mercoledì 29 novembre 2023

INTRODUZIONE AL PENSIERO TRADIZIONALE CINESE - 5 - Il Daoismo.2 : dalla filosofia alla politica - Sunzi e l'Arte della Guerra

Lezione 5 – Il Daoismo_2: dalla filosofia alla politica - Sunzi e l’Arte della Guerra

Benché ciò verso cui il Saggio si volge sia sempre e soltanto il ricongiungimento al Principio supremo, la dottrina daoista cerca comunque di rispondere anche a quelle concrete istanze umane che possono essere definite politiche, nel significato più ampio del termine. Anche sotto questo aspetto nel Dao De Ching il fondamento della riflessione e dell’azione (che qui si fa azione nel sociale e nelle istituzioni) è costituito dalla nozione di wu wei. Il non-agire secondo il Dao, l’agire nel non-agire, è ciò che permette di mantenere ordine, armonia ed equilibrio tra gli individui e all’interno delle famiglie, delle comunità, dei gruppi sociali, degli Stati.

A tale proposito è detto nel Dao De Ching (capitolo 3): “Se non si esaltano gli uomini di talento, si ottiene che il popolo non lotti. / Se non si dà valore ai beni difficili da ottenere, si ottiene che il popolo non rubi. / Se non gli si mostra ciò che potrebbe bramare, si ottiene che il cuore del popolo non sia turbato. / Ecco per quale ragione il Santo, nella sua opera di governo, svuota il cuore (degli uomini) e riempie il loro ventre, indebolisce la loro volontà e rafforza le loro ossa, in modo da ottenere che il popolo sia costantemente ignaro e senza desideri, e che coloro che sanno non osino agire. Egli pratica il Non-agire, e in questo caso non c'è nulla che non sia ben governato”.

E ancora: “Un paese si governa con la dirittura / Una guerra si conduce con gli espedienti / Ma è con il non-fare che si conquista il mondo. / Come lo so? / Da questo: / Quanto più regnano al mondo divieti e proibizioni / Tanto più il popolo s’impoverisce. / Quanto più il popolo possiede armi taglienti / Tanto più imperversa il disordine nel paese. / Più abbondano sagacia e destrezza / E più ne risultano stravaganti oggetti. / Più si moltiplicano leggi e decreti / E più abbondano ladri e banditi. / Perciò il Santo dice: / Se pratico il non-agire, da sé il popolo si trasformerà. / Se amo la quiete, da sé il popolo si correggerà. / Se sto senza far nulla, da sé il popolo si arricchirà. / Se sto senza desideri, da sé il popolo tornerà alla semplicità” (cap. 57).

Il non-agire vince quindi per attrazione, per assorbimento, non per costrizione, in quanto si fonda sull’armonia, sulle qualità dell’essere anziché su quelle dell’avere o del fare.

Non si tratta di superiorità etica, non è la rivincita del mite nei confronti del violento, della vittima verso il carnefice. E neppure è l’astuzia di Ulisse contro Polifemo o l’abilità di Davide contro Golia.

E – punto che deve essere chiaro – nemmeno si tratta del non fare nulla, di passività, men che meno di rassegnazione. Non-agire è essere in armonia con l’Universo, in modo tale che il De del Dao possa manifestare la sua efficacia.

Il Saggio, dice Laozi, “si occupa del non-agire / pratica l’insegnamento senza parlare / lascia sviluppare gli esseri senza ostacolarli” (cap. 2). In un’altra versione: egli “si applica a non studiare e torna al punto che tutti oltrepassano. / Così egli sostiene il corso naturale dei diecimila esseri senza osare agire”.

Non-agire significa in ultima analisi astenersi dalle azioni intenzionali, dirette, che si fondano sull’attaccamento e generano ulteriore attaccamento, che si oppongono alla spontaneità, alla natura originaria dell’essere.

