giovedì 19 marzo 2020

Gandhi e gli Ebrei: appunti su una polemica storica


In un articolo scritto dal Mahatma Gandhi nel 1938 sulla “questione arabo-ebraica in Palestina e sulla persecuzione degli Ebrei in Germania” si legge un breve periodo che se estrapolato dal contesto storico-politico di quegli anni risulta incomprensibile ai più. Scrive Gandhi: “Per il crimine di un giovane intrepido ma chiaramente folle viene punita l’intera sua razza con incredibile ferocia”, ma di quale crimine si tratti non è detto.
Il riferimento è in realtà molto preciso: il folle intrepido era Herschel Feibel Grynszpan, un giovane (era nato nel 1921) rifugiato ebreo polacco che il 7 novembre 1938 a Parigi uccise con tre colpi di pistola Ernst vom Rath, un diplomatico tedesco in servizio presso l’Ambasciata del Reich. Lo fece per vendicare le persecuzioni che gli Ebrei subivano ad opera del governo nazionalsocialista tedesco – o almeno questa è la versione più accreditata presso gli storici. Anche se alcuni parlarono di un possibile omicidio a sfondo sessuale.

Poche ore dopo l’attentato di Parigi (il diplomatico morì dopo due giorni di agonia), nella notte tra il 9 e il 10 novembre, ebbe luogo in diverse località della Germania, dell’Austria e dei Sudeti occupati dal Reich il più violento pogrom antiebraico della storia di quei territori – almeno fino a quel momento. È l’evento noto come Kristallnacht, la Notte dei Cristalli, durante la quale abitazioni, negozi, luoghi di culto appartenenti alle comunità ebraiche vennero metodicamente assaliti, saccheggiati, incendiati e distrutti da gruppi organizzati, senza che le forze dell’ordine intervenissero in difesa delle vittime.
Si dovette attendere la fine della guerra e i processi di Norimberga (1945 – 1946) per giungere ad una verità storica sulla Kristallnacht. Secondo le stime si contarono circa 100 vittime tra gli Ebrei tedeschi e austriaci. Moltissimi furono i feriti e i casi di violenze sessuali. 267 le sinagoghe assalite, oltre 7000 i negozi distrutti. Vennero arrestati più di 20mila Ebrei, cioè le vittime del pogrom.
L’efficiente macchina del consenso del regime affermò che si era trattato di una comprensibile e spontanea reazione popolare provocata dall’attentato di Parigi. Ma lo stesso Joseph Goebbels, Ministro della Propaganda del Terzo Reich, scrisse nei suoi diari che Hitler in persona aveva deciso di lasciare libero sfogo alle manifestazioni, evidentemente già programmate. Esse erano metodicamente organizzate da Reinhard Heydrich, stretto collaboratore del comandante delle SS Heinrich Himmler, e che diresse nel 1942 la conferenza di Wannsee, in cui furono analizzati i problemi organizzativi della “soluzione finale” del problema ebraico. Anche Heydrich morì per le conseguenze di un attentato subito a Praga nel 1942 da parte di alcuni membri dell’esercito cecoslovacco in esilio.
È infine degno di menzione il fatto che i danni materiali (5 milioni di marchi per le sole vetrine infrante) furono sì ripagati dalle Compagnie assicurative, ma gli indennizzi vennero immediatamente confiscati dallo Stato con una disposizione ad hoc e restituiti alla Compagnie stesse, che evitarono così di fallire a causa dell’entità complessiva dei danni subiti dalle proprietà della comunità ebraica!
Tutto, in definitiva, era avvenuto in perfetta coerenza e continuità con le politiche antisemite del nazionalsocialismo, che sarebbero poi sfociate, dal 1938 al 1945, nelle deportazioni di massa, nei campi di sterminio, nel genocidio perseguito scientemente dal Terzo Reich fino alla sua stessa distruzione.
 


