Carl Gustav Jung nacque nel 1875 a Kesswil, in Svizzera, da una
famiglia di origine tedesca: il nonno paterno era un affermato medico, il padre
teologo e pastore. Dalla madre imparò ben presto a conoscere le religioni e i
miti di tutti i popoli, e ne rimase per sempre affascinato, in particolare
dalle immagini delle divinità dell’India. Fu ugualmente attratto
dall’archeologia, dalla filosofia e dai fenomeni
spiritici, verso i quali in quegli anni gran parte della società europea
provava un grande interesse. Egli stesso raccontò nei suoi scritti diverse
esperienze di cui fu protagonista o testimone diretto [1].
Nonostante questi suoi interessi, spinto
probabilmente dalla forte figura del nonno paterno, si dedicò agli studi di
medicina ed infine alla psichiatria, nella quale trovò un “campo di esperienza comune ai fatti spirituali e biologici” [2].
A partire dal 1900 prestò servizio presso
l’Ospedale Psichiatrico di Zurigo e nel 1902 completò la tesi di dottorato su Psicologia e patologia dei cosiddetti
fenomeni occulti, nella quale è già rintracciabile, tra gli altri, un tema
fondamentale di tutto il suo pensiero, qui esemplificato dalla somiglianza tra
un concetto mitologico esposto un giorno da una giovane medium [3] (della quale il testo junghiano analizzava le
sedute spiritiche) e altri elementi esistenti in opere a lei sicuramente
sconosciute. Anni dopo, Jung scrisse: “Si
potrebbe quasi dire che se tutte le tradizioni del mondo venissero cancellate
in un solo colpo, l’intera mitologia e l’intera storia delle religioni
ricomincerebbero daccapo con la generazione seguente” [4].
Nel 1905 divenne docente di Psichiatria presso
l’Università di Zurigo, dove si occupò di ipnosi e sonnambulismo. L’anno
successivo conobbe Sigmund Freud, prima attraverso uno scambio epistolare e poi
di persona, e del quale aveva già letto diversi scritti, soprattutto la
fondamentale Interpretazione dei sogni,
del 1899. Iniziò così un lungo periodo di collaborazione tra Jung, Freud e gli
altri studiosi del nascente movimento psicoanalitico. Il rapporto tra i due fu
molto profondo, ma attraversò momenti sempre più critici, anche a causa del
rifiuto e dell’avversione di Freud nei confronti della nera marea di fango, come quest’ultimo definiva l’occultismo. Ma Jung non poteva accettare
la visione freudiana, per la quale “occultismo
era praticamente tutto ciò che filosofia, religione e anche la scienza allora
nascente, la parapsicologia, avevano da dire dell’anima. Secondo me la teoria
sessuale era ‘occulta’, e cioè un’ipotesi non provata, esattamente allo stesso
modo di altre concezioni” [5]. Altrettanto inaccettabile era quindi l’invito,
rivoltogli da Freud, di “non abbandonare
mai la teoria della sessualità [e di] farne
un dogma” [6].
La collaborazione tra Jung e Freud, benché si
trattasse evidentemente di due persone con visioni inconciliabili, durò fino al
1917, ma in realtà l’inevitabile rottura era già stata sancita nel 1911-12, con
la pubblicazione di Trasformazione e
simboli della libido (poi Simboli
della trasformazione), un’opera decisiva per il pensiero e l’attività di
Jung maturata a partire dal 1909, quando aveva intrapreso lo studio della
mitologia e dello gnosticismo,
ispirato e guidato anche dalla lettura delle fantasie – dal carattere
chiaramente mitologico – di una giovane americana affetta da schizofrenia,
riportate nel volume citato [7]. Un’opera, afferma lo stesso Jung, scritta “di furia”, “come una frana impossibile a trattenere”, “l’esplosione di tutti i contenuti psichici che non potevano trovar
posto nelle strettoie opprimenti della psicologia freudiana e della sua visione
del mondo” [8].
Fu l’inizio della fase della maturità nella
vita e nell’opera di Jung.
Molte cose cambiarono nella sua vita: i suoi
interessi si spostarono decisamente “dal
mondo quotidiano di spazio, tempo e personalità umane a una dimensione immutabile
e atemporale di satiri, ninfe, centauri e draghi da uccidere” [9]. Lasciò il lavoro in ospedale, e si dedicò interamente all’attività
privata. Nel rapporto coi pazienti non si basò più tanto sui presupposti
teorici, ma si predispose piuttosto all’ascolto delle loro parole, a partire
dai sogni e dalle fantasie che essi spontaneamente gli riferivano. Egli stesso,
nel 1913, ebbe visioni terrificanti, che anticipavano la feroce guerra che
dall’anno successivo avrebbe devastato l’Europa.
