Il
10 marzo non è una data come tutte le altre per i tibetani. In questa data, nel
1959, a nove anni dall’occupazione cinese e dopo tre anni dall’inizio di una
guerriglia anticinese nella parte orientale del Paese, diffusasi la voce di un
progetto di rapimento del Dalai Lama, in
Tibet si verificò una prima rivolta popolare a Lhasa. La sommossa
scoppiò per un evento apparentemente banale: i cinesi invitarono Tenzin Gyatso
a uno spettacolo teatrale nel quartiere generale dell’esercito, invitandolo a
venire rinunciando alla scorta e senza nessuna cerimonia pubblica per la
processione del Dalai Lama dal palazzo al campo, in contrasto con la
tradizione. In città si diffuse l’idea che la manovra celasse un piano per rapire l’autorità religiosa.
La gente della capitale scese in strada per fare da scudo al Dalai Lama e
migliaia di persone circondarono la sua residenza. Così iniziò la rivolta. Una
settimana dopo, il 17 marzo, il primo proiettile raggiunse palazzo del Dalai
Lama, suggerendo al 21enne leader
spirituale di prendere la strada dell’esilio.
Testo tratto dal sito: http://www.ilprimatonazionale.it/esteri/assalto-al-tetto-del-mondo-58-anni-fa-la-rivolta-di-lhasa-e-la-fine-del-tibet-libero-59020/
Nel
ricordo dei fatti di Lhasa, e in totale solidarietà con il popolo tibetano,
desidero riproporre qui il testo di un articolo di Padre Enzo Bianchi, priore di Bose, apparso su La Stampa del 20 marzo 2008, valido oggi come allora.
Infatti
sono passati 9 anni, ma nulla è cambiato da allora per il Tibet e i tibetani,
se non in peggio, grazie alla politica del governo comunista cinese e alla
complicità, al silenzio o alle ipocrite ed inutili condanne di principio dei
governi occidentali, accecati dalla difesa dei propri interessi politici ed
economici.
Per cosa combatte il Tibet
“Etichettando
come nemici le autorità cinesi, potremmo pronunciare una ipocrita condanna
della loro brutalità, ma non è così che si ottengono la pace e l’armonia”.
Risuonano tragicamente attuali queste parole che il Dalai Lama va ripetendo
ormai da 50 anni - una delle occasioni più vicine a noi nello spazio e nel
tempo è stata la sua conferenza a Milano nel dicembre scorso su La pace interiore e la nonviolenza - ma
proprio per questo il poco che ci è dato di conoscere degli eventi di questi
giorni in Tibet riveste una drammaticità estrema.
Un popolo pacifico, con una propria lingua e cultura - intesa come modo di porsi di fronte agli eventi della vita quotidiana e alle attese ideali - con una religione intrinsecamente nonviolenta, subisce da decenni aggressioni di ogni tipo, le più pericolose delle quali sono quelli interiori e morali: il fatto che periodicamente folle di giovani e meno giovani, di monaci e di civili si ribellino con proteste prive di qualsiasi possibilità di successo, andando incontro a feroci repressioni, può sorprendere noi occidentali così devoti al calcolo, all'opportunismo e alla Realpolitik, ma dovremmo chiederci se in queste sommosse, regolarmente soffocate nel sangue, non ci sia qualcosa di più profondo della forza della disperazione, qualcosa di ben più nobile di una umana, comprensibilissima esasperazione.
C'è, io credo, un'affermazione forte di una vita «altrimenti», di una diversità che non accetta di scomparire: decenni di indottrinamento ateista non hanno arrestato il crescere della popolazione nei monasteri, le uniche comunità umane che aumentano i propri membri non per generazione fisica ma per libera adesione interiore; anni di sistematica immissione di migliaia di persone di etnia, lingua e costumi diversi non hanno intaccato l'identità profonda di un popolo; lo sfruttamento violento e sistematico del sottosuolo e l'emarginazione della pastorizia non hanno minato il rapporto dei tibetani con la loro terra, così come non lo ha attenuato l'esilio obbligato cui sono stati costretti a milioni; la chiassosa invadenza del capitalismo di Stato e il volgare fascino del «mercato» con i suoi miti non riescono a sfondare al di là delle strade commerciali delle città principali.
