all'opportunismo e alla Realpolitik, ma dovremmo chiederci se in queste sommosse, regolarmente soffocate nel sangue, non ci sia qualcosa di più profondo della forza della disperazione, qualcosa di ben più nobile di una umana, comprensibilissima esasperazione.
C'è, io credo, un'affermazione forte di una vita «altrimenti», di una diversità che non accetta di scomparire: decenni di indottrinamento ateista non hanno arrestato il crescere della popolazione nei monasteri, le uniche comunità umane che aumentano i propri membri non per generazione fisica ma per libera adesione interiore; anni di sistematica immissione di migliaia di persone di etnia, lingua e costumi diversi non hanno intaccato l'identità profonda di un popolo; lo sfruttamento violento e sistematico del sottosuolo e l'emarginazione della pastorizia non hanno minato il rapporto dei tibetani con la loro terra, così come non lo ha attenuato l'esilio obbligato cui sono stati costretti a milioni; la chiassosa invadenza del capitalismo di Stato e il volgare fascino del «mercato» con i suoi miti non riescono a sfondare al di là delle strade commerciali delle città principali.
È proprio questa vita tenacemente differente che ha sussulti periodici di riaffermazione, sussulti che non tengono conto di strategie o tempistiche «ragionevoli», ma che sono come l'incontenibile ricerca della boccata di ossigeno di chi è costretto a vivere in apnea: in simili condizioni non si calcola se nei polmoni invece dell'aria rischia di entrare acqua, fango o terra, non si riflette se il risultato può essere una repressione ancora più dura; si anela unicamente all'ossigeno, a quell'aria pura che è il proprio patrimonio vitale. Credo che i monaci e i civili tibetani non si ribellano nella vana speranza che il mondo occidentale metta da parte i propri interessi mercantili e obblighi la Cina ad alcunché: ben conoscono, per averli sperimentati a più riprese, la nostra attitudine ai silenzi complici, il nostro gridare sterili condanne di principio, il nostro imbarazzato calcolo di opportunità e commerci, la nostra capacità di voltare la testa dall'altra parte, il nostro desiderio che lo spettacolo, anche olimpico, continui. No, si ribellano per affermare - costi quel che costi, al di là di ogni ragionevole speranza - che ci sono principi per cui vale la pena vivere e morire, si rivoltano per ribadire che esiste “qualcosa per cui vivere, abbastanza grande per cui morire”, manifestano per un'esigenza intima di giustizia, di affermare e compiere ciò che è giusto, a prescindere dalla possibilità effettiva di ottenere la giustizia invocata.
In questo senso il monachesimo è un fenomeno emblematico: i monaci del Tibet, come quelli birmani, come i bonzi del Vietnam, come i monaci cristiani in Algeria o in Iraq, sono uomini impegnati in una disciplina che tende all'umanizzazione di tutti attraverso la rinuncia al potere, al possesso, alla violenza, e perciò sono uomini che lottano ogni giorno per disarmare se stessi, per far tacere la propria aggressività e così indicare a tutti ciò che parrebbe utopico, senza luogo di realizzazione, ma che invece è possibile, anche se mondanamente non vincente. Sì, i veri monaci sono quasi sempre umiliati, a volte perseguitati ma, anche se obbligati a tacere, gridano con il loro silenzio la verità, una verità a servizio dell'uomo. 

Ed è in questa prospettiva che mi paiono drammaticamente preoccupanti le notizie sulle violenze compiute non tanto dai monaci - infatti, nonostante la meticolosa cernita delle immagini compiuta dalla televisione di Stato cinese per imputare esclusivamente ai tibetani le violenze, l'unico gesto violento di cui è co-protagonista un monaco è l'abbattimento di una porta a calci - quanto da giovani tibetani nei giorni scorsi. Temo sia una crepa pericolosa nella cultura tibetana della nonviolenza, un sintomo di una certa presa che la violenza quotidianamente istillata in maniera più o meno esplicita comincia ad avere anche in un popolo a essa fondamentalmente alieno. Non ci è lecito giudicare dall'alto del nostro distacco fisico, emotivo e personale il comportamento di alcuni, relativamente pochissimi, manifestanti, ma dobbiamo temere il possibile degenerare della «forza» della nonviolenza in azioni violente: sarebbe davvero un tragico salto di qualità del «genocidio culturale» denunciato dal Dalai Lama.
Estremamente significativo in questo senso l'atteggiamento che sta tenendo il Dalai Lama in questi giorni: reiterata domanda di dialogo, riaffermazione della volontà di autonomia e non di indipendenza, nessun boicottaggio delle Olimpiadi e perfino disponibilità a dimettersi se la situazione dovesse finire fuori controllo: la verità della pace non può accettare di farsi servire dalla violenza. Sì, l'uccisione della diversità ostinata di una cultura di pace è quanto anche i tibetani temono ancor più della morte fisica.