Pochi giorni dopo la Notte dei Cristalli, in India, il giornale Harijan, organo del movimento non-violento gandhiano, pubblicò l’articolo sopra citato, che il Mahatma aveva scritto il 20 novembre, essendo evidentemente a conoscenza di quanto avvenuto a Parigi e in Germania.
Si tratta di un testo molto importante per una migliore conoscenza del pensiero di Gandhi, una figura troppo spesso ridotta ad un “santino”, ad una icona pop buona per ogni stagione e per ogni ideologia. Egli fu portatore in realtà di un pensiero che affondava le sue radici nella cultura dell’India tradizionale – cosa non sempre riconosciuta – ma non sempre lo sviluppò in maniera organica e consequenziale. Ed è proprio la posizione di Gandhi sulla “questione ebraica”, come veniva chiamata un tempo, ad evidenziare alcune zone più oscure e controverse del suo pensiero.
 Si tratta inoltre di uno scritto fondamentale perché tratta un tema, l’antisemitismo, che ancora oggi, dopo secoli di discriminazioni e persecuzioni, a più di 80 anni dalle leggi razziali italiane, nonostante il crollo di alcuni dei regimi e delle forze politiche che ponevano l’antisemitismo quale fondamento della loro ideologia e della loro prassi politica, è drammaticamente attuale. Anche al di là delle tradizionali distinzioni tra destra e sinistra.



Come si è detto l’articolo fu pubblicato (il 26 novembre) su Harijan, il giornale che Gandhi aveva fondato nel 1933 e di cui aveva scelto il nome, in omaggio ai cosiddetti Intoccabili.

La parola più conosciuta in Occidente per indicare gli intoccabili, ovvero coloro che sono ritenuti al di fuori del sistema sociale delle caste (e non ne costituiscono, come talvolta si pensa, la casta inferiore) è paria. Si tratta in realtà della anglicizzazione del termine tamil paRaiyar, cioè quelli dei tamburi, in quanto la pelle dei tamburi è per sua natura impura, e quindi spetta agli Intoccabili il compito di lavorarla e di suonare le percussioni. Nel Nord sono chiamati Camār, quelli del cuoio.
Un altro termine, molto antico, per i fuoricasta (la stessa parola casta non è indiana, bensì portoghese, dal latino castus, puro) è Caṇḍāla.
Esiste inoltre il vocabolo Dalit, di origine sanscrita, traducibile alla lettera con oppressi.
Su indicazione di Gandhi si cominciò poi ad usare il termine Harijan, che tradotto significa Figli di Hari, il dio Viṣṇu, e quindi Figli di Dio. Esso divenne ben presto un semplice eufemismo, che fa molto politically correct.

Nelle prime righe dell’articolo Gandhi afferma che le sue simpatie vanno tutte agli Ebrei, che “sono stati gli intoccabili del cristianesimo. C’è una stretta analogia – egli afferma – tra il trattamento che essi subirono ad opera dei cristiani e il trattamento degli intoccabili da parte degli indù. In entrambi i casi si è fatto appello alla dottrina religiosa per giustificare il trattamento inumano a loro riservato”.
Ciò che già colpisce nella parte iniziale del breve saggio è il fatto che dei due problemi che ne costituiscono l’oggetto – la questione arabo-ebraica in Palestina e la persecuzione degli Ebrei in Europa – Gandhi tocca per primo, e in maniera più dettagliata, quello della Palestina, anche se aveva mostrato di conoscere bene ciò che stava avvenendo in Germania e in generale le politiche antisemite dei regimi nazionalsocialista e fascista. Ma in questa sede ci si soffermerà solo sul tema delle persecuzioni antisemite in Germania. Per Gandhi i due temi sono però correlati: infatti la sua dichiarata simpatia per gli Ebrei, egli afferma, non lo rende “cieco di fronte all’esigenza di giustizia. L’invocazione di una nazione per gli ebrei non mi trova particolarmente sensibile. [..] La Palestina appartiene agli arabi nello stesso senso in cui l’Inghilterra appartiene agli inglesi e la Francia ai francesi. È sbagliato e inumano imporre agli arabi gli ebrei”.
Anzi, proprio quella “invocazione di una nazione da parte degli ebrei offre ai tedeschi una pretestuosa giustificazione per la loro espulsione”.
Anche se nel 1938 avrebbe dovuto essere chiaro che il fine del regime non si limitava alla sola espulsione degli Ebrei, in quanto i confini del Reich, nel delirio nazionalsocialista, erano ben più ampi di quelli della sola Germania!


