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sabato 21 febbraio 2015

Rudyard Kipling e le storie del British Raj


Nel 1901, l’anno della morte della regina Vittoria, in Inghilterra viene pubblicato Kim[1], il romanzo capolavoro di Rudyard Kipling, premio Nobel per la letteratura nel 1907, autore di opere famose quali Il Libro della giungla, Il secondo Libro della giungla, Capitani coraggiosi, L’uomo che volle essere re[2] ecc., nonché di innumerevoli articoli e raccolte di poesie.
Rudyard Kipling
La coincidenza delle date non è casuale né secondaria, e va tenuta presente per capire il lavoro di Kipling e quella che ancora oggi può essere la sua importanza dal punto di vista letterario e non solo: infatti testi come Kim e L’uomo che volle essere re ci possono aiutare a guardare con occhio critico alle vicende politiche di quella “area di faglia” – come la definirebbe Huntington[3] –, l’area del “Grande Gioco”, che comprende attualmente l’India occidentale, il Pakistan l’Afghanistan e i territori meridionali dell’ex impero zarista-sovietico, e che vede ormai da decenni una costante presenza, anche militare, delle maggiori potenze mondiali.
Kipling – e Kim – nascono infatti nel cuore, storico e geografico, del grande impero anglo-indiano.
Nel 1876 la regina Vittoria (1837-1901) assume il titolo di imperatrice dell’India, che rimarrà appannaggio dei reali inglesi fino all’indipendenza dell’India, nel 1947. Viene così formalizzata una situazione di dominio sull’India che aveva iniziato a delinearsi dai primissimi anni del ‘600, con la sempre più forte presenza della Compagnia delle Indie Orientali, e che si era progressivamente consolidata nei secoli successivi.
Quando il British Raj vede la luce, Kipling ha circa dieci anni: era nato infatti il 30 dicembre 1865 proprio in India, a Bombay, da genitori inglesi (il padre era un ufficiale). A sei anni viene inviato in Inghilterra per completare la sua educazione. I suoi insegnanti dicono che non è abbastanza intelligente per ottenere una borsa di studio per Oxford, così torna in India dove lavora come Direttore della Collezione Nazionale di Arte di Lahore (oggi in Pakistan) e come giornalista. Nel 1882 si trasferisce a Bombay, quindi, nel 1889, viaggia attraverso la Birmania, la Cina, il Giappone e gli Stati Uniti e giunge a Londra, dove scrive diari di viaggio, molti articoli e i primi romanzi.
Si trasferisce quindi negli Stati Uniti e lì risiede per quattro anni, pubblicando i due volumi del Libro della giungla.
Infine ritorna in Inghilterra, dove, tra l’altro, dà alle stampe Kim, ottenendo un successo sempre maggiore, fino al premio Nobel del 1907. Agli inizi del XX secolo la sua popolarità è al massimo e, salvo brevi periodi, tale rimane fino alla morte (avvenuta nel 1936) ed oltre, anche grazie al cinema, che adatta per lo schermo molti suoi scritti, traendone film molto noti al grande pubblico. Basti citare Capitani coraggiosi, del 1937, con Spencer Tracy; Gunga Din, del 1939, con Cary Grant; Kim, del 1950, con Errol Flynn; Il Libro della giungla, famoso cartoon Disney del 1967; L’uomo che volle farsi re, del 1975, con Sean Connery e Michael Caine; Mowgli, del 1994, con Jason Scott Lee.

Kim

La storia di Kim si svolge all’epoca dell’aspro conflitto politico tra il Raj e l’impero russo conosciuto come “Grande Gioco”, verso la fine del XIX secolo.
La trama del romanzo può essere così riassunta.

Kim (Kimball O'Hara), un ragazzino tredicenne orfano di un sergente irlandese e povero, vive vagabondando nelle strade delle città e nella campagne indiane, mendicando o svolgendo piccole commissioni a Lahore; occasionalmente si trova a lavorare anche per Alì, un commerciante di cavalli pashtun, il quale è in realtà una delle spie indigene al servizio degli Inglesi.
Avendo fatto amicizia con un Lama tibetano, che è alla ricerca della liberazione finale dalla ruota della vita, Kim parte con lui in direzione del leggendario "Fiume della Freccia", le cui acque permettono di giungere al Nirvana. Kim diventa così il suo discepolo personale, accompagnandolo nel pellegrinaggio e dando spesso dimostrazione della propria astuzia ed abilità.
Lungo la strada il ragazzino incomincia incidentalmente ad imparare spezzoni del "Grande Gioco" tra Russi e Inglesi; viene reclutato dall'amico Alì per portare un messaggio al capo dei servizi segreti britannici ad Ambala. Il viaggio di Kim in compagnia dell'anziano monaco buddhista lungo la Grand Trunk Road[4] è la prima grande avventura raccontata nel romanzo.
I due continueranno a vagabondare fino a che Kim non verrà rintracciato per caso dal cappellano militare dell'antico reggimento a cui apparteneva il padre; il ragazzo sarà riconosciuto dal certificato massonico[5] che porta appeso al collo. Tolto dalla strada, forzosamente separato dall'amato Lama, viene adottato e mandato a scuola a Lucknow.
Durante il periodo della scuola Kim rimane in contatto col monaco, che considera ormai un vero santo; ma anche con i conoscenti che lavorano come collegamenti sul territorio per i servizi segreti di Sua Maestà. Viene addestrato ad essere un agente dei servizi: come parte della formazione deve imparare a guardare un vassoio pieno d'oggetti e saperli ricordare perfettamente.
Dopo tre anni al giovane viene affidato il suo primo vero compito all'interno del "Grande Gioco": prima però gli viene concesso un periodo di vacanza. Kim si ricongiunge col vecchio Lama e, per volere del suo superiore, parte col monaco in direzione dell'Himalaya; qui le vicende più prettamente spirituali e quelle spionistiche della narrazione si intersecano sempre più.
Il ragazzo riuscirà ad ottenere mappe, documenti ed altri importanti elementi riguardanti il lavoro sotterraneo svolto dai Russi nel tentativo di minare l'effettivo controllo britannico della regione. La storia sembra concludersi col Lama che si rende conto d'essersi smarrito, la ricerca del "Fiume della Freccia" dovrebbe infatti svolgersi in pianura, non in montagna dove invece si trovano lui e Kim: intanto il ragazzo è riuscito a consegnare i documenti trafugati ai Russi in mani sicure. Il Lama infine trova il suo fiume e raggiunge l'Illuminazione.
Rimane incerta la strada che perseguirà in futuro il giovane Kim, se d'ora in poi entrerà ufficialmente a far parte delle spie al soldo degli Inglesi, oppure se seguirà la via spirituale mostratagli dall'amatissimo maestro, o una combinazione delle due cose insieme[6].

