lunedì 4 aprile 2022

Rileggere Pinocchio - Fiaba per Burattini o Discesa agli Inferi? - V parte

 Dal vegetale all’animale – Melampo – Il Ciuchino

 Poi il burattino ritorna a correre, ha esaurito la sua realtà vegetale e prosegue il suo percorso evolutivo entrando nel mondo dell’animalità.

Per prima cosa, facendo la guardia alle faine per un contadino, al posto del cane Melampo, morto da alcuni giorni.

Melampo, ovvero un personaggio della mitologia greca il cui nome significa “dal piede nero”: fu un grande veggente, capostipite di una dinastia di indovini, guaritore, possedeva il potere di comprendere il linguaggio degli animali.

Se qui Pinocchio interpreta il ruolo di un animale (e lo fa con coscienza e diligenza, rifiutando il compromesso), nel proseguimento della narrazione diventerà egli stesso un animale, un ciuchino, quale conseguenza della sua scelta di cedere alla seconda, definitiva tentazione: vivere per sempre nel Paese dei Balocchi, dove l’intera esistenza rappresenta il compimento del progetto, delle promesse contenute nella prima tentazione, la moltiplicazione delle risorse (le monete). E, particolare da non trascurare, Pinocchio-ciuchino rimarrà azzoppato durante il tentativo di saltare nel cerchio, durante uno spettacolo circense…

L’origine mitico-letteraria della narrazione delle avventure del burattino-asino è molto antica, si trova nella cultura latina, nel romanzo in XI libri intitolato Le Metamorfosi ma più conosciuto come L’asino d’oro. Ne fu autore Lucio Apuleio, scrittore e filosofo del II secolo d.C., originario dell’Africa del Nord, fortemente influenzato dalle scuole di pensiero mistiche ed esoteriche greche e studioso di rituali magici e misterici.


 Apuleio subì anche un processo per magia, con l’accusa di aver sedotto con incantesimi una ricca vedova che aveva sposato e di praticare costantemente la magia. Rischiò la pena di morte, ma venne assolto grazie alla sua stessa autodifesa, pubblicata col titolo di Apologia o Pro se de magia.

 Nel romanzo (autobiografico) di Apuleio, il protagonista Lucio si reca in Tessaglia e trova ospitalità presso Milone, la cui moglie Panfila è una maga. Lì conquista il favore della servetta Fotide e la convince a farlo assistere a qualche incantesimo della padrona.
Lucio vede Panfila per virtù di un unguento trasformarsi in gufo e chiede di potersi trasformare in gufo anche lui. Ma Fotide sbaglia unguento e Lucio diventa asino, pur conservando sentimenti e coscienza umani. Apprende che riacquisterà forma umana solo mangiando un cespo di rose.

Rapito però durante la notte da alcuni briganti entrati in casa di Milone, Lucio è condotto nella loro caverna, dove si trova in ostaggio una fanciulla, alla quale per distrarla una vecchia racconta la favola di Amore e Psiche (un re e una regina avevano tre figlie. Della bellissima Psiche s'innamora Amore che la fa condurre da Zefiro nel suo palazzo. Ogni notte, al buio per non essere visto, il dio va a trovarla. Psiche non resiste alla curiosità e con una lucerna illumina il volto di Amore, che fugge. Psiche tenta in ogni modo di riaverlo, finché Amore le viene in aiuto e ottiene per lei da Giove l'immortalità). Sconfitti i briganti dal fidanzato della fanciulla, Lucio cambia molti padroni, affronta molte disavventure e pericoli, è testimone dei più abietti vizi umani.

Alla fine, nel corso di una cerimonia dedicata alla dea Iside mangia le rose che adornano il sistro di un sacerdote, riprendendo così forma umana. In segno di riconoscenza si consacra devotamente alla dea, entrando nel ristretto numero di adepti al culto dei misteri isiaci.