Si legge nel Dao De Ching (cap. 28):

Riconosci in te ciò che è maschile / Ma attieniti a ciò che è femminile. / Fatti burrone del mondo. / Essere burrone del mondo / E’ unirsi alla Virtù costante / E’ tornare alla prima infanzia. / Riconosci in te il bianco / Ma attieniti al nero. / Fatti norma del mondo. / Essere norma del mondo / E’ partecipare della Virtù costante / E’ tornare al senza-limiti. / Riconosci in te la gloria / Ma attieniti all'oscurità. / Fatti valle del mondo / Essere valle del mondo / E’ avere in abbondanza la Virtù costante / E’ tornare alla semplicità del legno grezzo. / Il blocco della semplicità originaria / Viene intagliato in utensili. / Ma il Santo è il blocco integro e intatto / Ch'egli adotta come ministro / Poiché il Maestro dell'Arte si guarda dal tagliare”.

Come si nota Laozi predilige il femminile al maschile, il nero al bianco, l’oscurità alla luminosità, il debole al forte. Ma non per questo esclude il maschile, il bianco, il forte ecc. Gli elementi che compongono le coppie degli opposti (a partire dalla coppia fondamentale Yin/Yang) non hanno un carattere esclusivo, sono invece complementari, questo perché il loro rapporto non è di tipo logico (aut-aut, o questo o quello), bensì organico, relazionale (et-et), secondo un modello tipico della culture tradizionali e particolarmente evidente in Oriente.

 

Si è detto che la nozione di wu wei – assolutamente centrale nel Daoismo – può essere confusa con un atteggiamento passivo nei confronti della vita. Questa erronea visione è tipica dell’Occidente, anzi della modernità.

Ma wu wei non è inazione, inerzia, quietismo. Lo comprese molto bene René Guénon, che scrisse in un articolo pubblicato postumo, Contro il quietismo: “Gli orientalisti non comprendono affatto il vero significato” del non-agire. Esso costituisce in realtà “l’attività suprema, e questo perché esso è il più possibile distante dalla sfera dell’azione esteriore, ed è totalmente affrancato da tutte le limitazioni che a quest’ultima sono imposte dalla sua stessa natura [..]. È ovvio che il non- agire [..] implica, per colui che è giunto ad esso, un perfetto distacco non solo nei confronti dell’azione esteriore, ma anche nei confronti di ogni altra cosa contingente, e ciò perché un essere simile si pone al centro stesso della ‘ruota cosmica’, mentre le cose appartengono soltanto alla sua circonferenza”.

 Il Saggio daoista è il vuoto al centro della ruota, è un autentico motore immobile.

 Per Guénon dunque l’autentica forma dell’attività umana è il non-agire del Dao, l’attività spirituale, ovvero la contemplazione, ciò che agli occhi della mentalità moderna risulta essere una attività inutile, una forma di oziosità che non “produce” alcuna ricchezza, che non accresce alcun PIL.

 Secondo tutte le grandi Tradizioni il Saggio è colui che percorre una Via spirituale con l’intento esclusivo di ricongiungersi con il Principio. A seconda delle forme storicamente assunte dalla Tradizione, si parlerà di Nirvana o di Satori per il Buddhismo, di Samadhi o di Moksha per lo Yoga e per tutte le scuole tradizionali dell’India, di Unione con Dio per il Cristianesimo, di Wu-wei o di Immortalità o di Armonia per il Daoismo ecc., rimanendo sempre all’interno di una visione spirituale (“religiosa” se si vuole, ma in senso molto ampio, non istituzionale nè dogmatico) dell’uomo e del significato della sua vita.

 Inevitabilmente, anche se talora al prezzo di un allontanamento dai princìpi, le stesse forme tradizionali hanno influenzato profondamente molti aspetti della storia, della cultura, delle arti, delle istituzioni dei popoli nel cui ambito si sono originate o con cui sono venute a contatto.

Basti pensare a come il non-agire del Daoismo abbia costituito la base delle arti marziali cinesi, che si diffusero in tutto l’Estremo Oriente e poi in Occidente: il famoso Judo, ad esempio, è la lettura giapponese del termine Ruodao, la Via della Cedevolezza. Il principio teorico è sempre lo stesso: colui che usa la forza è già per questo in una posizione di inferiorità, poiché la sua stessa forza si ritorcerà contro di lui.

Il termine Do che si ritrova in molte parole nipponiche è infatti la lettura giapponese, con lo stesso significato, del cinese Dao: oltre a Judo, si pensi ad Aikido, la Via dell’Unione con l’Energia (Ki, in Cina Qi); Kendo, la Via della Spada; Kyudo, la Via dell’Arco; Chado, la Via del Tè; Shodo, la Via della Scrittura; Kado, la Via dei Fiori, ecc.