Già dalla lettura del sunto si intuisce che Kim non è affatto un “romanzo per l’infanzia” – ammesso che ne esistano –, bensì un complesso punto d’incontro tra la letteratura, l’ideologia politica del Raj britannico e una certa immagine della religiosità buddhista.
Kipling può essere infatti considerato come “la voce dell’Impero”, e non a caso la sua popolarità entrò in crisi – salvo riprendere quota negli anni ’20 – proprio nel periodo della Grande Guerra, quando l’ideologia colonialista mostrò il suo vero volto portando l’umanità intera verso uno dei conflitti più feroci e sanguinosi della storia.
In tal senso è significativo il rapporto che lega Kim al Lama Teshoo: il giovane diviene il chela, il discepolo del monaco, ma il rapporto guru/chela che ne deriva non è quello che le tradizioni hinduiste e buddhiste hanno tramandato nei secoli. Anzi, si assiste ad un rovesciamento dei ruoli: mano a mano che Kim – il quale, non lo dimentichi, non è un anglo-indiano, bensì un bianco – acquista il senso della sua identità e quindi acquista forza, non solo si prende cura del Lama – da sempre compito di un chela –, ma lo aiuta nella sua Ricerca, diventa la sua guida.
È la missione civilizzatrice del Raj, che Kim incarna nel ruolo che ricopre all’interno dei servizi segreti, nei confronti di un Oriente dedito alla ricerca spirituale, ma debole, vecchio. Una ricerca spirituale che per Kipling, per una parte della cultura anglosassone, è sì assolutamente rispettabile, ma che alla fin fine consiste nella vocazione del Lama ad aiutare Kim.
Le ultime parole del romanzo sono in questo molto chiare. La Ricerca è terminata, Lama Teshoo ha trovato il Fiume, la liberazione, e dice a Kim: “Figlio della mia Anima, ho strappato la mia Anima dalle Soglie della Libertà per liberare te da ogni peccato… come libero e senza peccato sono io. Giusta è la Ruota[7].
La liberazione dell’Oriente, secondo Kipling, consiste in definitiva nell’aiutare l’Occidente a svolgere la sua missione: civilizzare l’Oriente stesso, ovvero occidentalizzarlo, all’interno di un rapporto che non sarà mai tra pari, ma di continua subalternità.

D’altra parte, fu lo stesso Kipling che, all’inizio della sua Ballata dell’Est e dell’Ovest, scrisse: “Oh, l’Est è Est, e l’Ovest è Ovest, e mai i due si incontreranno, finché il Cielo e la Terra si presenteranno infine al Grande Seggio del Giudizio di Dio”.
Anche se a dire il vero proseguiva con un verso che si presta, alla luce della storia, a diverse interpretazioni: “Ma non c’è né Est né Ovest, non Confine, non Razza, non Nascita, quando due uomini forti si affrontano faccia a faccia, arrivando dai lati opposti del mondo”.




[1] La migliore edizione in italiano è: R. Kipling, Kim, a cura di O. Fatica, Ed. Adelphi
[2] R. Kipling, L’uomo che volle essere Re, Ed. Sellerio
[3] Si veda: S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Ed. Garzanti
[4] La GTR è l’arteria stradale lunga oltre 2500 km che ancora oggi collega il Bangladesh con Peshawar in Pakistan
[5] Kipling fu iniziato alla Massoneria nel 1886 nella loggia "Hope and Perseverance" di Lahore. Nel 1900 entrò nella Società dei Rosacroce, fondò inoltre la loggia “Authors”. I temi massonici sono costantemente presenti nelle sue opere.
Tra i tanti siti Internet che ne parlano, si vedano:
http://www.heredom1224.it/it/index.php?pg=5&op=4&id=78
e: http://www.montesion.it/_esterni/_Uno/_Kipling/Kipling1.htm
[6] Da: http://it.wikipedia.org/wiki/Kim_%28romanzo%29
[7] Kipling, Kim, cit., pag. 349


domenica 14 settembre 2014

Peter Hopkirk: il Grande Gioco non è mai terminato

Negli ultimi giorni di agosto, a Londra, è morto Peter HOPKIRK (1930-2014), viaggiatore, reporter ed autore di alcuni volumi di fondamentale importanza per la comprensione della realtà storica e geopolitica degli immensi territori tra Russia, Mongolia, Tibet, Afghanistan... Testi di cui non si può che consigliare la lettura, anche perché godibili quanto e più di un romanzo, nonché magistralmente tradotti in italiano.

Il 31 agosto, su La Stampa di Torino, è apparso un articolo di Ilaria Maria Sala che ha rotto almeno in parte il silenzio che ha avvolto, in un'Italia concentrata sul proprio ombelico, la scomparsa dello studioso. Lo proponiamo qui in omaggio ad un grande storico e narratore.

Scrive Ilaria Maria Sala:

Sono state settimane, mesi concitati sulla scena internazionale: tempi di frontiere modificate, d’impensabili califfati improvvisamente emersi dalle rovine di guerre annose, di conciliaboli diplomatici che cercano di dare un senso a equilibri geopolitici in costante movimento, davanti alla contesa per le isole dell’Asia orientale e alle nuove alleanze economiche tra la Mongolia, la Cina e la Russia. E proprio in questo clima di imprevisti politici così profondi sembra quasi impossibile che la notizia della scomparsa di Peter Hopkirk (a Londra, a 84 anni) sia passata talmente in sordina. 

Peter Hopkirk
Peter Hopkirk, l’autore di volumi come Il Grande Gioco, o Diavoli stranieri sulla Via della Seta, o ancora La conquista di Lhasa - tutti pubblicati in Italia da Adelphi - ha infatti saputo andare alle fonti di alcuni dei maggiori conflitti della seconda metà del XIX secolo e della prima metà del XX, riportando in vita quegli avventurieri, soldati, ufficiali, spie, idealisti, rivoluzionari e archeologi che si sono succeduti nei corridoi più segreti del vasto continente eurasiatico, tessendo storie tra le più incredibili e avvincenti. Personaggi di volta in volta eroici o improbabili, guidati da una smania di potere, di gloria, di sete di emozioni o di fame di cultura, che si sono avvicendati ora al servizio della Corona britannica, ora a quello della Rivoluzione bolscevica. 

Il cuore dell’Asia è stato percorso però anche da deliri più ristretti, su cui Hopkirk si è lungamente soffermato, che videro improbabili personaggi come il Barone Sanguinario, al secolo Barone Ungern-Sternberg, sognare un nuovo Impero Mongolo. O uomini come il Generale Ma, messosi alla testa di alcune popolazioni musulmane del Turkestan Orientale sotto controllo cinese (oggi chiamato Xinjiang), in cerca di appoggi diplomatici per creare un nuovo Stato. I sogni truculenti di Unger-Sternberg e quelli forse più idealisti di Ma e di altri signori della guerra sfiorarono in linea d’aria il lento avanzare di Aurel Stein, studioso e archeologo di origine ungherese, naturalizzato britannico, che scoprì i preziosissimi manoscritti di Dunhuang, in lingue note e sconosciute, e li comprò per quattro soldi da un monaco bizzarro, reso mezzo matto dai decenni di solitudine ai bordi del deserto, per poi spedirli in 24 casse alla British Library, dove tutt’ora giacciono, tesoro fra i tesori che ancora oggi vengono studiati e analizzati.
Per diciannove anni Hopkirk era stato giornalista al Times di Londra, specialista del Medio e Estremo Oriente. Poi aveva lasciato il giornalismo per diventare scrittore a tempo pieno, rincorrendo nell’Asia Centrale, nel Nord dell’India, della Cina, del Pakistan e dell’Afghanistan i fili di verità storica di quelle che erano state le letture più intense della sua giovinezza.