Si dedicò anche al disegno e alla pittura,
realizzando forme sempre più simili ai mandala
[10], gli psicocosmogrammi
studiati da Giuseppe Tucci, tipici della spiritualità orientale ma presenti in
tante culture tradizionali – nonché nelle creazioni di molti pazienti dello
stesso Jung.
Nel 1921 apparve un’altra opera fondamentale
nel pensiero di Jung, Tipi psicologici,
dove egli descrisse quelle che chiamò le
quattro funzioni della coscienza, divise in due coppie: la sensazione e l’intuizione, ovvero le funzioni attraverso cui vengono appresi i
fatti e il mondo della realtà fattuale; il sentimento
e il pensiero, ovvero le funzioni del
giudizio e della valutazione [11].
Secondo Jung solo una delle funzioni, di
regola, assume il ruolo di guida nella vita delle persone, assecondata da una
sola dell’altra coppia. In linea di massima, in Occidente vengono privilegiati
il pensiero e la sensazione, mentre intuizione e sentimento sono poco sviluppati
o addirittura repressi e relegati nell’inconscio, talora con gravi danni per
l’equilibrio e la salute della persona. “L’idea
di Jung è che lo scopo della vita di un individuo [..] debba essere non di
sopprimere o reprimere, ma di arrivare a conoscere l’altro lato di sé, e in
questo modo poter sia godere, sia controllare l’intera gamma delle proprie
capacità: vale a dire, nel significato pieno, conoscere se stesso” [12]. È il processo di
individuazione, che attraverso l’integrazione delle quattro funzioni ci
permette di guardare al centro, una sorta di quinta facoltà, la funzione trascendente, “per vedere, pensare, sentire e intuire il
trascendente e agire di conseguenza” [13].
In quegli stessi anni Jung intraprese diversi
viaggi, grazie ai quali trovò ulteriori conferme alla sua visione della realtà
umana. Nel 1920 fu ad Algeri e Tunisi, poi (1924) nel Nuovo Messico presso gli
Indiani Pueblo, in Kenia e Uganda (1925-26), in India (1938).
Nel 1928 un grande sinologo, Richard Wilhelm,
gli inviò un antico testo cinese, Il
segreto del fiore d’oro, che è non solo “un testo taoistico dello yoga cinese bensì anche un trattato alchemico”
[14]. Grazie ad esso Jung scoprì come le tradizioni alchemiche – fondate
in Occidente sulla filosofia naturale del Medio Evo – costituissero un ponte,
un “anello di congiunzione, da tanto
tempo cercato, tra la gnosi e i processi dell’inconscio collettivo osservabili
nell’uomo d’oggi” [15]. Con un ulteriore fondamentale elemento:
l’alchimia gli si rivelò come una tradizione capace di riportare un equilibrio
nel pensiero europeo tra il ruolo maschile e quello femminile, laddove invece
le tradizioni ebraico-cristiane avevano fino ad allora assolutamente
enfatizzato il principio maschile-patriarcale.
Il laboratorio alchemico |
I viaggi, gli incontri con culture lontane
nello spazio e nel tempo, le pericolose discese nelle profondità della sua
stessa mente, segnarono gli anni della vecchiaia di Jung. Nel 1946 lasciò
l’insegnamento presso l’Università di Basilea e approfondì ciò che era andato
scoprendo in sé e nei suoi pazienti, ovvero il ripetersi nelle fantasie
oniriche di certe figure stereotipate simili a quelle già incontrate nello
studio della mitologia. Cercò di riconoscerle, di identificarne i ruoli, di
classificarle, ritrovando i personaggi comuni ricorrenti nei sogni, nei miti,
nelle fiabe di tutta la storia dell’umanità. Le definì, con un termine ormai
inflazionato, gli archetipi
dell’inconscio, forme a priori (come
lo spazio e il tempo di Kant) che non si identificano con le loro
rappresentazioni ma che le precedono, costituendo la possibilità delle rappresentazioni stesse. Nacque così nel 1951 una
delle sue opere maggiori, Aion: ricerche
sul simbolismo del Sé, quindi continuò gli studi sull’alchimia (completati
con il Mysterium coniunctionis –
1955), fino alla sua morte, sopraggiunta nel 1961 dopo una breve malattia.