Già da questi pochi esempi risulta evidente quanto la Tradizione Taoista insieme con quella Buddhista abbiano influenzato i più diversi aspetti delle società di tutto l’Estremo Oriente.

 Ed anche dell’Occidente, invero. Ma ciò è avvenuto in ambiti molto più ristretti, con modalità molto più superficiali, seguendo talvolta mode passeggere (ad esempio una New Age ormai molto Old…). E pagando spesso un prezzo veramente alto, poiché pratiche di questo tipo se decontestualizzate, se inserite in una società materialistica che intossica tutto ciò che assimila, allora si trasformano in merci, sono utilizzate con finalità di ordine inferiore (una fitness fine a se stessa, la ricerca di un facile esotismo, il voler apparire “alternativi” a tutti i costi, invero il massimo del conformismo – ecc.), divengono inautentiche, si riducono a mere tecniche, si allontanano dai princìpi come un fiume che si allontana dalla purezza della sorgente e disperde nell’oceano le sue acque ormai morte.

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Ritornando nello specifico alla Tradizione cinese, se del Daoismo e della politica si è già detto, non si può tacere del Daoismo e della Guerra, essendo la Guerra la continuazione della politica con altri mezzi, secondo la famosa e quanto mai attuale affermazione del Generale prussiano Carl von Clausewitz (1780-1831).

Carl von Clausewitz

 

Pur non essendo propriamente un testo della Tradizione, il Daoismo ha certamente influenzato un classico dell’antica Cina, il trattato di strategia militare noto come L’Arte della Guerra (Sunzi Bingfa), attribuito al Generale Sunzi. Il testo risale al V-IV secolo a.C., ma trae origine da una tradizione orale lunga almeno due secoli, con insegnamenti da bocca ad orecchio, come avveniva comunemente in ambito Daoista, Buddhista, Induista, Cristiano ecc....

Come già per Laozi, la figura dell’autore è avvolta nel mito: lo storico Sima Qian narra che il Generale Sunzi lavorava come consigliere militare presso un re, il quale, prima di conferirgli quell’incarico, aveva però voluto verificare le sue doti. Perciò gli aveva chiesto se le sue capacità strategiche potessero applicarsi anche alle donne.

Sunzi accettò l’insidioso quesito e rispose usando le centottanta concubine del re. Divise le donne in due gruppi e ne pose a capo le due favorite del re. Poi spiegò ai due gruppi le regole da seguire: agli ordini di Sunzi, le donne avrebbero dovuto girarsi tutte nella direzione indicata. Al rullo dei tamburi ordinò alle donne di voltarsi a destra, ma queste cominciarono a ridere e non obbedirono. Sunzi disse: “Se le regole non sono chiare e gli ordini non vengono compresi, la colpa è del generale”. Spiegò quindi ancora una volta le regole, quindi ordinò alle donne di voltarsi a sinistra. Ancora le donne scoppiarono a ridere e non obbedirono. Sunzi disse allora: “Se le regole non sono chiare e gli ordini non vengono compresi, la colpa è del generale; se, invece, le regole sono chiare, e tuttavia gli ordini non vengono eseguiti, allora la colpa è degli ufficiali”. Impartì quindi l’ordine di decapitare le due favorite. Il re gli ordinò di fermare l'esecuzione, ma Sunzi rispose che nella sua qualità di Generale vi erano ordini del re che poteva non seguire. Le due donne furono giustiziate, e le favorite immediatamente inferiori per rango furono messe al comando dei due gruppi. Questa volta le donne obbedirono agli ordini senza indugio. Fu in questo modo, racconta Sima Qian, che Sunzi fu assunto al servizio del re.