Così, partendo da Kim, il capolavoro coloniale di Ruyard Kipling, «bardo dell’Impero britannico», Hopkirk ha ritessuto il canovaccio di quel «Grande Gioco» che vedeva la Russia e la Gran Bretagna combattersi a colpi di spionaggio e imboscate per cercare di invadere l’India, l’una, e conservare i suoi possedimenti coloniali, l’altra. In mezzo a russi e inglesi si mescolavano indiani e cinesi, afghani, francesi e tibetani, pakistani e uzbeki alla ricerca di una causa, o della difesa di territori guardati con ingordigia da altri. Hopkirk è stato il primo a spiegare che nessuno poteva davvero pretendere a una legittima sovranità sul Tibet, per quanto l’interferenza britannica, ancora una volta alla caccia di stratagemmi per assicurarsi i suoi possedimenti indiani, abbia per sempre complicato le cose, dopo la disgraziata invasione armata di Francis Younghusband.

Migliaia di lettori sono stati svegli tutta la notte mentre Hopkirk li portava a cavalcare con lui nelle gole rocciose di terre che aveva percorso in lungo e in largo, figura ancora in bilico tra un’idea di onore d’era coloniale e il rifiuto sempre più ampio del colonialismo. Anno dopo anno, studenti di russo e di cinese sono arrivati in classe con gli occhi arrossati dopo essersi divorati senza spegnere la luce i suoi volumi, che hanno dato uno spessore umano tutto particolare ai movimenti semi-segreti delle più grandi potenze mondiali in zone aride e brulle, che a più riprese sono sembrate il centro intorno a cui si sarebbero decise le sorti del pianeta. 


Hopkirk, infatti, prima di tutto ha saputo raccontare con il rigore dello storico appassionato i momenti più complessi e intricati di alcuni degli episodi contenuti nei plichi dell’intelligence e nei romanzi d’avventura più eterni, quelli di Kipling, di un certo Conrad e di molto John Buchan, divenendo un John LeCarré degli archivi, dal ritmo incalzante e dalle infinite suggestioni. Proprio per questa forte vena letteraria, il suo ultimo lavoro è stato il delicatissimo Alla ricerca di Kim, dove un Hopkirk ormai maturo vuole concedere al ragazzo che era stato di rispondere a ogni curiosità sul suo romanzo più amato –, ripercorrendo ogni tappa delle avventure del piccolo orfano di Lucknow divenuto membro dei servizi segreti indiani. E regalando a noi, suoi lettori, altre ore di emozioni. 
                   
                                                         * * * * *

Il film "Kim" del 1950
L’articolo termina con la segnalazione di uno scritto di Hopkirk sul famoso romanzo del premio Nobel Rudyard KiplingKim (del 1901), del quale si ricordano anche diverse versioni cinematografiche.
E desideriamo ugualmente terminare con il suggerimento di rileggere tale romanzo (*), dopo averlo letto nella nostra gioventù, ponendo la nostra attenzione sia alle pagine di Kipling sia alle notizie che quotidianamente ci giungono dall’Afghanistan, dal Pakistan, dalla Russia, da tutto lo scacchiere dove il Grande Gioco ebbe inizio e dove tuttora continua, con pedine vecchie e nuove, con altri obiettivi, con altre regole… forse.


(*) in particolare, si consiglia l'edizione Adelphi (2003).

giovedì 25 luglio 2013

Sherlock Holmes, un buddhista a sua insaputa

Nel racconto “L’ultima avventura”, ambientato nel 1891, Sir Arthur Conan Doyle narra la morte di Sherlock Holmes, il più famoso detective della storia, precipitato nella cascate del Reichenbach, nelle Alpi Svizzere, insieme con Moriarty, il suo acerrimo nemico.

In un successivo racconto, “L’avventura della casa vuota”, ambientato nel 1894, Conan Doyle, su pressione degli editori e dei numerosi lettori, fa riapparire Sherlock Holmes, il cui corpo in effetti non era mai stato ritrovato…



Ma cosa aveva fatto il detective negli anni tra il 1891 e il 1894? Lo racconta lui stesso al suo fedele compagno Watson, proprio nella "Avventura della casa vuota": “Per due anni (…) viaggiai nel Tibet, mi divertii a visitare Lhassa e trascorsi qualche giorno con il Dalai Lama. Forse avrà avuto occasione di leggere le interessanti esplorazioni condotte da un norvegese, un certo Sigerson, ma sono sicuro che non le è mai passato per la mente che, così facendo, lei aveva notizie del suo amico”. 

Due anni in Tibet, quindi, tra i monaci buddhisti e addirittura alla corte del Dalai Lama. Si trattava ovviamente del Grande Tredicesimo Thubten Gyatso, il quale aveva allora circa 16 anni. Ma dalle parole di Holmes nient’altro si seppe mai a proposito del suo viaggio.

Il “vuoto” è stato successivamente colmato da uno scrittore tibetano, Jamyang Norbu (nt. 1944), il quale ha anche ricoperto alcuni incarichi nel governo tibetano in esilio ed è autore di saggi e testi teatrali. In un suo geniale romanzo, “IL MANDALA DI SHERLOCK HOLMES”, l’A. racconta, con un linguaggio che riporta immediatamente ai “classici” di Conan Doyle, di essere venuto in possesso di un manoscritto ritrovato a Darjeeling: si tratta proprio del dettagliato resoconto del viaggio di Holmes in Tibet!

Il mandala di Kalachakra di cui si parla nel romanzo
Autore del manoscritto è Hurree Chunder Mookerjee (Hurree babu), il famoso agente bengalese al servizio degli Inglesi, ovvero uno dei protagonisti di un altro grande romanzo: “Kim” di Rudyard Kipling, uno dei migliori testi per comprendere il “Grande Gioco” che le maggiori potenze mondiali giocarono, e tuttora giocano, per il controllo strategico delle vie di collegamento tra Oriente ed Occidente.


Un sapiente gioco di scatole cinesi, quindi, finzioni letterarie che si connettono tra loro fino a creare una (in)credibile e godibile sensazione di realtà!


Nel romanzo di Jamyang Norbu, le strade di Holmes e di Hurree babu, una sorta di Dottor Watson d’Oriente, si incontrano, in un intreccio che si dipana lentamente tra Bombay, Simla, i passi himalayani, il Tibet e i suoi monasteri, in un complesso gioco politico che coinvolge gli inglesi, i cinesi, il reggente tibetano, il giovane Dalai Lama. Fino a svelare chi veramente fosse Sherlock Holmes prima di essere Sherlock Holmes, e chi veramente fosse Moriarty, il suo mortale avversario.