Jung, l’Oriente, lo
Yoga
Come si è visto, l’Oriente è stato
ripetutamente e profondamente presente nella vita, nel pensiero e nell’opera di
Jung, a partire dai racconti materni sugli dei dell’Induismo e dallo studio di
Schopenhauer, fino ai viaggi in India e Sri Lanka e alle approfondite letture
dei testi classici delle grandi tradizioni spirituali, ormai facilmente
accessibili, e delle opere di personalità quali Richard Wilhelm, Edwin Arnold,
Max Müller, Hermann Oldemberg, Paul Deussen, Heinrich Zimmer, Rudolf Otto, Mircea
Eliade.
Recano testimonianza concreta del suo
interesse per l’Oriente i numerosi scritti sull’argomento, opportunamente
raccolti in Italia in uno specifico volume del Corpus junghiano minore, curato da L. Aurigemma e pubblicato presso
l’Editore Boringhieri con il titolo La saggezza orientale.
Qui troviamo un commento psicologico al Bardo Thödol, il cosiddetto Libro tibetano dei morti, ed uno al Libro tibetano della grande liberazione. Alcuni
articoli sul suo viaggio in India e sullo Yoga.
Diverse prefazioni: ad un testo sullo Zen
di D.T. Suzuki, lo studioso giapponese incontrato da Heidegger; ad un volume di
Zimmer, La via del Sé; ai Discorsi di Gautama Buddha curati da
Neumann; al famoso testo cinese dell’I
Ching, tradotto in tedesco da Wilhelm.
Nel volume Psicologia e alchimia è
poi leggibile il fondamentale saggio su Il
simbolismo dei mandala [16], mentre il Commento europeo al già citato Segreto
del fiore d’oro è pubblicato in un libro che contiene anche il testo del Segreto, in cinese T’ai Chin Hua Tsung Chih, tradotto e curato da Wilhelm [17].
Grazie alla sua formazione antidogmatica e
alla sua straordinaria apertura mentale, Jung pur ammirando le conquiste della
cultura occidentale ne aveva rilevato i limiti e l’unilateralità. Egli “riteneva che l’Occidente avesse molto da
imparare dallo studio del pensiero orientale, e che l’Oriente offrisse la
possibilità di sottoporre i presupposti e i pregiudizi occidentali a una
critica feconda” [18].
Non cadde mai però – come sovente cominciava
ad accadere in quegli anni e tuttora accade – in una facile esaltazione di ciò
che giungeva da Oriente, anzi mise ripetutamente in guardia “contro la così spesso tentata imitazione e
assimilazione delle pratiche orientali. Di regola – ebbe a scrivere nel
1943 – non ne viene che un istupidimento
particolarmente artificioso del nostro intelletto occidentale” [19]. E aggiunse che chi potesse completamente rinunciare all’Europa per
non “essere altro che uno yogi con tutte
le conseguenze etiche e pratiche, fino a dileguarsi sulla pelle di gazzella
sotto un polveroso banano, seduto nella posizione del loto [..], a costui io
dovrei concedere ch’egli ha capito lo yoga come un indiano. Chi non può fare
questo, non deve nemmeno fingere di capirlo. Egli non può e non deve rinunciare
al suo intelletto occidentale, ma deve invece applicarlo a intendere
onestamente, senza imitazione e assimilazione, quanto dello yoga è possibile al
nostro intelletto” [20].
Nello stesso testo, commentando il Sūtra buddhista, Jung approfondì
ulteriormente l’analisi, mettendo a confronto la scienza della mente dello yoga con quella dell’Occidente. Il
rischio che può correre un praticante occidentale è che svuotando lo spirito
delle rappresentazioni esterne egli diventi preda delle proprie fantasie
soggettive, i kleśa – le passioni, le
emozioni negative, le afflizioni mentali [21] – proprio
ciò che lo yoga vuole aggiogare (yoga e iugum, ‘giogo’ in latino, hanno la stessa etimologia). Infatti “illuminando l’inconscio s’incappa alla prima
nella sfera del caotico inconscio personale, in cui si trova tutto ciò che
volentieri si dimentica e che ad ogni modo non si vorrebbe confessare né a sé
né ad altri, e di cui in genere non si vorrebbe rendersi conto. Si crede quindi
che la cosa migliore sia di non guardare in questo angolo oscuro. Certo, chi
si comporta così non svolterà mai quest’angolo. In nessun caso egli giungerà
neppure a una traccia di ciò che promette lo yoga. Soltanto chi attraversa
questa tenebra può sperare di progredire in qualche modo. Perciò io sono per
principio contrario all’accettazione acritica delle pratiche yogi da parte
degli europei, perché so troppo bene che essi sperano di scansare con quelle il
loro angolo buio: impresa completamente insensata e senza valore” [22].