Sun Zi


  

Il testo, così come pervenuto, è suddiviso in 13 capitoli, dedicati ai vari aspetti della guerra, dalle valutazioni strategiche allo scontro armato, dalla disposizione dell’esercito alle configurazioni del terreno, fino allo spionaggio. È un vero e proprio testo del pensiero strategico, frutto di una sapienza collettiva, tuttora oggetto di studio nelle accademie militari in Cina e altrove. Ma soprattutto è divenuto un manuale tuttora di estrema attualità per coloro che desiderano affrontare i conflitti con un approccio nuovo, sebbene antico di millenni, in ogni ambito: è quindi studiato e applicato dai militari, dai consigli di amministrazione aziendali, da gruppi di privati cittadini. Sunzi riconosce apertamente infatti che il conflitto è da sempre parte integrante della vita umana e talvolta non può essere evitato. Il conflitto opera a tutti i livelli, dall’interiorità del proprio ego alle guerre tra nazioni. E Sunzi prende in esame questi due estremi e tutte le sfumature intermedie. Dal litigio familiare tra genitori e figli al conflitto tra Stati.

Alla base del corretto approccio al conflitto egli pone, coerentemente con i princìpi del Daoismo, la conoscenza, di se stessi e dell’altro:

Se conosci il nemico e conosci te stesso, nemmeno in cento battaglie ti troverai in pericolo. / Se non conosci il nemico ma conosci te stesso, le tue possibilità di vittoria sono pari a quelle di sconfitta. / Se non conosci né il nemico né te stesso, ogni battaglia significherà per te sconfitta certa.

Questo tipo di consapevolezza ci dice quanto il Sunzi sia un frutto della grande pianta del Daoismo: si tratta fondamentalmente di apertura della mente, di intimità con se stessi, obiettivo che si può raggiungere grazie alle pratiche contemplative che il Daoismo insegna, e che tutte le autentiche Tradizioni spirituali propongono da sempre: “Conosci te stesso”, era scritto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi. E veniva aggiunto: “e conoscerai l’Universo”, poiché come già detto, “quod est inferius est sicut quod est superius, et quod est superius est sicut quod est inferius”.

 E dal non-agire del Dao proviene il principio secondo cui “ottenere cento vittorie in cento battaglie non è prova di suprema abilità, sottomettere l’esercito nemico senza combattere è prova di suprema abilità”. Non ci si propone di astenersi dal conflitto, bensì di prendervi parte e uscirne vincitori, laddove la migliore vittoria “consiste nel conquistare intero e intatto uno Stato nemico. Distruggerlo costituisce un risultato inferiore”.

Già nel titolo, il capitolo 6, Il pieno e il vuoto, mostra le sue radici che affondano nella visione daoista: come nulla nell’Universo ha una forma fissa, nello stesso modo la qualità essenziale di un’operazione vittoriosa è il non avere una forma definita, il trasformarsi senza esitazioni, rispondendo a ciò che si incontra, che si tratti del terreno o della disposizione dell’avversario, poiché “dei Cinque Elementi nessuno è predominante. / Delle quattro stagioni nessuna dura eternamente…/ La luna cala e cresce”.

Ritorna qui potentemente il simbolismo dell’acqua, già visto più volte nella Tradizione cinese: “La forma dell’operazione militare è come quella dell’acqua. / L’acqua quando scorre fugge le altezze e precipita verso il basso…/ Come l’acqua adegua il suo movimento al terreno, la vittoria in guerra si consegue adattandosi al nemico”.

Nel conflitto ortodossia e straordinarietà si avvicendano l’una all’altra: l’ortodossia è la familiarità, ciò che ci si aspetta, il convenzionale. Lo straordinario è ciò che sorprende. “In battaglia usa metodi ortodossi per affrontare il nemico. Usa metodi straordinari per ottenere la vittoria”. Impegnando l’avversario con metodi ortodossi confermiamo le sue aspettative, lo spingiamo verso risposte prevedibili. Nel frattempo attendiamo di mettere in atto lo straordinario: “Chi è abile nel creare lo straordinario è infinito come il cielo e la terra, inesauribile come il Fiume Giallo e l’Oceano. / Quando giunge al termine ricomincia da capo, come l’alternarsi del sole e della luna”. È l’ormai noto simbolo del Taijitu (T’ai Chi T’ou) che si attualizza: “Lo straordinario e l’ortodosso si rincorrono e l’uno genera l’altro, come in un cerchio senza inizio”.