Gandhi riconosce comunque che “la persecuzione tedesca degli ebrei sembra non avere paragoni nella storia”. Si lancia quindi in una perentoria dichiarazione: “Se mai potesse esistere una guerra giustificabile nel nome dell’umanità e per l’umanità, una guerra contro la Germania per prevenire la perversa persecuzione di un’intera razza sarebbe totalmente giustificata”. Poi, come spesso avviene dopo una categorica affermazione, ecco il “ma”. “Ma io non credo in nessuna guerra. Una discussione sui pro e i contro di una tale guerra è perciò al di fuori del mio orizzonte”. Ma “sicuramente non vi può essere alcuna alleanza con la Germania”. Almeno questo!
Quale tipo di resistenza – si chiede ora Gandhi – possono opporre gli Ebrei alla persecuzione? La risposta sta nell’Ebraismo stesso: gli Ebrei credono in un Dio vivente, “più personale del Dio dei cristiani, dei musulmani o degli indù”, essi Gli attribuiscono una personalità e “credono che Egli guidi ogni loro azione”, quindi non dovrebbero sentirsi indifesi.
Se io fossi un ebreo, fossi nato in Germania [..] dichiarerei la Germania mia patria come solo potrebbe fare il più genuino tedesco non israelita e lo sfiderei ad uccidermi o a sbattermi in prigione; mi rifiuterei di essere espulso o di sottomettermi a un trattamento discriminante. [..] Se uno o tutti gli ebrei seguissero tale prescrizione egli o essi non potrebbero stare peggio di come stanno adesso”.
Una guerra dichiarata contro la Germania non potrebbe suscitare alcuna gioia o forza interiore, come invece avviene, secondo il pensiero del Mahatma, a seguito di sofferenze subite volontariamente. Anzi, nel caso di una dichiarazione di ostilità da parte della Francia, dell’Inghilterra ecc. “la deliberata violenza di Hitler potrebbe anche portare ad un massacro generale degli ebrei”. Ma perfino questo, se avvenisse, “potrebbe essere trasformato in un giorno di ringraziamento a Jehovah che avrebbe reso possibile l’emancipazione della razza finanche per mezzo del tiranno. Chi è timorato di Dio non teme la morte. Essa è un lieto sonno a cui fa seguito un risveglio tanto più ristoratore quanto più è dovuto a un lungo riposo”.
La via indicata da Gandhi agli Ebrei, coerentemente con l’ideale dell’ahiṃsā, è quindi quella della non-violenza: “gli ebrei, che si proclamano la razza eletta, dimostrino il loro valore scegliendo la via della non-violenza per la rivendicazione della propria posizione sulla terra”.
Secondo il Mahatma la campagna da lui stesso guidata in Sudafrica seguendo la via della non-violenza costituiva la dimostrazione della validità della sua proposta: in Sudafrica, egli dice, “gli Indiani erano precisamente nella stessa situazione degli Ebrei in Germania e anche la loro persecuzione aveva una colorazione religiosa” (Gandhi riteneva Hitler un fanatico religioso, e il nazionalsocialismo una religione fondata sulla disumanità). Le restrizioni e le discriminazioni subite colà dagli Indiani erano “più o meno le stesse patite dagli Ebrei in Germania”. Ma gli Indiani fecero ricorso con un certo successo al satyāgraha e all’ahiṃsā, senza alcun appoggio esterno. Inoltre gli Ebrei erano per lui più compatti “e più dotati” degli Indiani, ed avevano l’appoggio dell’opinione pubblica mondiale. Quindi una resistenza non-violenta e sinceramente religiosa darebbe agli Ebrei tedeschi “una vittoria durevole sui tedeschi non-israeliti, [li convertirebbe] all’apprezzamento delle dignità umane, [renderebbe] un servigio ai [..] connazionali tedeschi [e sancirebbe] il loro diritto di essere i veri tedeschi contro coloro che oggi, sebbene inconsapevolmente, stanno trascinando la reputazione dei tedeschi nel fango”.