Lo stesso scopo dello yoga è perseguito in Occidente dagli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola (XVI sec.), ma secondo
Jung vi sono con essi possibilità di successo solo se “l’esercizio della meditazione si svolge in una significativa cornice
ecclesiastica” [23]. Non molto diversamente, quindi, da quanto
già detto in merito al praticare lo yoga
avendo del tutto rinunciato all’Europa, all’essere europei.
La sola alternativa per un occidentale è
costituita dalla psicologia
dell’inconscio che, a differenza dello yoga,
deve però prima risolvere per noi – proprio in quanto occidentali – un dilemma
etico, il problema del male nella natura: infatti “lo spirito dell’India si sviluppa dalla natura, il nostro è contro la
natura” [24].
Il Sūtra
qui analizzato da Jung descrive infine, una volta attraversato il mondo
personale dei kleśa, uno strato più
profondo dell’inconscio, questo però ordinato ed armonico, che rappresenta l’unità al di là della molteplicità caotica degli istinti e
delle passioni. È visto come una figura geometrica, divisa in otto parti, al
cui centro siede un Buddha, che è il meditante stesso: l’Io si spegne, è
l’esperienza decisiva, l’illuminazione. Detto con le parole della psicologia, è
ciò che appare quando l’inconscio personale diviene “trasparente”: emerge cioè un
fondamento che Jung definisce inconscio
collettivo, le cui immagini non hanno un carattere personale bensì
mitologico, ovvero “concordano, per forma
e contenuto, con quelle rappresentazioni primordiali, universalmente diffuse,
quali le troviamo alla base dei miti. Esse non sono più di natura personale, ma
nettamente sovrapersonale, e perciò comuni a tutti gli uomini. Per questo si
possono rintracciare in tutti i miti e le favole di tutti i popoli e i tempi,
come negli individui singoli anche senza che questi abbiano la minima nozione
cosciente di mitologia” [25]. È il tema già accennato del mandala – termine sanscrito che indica
il cerchio –, un’immagine e un
concetto che Jung utilizzò nei suoi studi e nella sua pratica terapeutica avendo
intuito e verificato la concordanza delle nozioni dello yoga con i risultati della ricerca psicologica e di quella storica,
potendosi infatti ritrovare simili raffigurazioni circolari nella cristianità
medioevale, spesso quadripartite, con le immagini degli Evangelisti o dei
quattro fiumi del Paradiso. E qui, coerentemente con il suo pensiero, Jung non poté
esimersi dal sottolineare una importante distinzione, quella per cui al termine
del percorso il Sūtra buddhista
afferma “Tu riconoscerai che Buddha sei
tu”, mentre il meditante cristiano non potrà che dire con Paolo “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in
me” [26].
Nel 1936, prima del suo viaggio in India, Jung
aveva già scritto intorno allo yoga,
le cui dottrine e pratiche erano giunte in Europa da circa un secolo e vi si
stavano diffondendo velocemente, anche grazie all’attività della Società Teosofica di Helena Blavatsky (1831-1891) e dei suoi
successori.
E anche allora,
nell’articolo su Lo yoga e l’Occidente,
egli aveva voluto subito evidenziare le differenze tra l’India e l’Occidente, dove
già esisteva, al momento della comparsa dello yoga, una rigida separazione tra scienza e fede: un fenomeno
iniziato secoli prima, a seguito del quale le chiese “sopravvissero per le esigenze strettamente religiose dei popoli, ma
cessarono di essere guida in campo culturale” [27]. Tale scissione,
sconosciuta in India, almeno fino ad allora, “si è impadronita anche della dottrina yoga penetrata in Occidente,
facendola da una parte oggetto di scienza, dall’altra salutandola come via di
salvezza” [28]. Fu questo – e forse ancora lo è – uno dei motivi del successo dello yoga, in quanto “se un metodo ‘religioso’ si presenta anche come ‘scientifico’ può
essere certo di trovare un pubblico in Occidente” [29], offrendo da un
lato una profonda dottrina filosofica e soddisfacendo dall’altro il bisogno di fatti, di esperienze verificabili,
tipico della ‘modernità’.