Dal punto di vista di una lettura “orizzontale”, il romanzo di Apuleio rientra nel genere erotico-satirico, ma, come lo stesso Apuleio invita a fare, esso possiede (come Pinocchio) anche un profondo significato simbolico-allegorico: è la storia di un’anima, del suo cammino evolutivo. Lo dimostra in particolare l’epilogo, il libro XI, nel quale Lucio si risveglia, in un meraviglioso notturno, e rivolge una preghiera alla luna, che riconosce come presenza divina a cui chiedere la salvezza ritornando umano o la morte. Dopo la preghiera gli si fa incontro qualcosa, in un modo misterioso per cui non riusciamo a capire se si tratta di un sogno o una visione o qualche cosa che vede da sveglio. E’ la dea Iside, figura assolutamente centrale del pantheon egizio, figlia del cielo e della terra, madre di Horus, sposa e sorella di Osiride, sorella altresì di Seth, il dio dalla testa di asino. Dea della magia e della saggezza, simbolo dell’eterno femminile e della maternità, Iside (o Isis) divenne oggetto di culti misterici ed iniziatici per vari secoli anche al di fuori dell’Egitto, nel mondo greco e latino. Alla sua figura si ispirano tuttora varie correnti dell’esoterismo (nel Flauto Magico di Mozart Sarastro / Zoroastro è un sacerdote di Iside).

Per tre volte Lucio, tornato in forma umana, è iniziato al culto isiaco, poi la vicenda si sposta dalla Grecia a Roma dove Lucio vive esercitando il mestiere del foro, grazie alle sue abilità di retore.

Non a caso quindi E. Zolla identifica esplicitamente la Fatina di Collodi con la dea Iside di Apuleio. E il sogno finale di Pinocchio è dunque il sogno/visione di Lucio, presagi entrambi di redenzione e salvezza.

 La Caprettina turchina

 Il ritorno di Pinocchio dalla sua forma asinina a quella di burattino precede un suo strano ma significativo e determinante incontro con la Fata turchina. Strano, in quanto molto breve. Ma soprattutto strano perché la Fata ha assunto qui l’aspetto di una bella Caprettina dal vello color turchino sfolgorante, che rammentava moltissimo i capelli della bella Bambina.

Un incontro importante, che avviene dopo un rovesciamento dei rispettivi aspetti in cui la Fata e Pinocchio si manifestano: quando Pinocchio è nella sua veste animale, la Fata appare in forma di donna (che assiste allo spettacolo nel circo); quando Pinocchio è tornato burattino, ella si manifesta in forma di animale.

L’incontro è apparentemente inutile, la Fata non riesce infatti a salvare Pinocchio dalle fauci del Pesce-cane. Ma proprio nel fallimento consiste la sua rilevanza nell’economia del racconto, in quanto esso fa sì che Pinocchio e il suo creatore-padre possano finalmente ricongiungersi.

Nel Capitolo XXXIV Collodi ci dice esplicitamente che la Caprettina è la Fata dai capelli turchini. Una delle manifestazioni di quella “femminilità eterna, epurata d'ogni traccia temporale” (morta, nelle parole di Collodi) di cui parla Elémire Zolla.

Ma perché una capra?

Zolla spiega che la capra è un animale simbolico centrale nella cultura tradizionale indiana. Il protagonista di uno dei più importanti riti sacrificali del mondo induista, ashvameda, era il cavallo, ma il capro, aja, era associato al cavallo nel rito, in quanto lo precedeva, lo guidava verso l’altro mondo.

Il termine sanscrito aja ha molteplici significati in sanscrito, la sua radice indoeuropea è la stessa del latino agere: “pascere, guidare”; indica l'avanzare d’una squadra e il capo che la sospinge.

A-ja (con l’alfa privativo) è anche il non-nato, il non (ancora) manifestato, ciò che esiste prima della manifestazione. Al di fuori del tempo, come il femminile che la Fata rappresenta, eterno, a-temporale.

Ciò che non nasce non è soggetto a morte: la Bambina appare per la prima volta nel testo come morta, poi veniamo a sapere che giace, morta di dolore, sotto ad una pietra di marmo, poi come Caprettina si trova in cima ad uno scoglio che pareva di marmo bianco (come le lapidi), e successivamente la sappiamo gravemente ammalata in un fondo di letto allo spedale!...