È proprio questa vita tenacemente differente che ha sussulti periodici di riaffermazione, sussulti che non tengono conto di strategie o tempistiche «ragionevoli», ma che sono come l'incontenibile ricerca della boccata di ossigeno di chi è costretto a vivere in apnea: in simili condizioni non si calcola se nei polmoni invece dell'aria rischia di entrare acqua, fango o terra, non si riflette se il risultato può essere una repressione ancora più dura; si anela unicamente all'ossigeno, a quell'aria pura che è il proprio patrimonio vitale. Credo che i monaci e i civili tibetani non si ribellano nella vana speranza che il mondo occidentale metta da parte i propri interessi mercantili e obblighi la Cina ad alcunché: ben conoscono, per averli sperimentati a più riprese, la nostra attitudine ai silenzi complici, il nostro gridare sterili condanne di principio, il nostro imbarazzato calcolo di opportunità e commerci, la nostra capacità di voltare la testa dall'altra parte, il nostro desiderio che lo spettacolo, anche olimpico, continui. No, si ribellano per affermare - costi quel che costi, al di là di ogni ragionevole speranza - che ci sono principi per cui vale la pena vivere e morire, si rivoltano per ribadire che esiste “qualcosa per cui vivere, abbastanza grande per cui morire”, manifestano per un'esigenza intima di giustizia, di affermare e compiere ciò che è giusto, a prescindere dalla possibilità effettiva di ottenere la giustizia invocata.
In questo senso il monachesimo è un fenomeno emblematico: i monaci del Tibet, come quelli birmani, come i bonzi del Vietnam, come i monaci cristiani in Algeria o in Iraq, sono uomini impegnati in una disciplina che tende all'umanizzazione di tutti attraverso la rinuncia al potere, al possesso, alla violenza, e perciò sono uomini che lottano ogni giorno per disarmare se stessi, per far tacere la propria aggressività e così indicare a tutti ciò che parrebbe utopico, senza luogo di realizzazione, ma che invece è possibile, anche se mondanamente non vincente. Sì, i veri monaci sono quasi sempre umiliati, a volte perseguitati ma, anche se obbligati a tacere, gridano con il loro silenzio la verità, una verità a servizio dell'uomo.
Un popolo pacifico, con una propria lingua e cultura - intesa come modo di porsi di fronte agli eventi della vita quotidiana e alle attese ideali - con una religione intrinsecamente nonviolenta, subisce da decenni aggressioni di ogni tipo, le più pericolose delle quali sono quelli interiori e morali: il fatto che periodicamente folle di giovani e meno giovani, di monaci e di civili si ribellino con proteste prive di qualsiasi possibilità di successo, andando incontro a feroci repressioni, può sorprendere noi occidentali così devoti al calcolo, all'opportunismo e alla Realpolitik, ma dovremmo chiederci se in queste sommosse, regolarmente soffocate nel sangue, non ci sia qualcosa di più profondo della forza della disperazione, qualcosa di ben più nobile di una umana, comprensibilissima esasperazione.
C'è, io credo, un'affermazione forte di una vita «altrimenti», di una diversità che non accetta di scomparire: decenni di indottrinamento ateista non hanno arrestato il crescere della popolazione nei monasteri, le uniche comunità umane che aumentano i propri membri non per generazione fisica ma per libera adesione interiore; anni di sistematica immissione di migliaia di persone di etnia, lingua e costumi diversi non hanno intaccato l'identità profonda di un popolo; lo sfruttamento violento e sistematico del sottosuolo e l'emarginazione della pastorizia non hanno minato il rapporto dei tibetani con la loro terra, così come non lo ha attenuato l'esilio obbligato cui sono stati costretti a milioni; la chiassosa invadenza del capitalismo di Stato e il volgare fascino del «mercato» con i suoi miti non riescono a sfondare al di là delle strade commerciali delle città principali.
