In un articolo scritto dal Mahatma Gandhi
nel 1938 sulla “questione arabo-ebraica
in Palestina e sulla persecuzione degli Ebrei in Germania” si legge un
breve periodo che se estrapolato dal contesto storico-politico di quegli anni
risulta incomprensibile ai più. Scrive Gandhi: “Per il crimine di un giovane intrepido ma chiaramente folle viene
punita l’intera sua razza con incredibile ferocia”, ma di quale crimine si
tratti non è detto.
Il riferimento è in realtà molto preciso:
il folle intrepido era Herschel
Feibel Grynszpan, un giovane (era nato nel 1921) rifugiato ebreo polacco che il
7 novembre 1938 a Parigi uccise con tre colpi di pistola Ernst vom Rath, un
diplomatico tedesco in servizio presso l’Ambasciata del Reich. Lo fece per
vendicare le persecuzioni che gli Ebrei subivano ad opera del governo
nazionalsocialista tedesco – o almeno questa è la versione più accreditata
presso gli storici. Anche se alcuni parlarono di un possibile omicidio a sfondo
sessuale.
Poche ore dopo l’attentato di Parigi (il
diplomatico morì dopo due giorni di agonia), nella notte tra il 9 e il 10
novembre, ebbe luogo in diverse località della Germania, dell’Austria e dei
Sudeti occupati dal Reich il più violento pogrom
antiebraico della storia di quei territori – almeno fino a quel momento. È
l’evento noto come Kristallnacht, la
Notte dei Cristalli, durante la quale abitazioni, negozi, luoghi di culto
appartenenti alle comunità ebraiche vennero metodicamente assaliti, saccheggiati,
incendiati e distrutti da gruppi organizzati, senza che le forze dell’ordine
intervenissero in difesa delle vittime.
Si dovette attendere la fine della guerra
e i processi di Norimberga (1945 – 1946) per giungere ad una verità storica
sulla Kristallnacht. Secondo le stime
si contarono circa 100 vittime tra gli Ebrei tedeschi e austriaci. Moltissimi
furono i feriti e i casi di violenze sessuali. 267 le sinagoghe assalite, oltre
7000 i negozi distrutti. Vennero arrestati più di 20mila Ebrei, cioè le vittime
del pogrom.
L’efficiente macchina del consenso del
regime affermò che si era trattato di una comprensibile e spontanea reazione
popolare provocata dall’attentato di Parigi. Ma lo stesso Joseph Goebbels,
Ministro della Propaganda del Terzo Reich, scrisse nei suoi diari che Hitler in
persona aveva deciso di lasciare libero sfogo alle manifestazioni,
evidentemente già programmate. Esse erano metodicamente organizzate da Reinhard
Heydrich, stretto collaboratore del comandante delle SS Heinrich Himmler, e che
diresse nel 1942 la conferenza di Wannsee, in cui furono analizzati i problemi
organizzativi della “soluzione finale”
del problema ebraico. Anche Heydrich morì per le conseguenze di un attentato
subito a Praga nel 1942 da parte di alcuni membri dell’esercito cecoslovacco in
esilio.
È infine degno di
menzione il fatto che i danni materiali (5 milioni di marchi per le sole
vetrine infrante) furono sì ripagati dalle Compagnie assicurative, ma gli
indennizzi vennero immediatamente confiscati dallo Stato con una disposizione ad hoc e restituiti alla Compagnie
stesse, che evitarono così di fallire a causa dell’entità complessiva dei danni
subiti dalle proprietà della comunità ebraica!
Tutto, in
definitiva, era avvenuto in perfetta coerenza e continuità con le politiche
antisemite del nazionalsocialismo, che sarebbero poi sfociate, dal 1938 al
1945, nelle deportazioni di massa, nei campi di sterminio, nel genocidio
perseguito scientemente dal Terzo Reich fino alla sua stessa distruzione.
Pochi giorni dopo
la Notte dei Cristalli, in India, il giornale Harijan, organo del movimento non-violento gandhiano, pubblicò
l’articolo sopra citato, che il Mahatma aveva scritto il 20 novembre, essendo
evidentemente a conoscenza di quanto avvenuto a Parigi e in Germania.