  Ma si è già visto “che la Bambina dai capelli turchini non era altro, in fin dei conti, che una buonissima Fata, che da più di mill’anni abitava nelle vicinanze di quel bosco” (Il Grillo Parlante, si rammenterà, abitava nella casa di Geppetto da più di cent’anni – nulla, rispetto alla Fata).

Mille anni, numero simbolico che indica un tempo senza inizio e senza fine, l’eternità, appunto. Ciò che perennemente si trasforma sono le modalità del suo manifestarsi.

In quanto Capretta ritta su uno scoglio in mezzo al mare rinvia immediatamente all’immagine simbolica della capra più nota in Occidente, il segno zodiacale del Capricorno, metà capra e metà pesce, come Ea, il Signore degli abissi nel pantheon babilonese. Il suo inizio coincide con il solstizio d’inverno, con la nascita di Cristo e del Sole (Sol Invictus). Simbolicamente rappresenta l’uscita dalla manifestazione (ciò che è comunemente detto morte) e l’entrata negli stati superiori dell’Essere. È la “porta degli dei” che si apre dal mondo del visibile a quello dell’invisibile, al cammino potenzialmente ultimo ed irreversibile verso il divino, la liberazione, la salvezza. L’ascesa dall’abisso (il mare) alla sommità (lo scoglio, la montagna).

Per questo la Fatina si manifesterà ancora una volta a Pinocchio, in sogno, in una dimensione al di fuori del tempo e dello spazio ordinario, come era apparsa Iside a Lucio nell’Asino d’oro, per condurlo alla sua rinascita dal ventre-caverna del Pesce-cane allo stato superiore di ragazzino perbene.

 Il ventre del Pesce-cane e la Caverna

 Subito dopo l’incontro con la Capra, avviene quello con l’altra metà del segno zodiacale che apre la porta degli dei, il Pesce. Sotto le sembianze di un Pesce-cane, e non, come solitamente si dice, di una balena.

“E Pinocchio a nuotar più lesto che mai, e via, e via, e via, come andrebbe una palla di fucile. E già era presso lo scoglio, e già la Caprettina, spenzolandosi tutta sul mare, gli porgeva le sue zampine davanti per aiutarlo a uscire dall’acqua!

Ma oramai era tardi! Il mostro lo aveva raggiunto: il mostro, tirando il fiato a sé, si bevve il povero burattino, come avrebbe bevuto un uovo di gallina: e lo inghiottì con tanta violenza e con tanta avidità, che Pinocchio, cascando giù in corpo al Pesce-cane, batté un colpo così screanzato, da restarne sbalordito per un quarto d’ora.”

Il Pesce, uno dei simboli più importanti nelle diverse tradizioni, da quella indiana (Vishnu come Matsyu, il pesce-salvatore che spiega all’uomo come costruire un’arca per sopravvivere al diluvio universale) a quella cristiana, dove il Cristo stesso è ichthys, (Iēsous Christos, Theou Yios, Sōtēr), Gesù Cristo, Figlio di Dio, il Salvatore. Il Pesce, indissolubilmente connesso alle acque, luogo insieme simbolico e materiale di origine e di gestazione.

La vicenda di Pinocchio inghiottito dal pesce ha origine nel mondo giudaico-cristiano, in particolare nel libro vetero-testamentario del profeta Giona, scritto intorno al V-IV sec. a.C. La storia è nota: il Signore comanda a Giona di andare a predicare a Ninive. Giona invece fugge a Tarsis su una nave che durante il viaggio è investita da un temporale e rischia di colare a picco per la violenza delle onde. Giona allora ritrova improvvisamente il proprio coraggio e svela ai compagni di viaggio che la colpa dell'ira divina è sua, poiché ha rifiutato di obbedire al Signore. Così Giona è gettato in mare, ma un "grande pesce" (il testo greco usa il termine ketos, mostro marino, da cui cetaceo) lo inghiotte. Dal ventre del pesce, dove rimane tre giorni e tre notti, Giona rivolge a Dio un'intensa preghiera. Allora, dietro comando divino, il pesce vomita Giona sulla spiaggia. Quindi Giona ottempera la sua missione e va a predicare ai niniviti, i quali gli credono e si salvano.