 Infine, un ultimo aneddoto sulla vita del Generale Sunzi e sulla genesi del suo Bingfa, nel quale si narra che mentre svolgeva la sua opera di consigliere militare del re Sunzi fu accusato di aver partecipato ad un complotto. Di conseguenza venne evirato e mandato in esilio. Fu solo allora che mise per iscritto il suo capolavoro su strisce di bambù legate tra loro con cordicelle di seta.


 

 Quanto alla sua diffusione in Occidente, il testo dell’Arte della Guerra fu tradotto dai Gesuiti in francese nel 1772, e fu letto probabilmente anche da Napoleone Bonaparte. Però l’Empereur evidentemente non ne applicò i princìpi nella sua fallimentare invasione della Russia nel 1812. Lo fece invece, e con profitto, il suo avversario, il Generale Kutuzov, forse senza neppure conoscere il testo.

Successivamente, in Occidente il Bingfa ricadde nell’oblio, per tornare in auge ai primi del ‘900, quando si ispirò ai suoi dettami il Ten. Col. Thomas Edward Lawrence (Lawrence d’Arabia) partecipando in prima persona alla rivolta araba nel 1917-18.

La Germania del Kaiser lo ignorò, come pure gli Ufficiali del Terzo Reich, che commisero con la Russia di Stalin lo stesso catastrofico errore di Napoleone.

Al contrario, nelle terre d’origine del Bingfa fecero tesoro degli insegnamenti di Sunzi prima Mao Zedong e Lin Biao nel corso della Rivoluzione comunista, quindi Ho Chi Minh e il Generale Giap in Vietnam, nei vittoriosi conflitti contro la Francia e contro gli Stati Uniti.

 

giovedì 16 novembre 2023

INTRODUZIONE AL PENSIERO TRADIZIONALE CINESE - 4 - Il Daoismo.1: il Dao De Ching, Laozi, Zhuangzi

 

Lezione 4 – Il Daoismo _ 1: il Dao De Ching, Laozi, Zhuangzi

Lo storico Sima Qian narra che un giorno Laozi e Confucio si incontrarono. Laozi chiese: “Hai scoperto il Tao?”. Confucio rispose: “L’ho cercato per ventisette anni e non l’ho trovato”. Laozi gli consigliò allora: “Il saggio predilige l’oscurità, non si concede al primo che passa, valuta i tempi e le circostanze. Se il momento è propizio egli parla, altrimenti tace”. Al suo ritorno, Confucio raccontò: “Ho visto Laozi, assomiglia al dragone. Quanto al dragone, ignoro come possa, portato da venti e vapori, elevarsi fino al cielo”.

Già questo breve aneddoto, appartenente al mito più che alla storia, ci fornisce molti elementi per avvicinarci ad una sia pure superficiale comprensione del Taoismo nonché del suo rapporto con il Confucianesimo.

È indispensabile per questo studiare soprattutto un testo, il Dao De Ching, e un uomo, Laozi.

Il Dao De Ching, l’opera più antica e più profondamente speculativa di tutta la letteratura cinese, risale probabilmente al III secolo a.C., ma la dottrina che in esso si esprime esisteva sotto altre forme già dall’antichità, si sviluppò nei secoli successivi e raggiunse il suo pieno sviluppo all’epoca di Laozi. Non fu certamente Laozi il “creatore” degli insegnamenti presenti nel testo: il Dao, lo Yin e lo Yang erano già ben conosciuti nelle epoche anteriori all’apparizione di Laozi, anche se con sfumature diverse. Laozi è comunque riconosciuto come autore del Dao De Ching: Sima Qian ed altri raccontano che Laozi, ormai ottantenne, disgustato dalla decadenza in cui era caduto il Regno, montò in groppa ad un bufalo d’acqua e partì verso Occidente, per vivere come gli eremiti dei tempi antichi. Giunto ad un valico di frontiera la sentinella lo riconobbe e gli chiese di lasciare alla Cina una traccia scritta della sua saggezza. Laozi scrisse allora il Dao De Ching, in circa cinquemila parole, quindi si avviò, insieme al soldato di guardia divenuto suo discepolo, e raggiunse l’India dove, si dice, divenne il Maestro di colui che fu poi conosciuto come il Buddha.