Si tratta di un
testo molto importante per una migliore conoscenza del pensiero di Gandhi, una
figura troppo spesso ridotta ad un “santino”, ad una icona pop buona per ogni
stagione e per ogni ideologia. Egli fu portatore in realtà di un pensiero che
affondava le sue radici nella cultura dell’India tradizionale – cosa non sempre
riconosciuta – ma non sempre lo sviluppò in maniera organica e consequenziale.
Ed è proprio la posizione di Gandhi sulla “questione ebraica”, come veniva
chiamata un tempo, ad evidenziare alcune zone più oscure e controverse del suo
pensiero.
Si tratta inoltre di uno scritto fondamentale
perché tratta un tema, l’antisemitismo, che ancora oggi, dopo secoli di
discriminazioni e persecuzioni, a più di 80 anni dalle leggi razziali italiane,
nonostante il crollo di alcuni dei
regimi e delle forze politiche che ponevano l’antisemitismo quale fondamento
della loro ideologia e della loro prassi politica, è drammaticamente attuale. Anche al di là delle tradizionali distinzioni tra destra e sinistra.
Come si è detto
l’articolo fu pubblicato (il 26 novembre) su Harijan, il giornale che Gandhi aveva fondato nel 1933 e di cui
aveva scelto il nome, in omaggio ai cosiddetti Intoccabili.
La parola più conosciuta in
Occidente per indicare gli intoccabili, ovvero coloro che sono
ritenuti al di fuori del sistema
sociale delle caste (e non ne costituiscono, come talvolta si pensa, la casta
inferiore) è paria. Si tratta in
realtà della anglicizzazione del termine tamil paRaiyar, cioè quelli dei
tamburi, in quanto la pelle dei tamburi è per sua natura impura, e quindi
spetta agli Intoccabili il compito di lavorarla e di suonare le percussioni. Nel
Nord sono chiamati Camār, quelli del cuoio.
Un altro termine, molto antico,
per i fuoricasta (la stessa parola casta
non è indiana, bensì portoghese, dal latino castus,
puro) è Caṇḍāla.
Esiste inoltre il vocabolo Dalit, di origine sanscrita, traducibile
alla lettera con oppressi.
Su indicazione di Gandhi si
cominciò poi ad usare il termine Harijan,
che tradotto significa Figli di Hari,
il dio Viṣṇu, e quindi Figli di Dio. Esso divenne ben presto un
semplice eufemismo, che fa molto politically
correct.
Nelle prime righe dell’articolo
Gandhi afferma che le sue simpatie vanno tutte agli Ebrei, che “sono stati gli intoccabili del cristianesimo.
C’è una stretta analogia – egli
afferma – tra il trattamento che essi
subirono ad opera dei cristiani e il trattamento degli intoccabili da parte
degli indù. In entrambi i casi si è fatto appello alla dottrina religiosa per
giustificare il trattamento inumano a loro riservato”.
Ciò che già
colpisce nella parte iniziale del breve saggio è il fatto che dei due problemi
che ne costituiscono l’oggetto – la questione arabo-ebraica in Palestina e la
persecuzione degli Ebrei in Europa – Gandhi tocca per primo, e in maniera più
dettagliata, quello della Palestina, anche se aveva mostrato di conoscere bene
ciò che stava avvenendo in Germania e in generale le politiche antisemite dei
regimi nazionalsocialista e fascista. Ma in questa sede ci si soffermerà solo
sul tema delle persecuzioni antisemite in Germania. Per Gandhi i due temi sono
però correlati: infatti la sua dichiarata simpatia per gli Ebrei, egli afferma,
non lo rende “cieco di fronte
all’esigenza di giustizia. L’invocazione di una nazione per gli ebrei non mi
trova particolarmente sensibile. [..] La Palestina appartiene agli arabi nello
stesso senso in cui l’Inghilterra appartiene agli inglesi e la Francia ai
francesi. È sbagliato e inumano imporre agli arabi gli ebrei”.
Anzi, proprio
quella “invocazione di una nazione da
parte degli ebrei offre ai tedeschi una pretestuosa giustificazione per la loro
espulsione”.