Ed infine, con un tocco quasi commovente per chi ama la figura del grande detective e i magici silenzi himalayani, Jamyang Norbu racconta di aver incontrato nel 1989 a Dharamsala alcuni anziani monaci fuggiti dal Tibet, i quali non solo gli confermano di aver sentito parlare di un inglese che molti anni prima era stato a Lhasa, ma addirittura gli mostrano “una cassetta di latta dall’aria piuttosto decrepita (…). Dentro, vicino ad alcuni oggetti di carattere religioso, c’erano una lente di ingrandimento scheggiata e una vecchia, malconcia, pipa di ciliegio”. Di fronte al suo stupore, il vecchio abate lo invita ad applicare una vecchia massima, secondo cui “quando si è escluso l’impossibile, quello che rimane, per quanto improbabile sembri, dev’essere la verità”, quindi comincia “a ridere piano, in un modo particolare, senza far rumore”.
Basil Rathbone nei panni di Sherlock Holmes

Testi citati:

Jamyang Norbu, Il mandala di Sherlock Holmes, Instar Libri, 2002
Arthur Conan Doyle, Tutto Sherlock Holmes, Grandi Tascabili Economici Newton, 2002
Rudyard Kipling, Kim, Adelphi, 2003


sabato 20 ottobre 2012

UNISABAZIA 2010/11 - I Greci in India


I Greci in India: scontri e incontri

Già 1000 anni prima dell’Era Volgare, durante il regno ebraico di Salomone, i contatti tra il mondo mediterraneo e il sub-continente indiano erano relativamente frequenti e costanti.
Successivamente, dal VI secolo a.C. al V sec. d.C. è documentata la presenza in India di Greci: esploratori, soldati, mercanti, filosofi, ambasciatori… E questo sia nelle valli gangetiche dell’India del Nord sia nelle regioni meridionali dell’odierno Tamil Nadu.
Le fonti sanscrite attestano infatti che nel V sec. a.C. esistevano in India importanti colonie greche. Nei Vishnu Purana (1) è detto che “a est di Bharata [l’India] vivono i Kirata e a ovest gli Yavana”. La letteratura buddhista li chiama “Yona”. Nel Sutra di Assalayana, il Buddha stesso, nel discorso che tiene al giovane brahmana (2) Assalayana in merito alla suddivisione in caste, cita i Greci, dicendo: “Tu che pensi, Assalayano: hai sentito che tra gli Ioni ed i Kabuli ed in altri paesi stranieri vi sono due sole caste, signori e servi; e che il signore può divenire servo, ed il servo signore?”. Questo non significa che il Buddha “storico” sia entrato in contatto con i Greci, ma dimostra comunque che essi erano ben conosciuti nell’India del V - VI sec. a.C.
I termini che designano i Greci dell’India, Yona e Yavana, derivano direttamente dal nome “Ioni”, con cui venivano chiamati i Greci che abitavano le coste e le isole dell’Asia Minore (l’attuale sponda egea della Turchia).

Pitagora

Pitagora
E’ interessante osservare che era ionico, essendo nato a Samo, il filosofo Pitagora, contemporaneo del Buddha Shakyamuni, il quale poneva a fondamento della propria scuola (che era insieme filosofica, religiosa e politica) una visione del mondo molto simile a quella di diverse tradizioni indiane. Secondo Pitagora, il quale molto probabilmente, come il Buddha, come Socrate, come Cristo, non scrisse mai nulla, l’anima sopravvive dopo la morte del corpo, e trasmigra in altri corpi (metempsicosi). La catena delle trasmigrazioni cessa solo dopo la purificazione dell’anima stessa. La sua filosofia era quindi non solo una diversa visione dell’uomo e del mondo, ma piuttosto una vera e propria disciplina spirituale, basata sulla non-violenza, sulla rinuncia, su una alimentazione vegetariana, e sostenuta altresì da una comunità di persone motivate dalle stesse finalità. I suoi discepoli erano divisi, come in molte comunità spirituali indiane, tra gli “acusmatici”, cioè gli ascoltatori, e i “matematici”, coloro che erano ammessi agli insegnamenti più profondi. Pitagora era quindi molto simile ad un guru, i maestri spirituali delle tradizioni indiane. Così come gli insegnamenti erano (e sono tuttora, in certi ambiti) di ordine “essoterico”, ovvero rivolti a tutti, o “esoterico”, destinati ad una cerchia di iniziati.

Alessandro/Sikandar

Nel 334 a.C. Alessandro, figlio di Filippo II, sovrano del regno greco di Macedonia, intraprese una grande spedizione verso oriente, con l’intento di conquistare il mondo, fondando un impero insieme militare e culturale. Con lui c’erano infatti, oltre ad un esercito di 40.000 uomini, anche numerosi scienziati e filosofi.
Alessandro/Sikandar
Dopo ben sette anni di marce e battaglie, raggiunse i confini del territorio indiano, nella zona dell’attuale Kandahar (oggi in Afghanistan), forma modificata di Alessandria. Entrò poi nella valle di Kabul e in questi territori fondò insediamenti greci che, molto tempo dopo, avrebbero avuto profonda influenza nella storia dell’India. Ricevette anche la visita di un giovane rifugiato dal regno di Magadha, nel nord-ovest dell’India, vicino al regno della dinastia Shakya, che dette i natali a Siddhartha Gautama, il Buddha. Il nome del giovane era, pronunciato alla greca, Sandrokottos, ma si trattava di Chandragupta, il futuro fondatore dell’impero Maurya.
Nel 326 a.C. l’esercito greco attraversò l’Indo su un ponte di barche e giunse a Taxila, grande centro commerciale dove convivevano le tre grandi tradizioni spirituali dell’India dell’epoca: Brahmanesimo, Buddhismo, Jainismo. Lì Alessandro incontrò i “gimnosofisti” (i “sapienti nudi”): asceti di diverse scuole, che avevano rinunciato al mondo per ricercare la liberazione, monaci, yogi, śramana. Cercò di convincere uno di loro, Dandamo, a seguirlo insieme al gruppo dei filosofi greci, ma questi rifiutò dicendo al grande re: “Perché hai viaggiato tanto? Io ho tanta terra quanta ne hai tu o chiunque altro. Anche se possiedi tutti i fiumi, non puoi bere più di me. Apprendi da me questa saggezza: non desiderare nulla e tutto sarà tuo.” Alessandro non fu fermato da queste parole, ma il filosofo Pirrone, che era con lui, ne rimase certamente colpito: quando tornò in Grecia fondò infatti la scuola degli Scettici (3), nella quale si ritrovano molti punti di contatto con gli elementi della spiritualità indiana.
In realtà la spedizione di Alessandro non penetrò nell’India come la intendiamo oggi. Egli non giunse alla grande pianura del Gange, ma si fermò al Punjab, nel nord-ovest dell’attuale stato indiano. I suoi stessi soldati, ridotti a meno della metà, chiesero di non proseguire. Consapevole che non sarebbe stato possibile battere i grandi eserciti dei regni indiani, Alessandro iniziò il viaggio di ritorno. Ma non rivide più la Grecia: a causa delle ferite riportate in battaglia, o forse per un avvelenamento, morì a Babilonia nel 323 a.C., a 33 anni. Qualche tempo prima, l’asceta jaina Calano (Kalyana, cioè il virtuoso) aveva accettato di seguirlo, ma si era subito ammalato. Dopo aver rifiutato le cure dei medici greci, ritenendo che fosse meglio morire piuttosto che vivere al di fuori delle regole di condotta che egli stesso aveva scelto, salì da solo sul rogo funebre, dicendo ad Alessandro: “Ci rincontreremo a Babilonia”. E così avvenne.