Enzo Bianchi



sabato 18 marzo 2017

Quando l’Esistenzialismo tedesco volse a Levante: II – Karl Jaspers


Oltre a Heidegger, l’altro grande esponente dell’Esistenzialismo tedesco fu Karl Jaspers (1883-1969).
A differenza del primo, Jaspers si dedicò inizialmente agli studi di medicina e lavorò fino al 1915 in una clinica psichiatrica. Nel 1913 pubblicò un testo ancor oggi fondamentale, la Psicopatologia generale.
Studiò poi filosofia come autodidatta, conseguì la docenza e insegnò presso l’Università di Heidelberg. Nel 1937 perse la cattedra a causa della sua opposizione al nazismo – il che non accadde a Heidegger, il quale anzi guardò al regime con simpatia.  Jaspers fu anche obbligato a scegliere tra divorziare dalla moglie Gertrud, ebrea, ed emigrare ma non fece nessuna delle due cose e da quel momento visse come un recluso, nascosto ad Heidelberg. I nazisti sapevano della sua presenza, ma ormai la sua capacità di nuocere era ridotta al minimo. Dopo la fine della guerra riottenne la cattedra, ma nel 1948 si trasferì in Svizzera, in quanto non condivideva le scelte operate dalla Germania della ricostruzione. Lì rimase fino alla morte, continuando la sua attività di docente e di scrittore di testi filosofici, spesso legati anche a temi politici, quali il rischio atomico e la riunificazione della Germania (una scelta per lui secondaria, essendo da privilegiare invece la ricostruzione del senso della responsabilità civile e morale del Paese).

Karl Jaspers
Al centro della sua ricerca – in campo prima medico poi filosofico – egli pose il tema dell’esistenza, la quale è sempre la mia esistenza, singola, inconfondibile, storicamente individuata. Unitamente alla ragione – che è intelletto per la coscienza, vita per lo spirito e ragione chiarificatrice per l’esistenza stessa – e soltanto con essa, l’esistenza si apre alla verità, che è comunicazione con gli altri [1].
Nella comunicazione – che è movimento infinito, inesauribile – coincidono l’essere se stesso, nella propria unicità, e l’essere vero, che si rivela agli altri e con essi comunica. Disse Jaspers: “L’esistenza diventa manifesta a se stessa, e con ciò reale, se essa con un’altra esistenza, attraverso di essa e con essa, giunge a se stessa[2].
La comunicazione non può comunque raggiungere una sua forma definitiva, compiuta – se lo facesse sarebbe distrutto il compito dell’uomo, che solo in essa diviene se stesso. Lo scacco della comunicazione è riempito dalla trascendenza. È un limite impensabile, il pensarlo fa solo ricadere nelle forme già note – ovvero incompiute – della comunicazione. A quel limite non c’è che il silenzio.
Come si vede, per Jaspers – come per Heidegger – esistenza è sempre esistenza nel mondo. Esistenza è ricerca dell’essere, ovvero guardare a sé come Dasein, Esser-ci. È una ricerca senza fine, una orientazione nel mondo, da una cosa ad un’altra cosa, mai definitiva. Non è una conoscenza del mondo, che resta un orizzonte trascendente, un orizzonte che si sposta col progredire stesso della conoscenza.
Ogni immagine totale del mondo non è che un singolo punto di vista tra i tanti, è ciò che Jaspers chiama cosmo. Ciò che sta oltre il cosmo resta impensato, spesso addirittura insospettato.
Medici e psichiatri – disse una volta – devono imparare a pensare[3], laddove pensare significa andare al di là della scissione soggetto/oggetto, che fa sì che l’oggetto appaia nei limiti già predeterminati dal soggetto. Oltrepassare l’oggettività consente di cogliere le cose nel loro rinviare alla totalità, comprendere l’uomo come apertura alla domanda.
La verità non è quindi un possesso definitivo, la verità è la via. La filosofia non è un sapere la totalità, bensì diviene un continuo superamento delle risposte già raggiunte. Non si tratta di una dottrina, ma di un atteggiamento dell’esistenza. Si parla allora di fede, non la fede religiosa che porta alla chiusura dogmatica e indiscutibile, ma la fede filosofica, che è tensione vigile e apertura verso ciò che è oltre.
Il pensiero di Jaspers non è conclusivo, ma non per questo conduce alla rinuncia o al nichilismo, in quanto rimane fondamentalmente aperto: la filosofia per lui non è una sapienza/saggezza (sophia) conseguita una volta per tutte, è amore per la sapienza/saggezza (filo-sophia). È critica, è crisi. È “impedire che il mondo delle risposte copra la domanda e la invada fino a oscurare la radice che l’ha generata[4], e quindi è libertà, anzi, è liberazione.

