martedì 21 marzo 2017

La psicologia analitica e l'Oriente: I - Carl Gustav Jung


Carl Gustav Jung nacque nel 1875 a Kesswil, in Svizzera, da una famiglia di origine tedesca: il nonno paterno era un affermato medico, il padre teologo e pastore. Dalla madre imparò ben presto a conoscere le religioni e i miti di tutti i popoli, e ne rimase per sempre affascinato, in particolare dalle immagini delle divinità dell’India. Fu ugualmente attratto dall’archeologia, dalla filosofia e dai fenomeni spiritici, verso i quali in quegli anni gran parte della società europea provava un grande interesse. Egli stesso raccontò nei suoi scritti diverse esperienze di cui fu protagonista o testimone diretto [1].
Nonostante questi suoi interessi, spinto probabilmente dalla forte figura del nonno paterno, si dedicò agli studi di medicina ed infine alla psichiatria, nella quale trovò un “campo di esperienza comune ai fatti spirituali e biologici[2].

Carl Gustav Jung
A partire dal 1900 prestò servizio presso l’Ospedale Psichiatrico di Zurigo e nel 1902 completò la tesi di dottorato su Psicologia e patologia dei cosiddetti fenomeni occulti, nella quale è già rintracciabile, tra gli altri, un tema fondamentale di tutto il suo pensiero, qui esemplificato dalla somiglianza tra un concetto mitologico esposto un giorno da una giovane medium [3] (della quale il testo junghiano analizzava le sedute spiritiche) e altri elementi esistenti in opere a lei sicuramente sconosciute. Anni dopo, Jung scrisse: “Si potrebbe quasi dire che se tutte le tradizioni del mondo venissero cancellate in un solo colpo, l’intera mitologia e l’intera storia delle religioni ricomincerebbero daccapo con la generazione seguente[4].
Nel 1905 divenne docente di Psichiatria presso l’Università di Zurigo, dove si occupò di ipnosi e sonnambulismo. L’anno successivo conobbe Sigmund Freud, prima attraverso uno scambio epistolare e poi di persona, e del quale aveva già letto diversi scritti, soprattutto la fondamentale Interpretazione dei sogni, del 1899. Iniziò così un lungo periodo di collaborazione tra Jung, Freud e gli altri studiosi del nascente movimento psicoanalitico. Il rapporto tra i due fu molto profondo, ma attraversò momenti sempre più critici, anche a causa del rifiuto e dell’avversione di Freud nei confronti della nera marea di fango, come quest’ultimo definiva l’occultismo. Ma Jung non poteva accettare la visione freudiana, per la quale “occultismo era praticamente tutto ciò che filosofia, religione e anche la scienza allora nascente, la parapsicologia, avevano da dire dell’anima. Secondo me la teoria sessuale era ‘occulta’, e cioè un’ipotesi non provata, esattamente allo stesso modo di altre concezioni [5]. Altrettanto inaccettabile era quindi l’invito, rivoltogli da Freud, di “non abbandonare mai la teoria della sessualità [e di] farne un dogma[6].
La collaborazione tra Jung e Freud, benché si trattasse evidentemente di due persone con visioni inconciliabili, durò fino al 1917, ma in realtà l’inevitabile rottura era già stata sancita nel 1911-12, con la pubblicazione di Trasformazione e simboli della libido (poi Simboli della trasformazione), un’opera decisiva per il pensiero e l’attività di Jung maturata a partire dal 1909, quando aveva intrapreso lo studio della mitologia e dello gnosticismo, ispirato e guidato anche dalla lettura delle fantasie – dal carattere chiaramente mitologico – di una giovane americana affetta da schizofrenia, riportate nel volume citato [7]. Un’opera, afferma lo stesso Jung, scritta “di furia”, “come una frana impossibile a trattenere”, “l’esplosione di tutti i contenuti psichici che non potevano trovar posto nelle strettoie opprimenti della psicologia freudiana e della sua visione del mondo[8].