Maitreya
Il tentativo di Alessandro di fondare un impero esteso fino all’India morì insieme a lui, ma la sua figura ormai leggendaria (non a caso è conosciuto come Alessandro Magno, o Alessandro il Grande) rimase viva nelle tradizioni medio-orientali e indiane, dove venne ricordato come un eroe, un semidio. E’ anzi probabile che la fama di Sikandar, come era chiamato in Oriente, abbia contribuito alla concezione del Bodhisattva (4) Maitreya, il Buddha del futuro, il quale è spesso rappresentato seduto “all’europea”, su una alta sedia, con entrambi i piedi a terra o con la caviglia destra sul ginocchio sinistro.
Ancor oggi, molti capi clan del Pakistan del Nord e del Kashmir sostengono di essere diretti discendenti di Sikandar, e i Kafir dell’Afghanistan affermano di essere di pura stirpe greca (5).
La spedizione di Alessandro diede origine nell’India settentrionale a diversi Regni ellenistici (almeno 36), che durarono fino al 10 d.C., e la cui presenza rafforzò ulteriormente il rapporto e lo scambio linguistico, religioso, filosofico, scientifico, tra i due mondi. Ne derivò una forma di cultura indo-greca la cui influenza è visibile ancora oggi.

Menandro/Milinda


Il più famoso dei re indo-greci fu senza dubbio Menandro I, il quale regnò su un vasto territorio dell’attuale Punjab verso la metà del II sec. a.C.
Oltre che dagli storici greci, è ricordato anche nella letteratura buddhista con il nome di Milinda, che ricorre già nel titolo di un fondamentale testo del buddhismo più antico, redatto forse in sanscrito e poi in pali, il Milindapaňha, ovvero Le domande di Milinda. Si tratta di una serie di dialoghi, divisi in 7 libri, paragonabili ai dialoghi socratici/platonici, tra il re Menandro/Milinda e il monaco buddhista Nagasena. Nell’opera vengono toccati un po’ tutti gli argomenti degli insegnamenti del Buddha, con il probabile scopo di creare un testo utile alla diffusione del buddhismo, fors’anche nella stessa Grecia. Alla fine del VII libro dell’opera si legge che Milinda, dopo i lunghi colloqui con Nagasena, “cessò dall’aver dubbio alcuno nelle Tre Gemme”(6), “divenne pieno di fiducia e libero di brame e tutto il suo orgoglio e presunzione lasciarono il suo cuore” e si dedicò ad una sincera pratica del Dharma del Buddha. Lasciò il regno al figlio e “abbandonando la vita sotto un tetto per una condizione senza tetto, divenne grande in introspezione e raggiunse lo stato di arhat”(7). Non è possibile stabilire se la conversione di Menandro sia un fatto storico, ma è certo che il testo dimostra il profondo interesse del re greco, forse anche dettato da un calcolo politico, per le tradizioni religiose dei suoi sudditi indiani.
Le influenze reciprocamente esercitate dalle culture greca e indiana nei sei secoli prima dell’Era Volgare sono documentate in vari campi. Si sono visti esempi negli ambiti filosofici e spirituali. In campo artistico, è probabile che l’influsso ellenistico abbia contribuito in maniera determinante allo sviluppo dell’arte buddhista (per quanto questa definizione possa valere). Alle origini, il Buddha non venne mai raffigurato: sarebbe stato un condizionamento, una riduzione dell’essenza del suo insegnamento, la vacuità, e quindi il non-dicibile, a ciò che è visibile, ad un mero concetto, ad una nozione rappresentabile. La presenza del Buddha nelle opere d’arte era solo suggerita da simboli: un seggio vuoto, un ombrello regale, un reliquiario… Sotto l’influenza dei canoni dell’estetica greca, vennero invece create le prime raffigurazioni antropomorfiche del Buddha, soprattutto nella postura in piedi. Osservandole ancora oggi, non è possibile non andare col pensiero alle immagini classiche delle divinità greche, soprattutto alle figure apollinee con i fini drappeggi dei manti.

Eracle/Vajrapani
Eracle/Vajrapani protegge il Buddha
Un interessante caso di fusione tra elementi delle due culture è quello, attestato anche in un famoso bassorilievo, tra la figura del semidio greco (e poi romano) Eracle e il bodhisattva Vajrapani, “colui che tiene il vajra” (8), uno dei protettori del Buddha, di cui rappresenta la potenza.Nel bassorilievo, Vajrapani è raffigurato nudo, muscoloso, con le tipiche fattezze di Eracle. Ed il vajra nelle sue mani diviene un tozzo bastone, che rinvia alla famosa clava del semidio greco.
Secondo certe tradizioni, infatti, Eracle si era recato in India, dove aveva avuto molti figli maschi ed una figlia, Pandea. Ne parla lo scrittore Lucio Flavio Arriano (nato nel 95 d.C.) nella sua opera India (Indiké), dove dice che la popolazione indiana dei Sibi sosteneva di discendere dai soldati superstiti della spedizione di Eracle, ed infatti la loro tipica arma era la clava. In India Eracle scoprì anche un nuovo ornamento, la margherita marina, ovvero l’ostrica perlifera, la cui pesca è ancora oggi fiorente lungo le coste indiane.