Dal 1948 in poi Jaspers cominciò ad insistere “sugli aspetti positivi della sua filosofia e [..] sul valore della fede come rivelazione e manifestazione immediata dell’essere trascendente[5].
Fede era per lui la vita stessa, “un ritorno all’origine misteriosa della vita, un ritorno in virtù del quale le cose perdono la loro assolutezza e l’essere si manifesta in un’esperienza inesprimibile, che i mistici hanno provato e metaforicamente descritto[6]. Egli accentuò così gli aspetti metafisici e teologici del suo pensiero, in contrapposizione con le vie intraprese da altri filosofi esistenzialisti, ad es. J.P. Sartre.
Jaspers non si identificò comunque con nessuna delle religioni “storiche”, difendendo invece l’idea di religiosità come origine e fondamento.
Portò questa visione anche nella sua concezione della storia umana, nella quale giunse a identificare un particolare periodo, l’Era – o PeriodoAssiale (Achsenzeit), compreso tra l’VIII e il II secolo a.C.
Fu una età che costituì un vero asse nella storia universale, durante il quale “l’uomo si rese consapevole dell’essere in generale, di se stesso e dei suoi limiti[7].
Nacquero in quel periodo le grandi filosofie di Confucio e Laotse in Cina, delle Upanishad e del Buddha in India, di Zarathustra e dei profeti biblici in Medio Oriente, di Omero e dei filosofi classici in Grecia.
Prima di allora il pensiero umano era privo di problematicità, il sapere era un sapere del sacro, e perciò dogmatico. Dopo, l’uomo, pur biologicamente inferiore all’animale, si rivelò portatore di una coscienza, che proviene dal suo essere mortale.
Nel rifiuto di questa situazione limite - scrisse Jaspers - egli sperimenta l’eternità del tempo, la storicità come manifestazione dell’essere nel tempo, l'obliterazione del tempo. La sua coscienza storica si identifica con la coscienza dell’eternità [..] La crescita di quest'epoca in tutti e tre i mondi in cui si è espressa, è costituita dal fatto che l'uomo prende coscienza [..] dei suoi limiti. Egli viene a conoscere il carattere terribile del mondo e la propria impotenza. Pone domande radicali [..].  Comprendendo così certamente i suoi limiti si propone obiettivi più alti. Incontra l'assolutezza nella profondità dell'essere se-stesso e nella chiarezza della trascendenza[8].
Alla fine del Periodo assiale si compì anche la separazione tra l’Oriente e l’Occidente, dove il processo si interruppe a causa della techne, la tecnica, l’aggressione alla terra e alla natura da parte dell’uomo, una tematica già incontrata in Heidegger. Ne costituiscono un perfetto esempio le figure mitiche di Adamo, che fu cacciato dal Paradiso perché temuto anche da Dio, e di Prometeo, che portò il sapere tecnico agli uomini che Zeus voleva distruggere – non a caso il giovane Marx sostenne che la filosofia fa propria la professione di odio di Prometeo nei confronti degli Dei, rivolgendola a tutte le divinità che non si sottomettono all’autocoscienza umana, una divinità superiore a loro [9].