Anche se nel 1938
avrebbe dovuto essere chiaro che il fine del regime non si limitava alla sola espulsione degli Ebrei, in quanto i
confini del Reich, nel delirio nazionalsocialista, erano ben più ampi di quelli
della sola Germania!
Gandhi riconosce
comunque che “la persecuzione tedesca
degli ebrei sembra non avere paragoni nella storia”. Si lancia quindi in
una perentoria dichiarazione: “Se mai
potesse esistere una guerra giustificabile nel nome dell’umanità e per
l’umanità, una guerra contro la Germania per prevenire la perversa persecuzione
di un’intera razza sarebbe totalmente giustificata”. Poi, come spesso
avviene dopo una categorica affermazione, ecco il “ma”. “Ma io non credo in nessuna guerra. Una discussione sui pro e i contro
di una tale guerra è perciò al di fuori del mio orizzonte”. Ma “sicuramente non vi può essere alcuna
alleanza con la Germania”. Almeno questo!
Quale tipo di
resistenza – si chiede ora Gandhi – possono opporre gli Ebrei alla
persecuzione? La risposta sta nell’Ebraismo stesso: gli Ebrei credono in un Dio
vivente, “più personale del Dio dei cristiani,
dei musulmani o degli indù”, essi Gli attribuiscono una personalità e “credono che Egli guidi ogni loro azione”,
quindi non dovrebbero sentirsi indifesi.
“Se io fossi un ebreo, fossi nato in Germania
[..] dichiarerei la Germania mia patria come solo potrebbe fare il più genuino
tedesco non israelita e lo sfiderei ad uccidermi o a sbattermi in prigione; mi
rifiuterei di essere espulso o di sottomettermi a un trattamento discriminante.
[..] Se uno o tutti gli ebrei seguissero tale prescrizione egli o essi non
potrebbero stare peggio di come stanno adesso”.
Una guerra
dichiarata contro la Germania non potrebbe suscitare alcuna gioia o forza
interiore, come invece avviene, secondo il pensiero del Mahatma, a seguito di
sofferenze subite volontariamente. Anzi, nel caso di una dichiarazione di
ostilità da parte della Francia, dell’Inghilterra ecc. “la deliberata violenza di Hitler potrebbe anche portare ad un massacro
generale degli ebrei”. Ma perfino questo, se avvenisse, “potrebbe essere trasformato in un giorno di
ringraziamento a Jehovah che avrebbe reso possibile l’emancipazione della razza
finanche per mezzo del tiranno. Chi è timorato di Dio non teme la morte. Essa è
un lieto sonno a cui fa seguito un risveglio tanto più ristoratore quanto più è
dovuto a un lungo riposo”.
La via indicata da
Gandhi agli Ebrei, coerentemente con l’ideale dell’ahiṃsā, è quindi quella della non-violenza: “gli ebrei, che si proclamano la razza eletta, dimostrino il loro valore
scegliendo la via della non-violenza per la rivendicazione della propria
posizione sulla terra”.
Secondo il Mahatma
la campagna da lui stesso guidata in Sudafrica seguendo la via della
non-violenza costituiva la dimostrazione della validità della sua proposta: in
Sudafrica, egli dice, “gli Indiani erano
precisamente nella stessa situazione degli Ebrei in Germania e anche la loro
persecuzione aveva una colorazione religiosa” (Gandhi riteneva Hitler un
fanatico religioso, e il nazionalsocialismo una religione fondata sulla
disumanità). Le restrizioni e le discriminazioni subite colà dagli Indiani
erano “più o meno le stesse patite dagli
Ebrei in Germania”. Ma gli Indiani fecero ricorso con un certo successo al satyāgraha e all’ahiṃsā, senza alcun appoggio esterno. Inoltre gli Ebrei erano per
lui più compatti “e più dotati” degli
Indiani, ed avevano l’appoggio dell’opinione pubblica mondiale. Quindi una
resistenza non-violenta e sinceramente religiosa darebbe agli Ebrei tedeschi “una vittoria durevole sui tedeschi
non-israeliti, [li convertirebbe] all’apprezzamento delle dignità umane,
[renderebbe] un servigio ai [..] connazionali tedeschi [e sancirebbe] il loro
diritto di essere i veri tedeschi contro coloro che oggi, sebbene
inconsapevolmente, stanno trascinando la reputazione dei tedeschi nel fango”.