Dioniso/Śiva

Come Eracle, anche il dio Dioniso si dice abbia compiuto, prima di Alessandro, una spedizione in India, della quale parla Arriano. Ivi egli fondò città e diede loro delle leggi; fece dono agli Indiani del vino, come aveva fatto con i Greci; insegnò a seminare e ad arare la terra con i buoi.
Dioniso
  “Insegnò loro a venerare diversi dèi e in particolare lui stesso suonando cembali e timpani; fece loro imparare la danza dei Satiri”, il kordax (9); mostrò come farsi crescere i capelli in onore della divinità…
Dioniso (Bacco per i Romani, ma anche Liber Pater) era il dio al centro del culto chiamato Orfismo (da Orfeo, sacerdote del culto stesso). Non era una divinità originaria della Grecia, bensì della Tracia (tra le attuali Grecia, Bulgaria e Turchia Europea). Era quindi estraneo al pantheon dell’aristocrazia greca, ma molto più vicino alle classi popolari, e alla loro spinta democratica e libertaria.
Caratteristica centrale dell’Orfismo è la concezione della necessità per l’uomo di trasmigrare da un corpo ad un altro (non necessariamente umano), fino a raggiungere la perfezione spirituale. Il corpo è una sorta di prigione in cui l’anima è racchiusa a causa delle sue colpe, ma è anche ciò che le permette di evolversi. La via della salvezza non consiste in una astratta contemplazione del divino, ma negli slanci frenetici, fisici e spirituali, che preparano l’unione effettiva col dio. L’Orfismo ha addolcito gli aspetti più estremi di altre forme del culto dionisiaco, ha sostituito le danze orgiastiche (il kordax), l’uso rituale del vino e della carne, con offerte vegetali e di incenso, e con danze e canti liturgici.
Ma tutti questi aspetti, più o meno estremi, del culto dionisiaco (che sono anche alla base delle concezioni pitagoriche), hanno permesso ad alcuni studiosi di collegare la figura di Dioniso a quella del dio indiano Śiva e al culto śivaita, fino a far parlare di Dioniso come di uno Śiva occidentale.
Shiva/Pashupati
Sono déi accomunati da infiniti elementi: le sembianze fisiche, i capelli lunghi, l’abbigliamento “selvaggio” o la stessa nudità, l’uso rituale di sostanze inebrianti, il vino o il soma (10), e di carni; l’utilizzo di strumenti musicali, soprattutto a percussione, per raggiungere stati di trance mistica; e, non ultima, una sessualità vissuta con finalità di ordine spirituale, argomento che necessiterebbe di una trattazione a se stante. Dioniso e Śiva rappresentano le energie naturali, sono déi della natura: mostrano all’uomo i metodi per conoscere se stesso (Śiva è il Signore dello Yoga) e per comunicare con tutti gli esseri viventi: gli animali, anche i più feroci, ascoltavano rapiti e pacificati la musica del sacerdote dionisiaco Orfeo, e Śiva è anche Paśupati, Signore degli animali.
Dioniso, si è detto, ha insegnato agli Indiani la danza sacra dei Satiri che porta all’unione col dio. E Śiva è anche Nataraja, il Signore della danza, manifestazione dell’energia ritmica primordiale da cui Tutto ha origine.

Molti secoli dopo, il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900) scriverà: “Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare”.

Testi e siti Internet citati e /o consultati

Danielou, Storia dell’India, Ed. Ubaldini
Danielou, Śiva e Dioniso, Ed. Ubaldini
Stutley, Dizionario dell’Induismo, Ed. Ubaldini
Batchelor, Il risveglio dell’Occidente, Ed. Ubaldini
Abbagnano, Storia della filosofia, Ed. UTET
Severino (a cura di), Filosofia, Ed. Curcio
Kipling, L’uomo che volle essere re, Ed. Sellerio
Cornu, Dizionario del Buddhismo, Ed. Bruno Mondadori
Cagnola (a cura di), Dialoghi del Re Milinda, Ed. Phoenix (3 voll.)
Arriano, L’India, Ed. BUR
Omodeo Salè, Breve storia dell’arte indiana, Ed. Martello
Grant – Hazel, Dizionario della mitologia classica, Ed.SugarCo

http://www.canonepali.net/mn/mn_93.htm (voce: Assalayana Sutta)

http://it.wikipedia.org (voci: Vajrapani, Orfismo, Dioniso, Regno indo-greco, Alessandro)

Note
1) I Purana sono antichissime raccolte di testi della letteratura indiana successiva ai Veda. In essi sono trattati argomenti quali la creazione e la distruzione degli universi, le genealogie divine, le storie delle dinastie regali, le arti militari, la medicina, la geografia.. I Purana sono divisi in varie categorie: Brahma P., Visnu P., Garuda P., Shiva P. ecc. – Ebbero la funzione di far pervenire gli insegnamenti anche alle categorie sociali “inferiori” e alle donne.
2) Appartenente alla prima delle quattro caste tradizionali, quella sacerdotale (della quale possono far parte anche laici che svolgono attività non sacerdotali).
3) Dal greco skepsis, che significa critica, investigazione, ed anche dubbio, però in senso positivo, il dubbio che non blocca, ma spinge alla ricerca.
4) Il bodhisattva (= “essere dell’Illuminazione”) è colui che rinuncia per la sua grande compassione ad entrare nel nirvana, al fine di aiutare tutti gli esseri a raggiungere con lui il Risveglio.
5) A queste tradizioni, che si è visto essere solo in parte leggendarie, si ispirò Rudyard Kipling per il suo romanzo breve “L’uomo che volle essere re” del 1888, da cui John Huston trasse il film “L’uomo che volle farsi re” (1975) con Sean Connery e Michael Caine.
6) Il Buddha, il Dharma (gli insegnamenti), il Sangha (la comunità dei praticanti).
7) Colui che, emancipato da tutte le contaminazioni delle passioni, alla morte entra nel nirvana, liberato dall’esistenza ciclica, il samsara. La via dell’arhat si distingue da quella del bodhisattva per la compassione di quest’ultimo, che dedica agli altri esseri la propria pratica.
8) Il vajra (= “fulmine”, o “diamante”) rappresenta i mezzi abili, ed è accompagnato dalla campana, simbolo della vacuità. Il buddhismo tantrico è detto anche Vajrayana, la Via del vajra.
9) I Satiri erano geni dei monti e dei boschi, che accompagnavano le Ménadi, le seguaci di Dioniso, nelle feste. Rappresentavano gli aspetti più licenziosi del comportamento umano, e vennero raffigurati anche con zampe di cavallo, code e piccole corna sulla fronte.
10) Soma è il nome di una pianta (non meglio identificata) e del suo succo, utilizzato ritualmente come inebriante o forse come vero e proprio allucinogeno durante alcuni tipi di cerimonie.


m. mauro ton ko, ottobre 2010

venerdì 19 ottobre 2012

Perchè Bodhidharma è partito per Hollywood? - 2 - Passaggio in India

Londra/Bombay e ritorno: come perdere la testa (e l’Impero): “Passaggio in India” da E.M. Forster a David Lean

Se James Hilton, l’autore di “Orizzonte Perduto”, aveva collaborato alla sceneggiatura dell’omonimo film di Frank Capra, Edward Morgan Forster (1879-1970), autore di “Passaggio in India” (pubblicato nel 1924), aveva al contrario proibito che il suo capolavoro venisse portato sullo schermo. E questo fu possibile infatti solo dopo la sua morte (avvenuta nel 1970), ad opera di un maestro del cinema inglese, David Lean, nel 1984, 60 anni dopo la pubblicazione del romanzo. Una coincidenza unisce i due autori: per Forster “Passaggio in India” fu l’ultimo romanzo che scrisse, e per Lean fu l’ultimo film che girò.
David Lean (1908-1991) è noto al grande pubblico come autore di film “kolossal”, ai quali in realtà si dedicò solo dalla fine degli anni ’50: “Il ponte sul fiume Kwai” (1957), “Lawrence d’Arabia” (1962), “Il dottor Zivago” (1966). Anche nel suo ultimo film l’elemento spettacolare non fa difetto, aiutato in questo dai vasti paesaggi indiani, ottimamente fotografati da Ernest Day.
Ma pur riuscendo “a far contento chi predilige il grande spettacolo in cui dramma e mistero, sesso e avventura sono confezionati a regola d’arte” (1), Lean non ha tradito lo spirito del romanzo di Forster, evidenziandone i temi portanti attraverso le immagini, le inquadrature, i dialoghi, la stessa scelta degli attori.