Uno dei frutti della nozione di Periodo assiale è un’opera di Jaspers del 1957, I grandi filosofi (Die große Philosophen), suddivisa in tre sezioni: la prima, Le personalità decisive, è dedicata a Socrate, Buddha, Confucio e Gesù; la seconda, I riformatori creativi del pensare, a Platone, Agostino e Kant; la terza, I metafisici che attingono all’origine, ad Anassimandro, Eraclito, Parmenide, Plotino, Anselmo, Cusano, Spinoza, Laotse e Nagarjuna.
L’intera opera è stata tradotta in italiano e pubblicata nel 1973 presso Longanesi, ma non è più reperibile in libreria. Nel 2013 l’Editore Fazi ne ha ora riproposto la prima parte come testo autonomo [10], il che ci permette di conoscere le modalità con cui Jaspers ha affrontato la figura e l’insegnamento del Buddha storico.



Le fonti a cui Jaspers ha attinto sono costituite, come si legge nella Bibliografia, dagli scritti buddhisti più antichi: i Sutra, il Dhammapada, il Buddhacarita, il Theragatha e il Therigatha, con i bellissimi canti dei monaci e delle monache. Oltre alle opere di studiosi quali Oldenberg, autore di un Buddha tradotto anche in lingua italiana e tuttora reperibile.
Il testo (di circa 40 pagine) inizia con una succinta biografia del Buddha śākyamuni: qui il termine muni viene tradotto con “il taciturno” (della stirpe degli śākya), una traduzione corretta ma non molto comune (in genere si trova gioiello), che ha però il pregio di rimandare da subito il lettore ad una significativa visione del Sentiero buddhista come Via del Silenzio, una via mistica quindi – se si intende quest’ultima parola, che molti praticanti aborrono, nel suo senso etimologico, dal greco myein, tacere.
Jaspers riconosce che “non esiste alcun testo che riproduca con certezza le parole di Buddha”, e che la realtà “deve essere criticamente ricostruita sottraendo gli elementi palesemente leggendari e quelli che si dimostrano aggiunte postume. Chi volesse attenersi a ciò che è necessariamente certo arriverebbe, eliminando una cosa dopo l’altra, al punto in cui non rimane più nulla del testo” – così come accade, ci piace aggiungere, a chi si volesse mettere alla ricerca del proprio ego sostanziale, eterno, separato…

Quindi Jaspers passa ad esporre la dottrina del Buddha, il Buddhadharma, che “mira alla liberazione mediante la visione intellettiva”, attraverso un sapere che – diversamente dalla comune accezione del termine – “non si ottiene mediante processi logici di dimostrazione né sulla base dell’intuizione dei sensi, ma si riferisce all’esperienza che si ottiene nelle trasformazioni della coscienza e nei gradi della meditazione”. Il senso autentico dell’insegnamento del Buddha – afferma correttamente Jaspers – “va perduto se è racchiuso nelle proposizioni dottrinarie facilmente enunciabili e pensabili in modo astratto”.
Ma la verità, sia del pensare filosofico sia dell’esperienza meditativa, deve essere connessa “alla purificazione che la vita dell’uomo consegue nel suo agire morale”. L’insegnamento del Buddha non è un sistema conoscitivo, è un sentiero di salvezza. È l’Ottuplice Sentiero, che Jaspers così espone: “la fede retta, la decisione retta, la parola retta, l’azione retta, la vita retta, la morte retta, il pensiero retto, la concentrazione retta su di sé[11].
In sintesi, un corretto comportamento etico rende possibile la meditazione, questa porta alla conoscenza e quest’ultima alla liberazione. I diversi aspetti non si pongono però gerarchicamente l’uno sull’altro, ma agiscono di concerto, così come avviene per gli otto rami dello Yoga.
Sono qui interessanti le osservazioni di Jaspers in merito alla meditazione, la quale “non è una tecnica che può riuscire di per sé sola. È pericoloso disporre metodicamente dei propri stati di coscienza, accentuarne uno e farne scomparire un altro. Ciò porta l’uomo alla rovina quand’egli si dà alla meditazione senza ottemperare al giusto presupposto [che] consiste nel modo in cui si conduce tutta la propria vita, nella purezza di essa”.
E ancora: “i gradi meditativi non debbono consistere in certi speciali stati psichici di ebbrezza, di estasi, di piacere ottenuti con l’uso di hashish o di oppio, ma nella conoscenza più chiara possibile, superiore in chiarezza a ogni coscienza normale, conoscenza determinata da una presenza autentica e non dalla mera opinione”.
Jaspers è ben consapevole del fatto che una descrizione del Sentiero costituisce già di per sé “una cristallizzazione dottrinaria”, in contraddizione con la definizione stessa del Sentiero come Via di liberazione e non come sistema concettuale. Ma è anche vero che l’esposizione del Dharma nei testi “si presenta come una conoscenza che viene enunciata per la coscienza normale in distinte proposizioni e nessi razionali di pensiero”. In tale esposizione, ovvero nei Sutra del Canone Pali o in altri testi, “si avverte il gusto del concetto, dell’astrazione, della nomenclatura. Della combinazione, che è del tutto proprio della tradizione filosofica indiana”. Ma la comprensione razionale dell’insegnamento non può coglierne il vero senso, essa è solo un riflesso di quella concentrazione meditativa dalla quale l’insegnamento scaturisce.