Ma se la scissione
nell’uomo occidentale tra fede e scienza crea le condizioni del successo dello yoga, ovvero il bisogno di ricomporre la
frattura, essa stessa ne determina lo scacco, l’impossibilità della
realizzazione delle sue finalità. Infatti in Occidente lo yoga o è “un fenomeno
strettamente religioso o un training di tecnica mnemonica, ginnastica
respiratoria, euritmia eccetera, nei quali non si trova traccia di quell’unità
e interezza dell’essere” [30] che lo caratterizza. Questo perché “l’indiano non può dimenticare né il corpo né
lo spirito; l’europeo dimentica sempre o l’uno o l’altro [..]. L’indiano non
soltanto conosce la sua natura; sa anche fino a che punto sia natura egli
stesso. L’europeo invece ha una scienza della natura e stupisce per la sua
ignoranza della propria natura, della natura in lui” [31]. Di conseguenza
l’occidentale “farà immancabilmente un
cattivo uso dello yoga, perché la sua disposizione psicologica è completamente
diversa da quella dell’orientale. Dico a quanti più posso: ‘Studiate lo yoga;
vi imparerete un’infinità di cose, ma non lo praticate, perché noi europei non
siamo fatti in modo da poter usare senz’altro quei metodi come si conviene. Un
guru indiano vi può spiegare tutto e voi potete imitare tutto. Ma sapete chi
pratica lo yoga? In altre parole, sapete chi siete e come siete fatti?” [32].
Conosci te stesso |
Con queste parole,
Jung ci riporta dunque al punto iniziale del cammino, al tempio di Apollo in
Delfi, nel quale al pellegrino era rivolta una domanda ineludibile, il più
perentorio dei moniti, quel γνῶθι σεαυτόν, conosci te stesso, cui pochi a tutt’oggi hanno saputo
rispondere compiutamente.
Note
1. Si veda in particolare A. Jaffé (a cura
di), Ricordi,
sogni, riflessioni di C.G. Jung, Ed. Rizzoli
2. J. Campbell, Carl Gustav Jung, in:
C.G. Jung, Scritti scelti, Ed. red, pag. XIII
3. Secondo l’Enciclopedia Treccani on line: “Persona che si pretende dotata di speciali facoltà, grazie alle quali
sarebbe in grado di provocare, in particolari condizioni (trance), fenomeni
‘non normali’ (detti medianici: levitazione, telecinesi ecc.), in
contrasto con le leggi fisiche. Secondo i cultori dello spiritismo, il m.
agirebbe come intermediario tra il mondo terreno e una qualche entità
soprannaturale”. In: www.treccani.it/enciclopedia
4. Cit. in J. Campbell, pag. XV
5. A. Jaffé, pag. 192
6. Id. pag. 191
7. Si veda C.G. Jung, Simboli della trasformazione,
Ed. Boringhieri, parte prima
8. C.G. Jung, Prefazione alla quarta edizione,
in C.G. Jung, Simboli…, pag. 11
9. J. Campbell, pag. XXV
10. Si veda: http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/12/mandala-e-yantra.html
11. Cfr. J. Campbell, pag. XXVII e segg.
12. Id. pag. XXVIII-XXIX
13. Id. pag. XXX
14.
C.G. Jung, Prefazione alla II edizione in C.G. Jung – R. Wilhelm, Il
Segreto del fiore d’oro, Ed. Boringhieri, pag. 8
15.
Id.
16.
C.G. Jung, Psicologia e alchimia, Ed. Boringhieri, pag. 103 e segg.
17.
Jung-Wilhelm, op. cit., pag. 13 e segg.
18.
J.J. Clarke, Jung e l’Oriente, Ed. ECIG, pag. 81
19.
C.G. Jung, Psicologia della meditazione orientale, in C.G. Jung, La
saggezza orientale, Ed. Boringhieri, pag. 137
20.
Id, pag. 137-138. Lo yoga di cui Jung
parla qui è quello esposto in un testo buddhista, lo Amitāyurdhyāna Sūtra, il Trattato
sulla meditazione di Amitābha, un’opera in lingua sanscrita del V secolo
d.C.
21.
Ad esempio, le 6 passioni-radice
sono: attaccamento, avversione, ignoranza, orgoglio, dubbio, opinioni erronee
22.
C.G. Jung, La saggezza orientale, pag. 141
23. Id.
24. Id. pag. 142
25. Id. pag. 143
26.
Cfr. id. pag. 145-146. La citazione di Paolo è in Galati 2, 20
27.
C.G. Jung, Lo yoga e l’Occidente, in C.G. Jung, La saggezza orientale,
pag. 33
28. Id. pag. 34
29. Id. pag. 35
30. Id. pag. 36-37
31.
Id. pag. 37
32.
Id. pag. 37-38.