Fu l’inizio della fase della maturità nella vita e nell’opera di Jung.
Molte cose cambiarono nella sua vita: i suoi interessi si spostarono decisamente “dal mondo quotidiano di spazio, tempo e personalità umane a una dimensione immutabile e atemporale di satiri, ninfe, centauri e draghi da uccidere[9]. Lasciò il lavoro in ospedale, e si dedicò interamente all’attività privata. Nel rapporto coi pazienti non si basò più tanto sui presupposti teorici, ma si predispose piuttosto all’ascolto delle loro parole, a partire dai sogni e dalle fantasie che essi spontaneamente gli riferivano. Egli stesso, nel 1913, ebbe visioni terrificanti, che anticipavano la feroce guerra che dall’anno successivo avrebbe devastato l’Europa.
Si dedicò anche al disegno e alla pittura, realizzando forme sempre più simili ai mandala [10], gli psicocosmogrammi studiati da Giuseppe Tucci, tipici della spiritualità orientale ma presenti in tante culture tradizionali – nonché nelle creazioni di molti pazienti dello stesso Jung.
Nel 1921 apparve un’altra opera fondamentale nel pensiero di Jung, Tipi psicologici, dove egli descrisse quelle che chiamò le quattro funzioni della coscienza, divise in due coppie: la sensazione e l’intuizione, ovvero le funzioni attraverso cui vengono appresi i fatti e il mondo della realtà fattuale; il sentimento e il pensiero, ovvero le funzioni del giudizio e della valutazione [11].
Secondo Jung solo una delle funzioni, di regola, assume il ruolo di guida nella vita delle persone, assecondata da una sola dell’altra coppia. In linea di massima, in Occidente vengono privilegiati il pensiero e la sensazione, mentre intuizione e sentimento sono poco sviluppati o addirittura repressi e relegati nell’inconscio, talora con gravi danni per l’equilibrio e la salute della persona. “L’idea di Jung è che lo scopo della vita di un individuo [..] debba essere non di sopprimere o reprimere, ma di arrivare a conoscere l’altro lato di sé, e in questo modo poter sia godere, sia controllare l’intera gamma delle proprie capacità: vale a dire, nel significato pieno, conoscere se stesso[12]. È il processo di individuazione, che attraverso l’integrazione delle quattro funzioni ci permette di guardare al centro, una sorta di quinta facoltà, la funzione trascendente, “per vedere, pensare, sentire e intuire il trascendente e agire di conseguenza[13].
In quegli stessi anni Jung intraprese diversi viaggi, grazie ai quali trovò ulteriori conferme alla sua visione della realtà umana. Nel 1920 fu ad Algeri e Tunisi, poi (1924) nel Nuovo Messico presso gli Indiani Pueblo, in Kenia e Uganda (1925-26), in India (1938).
Nel 1928 un grande sinologo, Richard Wilhelm, gli inviò un antico testo cinese, Il segreto del fiore d’oro, che è non solo “un testo taoistico dello yoga cinese bensì anche un trattato alchemico[14]. Grazie ad esso Jung scoprì come le tradizioni alchemiche – fondate in Occidente sulla filosofia naturale del Medio Evo – costituissero un ponte, un “anello di congiunzione, da tanto tempo cercato, tra la gnosi e i processi dell’inconscio collettivo osservabili nell’uomo d’oggi[15]. Con un ulteriore fondamentale elemento: l’alchimia gli si rivelò come una tradizione capace di riportare un equilibrio nel pensiero europeo tra il ruolo maschile e quello femminile, laddove invece le tradizioni ebraico-cristiane avevano fino ad allora assolutamente enfatizzato il principio maschile-patriarcale.