Lo scritto di Gandhi qui riassunto fu oggetto in Europa di numerose critiche, da diversi punti di vista, alle quali egli rispose puntualmente. Su Harijan del 17 dicembre chiarì ulteriormente la nozione di non-violenza, anzi, di non-violenza attiva, che deve essere “puro amore e sensibilità verso il prossimo”. “Se gli ebrei, invece che essere non-violenti per debolezza e per necessità, adottassero deliberatamente la non-violenza attiva, cioè la sensibilità verso il proprio prossimo tedesco non-israelita, essi non potrebbero arrecare nessun danno ai tedeschi e sono certo [..] che il gelido cuore dei tedeschi si scioglierebbe”.
Sullo stesso numero del giornale, in un altro articolo, fu molto duro e categorico nei confronti degli Ebrei, i quali “non hanno mai praticato la non-violenza come atto di fede e tantomeno come politica calcolata. Tanto è vero che è considerato un marchio per essi che i loro avi abbiano crocefisso Gesù. Non si presume forse che essi credano nell’occhio per occhio e dente per dente? Nei loro cuori non provano forse violenza verso i loro oppressori? Non vogliono forse che le cosiddette forze democratiche puniscano la Germania per le sue persecuzioni e li liberino dall’oppressione? Se le cose stanno così, allora non c’è alcuna non-violenza nei loro cuori. La loro non violenza, se così può essere chiamata, è quella del miserabile e del debole”. E più avanti: “se gli ebrei potessero chiamare in loro aiuto la forza d’animo che scaturisce solo dalla non-violenza, Herr Hitler si inchinerebbe di fronte a un coraggio di cui mai ha fatto esperienza su larga scala nei suoi rapporti con gli uomini”. Infine, alla critica invero scontata secondo cui tale forma di resistenza, fondata sulla “fede nel Dio della Verità e della Non-violenza, cioè nell’Amore”, non è accessibile alle maggior parte degli esseri umani, egli rispose dicendo che “previo un opportuno addestramento e adeguate direttive la non-violenza può essere praticata dalla massa del genere umano”.
Alla base della fede-fiducia di Gandhi nel potere della non-violenza c’era evidentemente una visione positiva della natura umana, che è sempre capace di apprendere e migliorare (si pensi qui a Confucio), che è nella sua essenza la stessa in tutti gli esseri umani e che in tutti risponde alle istanze dell’amore. In questi termini egli si espresse nel corso di un dibattito con alcuni missionari cristiani, pubblicato su Harijan del 24 dicembre 1938. Conseguentemente, nemmeno dittatori come Hitler e Mussolini potevano essere considerati incapaci di redenzione. Incontrando una resistenza autenticamente non-violenta, inevitabilmente essi ne avrebbero riconosciuto la superiorità su ogni forma di violenza. E nel novembre del 1939 ribadì: “Io non dispero per il fatto che il cuore di Hitler o dei tedeschi non si è ancora sciolto. Al contrario, invoco sempre più sofferenza fino al punto in cui tale scioglimento non sarà diventato visibile ad occhio nudo”. 
All’inizio del 1939 (Harijan, 18 febbraio) ritornò sul tema dell’apparente fallimento della non-violenza nel fermare le persecuzioni antisemite. L’argomentazione è ormai nota: la non-violenza degli Ebrei “non ha avuto, e tuttora non ha, amore. È passiva. Essi non oppongono resistenza poiché sanno che non potrebbero resistere con successo. [..] Per caso ho un amico ebreo che abita con me. È convinto intellettualmente della non-violenza, ma dice di non poter pregare per Hitler. È così pieno di collera per le atrocità commesse dai tedeschi che non riesce a parlare di loro con moderazione. Non discuto con lui la sua rabbia. Egli vuole essere non-violento, ma le sofferenze dei suoi compagni ebrei sono troppo grandi per lui da sopportare. Ciò che vale per lui vale anche per migliaia di ebrei che non hanno nessun sentimento di amore per il nemico. Per essi, come per milioni di altri, la vendetta è dolce, perdonare è divino”.
Il direttore di una rivista ebraica americana replicò agli scritti di Gandhi sulle questione ebraica, affermando che “un Gandhi ebreo in Germania [..] potrebbe agire per circa cinque minuti e poi sarebbe prontamente portato alla ghigliottina”. Probabile, rispose il Mahatma su Harijan del 27 maggio 1939, “ma ciò non smentirebbe la mia argomentazione e non scuoterebbe la mia fede nell’efficacia dell’ahiṃsā. Posso persino arrivare a concepire la necessità del sacrificio di centinaia se non di migliaia di uomini per placare gli appetiti dei dittatori. [..] Coloro che soffrono non hanno bisogno di vedere i risultati durante l’arco della loro vita; devono avere fede nel fatto che se il loro credo sopravvivrà il risultato sarà assicurato”.
In un ultimo scritto sul tema (da Harijan del 18 agosto 1940), Gandhi citò invece un olandese fuggito dalla Germania e dall’Olanda, il quale descriveva in una lettera la massa dei giovani tedeschi come “degradata al livello della macchina”. “Il comportamento dei tedeschi in guerra è del tutto meccanico; le macchine sono guidate da uomini-robot che non hanno nessuno scrupolo di coscienza quando schiacciano sotto i carri armati i corpi di donne e bambini”. Impossibile quindi applicare la non-violenza contro dei robot. Coerentemente con le sue concezioni sull’uomo e sul potere della fede, Gandhi rispose dicendosi preoccupato non tanto dalla descrizione del nazismo, quanto dai dubbi dell’esule sulla non-violenza. “L’azione non-violenta se è adeguata deve influenzare Hitler e senza dubbio anche i tedeschi, che sono stati da lui ingannati. Nessun uomo può essere trasformato permanentemente in una macchina. Da un momento all’altro ci si può scrollare di dosso il peso morto dell’autoritarismo e l’individuo può iniziare ad agire liberamente”. Condizione imprescindibile, la consapevolezza del fatto che “nell’ahiṃsā non è il seguace che agisce con la propria forza. La forza viene da Dio”.