Vengono poi esposti i punti-chiave dell’insegnamento del Buddha:
P le Quattro Nobili Verità sul dolore (duhkha) e sul suo superamento, che non portano ad un “atteggiamento pessimistico, ma [sono uno] sguardo conoscitivo sul dolore che tutto abbraccia”.
P Il sorgere condizionato (pratitya samutpada), la cui comprensione “è in grado di arrestare tutto questo terribile divenire spettrale”, e in merito al quale “non si prende in considerazione la possibilità di una caduta assolutamente primitiva da una perfezione eterna nell’ignoranza, il che potrebbe assumere l’aspetto di un analogo del peccato originale”.
P La dottrina (anatman) secondo cui “l’esserci è composto di vari fattori che si presentano fra i termini della serie causale, cioè dai cinque sensi e dai loro oggetti [..] e inoltre dalle forze inconsce dell’immaginazione che operano determinando disposizioni, impulsi, istinti, e costituiscono le potenze che edificano la vita, e infine dalla coscienza”, fattori che alla morte si dissolvono. Il Buddha “non nega l’io ma fa vedere come nessun pensiero riesce a penetrare nell’io autentico”.
P L’insegnamento (anitya) secondo cui ciò che esiste è “la corrente del divenire, che non è mai essere; l’apparenza dell’io che in verità non è un io sostanziale [..]. Il divenire è la catena delle esistenze momentanee [..], è la prima momentaneità del non-essere di ogni cosa che sembra essere”.
P Il Nirvana, la liberazione definitiva che si schiude dalla conoscenza. Jaspers riconosce bene come il parlare del Nirvana sia un paradosso, in quanto se ne parla rimanendo “entro il campo della coscienza illusoria”, il che fa del Nirvana un essere o un nulla. Se il Nirvana non è né essere né non-essere, esso è inconoscibile con i mezzi mondani, non può essere oggetto di ricerca scientifica, ma è comunque certezza. “Qui ha fine ogni questionare [..]. Si è annientato ciò che il pensiero poteva cogliere: e così si è pure annientato ogni sentiero del linguaggio”.
Anche qui, si conferma quanto già visto, il Dharmanon [è] una metafisica, ma via della salvezza”, il Buddha “non si presenta come maestro di un sistema, ma come nunzio del cammino della salvezza”. Le questioni metafisiche diventano anzi “una nuova prigionia, perché il pensiero metafisico si tien fermo proprio a quella forme dalle quali tende a liberarci la via che conduce alla salvezza”. Di qui, la potenza del silenzio, che non significa che il Buddha fosse privo di quelle conoscenze, ma che è invece strumento di comunicazione del suo pensiero. La verità non proferita “non scompare, ma opera nello sfondo in modo tanto più formidabile in quanto viene avvertita”.