Lo scritto di
Gandhi qui riassunto fu oggetto in Europa di numerose critiche, da diversi
punti di vista, alle quali egli rispose puntualmente. Su Harijan del 17 dicembre chiarì ulteriormente la nozione di
non-violenza, anzi, di non-violenza attiva, che deve essere “puro amore e sensibilità verso il prossimo”.
“Se gli ebrei, invece che essere
non-violenti per debolezza e per necessità, adottassero deliberatamente la
non-violenza attiva, cioè la sensibilità verso il proprio prossimo tedesco
non-israelita, essi non potrebbero arrecare nessun danno ai tedeschi e sono
certo [..] che il gelido cuore dei tedeschi si scioglierebbe”.
Sullo stesso
numero del giornale, in un altro articolo, fu molto duro e categorico nei
confronti degli Ebrei, i quali “non hanno
mai praticato la non-violenza come atto di fede e tantomeno come politica
calcolata. Tanto è vero che è considerato un marchio per essi che i loro avi
abbiano crocefisso Gesù. Non si presume forse che essi credano nell’occhio per
occhio e dente per dente? Nei loro cuori non provano forse violenza verso i
loro oppressori? Non vogliono forse che le cosiddette forze democratiche puniscano
la Germania per le sue persecuzioni e li liberino dall’oppressione? Se le cose
stanno così, allora non c’è alcuna non-violenza nei loro cuori. La loro non
violenza, se così può essere chiamata, è quella del miserabile e del debole”.
E più avanti: “se gli ebrei potessero
chiamare in loro aiuto la forza d’animo che scaturisce solo dalla non-violenza,
Herr Hitler si inchinerebbe di fronte a un coraggio di cui mai ha fatto
esperienza su larga scala nei suoi rapporti con gli uomini”. Infine, alla
critica invero scontata secondo cui tale forma di resistenza, fondata sulla “fede nel Dio della Verità e della
Non-violenza, cioè nell’Amore”, non è accessibile alle maggior parte degli
esseri umani, egli rispose dicendo che “previo
un opportuno addestramento e adeguate direttive la non-violenza può essere
praticata dalla massa del genere umano”.
Alla base della
fede-fiducia di Gandhi nel potere della non-violenza c’era evidentemente una
visione positiva della natura umana, che è sempre capace di apprendere e migliorare
(si pensi qui a Confucio), che è nella sua essenza la stessa in tutti gli
esseri umani e che in tutti risponde alle istanze dell’amore. In questi termini
egli si espresse nel corso di un dibattito con alcuni missionari cristiani,
pubblicato su Harijan del 24 dicembre
1938. Conseguentemente, nemmeno dittatori come Hitler e Mussolini potevano
essere considerati incapaci di redenzione. Incontrando una resistenza
autenticamente non-violenta, inevitabilmente essi ne avrebbero riconosciuto la
superiorità su ogni forma di violenza. E nel novembre del 1939 ribadì: “Io non dispero per il fatto che il cuore di
Hitler o dei tedeschi non si è ancora sciolto. Al contrario, invoco sempre più
sofferenza fino al punto in cui tale scioglimento non sarà diventato visibile
ad occhio nudo”.
All’inizio del
1939 (Harijan, 18 febbraio) ritornò
sul tema dell’apparente fallimento della non-violenza nel fermare le persecuzioni
antisemite. L’argomentazione è ormai nota: la non-violenza degli Ebrei “non ha avuto, e tuttora non ha, amore. È
passiva. Essi non oppongono resistenza poiché sanno che non potrebbero
resistere con successo. [..] Per caso ho un amico ebreo che abita con me. È
convinto intellettualmente della non-violenza, ma dice di non poter pregare per
Hitler. È così pieno di collera per le atrocità commesse dai tedeschi che non
riesce a parlare di loro con moderazione. Non discuto con lui la sua rabbia.
Egli vuole essere non-violento, ma le sofferenze dei suoi compagni ebrei sono
troppo grandi per lui da sopportare. Ciò che vale per lui vale anche per
migliaia di ebrei che non hanno nessun sentimento di amore per il nemico. Per
essi, come per milioni di altri, la vendetta è dolce, perdonare è divino”.