Al di là delle critiche specifiche fin qui riportate, è altrettanto interessante citare la reazione alle argomentazioni di Gandhi da parte di Judah Magnes, un rabbino liberale e pacifista, e di Martin Buber, filosofo e teologo austriaco naturalizzato israeliano, entrambi vicini al pensiero del Mahatma.
In loro “si avverte chiaramente [..] la delusione e l’irritazione per il tono” da lui usato. Essi sentivano nelle sue parole, oltre la voce del buon consiglio e del conforto, “una terza voce che le soffoca entrambe, quella del rimprovero”.
Se si segue ulteriormente il filo delle “sensazioni”, per quanto soggettive esse siano, non si possono che condividere le considerazioni espresse da Marco Vigevani nel suo saggio La doppia morale del Mahatma (pubblicato sul n. 2/1991 della rivista Micromega), secondo cui “anche il lettore odierno non riesce a sottrarsi all’impressione che dietro la dichiarata equanimità del Mahatma ci sia, se non un ostilità una grave inopportunità nella lezione che si sente in dovere di impartire agli Ebrei vittime del nazismo.”
         Inoltre, “i richiami alla crocefissione di Gesù e alla legge del taglione sono oltre che rivelatori di un antigiudaismo di marca cristiana [..] altamente inopportuni, se non decisamente offensivi nel contesto in cui sono scritti. [..] La concezione degli ebrei perfetti o reprobi, tipica della visione teologica cristiana, appare così essere passata intatta nella visione del mondo del maestro indiano”.
        In ultima analisi, come si è detto all’inizio a proposito delle zone d’ombra della visione gandhiana, la polemica su non-violenza e persecuzioni antiebraiche “mette in luce come in poche altre occasioni il contrasto tra il santo (il guru) e l’uomo (anche politico); del suo pensiero evidenzia la sublime grandezza [..] e al tempo stesso l’incompatibilità con la tradizione ebraica e attraverso di essa con una parte importante della cultura occidentale”.