Le datazioni del testo sono quindi storicamente incerte; la sua redazione, come quella dello Yi Ching, è probabilmente avvenuta nel corso di epoche diverse; gli insegnamenti che contiene sono rintracciabili nelle tradizioni sciamaniche (nel I secolo d.C. i daoisti erano chiamati Fang shih, maghi) e nello stesso Yi Ching; l’esistenza storica di Laozi (nome che significa letteralmente Vecchio Maestro) è tutt’altro che certa, e la sua figura è avvolta nel mito. Ma tutto questo non ne diminuisce affatto il valore e l’attualità, nella civiltà cinese e nel patrimonio spirituale dell’umanità intera.

La traduzione del titolo dell’opera (che nell’antichità era semplicemente noto come Laozi) comporta, come spesso avviene con le lingue orientali, alcune difficoltà.

Il termine Ching (si trova anche King, o Jing) è generalmente reso con “libro”, il che è corretto, se però applicato a testi classici o con un senso spirituale, religioso.

Dao (o Tao) e De (o Te) rinviano invece immediatamente ai contenuti del testo, al cuore del pensiero daoista.

Dao è la Via, il Cammino. Molto spesso viene lasciato in originale, anche nelle versioni occidentali dell’opera.

De è reso sovente con Virtù, ma alcuni commentatori ne indicano diversi significati: - la Virtù del Dao, con la quale esso governa le sue manifestazioni, le sue “creature”; - lo stato virtuoso superiore in cui il Saggio si trova nella completa conformità con il Dao; - la virtù in senso comune, ordinario.

 

Secondo René Guénon, che si attiene coerentemente ad una visione metafisica che ben si confà alla tradizione daoista, è da accantonare l’interpretazione morale del termine De, che è invece “una specificazione del Tao rispetto a un dato essere, ad esempio l’essere umano: è la direzione che quell’essere deve seguire perché la sua esistenza, nello stato in cui attualmente si trova, sia conforme alla Via”, ossia al Principio. Dal piano universale, quindi si discende all’applicazione, ma non in un’ottica sociale o morale: ciò a cui si guarda è sempre e solo il ricongiungimento al Principio supremo.

 

Dao è la Via, il Sentiero, ma è nel contempo la mèta. È anche metodo, disciplina, dottrina, padronanza di un’arte.

Si legge nel Vangelo di Giovanni 14,6: “Io sono la Via, la Verità e la Vita”.

 

Il Dao è il Principio Primo, nonché il Sostentatore, opera che svolge attraverso la Virtù De. È l’Assoluto privo di origine che di tutto è l’Origine. È la Realtà Ultima nella sua totalità, è privo di connotazioni antropologiche. È trascendente, ma anche immanente, poiché è il corso naturale delle cose: è la Via, ed è anche le vie, nella loro specificità. 

L’ideogramma Dao può aiutare a comprendere quanto si è detto:

 


Esso è composto da due parti: una, chuò (camminare), raffigura un piede che lascia delle orme:


 

L’altra parte, shou (testa), è a sua volta composta da due elementi.

Il primo è (occhio) ovvero ciò che rende riconoscibile un volto, la consapevolezza di sé.



  Il secondo, sulla sommità, è composto da due segni che richiamano delle ciocche di capelli raccolti sul capo, così come erano portati da persone di alto rango:

 


 L’insieme raffigura quindi una persona che ha piena consapevolezza di sé (mostra il suo volto) e cammina speditamente sulla strada che ha scelto, lasciando delle tracce per chi intende seguire lo stesso sentiero.

Il Daoista è quindi colui che studia, pratica, percorre la Via del Dao, incamminandosi verso l’Origine, verso l’Armonia con la Sorgente del Tutto. In tal senso il Dao costituisce sia il cammino sia la meta.

 

Il testo del Dao De Ching, piuttosto breve, è suddiviso in 81 capitoli ed è composto da “una serie di versi ritmati e rimati, di estrema concisione e connotati da uno stile singolare, che risulta oscuro a forza di semplicità”. Non è però un trattato filosofico in versi, anzi procede “per aforismi, metafore, salti di palo in frasca, accostamenti folgoranti… È alla ricerca di una forma di linguaggio adatta se non a cogliere l’indicibile, quanto meno ad accostarvisi” (Anne Cheng).