Il laboratorio alchemico

I viaggi, gli incontri con culture lontane nello spazio e nel tempo, le pericolose discese nelle profondità della sua stessa mente, segnarono gli anni della vecchiaia di Jung. Nel 1946 lasciò l’insegnamento presso l’Università di Basilea e approfondì ciò che era andato scoprendo in sé e nei suoi pazienti, ovvero il ripetersi nelle fantasie oniriche di certe figure stereotipate simili a quelle già incontrate nello studio della mitologia. Cercò di riconoscerle, di identificarne i ruoli, di classificarle, ritrovando i personaggi comuni ricorrenti nei sogni, nei miti, nelle fiabe di tutta la storia dell’umanità. Le definì, con un termine ormai inflazionato, gli archetipi dell’inconscio, forme a priori (come lo spazio e il tempo di Kant) che non si identificano con le loro rappresentazioni ma che le precedono, costituendo la possibilità delle rappresentazioni stesse. Nacque così nel 1951 una delle sue opere maggiori, Aion: ricerche sul simbolismo del Sé, quindi continuò gli studi sull’alchimia (completati con il Mysterium coniunctionis – 1955), fino alla sua morte, sopraggiunta nel 1961 dopo una breve malattia.

Jung, l’Oriente, lo Yoga

Come si è visto, l’Oriente è stato ripetutamente e profondamente presente nella vita, nel pensiero e nell’opera di Jung, a partire dai racconti materni sugli dei dell’Induismo e dallo studio di Schopenhauer, fino ai viaggi in India e Sri Lanka e alle approfondite letture dei testi classici delle grandi tradizioni spirituali, ormai facilmente accessibili, e delle opere di personalità quali Richard Wilhelm, Edwin Arnold, Max Müller, Hermann Oldemberg, Paul Deussen, Heinrich Zimmer, Rudolf Otto, Mircea Eliade.
Recano testimonianza concreta del suo interesse per l’Oriente i numerosi scritti sull’argomento, opportunamente raccolti in Italia in uno specifico volume del Corpus junghiano minore, curato da L. Aurigemma e pubblicato presso l’Editore Boringhieri con il titolo La saggezza orientale.
Qui troviamo un commento psicologico al Bardo Thödol, il cosiddetto Libro tibetano dei morti, ed uno al Libro tibetano della grande liberazione. Alcuni articoli sul suo viaggio in India e sullo Yoga. Diverse prefazioni: ad un testo sullo Zen di D.T. Suzuki, lo studioso giapponese incontrato da Heidegger; ad un volume di Zimmer, La via del Sé; ai Discorsi di Gautama Buddha curati da Neumann; al famoso testo cinese dell’I Ching, tradotto in tedesco da Wilhelm.
Nel volume Psicologia e alchimia è poi leggibile il fondamentale saggio su Il simbolismo dei mandala [16], mentre il Commento europeo al già citato Segreto del fiore d’oro è pubblicato in un libro che contiene anche il testo del Segreto, in cinese T’ai Chin Hua Tsung Chih, tradotto e curato da Wilhelm [17].

Grazie alla sua formazione antidogmatica e alla sua straordinaria apertura mentale, Jung pur ammirando le conquiste della cultura occidentale ne aveva rilevato i limiti e l’unilateralità. Egli “riteneva che l’Occidente avesse molto da imparare dallo studio del pensiero orientale, e che l’Oriente offrisse la possibilità di sottoporre i presupposti e i pregiudizi occidentali a una critica feconda[18].
Non cadde mai però – come sovente cominciava ad accadere in quegli anni e tuttora accade – in una facile esaltazione di ciò che giungeva da Oriente, anzi mise ripetutamente in guardia “contro la così spesso tentata imitazione e assimilazione delle pratiche orientali. Di regola – ebbe a scrivere nel 1943 – non ne viene che un istupidimento particolarmente artificioso del nostro intelletto occidentale[19]. E aggiunse che chi potesse completamente rinunciare all’Europa per non “essere altro che uno yogi con tutte le conseguenze etiche e pratiche, fino a dileguarsi sulla pelle di gazzella sotto un polveroso banano, seduto nella posizione del loto [..], a costui io dovrei concedere ch’egli ha capito lo yoga come un indiano. Chi non può fare questo, non deve nemmeno fingere di capirlo. Egli non può e non deve rinunciare al suo intelletto occidentale, ma deve invece applicarlo a intendere onestamente, senza imitazione e assimilazione, quanto dello yoga è possibile al nostro intelletto[20].
Nello stesso testo, commentando il Sūtra buddhista, Jung approfondì ulteriormente l’analisi, mettendo a confronto la scienza della mente dello yoga con quella dell’Occidente. Il rischio che può correre un praticante occidentale è che svuotando lo spirito delle rappresentazioni esterne egli diventi preda delle proprie fantasie soggettive, i kleśa – le passioni, le emozioni negative, le afflizioni mentali [21] – proprio ciò che lo yoga vuole aggiogare (yoga e iugum, ‘giogo’ in latino, hanno la stessa etimologia). Infatti “illuminando l’inconscio s’incappa alla prima nella sfera del caotico inconscio personale, in cui si trova tutto ciò che volentieri si dimentica e che ad ogni modo non si vorrebbe confessare né a sé né ad altri, e di cui in genere non si vorrebbe rendersi conto. Si crede quindi che la cosa migliore sia di non guardare in questo ango­lo oscuro. Certo, chi si comporta così non svolterà mai quest’angolo. In nessun caso egli giungerà neppure a una traccia di ciò che pro­mette lo yoga. Soltanto chi attraversa questa tenebra può sperare di progredire in qualche modo. Perciò io sono per principio contrario all’accettazione acritica delle pratiche yogi da parte degli europei, perché so troppo bene che essi sperano di scansare con quelle il loro angolo buio: impresa completamente insensata e senza valore[22].