Ugualmente interessante è il paragrafo 4 del capitolo, Che cosa c’è di nuovo nel pensiero di Buddha? Se si guarda alla dottrina, alla terminologia, alle forme di pensiero – afferma Jaspers – non si trova nulla che già non fosse presente nell’India di quel tempo: esistevano gli asceti e le loro comunità, l’idea della liberazione attraverso la conoscenza, lo yoga, le rappresentazioni del mondo che il Buddha accettò. Il punto è la categoria di nuovo, che, “usata come criterio di valore, è propria di noi occidentali moderni”.
Volendo comunque utilizzare tale categoria, costituisce allora una novità la “potente personalità del Buddha”, la straordinaria tensione della sua volontà, volta al superamento dell’ego. Ma proprio quel superamento è ciò che distrugge tale tensione, ogni legame del Buddha con gli interessi mondani, con il desiderio. “Egli stesso è divenuto impersonale: innumerevoli Buddha hanno compiuto nelle precedenti età cosmiche e compiranno in quelle future ciò che egli ora compie [..]. Egli è l’unico ma lo è come mera ripetizione”. È l’apparente paradosso “di una personalità che ha operato mediante la scomparsa di tutti i suoi tratti individuali”, una personalità “priva della coscienza occidentale e della coscienza cinese dell’individualità”.
Ugualmente nuovo è il fatto che egli lasciò cadere alcuni elementi fondanti della tradizione indiana, in particolare l’istituzione delle caste e la potenza degli Dei. Non li combatté, semplicemente tolse loro ogni importanza.
Inoltre, anche se il Buddhismo fu una dottrina aristocratica, che poteva essere intesa solo da persone “di alto rango spirituale”, il Buddha si rivolse a tutti gli esseri viventi indistintamente, non solo gli uomini, ma anche gli Dei e gli animali – diversamente da ciò che fecero religioni più recenti quali il Cristianesimo o l’Islam. Ognuno doveva apprendere le sue parole secondo il proprio linguaggio. Di qui la semplicità nell’espressione degli insegnamenti, la continua ripetizione delle idee, l’uso frequente di metafore, parabole, similitudini, versi.

Jaspers dedica quindi alcune pagine alla storia del Buddhismo: la divisione tra Hinayana e Mahayana, la scomparsa del Buddhismo dall’India e la sua diffusione nel resto dell’Asia, la trasformazione della “filosofia buddhista del cammino della salvezza [..] in una religione” nella quale il Buddha diviene un dio cui appellarsi. In particolare, Jaspers si dimostra piuttosto critico nei confronti del Buddhismo tibetano, nel quale “i vecchi metodi della magia divengono metodi buddhisti, la comunità monastica si trasforma in una Chiesa organizzata con un suo potere temporale”, analogamente a quanto avvenuto nel Cattolicesimo.
Positiva è invece la figura del bodhisattva, già presente nell’Hinayana ma assolutamente centrale nel Mahayana: “tutti gli esseri hanno innanzi a sé la prospettiva [..] di diventare un bodhisattva che non entra ancora nel nirvana soltanto perché dovrà ancora rinascere in qualità di un buddha per arrecare agli altri la salvezza”.
E comunque, nonostante gli Dei, i riti, i culti, le sette che la trasformazione della filosofia in religione ha portato con sé, “il buddhismo è assurto a unica religione universale che non conosce violenza né persecuzione di eretici né inquisizione né processo alle streghe né crociate. [..] esso non ha mai visto comparire alcun contrasto tra filosofia e teologia, tra libertà della ragione e autorità religiosa”, poiché “la filosofia è già di per sé azione religiosa. Rimane valido questo principio: il sapere è già liberazione e redenzione”.

Ma infine, “che significato hanno per noi il Buddha e il buddhismo?”. È una domanda imprescindibile, motivo per cui proponiamo qui, per esteso, la risposta di Jaspers:

Non dobbiamo di­menticare che nel Buddha e nel buddhismo scorre l’ac­qua di una fonte che noi occidentali ci siamo preclu­sa e che ci si trova qui di fronte a un limite dell’intel­ligenza umana. È necessario sentire la straordinaria di­stanza in cui si trova la serietà del buddhismo e vie­tarci ogni facile e sbrigativo tentativo di avvicinamen­to. Dovremmo prima cessare di essere quel che siamo per poter prendere essenzialmente parte alla verità del Buddha. La differenza qui in gioco non è quella che può sussistere tra due posizioni razionali, ma quella che riguarda la disposizione pratica e il modo di pen­sare nella loro essenza.
Ma al di là di ogni possibile distanza, non dobbia­mo perdere di vista l’idea che siamo tutti degli uomi­ni. Si tratta in ogni caso delle medesime questioni che riguardano l’esserci dell'uomo. Nel Buddha si è tro­vata e realizzata una grande soluzione di questo pro­blema e a noi spetta il compito di conoscerla e di in­tenderla secondo le nostre forze.
La questione è qui di sapere fin dove arriva la no­stra comprensione di ciò che noi stessi non siamo né possiamo realizzare. È nostra esigenza che questa com­prensione si avvicini sempre più alla sua meta, in un processo senza limiti, quando però ci si astiene da una comprensione frettolosa che si presume definitiva. Nel nostro intendere teniamo deste delle possibilità di noi stessi che ci sono profondamente chiuse e ci vietiamo di erigere la nostra condizione storica in una verità as­soluta e definitiva.
Abbiamo il diritto di affermare che tutto ciò che è detto nei testi buddhistici si rivolge alla normale co­scienza desta e deve perciò da questa coscienza poter­si intendere almeno fino a un certo punto.
È un grande fatto storico che sia stato possibile con­durre una vita come quella del Buddha che egli rea­lizzò in sé e che, inoltre, sia stato possibile in Asia fi­no a oggi vivere secondo il buddhismo. Questa sem­plice constatazione dimostra quanto sia problematica la condizione umana. L’uomo non è ciò che è stato de­terminato una volta e per sempre, ma è aperto. Egli non riconosce una sola soluzione o una sola realizza­zione come l’unica esatta. Il Buddha è la realizzazio­ne di un’essenza umana che non riconosce alcun com­pito positivo riguardo al mondo, ma, dentro il mon­do, abbandona il mondo stesso. Non lotta, non con­trasta, ma vuole soltanto dissolvere l’esserci fondato sull’ignoranza, e lo vuole in modo così radicale da non aspirare nemmeno alla morte, perché ha trovato al di sopra della vita e della morte il luogo dell’eternità. È vero che nel mondo occidentale si possono trovare de­terminazioni analoghe da far valere di fronte a questi atteggiamenti buddhisti, come l’imperturbabilità, la liberazione mistica dal mondo, il non contrastare i mal­vagi, che sono propri della figura di Gesù. Però in Oc­cidente tutto ciò è soltanto un abbozzo o un elemen­to particolare, mentre in Asia assurge a valore totale e perciò ha un altro significato.
Resta perciò tra questi due mondi una reciproca ten­sione stimolante, e come fra le singole persone una si oppone all’altra così, in grande, è un mondo spiritua­le che si oppone a un altro. Come nei rapporti perso­nali, nonostante l’amicizia, la confidenza, la benevo­lenza, si può talora avvertire una subitanea lontanan­za tra gli individui, come se io e l’altro sfuggissimo in direzioni opposte e fossimo separati dall’impossibilità di esser altro, senza però volerlo riconoscere, poiché non cessa mai di operare l’esigenza di riferirci assieme al centro dell’eternità che ci fa cercare incessantemen­te una migliore intesa reciproca, ebbene, la stessa si­tuazione si è verificata tra l'Asia e l'Occidente”.


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Note

1. Cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia, Ed. UTET, vol. III, pag. 849 e segg.
2. Cit. in N. Abbagnano, pag. 850
3. Cit. in U. Galimberti, Esistenzialismo ed ermeneutica, in: AA.VV., Storia del pensiero occidentale, Ed. Curcio, vol. VI, pag. 1543
4. Id., pag. 1548
5. N. Abbagnano, pag. 858
6. Id.
7. Id., pag. 859
8. Cit. in D. Smizer, Periodo assiale e periecontologia”, in: http://digilander.libero.it/moses/jaspers04.html
9. Id.
10. K. Jaspers, Socrate, Buddha, Confucio, Gesù – Le personalità decisive, Ed. Fazi. Tutte le citazioni successive sono tratte da questo testo. Il capitolo dedicato al Buddha si trova da pagina 43 a pagina 84.
11. In effetti, nel Sutra in cui il Buddha li espose, gli otto aspetti del Sentiero sono così elencati: retta visione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retto modo di vivere, retto sforzo, retta presenza mentale, retta concentrazione. Cfr. il Discorso della messa in moto della ruota del Dharma, in: La rivelazione del Buddha – I testi antichi, Ed. Mondadori, pag. 8. Si notano alcune differenze rispetto all’esposizione di Jaspers, che non sembrano dovute soltanto ad una diversa traduzione. 

Da leggere

U. Galimberti, Esistenzialismo ed ermeneutica, in: AA.VV., Storia del pensiero occidentale, Ed. Curcio

K. Jaspers, Socrate, Buddha, Confucio, Gesù – Le personalità decisive, Ed. Fazi