La vicenda di Giona è altresì citata nel N.T., in Matteo 12,40 (Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così il Figlio dell'uomo starà nel cuore della terra tre giorni e tre notti) e in Luca 11,29, dove è vista come un segno profetico della Resurrezione di Gesù.

C.G. Jung, nel suo testo sui “Simboli della trasformazione” riporta un paio di esempi dai quali si comprende come la mistica ebraica abbia interpretato la vicenda di Giona: “Allorché Giona fu ingoiato dalla balena, non si trovò semplicemente imprigionato nel ventre del mostro, ma (..) vide "straordinari misteri". Quest'opinione deriva probabilmente dal Rabbi Eliezer, ove è detto: [Giona] penetrò nella sua bocca come un uomo penetra in una grande sinagoga e si arresta. I due occhi del pesce erano come due lucernari che davano luce a Giona. Rabbi Meir disse: "Una perla era sospesa nelle viscere del pesce dando luce a Giona come il sole a mezzogiorno, consentendogli di vedere tutto quello che c'era nel mare e negli abissi."

Secondo Jung, che a sua volta rilegge in chiave psicanalitica il mito di Giona e le parole dei maestri ebraici, “nelle tenebre dell'inconscio è nascosto un tesoro, quello stesso "tesoro difficile da raggiungere" che nel nostro testo, come anche in molti altri luoghi, viene descritto come perla luminosa”.

Per Jung, la parabola di Giona descrive l’inabissarsi “nei ricordi d'infanzia sfuggendo cosi al mondo del presente. Si cade apparentemente nelle tenebre più fitte, ma si hanno poi visioni inaspettate di un mondo ultraterreno. Il "mistero" che si percepisce rappresenta quel depo­sito d'immagini primordiali che ognuno porta con sé nel mondo sin dal momento della nascita, come retaggio insito nella propria condi­zione d'uomo, somma di forme innate che sono proprie degli istinti. A questa psiche "potenziale" (ha) dato il nome di inconscio collettivo”.

Dalle parole di Jung e dei maestri ebraici, laddove si parla di tesori e di perle, è facile comprendere come il simbolo del ventre del Pesce-cane, o della balena, o di altri esseri mitici (lupi, draghi, orchi) che ingoiano l’Eroe di turno, sia assimilabile al simbolo della Caverna. Così lo descrive il Dizionario guénoniano:

La Caverna occupa in tutte le tradizioni un posto impor­tante nell'immaginario simbolico e iniziatico; è pertanto normale in­contrarla negli episodi chiave della storia divina. Immagine della di­mora sotterranea, sinonimo di oscurità e di tenebre, essa è anche molto spesso il luogo della Rivela­zione, luogo santo, "Cuore del mondo" e "Centro" spirituale. La Caverna, luogo di sepoltura e di ri­nascita, esprime la matrice in cui si riassorbono e si rivelano le possibi­lità di manifestazione. A questo ri­guardo, oltre il suo legame ristretto e complementare con la montagna raffigurante l'Asse del Mondo, viene assimilata pure al ventre della balena, che, nella vicenda biblica della storia di Giona, svolge la stessa funzione”.

 Si vedano alcuni esempi del simbolismo della Caverna nelle tradizioni di epoche e culture diverse. Per primo, dal mondo greco antico, il mito della Caverna esposto da Platone nel libro VII della Repubblica (380 -370 a.C.):

 Immagina degli uomini chiusi in una dimora sotterranea a forma di caverna, il cui ingresso, aperto verso la luce, sia ampio quanto la caverna stessa; lì essi si trovano fin da fanciulli, con le gambe e il collo incatenati, sì, da non potersi muovere e da non poter guardare che davanti a sé. Dietro a loro, lontana, splende la luce di un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri, in alto, passa una strada, lungo la quale è costruito un muricciolo, simile ai sipari che i burattinai mettono tra sé e gli spettatori, e sopra i quali fanno vedere i loro burattini. Immagina ancora, lungo questo muricciolo, degli uomini che portino su di sé oggetti di ogni genere, che sporgano sopra il muro, e statue di uomini ed animali di pietra e di legno, d'ogni forma, e che alcuni parlino ed altri stiano zitti.