Il dr. Aziz, il prof. Godhbole e Adela Quested 

Su un punto Lean si è discostato nettamente da Forster: alla fine del romanzo “qualcosa” (i cavalli, la terra, il lago, i templi, gli uccelli..) impedisce che Aziz e Fielding (India e Inghilterra, Oriente e Occidente) si abbraccino: “Non volevano, dissero con le loro cento voci: ‘No, non ancora’, e il cielo disse: ‘No, non qui’” (2). Nel film l’abbraccio avviene (ah, l’happy end!). Forse perché dal libro al film sono passati 60 anni? O perché l’India si era ormai liberata dall’Inghilterra, e l’Inghilterra dall’India? O forse perché Lean, fedele suddito di Sua Maestà, non voleva calcare troppo la mano su una eredità politica ingombrante, quella dell’imperialismo?
Quest’ultima interpretazione è invero avvalorata dalle sequenze del processo contro Aziz, il cui giudice è un indiano rispettato da tutte le parti in causa. Lean sembra voler dire che il colonialismo inglese ha comunque portato qualcosa di positivo nell’arretrata India, il diritto (dimenticando che l’India possedeva raccolte di leggi – il Dharmaśāstra – basate sui millenari insegnamenti dei Veda e quindi ben più antiche dei codici inglesi).
Il tema centrale dell’opera di Forster, magistralmente trasposto in immagini da Lean, è quello dello scontro, “del conflitto tra autenticità e convenzione, natura e civiltà, vita e cultura” (3). Ed esso è presente in tutti i suoi romanzi, da “Casa Howard” a “Camera con vista” a “Maurice” (tutti portati sullo schermo da James Ivory). In “Passaggio in India” il conflitto si svolge tra la cultura (in senso vasto) degli Inglesi, che occupano il sub-continente ormai da moltissimi decenni, e quella degli Indiani, trattati come servi e vilipesi nei loro diritti più elementari e nelle loro tradizioni. E vi è conflitto profondo anche tra la cultura hindu e quella musulmana, anche se questo aspetto è molto più evidente nel romanzo che nel film.
Era una situazione che Forster aveva avuto modo di conoscere in prima persona, in quanto aveva trascorso nello stato indiano di Dewas (nel Madhya Pradesh) due periodi della sua vita, nel 1912-13 e nel 1921 (nel ’21 come segretario privato del Rajah). Forster descrive lucidamente lo scontro tra le due culture, rivolgendo uno sguardo severo verso i suoi compatrioti. Il conflitto si esprime in ogni occasione, sia durante i momenti più critici della vicenda (dall’arresto di Aziz in poi), sia in quelli apparentemente più “sereni”: la vita di società, gli incontri al Circolo…(4)
E’ inevitabile pensare qui ad un altro grande scrittore inglese, nato però in India, Rudyard Kipling (5), un cui famoso verso è citato nel film: “L’Est è l’Est, l’Ovest è l’Ovest, e non si incontreranno mai”.
Ma il conflitto tra i due popoli non poteva avere, storicamente, che un esito: la fine dell’impero inglese e l’indipendenza dell’India (al prezzo della sanguinosa spartizione tra India e Pakistan). E questo, negli anni in cui il libro fu scritto, era già chiaro a molti. Era solo questione di tempo (6).
Richard Fielding

Anche i rapporti tra i singoli individui che interagiscono nel romanzo e nel film vengono messi in crisi dal conflitto che li attraversa. Il legame che unisce Aziz e Fielding ne è vittima, e, nell’opera letteraria in particolare, proprio dopo il processo non si ricompone più totalmente – o forse, diventa definitivamente palese l’impossibilità stessa del rapporto…
Ugualmente profonda è la spaccatura che interviene tra Fielding e la comunità inglese, splendidamente portata sullo schermo nelle sequenze all’interno del Circolo, dopo l’arresto di Aziz (anche se da subito il rapporto tra Fielding e i suoi compatrioti è un perfetto esempio del conflitto tra autenticità e convenzioni che spesso Forster descrive nelle sue opere).
Per non parlare della (ovvia) rottura dei rapporti tra Adela e il promesso sposo Ronny Heaslop (e, si può dire, con l’intero mondo anglo-indiano), dopo l’assoluzione di Aziz.
Il tema del conflitto è poi presente nelle singole persone, le attraversa secondo diverse modalità. La giovane Adela Quested (7) viene letteralmente travolta dal clima sensuale, magico, dell’India, che fa emergere con violenza aspetti profondi della sua personalità.

Una delle grotte del Marabar

Esemplare è la scena – presente solo nel film – della visita al tempio in rovina, con le sculture erotiche da cui escono le scimmie, simbolo fin troppo evidente dell’irruzione di un Eros “selvaggio”, non contenibile, in una personalità abbastanza aperta, ma pur sempre proveniente da una società repressa e formalista.
Nessuno di coloro che entra nelle grotte del Marabar ne esce rimanendo eguale a se stesso. Mrs. Moore, l’anziana e saggia signora che, alla partenza, Godhbole saluta con il gesto che si riserva alle “Grandi Anime” (Mahatma), non riuscirà a tornare in Inghilterra, ma morirà sulla nave durante il viaggio di ritorno.
Aziz, poi, passa dalla ricerca di un rapporto non-conflittuale con il mondo inglese, che ammira e vorrebbe imitare, ad una progressiva presa di coscienza, attraverso la rottura dei legami con Adela e Fielding, che lo rende consapevole della “differenza” che separa Inglesi e Indiani, e della conseguente impossibilità di una ricomposizione (individuale e collettiva) del conflitto. Solo tra Aziz e Mrs. Moore non c’è rottura, ma forse perché la donna è ormai assente dalla scena, e Aziz può soltanto rapportarsi con una immagine, un ricordo. Con un nome, trasfigurato infine in uno slogan (8) e urlato come se fosse l’appellativo di una divinità hindu: “Esmiss Esmoor, Esmiss Esmoor...”, da uomini che non sanno nulla di lei.

Il black hole di Marabar


Lo spettatore, alla fine del film, esce dalla sala, ritorna alla luce. Il lettore chiude il libro, esce dalle sue pagine. Ma è davvero possibile uscire dalle grotte di Marabar? (9).
Un “buco nero” (black hole), spiega lo scienziato Stephen Hawking, è una regione dello spazio con un campo gravitazionale talmente intenso da attrarre al proprio interno persino la luce: “si ha dunque un insieme di eventi, una regione dello spazio-tempo, da cui non è possibile sfuggire per raggiungere un osservatore lontano” (10).