Lo stesso scopo dello yoga è perseguito in Occidente dagli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola (XVI sec.), ma secondo Jung vi sono con essi possibilità di successo solo se “l’esercizio della meditazione si svolge in una significativa cornice ecclesiastica[23]. Non molto diversamente, quindi, da quanto già detto in merito al praticare lo yoga avendo del tutto rinunciato all’Europa, all’essere europei.
La sola alternativa per un occidentale è costituita dalla psicologia dell’inconscio che, a differenza dello yoga, deve però prima risolvere per noi – proprio in quanto occidentali – un dilemma etico, il problema del male nella natura: infatti “lo spirito dell’India si sviluppa dalla natura, il nostro è contro la natura[24].
Il Sūtra qui analizzato da Jung descrive infine, una volta attraversato il mondo personale dei kleśa, uno strato più profondo dell’inconscio, questo però ordinato ed armonico, che rappresenta l’unità al di là della molteplicità caotica degli istinti e delle passioni. È visto come una figura geometrica, divisa in otto parti, al cui centro siede un Buddha, che è il meditante stesso: l’Io si spegne, è l’esperienza decisiva, l’illuminazione. Detto con le parole della psicologia, è ciò che appare quando l’inconscio personale diviene “trasparente”: emerge cioè un fondamento che Jung definisce inconscio collettivo, le cui immagini non hanno un carattere personale bensì mitologico, ovvero “concordano, per forma e contenuto, con quelle rappresentazioni primordiali, universalmente diffuse, quali le troviamo alla base dei miti. Esse non sono più di natura personale, ma nettamente sovrapersonale, e perciò comuni a tutti gli uomini. Per questo si possono rintracciare in tutti i miti e le favole di tutti i popoli e i tempi, come negli individui singoli anche senza che questi abbiano la minima nozione cosciente di mitologia[25]. È il tema già accennato del mandala – termine sanscrito che indica il cerchio –, un’immagine e un concetto che Jung utilizzò nei suoi studi e nella sua pratica terapeutica avendo intuito e verificato la concordanza delle nozioni dello yoga con i risultati della ricerca psicologica e di quella storica, potendosi infatti ritrovare simili raffigurazioni circolari nella cristianità medioevale, spesso quadripartite, con le immagini degli Evangelisti o dei quattro fiumi del Paradiso. E qui, coerentemente con il suo pensiero, Jung non poté esimersi dal sottolineare una importante distinzione, quella per cui al termine del percorso il Sūtra buddhista afferma “Tu riconoscerai che Buddha sei tu”, mentre il meditante cristiano non potrà che dire con Paolo “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me[26].

Nel 1936, prima del suo viaggio in India, Jung aveva già scritto intorno allo yoga, le cui dottrine e pratiche erano giunte in Europa da circa un secolo e vi si stavano diffondendo velocemente, anche grazie all’attività della Società Teosofica di Helena Blavatsky (1831-1891) e dei suoi successori.
E anche allora, nell’articolo su Lo yoga e l’Occidente, egli aveva voluto subito evidenziare le differenze tra l’India e l’Occidente, dove già esisteva, al momento della comparsa dello yoga, una rigida separazione tra scienza e fede: un fenomeno iniziato secoli prima, a seguito del quale le chiese “sopravvissero per le esigenze strettamente religiose dei popoli, ma cessarono di essere guida in campo culturale[27]. Tale scissione, sconosciuta in India, almeno fino ad allora, “si è impadronita anche della dottrina yoga penetrata in Occidente, facendola da una parte oggetto di scienza, dall’altra salutandola come via di salvezza[28]. Fu questo – e forse ancora lo è – uno dei motivi del successo dello yoga, in quanto “se un metodo ‘religioso’ si presenta anche come ‘scientifico’ può essere certo di trovare un pubblico in Occidente[29], offrendo da un lato una profonda dottrina filosofica e soddisfacendo dall’altro il bisogno di fatti, di esperienze verificabili, tipico della ‘modernità’.
Ma se la scissione nell’uomo occidentale tra fede e scienza crea le condizioni del successo dello yoga, ovvero il bisogno di ricomporre la frattura, essa stessa ne determina lo scacco, l’impossibilità della realizzazione delle sue finalità. Infatti in Occidente lo yoga o è “un fenomeno strettamente religioso o un training di tecnica mnemonica, ginnastica respiratoria, euritmia eccetera, nei quali non si trova traccia di quell’unità e interezza dell’essere[30] che lo caratterizza. Questo perché “l’indiano non può dimenticare né il corpo né lo spirito; l’europeo dimentica sempre o l’uno o l’altro [..]. L’indiano non soltanto conosce la sua natura; sa anche fino a che punto sia natura egli stesso. L’europeo invece ha una scienza della natura e stupisce per la sua ignoranza della propria natura, della natura in lui[31]. Di conseguenza l’occidentale “farà immancabilmente un cattivo uso dello yoga, perché la sua disposizione psicologica è completamente diversa da quella dell’orientale. Dico a quanti più posso: ‘Studiate lo yoga; vi imparerete un’infinità di cose, ma non lo praticate, perché noi europei non siamo fatti in modo da poter usare senz’altro quei metodi come si conviene. Un guru indiano vi può spiegare tutto e voi potete imitare tutto. Ma sapete chi pratica lo yoga? In altre parole, sapete chi siete e come siete fatti?[32].