E prima di tutto, credi che essi, di sé e degli altri, vedano qualcosa oltre le ombre proiettate dal fuoco sulla parte della caverna che sta davanti a loro? E anche degli oggetti portati non vedranno che l'ombra. E allora, se potessero parlare tra loro, non pensi che riterrebbero cose reali le ombre che vedono? E se in questa prigione vi fosse un'eco che rimandasse le parole degli uomini che passano dietro il muricciolo, non pensi che le prenderebbero per parole dell'ombra che passa sul fondo? E d'altra parte, per loro l'unica realtà è quella delle ombre delle cose.

Pensa allora cosa succederebbe se fossero liberati dalle loro catene e guariti dalla loro ignoranza. Mettiamo che uno di loro fosse sciolto, e poi costretto ad alzarsi, a girare il collo, a camminare, a guardare verso la luce; e mettiamo che facendo tutto questo provasse dolore e a causa del bagliore non riuscisse a vedere le cose di cui prima vedeva le ombre: ebbene, se uno gli dicesse che fino ad allora ha visto solo ombre vane, ora invece, essendo più vicino alle cose più reali e rivolto verso di esse, vede con più esattezza, e gliele mostrasse ad una ad una chiedendogli di dire cosa è, cosa credi che risponderebbe? Non credi che cadrebbe in una grande incertezza e non riterrebbe più vere le cose che vedeva prima di quelle che gli mostrano? E se qualcuno lo costringesse a guardare la stessa luce, non pensi che gli farebbero male gli occhi e fuggirebbe indietro, verso le cose che riesce a guardare, e le riterrebbe davvero più chiare di quelle che gli vengono mostrate? E se qualcuno lo trascinasse per la salita aspra ed erta, e non lo lasciasse prima di averlo portato fuori alla luce, non credi che soffrirebbe, si ribellerebbe ad essere trascinato così, e una volta giunto in faccia al sole, con gli occhi pieni di bagliore, non riuscirebbe a vedere nemmeno una delle cose che diciamo vere?

Dovrebbe abituarsi, penso, se volesse vedere il mondo che sta fuori della caverna. E dapprima potrebbe vedere più facilmente le ombre, e poi le immagini degli uomini e delle altre cose riflesse nell'acqua, e alla fine le cose stesse. In seguito, alzando gli occhi alla luce degli astri e della luna, potrebbe vedere i corpi celesti e il cielo stesso, più facilmente che di giorno il sole e la sua luce. E per ultimo, credo, potrebbe vedere il sole, non l'immagine del sole nelle acque o in altri luoghi, ma il sole stesso, nel luogo in cui è, e contemplarlo quale esso è. Dopo di che, potrebbe trarre le debite conclusioni: che il sole produce le stagioni e gli anni, e governa tutto ciò che si trova nel mondo visibile, anzi è in qualche modo la causa anche delle cose che lui e i suoi compagni prima vedevano nella caverna.

 Il significato del mito è duplice, ma le due letture non sono in opposizione tra loro, anzi sono complementari: Esso può essere letto, infatti, sia in chiave ontologica, sia gnoseologica: è una teoria della conoscenza, ed è altresì la storia della salvezza dell’uomo attraverso la conoscenza del vero (il Bene, il Sole). Il percorso dal fondo della caverna all’uscita dalla stessa è una allegoria della Via che conduce alla cessazione dell’ignoranza, all’illuminazione, al Risveglio.

 Divagazioni sulle rive del Gange

 Ce lo insegna l’antica sapienza indiana:

Asato mā sadgamaya,            conducimi dal non-essere all’essere

tamaso mā jyotirgamaya,      conducimi dall’oscurità alla luce

mṛtyormā'mṛtaṃ gamaya      conducimi dalla morte alla non-morte

E’ ciò che si legge nella Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad.