Adela Quested e Mrs. Moore
E le grotte di Marabar paiono essere un black hole del senso: che cosa è accaduto nel loro interno ad Adela, ad Aziz, a Mrs. Moore? Il romanzo non lo dice, il film non lo rivela. Nulla esce dalle viscere del Marabar: la luce ne è inghiottita, i suoni rimbalzano sulle pareti e nella mente dei visitatori (11). E la loro eco seguirà Adela per molto tempo, fino alla fine del processo.
Chi fuoriesce dalle grotte non è più la stessa persona che vi è penetrata. Aziz ha aggredito Adela? E’ stato un altro uomo a farlo? Adela ha sognato l’aggressione, o ha condiviso con Aziz una sorta di allucinazione? Non ci viene detto, eppure è un evento che segna indelebilmente le loro esistenze e la vita di tutta la comunità di Chandrapore (12).
Una risposta la diede Forster: “Se lo dico [cosa avvenne nella grotta] diventa, qualsiasi sia la risposta, un libro differente”.
La risposta non è quindi possibile, o quantomeno appartiene ad un’altra dimensione, che non è quella del libro. Qualsiasi cosa sia avvenuta, non potrebbe più avvenire di fronte ad un lettore o ad uno spettatore, sarebbe un’altra cosa.
Nella meccanica quantistica (13) si parla del principio di indeterminazione di Heisemberg: “non è possibile conoscere simultaneamente posizione e quantità di moto di un dato oggetto con precisione arbitraria”. Quanto più è precisa la misura, tanto più essa è invasiva e disturba il fenomeno da osservare. Quanto più riuscissimo ad avvicinarci e addentrarci nelle grotte, quanto meno ciò che vi è accaduto potrebbe accadere. E di conseguenza perderemmo per sempre il romanzo e il film…

Come uscire dalla grotta. Istruzioni pratiche


Uno dei più famosi koan (14) della scuola Zen Rinzai propone un quesito, apparentemente insolubile, che pare richiamare la domanda posta dal romanzo e dal film, relativa a cosa può essere accaduto nelle grotte.
Nel koan, viene chiesto come far uscire un’oca, rinchiusa in una bottiglia, senza farle del male e senza rompere la bottiglia.
Per chi ama le scorciatoie e ritiene non consono per un Occidentale sedere a lungo su un cuscino a gambe incrociate, la risposta può essere rinvenuta in un racconto, anch’esso della tradizione Zen.
Un giorno il Maestro Dogo e il suo discepolo Zengen si recarono presso una famiglia che piangeva un congiunto appena defunto. Il discepolo si avvicinò alla bara e chiese al Maestro: “Quest’uomo è vivo o morto?” Dogo rispose: “Non dico che è vivo, non dico che è morto”. Il discepolo insistette: “Perché non volete dire l’una o l’altra cosa?”. E il Maestro, ancora: “Non dico che è vivo, non dico che è morto”. Al ritorno al tempio, Zengen, turbato, ripropose la richiesta: “Se non me lo dite, non rispondo di me stesso!”. “Fai ciò che vuoi – replicò Dogo – ma non lo dirò”. Il discepolo, allora, lo colpì.
Anni dopo, Dogo morì, e Zengen si recò in visita da Sekiso, un altro famoso Maestro, a cui raccontò quanto era accaduto, per poi chiedergli: “Quell’uomo era vivo o morto?”. Sekiso rispose: “Non dico che è vivo, non dico che è morto”. E Zengen: “Perché non volete dirlo?”. “Non dico che è vivo, non dico che è morto”. A quel punto Zengen conseguì il Risveglio. Poco dopo, Sekiso lo vide camminare su è giù nella sala del monastero, con una vanga sulle spalle. Gli chiese cosa stesse facendo, e Zengen gli rispose: “Sto cercando le reliquie del mio vecchio Maestro”. Sekiso disse allora: “C’è un grande fiume con immense onde che riempiono l’intero universo. Le reliquie del tuo Maestro non saranno trovate in nessun posto” (15).
Chiedersi cosa sia accaduto nelle grotte di Marabar tra Aziz e Adela, è davvero questa la domanda giusta per capire “Passaggio in India?”.

Note
1) G. Grazzini, in Corriere della Sera, 29 settembre 1985.
2) E.M. Forster, Passaggio in India, Ed. Oscar Mondadori, pag. 341.
3) Dall’Introduzione a E.M. Forster, Passaggio.., pag. VII.
4) “Forse un invito [al bridge party] può venire solo dal cielo; forse è inutile che gli uomini si diano da fare per unirsi: quel tentativo non può che allargare l’abisso tra di loro”. In: Passaggio.., pag. 37.
5) 1865-1936, autore di “Kim”, “I libri della jungla”, “L’uomo che volle essere re”, nonché di numerosi racconti e poemi.
6) Anche se si può certamente dire, col senno di poi, che in India (o in Cina, o in qualsiasi ex colonia) veramente vincente fu il modello culturale, sociale, economico allora rappresentato dall’Inghilterra o, in genere, dalle grandi potenze del capitalismo. La perdente fu l’India dei villaggi, l’India di Gandhi.
7) Il cognome di Adela, Quested, richiama alla mente il termine inglese “quest”, ricerca, che è usato sia in contesti letterari (es. la Ricerca del Santo Graal), sia in ambito cinematografico, nel senso della scelta del film da vedere, e di tutto ciò che ne segue: la preparazione (la “vestizione” del Cavaliere), l’uscita da casa (dal castello), il viaggio, l’entrata nel buio… Un caso? Nulla, nel cinema (e nelle culture tradizionali), avviene mai per caso…
8) Infatti la parola “slogan”, di origine nord-europea, significava proprio “grido di battaglia”.
9) Le grotte di Marabar (il cui vero nome è Barabar) esistono realmente, nei pressi della città di Gaya, nel cuore della regione in cui il Buddha nacque, conseguì il Risveglio e insegnò la Via. Esse risalgono a 2300 anni fa, quando vennero scavate e levigate, e utilizzate come luoghi di ritiro dagli eremiti della tradizione Jaina.
10) S. Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri, Ed. BUR, pag 120 e segg.
11) “…una grotta di Marabar non ode altro suono che il proprio”, in “Passaggio..” pag.163.
12) Chandra, in sanscrito, è la luna, la cui immagine compare sovente nel romanzo e nel film, soprattutto collegata alla figura di Mrs. Moore. Nell’iconografia buddhista la luna rappresenta il Risveglio, l’Illuminazione.
13) “La meccanica quantistica è una teoria che si e' sviluppata nella prima metà del XX secolo, per supplire all'inadeguatezza della meccanica classica nello spiegare determinati fenomeni fisici. Essa si distingue dalla meccanica classica in quanto si limita ad esprimere la probabilità di ottenere un dato risultato da una certa misurazione. Questa condizione di indeterminismo non è dovuta a una conoscenza incompleta dello stato in cui si trova il sistema fisico osservato, ma è da considerarsi una caratteristica intrinseca del sistema".
Da: http://it.wikipedia.org, alla voce Meccanica quantistica.
14) Frasi, storie, dialoghi, citazioni dai sutra, che vengono proposte in forma di problema ai discepoli dello Zen, soprattutto della scuola Rinzai, con la richiesta di trovarne la soluzione basandosi esclusivamente sulle proprie esperienze meditative.
15) Tratto da Ph. Kapleau, La nascita dello Zen in Occidente, Ed. Ubaldini, pagg. 79-80.



m. mauro tonko, dicembre 2008