Conosci te stesso
Con queste parole, Jung ci riporta dunque al punto iniziale del cammino, al tempio di Apollo in Delfi, nel quale al pellegrino era rivolta una domanda ineludibile, il più perentorio dei moniti, quel γνῶθι σεαυτόνconosci te stesso, cui pochi a tutt’oggi hanno saputo rispondere compiutamente.



Note

1. Si veda in particolare A. Jaffé (a cura di), Ricordi, sogni, riflessioni di C.G. Jung, Ed. Rizzoli
2. J. Campbell, Carl Gustav Jung, in: C.G. Jung, Scritti scelti, Ed. red, pag. XIII
3. Secondo l’Enciclopedia Treccani on line: “Persona che si pretende dotata di speciali facoltà, grazie alle quali sarebbe in grado di provocare, in particolari condizioni (trance), fenomeni ‘non normali’ (detti medianici: levitazione, telecinesi ecc.), in contrasto con le leggi fisiche. Secondo i cultori dello spiritismo, il m. agirebbe come intermediario tra il mondo terreno e una qualche entità soprannaturale”. In: www.treccani.it/enciclopedia
4. Cit. in J. Campbell, pag. XV
5. A. Jaffé, pag. 192
6. Id. pag. 191
7. Si veda C.G. Jung, Simboli della trasformazione, Ed. Boringhieri, parte prima
8. C.G. Jung, Prefazione alla quarta edizione, in C.G. Jung, Simboli, pag. 11
9. J. Campbell, pag. XXV
10. Si veda: http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/12/mandala-e-yantra.html
11. Cfr. J. Campbell, pag. XXVII e segg.
12. Id. pag. XXVIII-XXIX
13. Id. pag. XXX
14. C.G. Jung, Prefazione alla II edizione in C.G. Jung – R. Wilhelm, Il Segreto del fiore d’oro, Ed. Boringhieri, pag. 8
15. Id.
16. C.G. Jung, Psicologia e alchimia, Ed. Boringhieri, pag. 103 e segg.
17. Jung-Wilhelm, op. cit., pag. 13 e segg.
18. J.J. Clarke, Jung e l’Oriente, Ed. ECIG, pag. 81
19. C.G. Jung, Psicologia della meditazione orientale, in C.G. Jung, La saggezza orientale, Ed. Boringhieri, pag. 137
20. Id, pag. 137-138. Lo yoga di cui Jung parla qui è quello esposto in un testo buddhista, lo Amitāyurdhyāna Sūtra, il Trattato sulla meditazione di Amitābha, un’opera in lingua sanscrita del V secolo d.C.
21. Ad esempio, le 6 passioni-radice sono: attaccamento, avversione, ignoranza, orgoglio, dubbio, opinioni erronee
22. C.G. Jung, La saggezza orientale, pag. 141
23. Id.
24. Id. pag. 142
25. Id. pag. 143
26. Cfr. id. pag. 145-146. La citazione di Paolo è in Galati 2, 20
27. C.G. Jung, Lo yoga e l’Occidente, in C.G. Jung, La saggezza orientale, pag. 33
28. Id. pag. 34
29. Id. pag. 35
30. Id. pag. 36-37
31. Id. pag. 37
32. Id. pag. 37-38.