 Dal mondo cristiano, ecco la grotta della Natività di Gesù di cui è detto nel Protovangelo di Giacomo, XVII - XVIII (nei testi canonici è citata solo una mangiatoia, in greco fatne, in Luca 2): Quando giunsero a metà strada, Maria gli disse: "Calami giù dall'asino, perché quello che è in me ha fretta di venire fuori". La calò giù dall'asino e le disse: "Dove posso condurti per mettere al riparo il tuo pudore? Il luogo, infatti, è deserto". Trovò quivi una grotta: ve la condusse, lasciò presso di lei i suoi figli e uscì a cercare una ostetrica ebrea nella regione di Betlemme.

La grotta è descritta così nel Vangelo dello Pseudo-Matteo, XIII: L'angelo ordinò di fermare il giumento, essendo giunto il tempo di partorire; comandò poi alla beata Maria di discendere dall'animale e di entrare in una grotta sotto una caverna nella quale non entrava mai la luce ma c'erano sempre tenebre, non potendo ricevere la luce del giorno. Allorché la beata Maria entrò in essa, tutta si illuminò di splendore quasi fosse l'ora sesta del giorno. La luce divina illuminò la grotta in modo tale che né di giorno né di notte, fino a quando vi rimase la beata Maria, la luce non mancò. Qui generò un maschio, circondata dagli angeli mentre nasceva.

E nel Vangelo dell’Infanzia armeno, VIII, si legge: Stavano camminando in una fredda giornata d'inverno: era il 21 di Tebeth, cioè il 6 gennaio. Giunti in un luogo deserto, che era stato un tempo la città regia di Betlemme, alla sesta ora del giorno, che era un giovedì, Maria disse a Giuseppe: -Fammi scen­dere in fretta dalla cavalcatura; il bambino mi fa soffrire.

Giuseppe esclamò: - Ahimè! Sono proprio colto di sorpresa! La sua liberazione non avviene in un luogo abitato, ma in una zona deserta e incolta, dove non c'è alcuna possibilità di ricetto! Dove mi rivolgerò, dunque? Dove la condurrò per metterla in riposo? Qui non ci sono né case né ricoveri al coperto, al cui riparo essa possa nascondere la propria nudità.

Ma poi Giuseppe scorse una grotta, abbastanza grande, do­ve dei pastori e dei contadini, che lavoravano nei dintorni, si riu­nivano e mettevano al riparo le loro greggi. Essi vi avevano anche fabbricato una mangiatoia per il bestiame, in cui davano da man­giare ai loro animali. Ma in quel momento i pastori e i bovari non c'erano, perché era inverno. Giuseppe, pertanto, vi condusse Maria. La fece entrare. La­sciò con lei, sull'ingresso, il figlio José, ed egli usci per andare alla ricerca di una levatrice.

La vicenda umana di Gesù inizia in una grotta, ed ugualmente termina in una cavità scavata nel terreno, il Sepolcro, nel quale fu deposto dopo la morte e che fu ritrovato vuoto il terzo giorno.

Su questo tutti i testi concordano: Giuseppe di Arimatea avvolse il corpo in un lenzuolo e lo depose in un sepolcro scavato nella roccia, dove nessuno era mai stato sepolto, e fece rotolare una grande pietra davanti all’entrata. E’ ciò che si legge in Luca XXIII, Marco XV, Matteo XXVII, Giovanni XIX, e negli apocrifi che raccontano gli ultimi giorni di Gesù, prima della Resurrezione.

 Come nel mito platonico, anche qui la caverna è il luogo della nascita e della ri-nascita, della rivelazione, in cui risplende la perla della saggezza, la luce della conoscenza che trasforma.

Racconta Collodi: a Pinocchio, inghiottito insieme con un Tonno dal Pesce-cane, “parve di veder lontan lontano una specie di chiarore”. Dopo aver salutato il Tonno, “cominciò a camminare a tastoni dentro il corpo del Pesce-cane, avviandosi un passo dietro l’altro verso quel piccolo chiarore che vedeva baluginare lontano lontano… E più andava avanti, e più il chiarore si faceva rilucente e distinto: finché, cammina cammina, alla fine arrivò: e quando fu arrivato... che cosa trovò? Ve lo do a indovinare in mille: trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco, come se fosse di neve o di panna montata, il quale se ne stava lì biascicando alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte mentre li mangiava, gli scappavano perfino di bocca.”