Il direttore di
una rivista ebraica americana replicò agli scritti di Gandhi sulle questione
ebraica, affermando che “un Gandhi ebreo
in Germania [..] potrebbe agire per circa cinque minuti e poi sarebbe
prontamente portato alla ghigliottina”. Probabile, rispose il Mahatma su Harijan del 27 maggio 1939, “ma ciò non smentirebbe la mia argomentazione
e non scuoterebbe la mia fede nell’efficacia dell’ahiṃsā. Posso persino
arrivare a concepire la necessità del sacrificio di centinaia se non di
migliaia di uomini per placare gli appetiti dei dittatori. [..] Coloro che soffrono
non hanno bisogno di vedere i risultati durante l’arco della loro vita; devono
avere fede nel fatto che se il loro credo sopravvivrà il risultato sarà
assicurato”.
In un ultimo
scritto sul tema (da Harijan del 18
agosto 1940), Gandhi citò invece un olandese fuggito dalla Germania e
dall’Olanda, il quale descriveva in una lettera la massa dei giovani tedeschi
come “degradata al livello della macchina”.
“Il comportamento dei tedeschi in guerra
è del tutto meccanico; le macchine sono guidate da uomini-robot che non hanno
nessuno scrupolo di coscienza quando schiacciano sotto i carri armati i corpi
di donne e bambini”. Impossibile quindi applicare la non-violenza contro
dei robot. Coerentemente con le sue concezioni sull’uomo e sul potere della
fede, Gandhi rispose dicendosi preoccupato non tanto dalla descrizione del
nazismo, quanto dai dubbi dell’esule sulla non-violenza. “L’azione non-violenta se è adeguata deve influenzare Hitler e senza
dubbio anche i tedeschi, che sono stati da lui ingannati. Nessun uomo può
essere trasformato permanentemente in una macchina. Da un momento all’altro ci
si può scrollare di dosso il peso morto dell’autoritarismo e l’individuo può
iniziare ad agire liberamente”. Condizione imprescindibile, la
consapevolezza del fatto che “nell’ahiṃsā
non è il seguace che agisce con la propria forza. La forza viene da Dio”.
Al di là delle
critiche specifiche fin qui riportate, è altrettanto interessante citare la
reazione alle argomentazioni di Gandhi da parte di Judah Magnes, un rabbino
liberale e pacifista, e di Martin Buber, filosofo e teologo austriaco
naturalizzato israeliano, entrambi vicini al pensiero del Mahatma.
In loro “si avverte chiaramente [..] la delusione e
l’irritazione per il tono” da lui usato. Essi sentivano nelle sue parole,
oltre la voce del buon consiglio e del conforto, “una terza voce che le soffoca entrambe, quella del rimprovero”.
Se si segue
ulteriormente il filo delle “sensazioni”, per quanto soggettive esse siano, non
si possono che condividere le considerazioni espresse da Marco Vigevani nel suo
saggio La doppia morale del Mahatma (pubblicato
sul n. 2/1991 della rivista Micromega),
secondo cui “anche il lettore odierno non
riesce a sottrarsi all’impressione che dietro la dichiarata equanimità del Mahatma
ci sia, se non un ostilità una grave inopportunità nella lezione che si sente
in dovere di impartire agli Ebrei vittime del nazismo.”
Inoltre, “i richiami alla
crocefissione di Gesù e alla legge del taglione sono oltre che rivelatori di un
antigiudaismo di marca cristiana [..] altamente inopportuni, se non decisamente
offensivi nel contesto in cui sono scritti. [..] La concezione degli ebrei
perfetti o reprobi, tipica della visione teologica cristiana, appare così
essere passata intatta nella visione del mondo del maestro indiano”.
In ultima analisi, come si è detto all’inizio a proposito delle zone
d’ombra della visione gandhiana, la polemica su non-violenza e persecuzioni antiebraiche
“mette in luce come in poche altre
occasioni il contrasto tra il santo (il guru) e l’uomo (anche politico); del
suo pensiero evidenzia la sublime grandezza [..] e al tempo stesso
l’incompatibilità con la tradizione ebraica e attraverso di essa con una parte
importante della cultura occidentale”.