È proprio questa vita tenacemente differente che ha sussulti periodici di riaffermazione, sussulti che non tengono conto di strategie o tempistiche «ragionevoli», ma che sono come l'incontenibile ricerca della boccata di ossigeno di chi è costretto a vivere in apnea: in simili condizioni non si calcola se nei polmoni invece dell'aria rischia di entrare acqua, fango o terra, non si riflette se il risultato può essere una repressione ancora più dura; si anela unicamente all'ossigeno, a quell'aria pura che è il proprio patrimonio vitale. Credo che i monaci e i civili tibetani non si ribellano nella vana speranza che il mondo occidentale metta da parte i propri interessi mercantili e obblighi la Cina ad alcunché: ben conoscono, per averli sperimentati a più riprese, la nostra attitudine ai silenzi complici, il nostro gridare sterili condanne di principio, il nostro imbarazzato calcolo di opportunità e commerci, la nostra capacità di voltare la testa dall'altra parte, il nostro desiderio che lo spettacolo, anche olimpico, continui. No, si ribellano per affermare - costi quel che costi, al di là di ogni ragionevole speranza - che ci sono principi per cui vale la pena vivere e morire, si rivoltano per ribadire che esiste “qualcosa per cui vivere, abbastanza grande per cui morire”, manifestano per un'esigenza intima di giustizia, di affermare e compiere ciò che è giusto, a prescindere dalla possibilità effettiva di ottenere la giustizia invocata.
In questo senso il monachesimo è un fenomeno emblematico: i monaci del Tibet, come quelli birmani, come i bonzi del Vietnam, come i monaci cristiani in Algeria o in Iraq, sono uomini impegnati in una disciplina che tende all'umanizzazione di tutti attraverso la rinuncia al potere, al possesso, alla violenza, e perciò sono uomini che lottano ogni giorno per disarmare se stessi, per far tacere la propria aggressività e così indicare a tutti ciò che parrebbe utopico, senza luogo di realizzazione, ma che invece è possibile, anche se mondanamente non vincente. Sì, i veri monaci sono quasi sempre umiliati, a volte perseguitati ma, anche se obbligati a tacere, gridano con il loro silenzio la verità, una verità a servizio dell'uomo.
Ed è in questa prospettiva che mi paiono drammaticamente preoccupanti le
notizie sulle violenze compiute non tanto dai monaci - infatti, nonostante la
meticolosa cernita delle immagini compiuta dalla televisione di Stato cinese
per imputare esclusivamente ai tibetani le violenze, l'unico gesto violento di
cui è co-protagonista un monaco è l'abbattimento di una porta a calci - quanto
da giovani tibetani nei giorni scorsi. Temo sia una crepa pericolosa nella
cultura tibetana della nonviolenza, un sintomo di una certa presa che la
violenza quotidianamente istillata in maniera più o meno esplicita comincia ad
avere anche in un popolo a essa fondamentalmente alieno. Non ci è lecito
giudicare dall'alto del nostro distacco fisico, emotivo e personale il
comportamento di alcuni, relativamente pochissimi, manifestanti, ma dobbiamo
temere il possibile degenerare della «forza» della nonviolenza in azioni
violente: sarebbe davvero un tragico salto di qualità del «genocidio culturale»
denunciato dal Dalai Lama.
Estremamente significativo in questo senso l'atteggiamento che sta tenendo il Dalai Lama in questi giorni: reiterata domanda di dialogo, riaffermazione della volontà di autonomia e non di indipendenza, nessun boicottaggio delle Olimpiadi e perfino disponibilità a dimettersi se la situazione dovesse finire fuori controllo: la verità della pace non può accettare di farsi servire dalla violenza. Sì, l'uccisione della diversità ostinata di una cultura di pace è quanto anche i tibetani temono ancor più della morte fisica.
Estremamente significativo in questo senso l'atteggiamento che sta tenendo il Dalai Lama in questi giorni: reiterata domanda di dialogo, riaffermazione della volontà di autonomia e non di indipendenza, nessun boicottaggio delle Olimpiadi e perfino disponibilità a dimettersi se la situazione dovesse finire fuori controllo: la verità della pace non può accettare di farsi servire dalla violenza. Sì, l'uccisione della diversità ostinata di una cultura di pace è quanto anche i tibetani temono ancor più della morte fisica.
Enzo Bianchi