Il suo stile corrisponde perfettamente a quanto espresso da Laozi nei primi versi dell’opera:

Il Tao di cui si può parlare / non è l’eterno Tao

Il nome che può essere nominato / non è l’eterno nome

Il senza nome è l’inizio del cielo e della terra / il nominato è la madre di tutte le cose.

        

Il Daoismo può dunque considerarsi una Via mistica, nel senso etimologico del termine (muein, tacere), una Via del Silenzio. Come disse il grande filosofo daoista Zhuangzi, “chi conosce non parla, chi parla non conosce”.

 

Se il linguaggio verbale non può esprimere il Dao, in quanto Principio ineffabile, non riducibile ad un concetto o ad una categoria della mente, il linguaggio dei simboli può comunque aiutare la mente umana ad approssimarvisi.

E niente potrebbe rappresentare visivamente questo aspetto della dottrina daoista meglio del simbolo denominato T’ai Chi T’u, ormai universalmente conosciuto nella sua forma più recente, e spesso semplicemente chiamato “il Dao”, o “Yin e Yang”:


 

T’ai Chi T’u è traducibile come Diagramma del Fondamento Supremo. Il termine T’ai Chi (che si ritrova nel nome dell’arte marziale nota come T’ai Chi Ch’uan, dove ch’uan = pugno) si riferisce originariamente al tronco orizzontale situato alla sommità di un tetto, dove si incontrano le due parti inclinate. La trave centrale del tetto, quindi l’elemento veramente superiore e assolutamente fondamentale di una casa o di un tempio.

Si ritiene tradizionalmente che il T’ai Chi T’u già nell’antica Cina raffigurasse il cielo nella sua metà superiore e la terra in quella inferiore. Nella sua interezza avrebbe rappresentato l’uomo, che è costituito da luminosità ed oscurità ed è il tramite tra il cielo e la terra.

Nella sua forma più nota – che richiama alla mente i mandala indiani ed analoghi simboli circolari appartenenti ad altre culture tradizionali – il T’ai Chi T’u è composto da due figure a forma di pesce all’interno di una circonferenza. La figura nera, che rappresenta la condizione di riposo, è detta Grande Yin; l’altra, bianca, il Grande Yang, rappresenta il movimento. All’interno di ogni porzione si trova un cerchio di minori dimensioni, di colore opposto, una sorta di “occhio del pesce”: quello nero è il Piccolo Yin, quello bianco il Piccolo Yang. Questo significa che ciascuna delle due polarità, lo Yin e lo Yang, contiene entro di sé il suo proprio opposto, da cui origina continuamente in un ciclo uniforme senza fine.

Il simbolismo del T’ai Chi T’u è quindi l’espressione visiva della concezione della polarità Yin/Yang più volte citata (ad esempio già nello Yi Ching). In effetti, i due spioventi del tetto, di cui la trave T’ai Chi è il colmo, rimangono alternativamente esposti alla luce e all’ombra, passando gradualmente dall’una all’altra col trascorrere delle ore, dal mattino al mezzogiorno alla sera, rappresentando così l’aspetto yang e quello yin che si scambiano e si trasformano vicendevolmente l’uno nell’altro. Così come accade per i versanti di una montagna, ora soleggiati, ora all’ombra.

Nella concezione daoista, che il diagramma sintetizza visivamente, yin e yang sono le due opposte manifestazioni del Dao, che possiedono una valenza universale e trovano applicazione nei fenomeni cosmici come nelle funzioni del corpo umano. Infatti anche qui vale il principio dell’analogia tra ciò che è in alto e ciò che è in basso, tra il Cosmo e l’Uomo – principio classico nelle culture tradizionali, al di là delle distinzioni tra Occidente e Oriente.

Così, il cielo e i monti sono yang; la terra, le valli, le acque sono yin. Il giorno, un tempo limpido, il maschile, lo spirito, sono yang; la notte, la luna, il tempo tempestoso, il femminile, il corpo, sono yin. E all’interno del corpo, le arterie e l’espirazione sono yang; le vene e l’inspirazione sono yin.

Il movimento è yang, principio attivo, forza creativa; il riposo è yin, il passivo, la forza ricettiva.

Yin e Yang rappresentano quindi per il Daoismo la sostanza originaria nella sua differenziazione, due aspetti inseparabili di un’unica forza, una polarità che non è però una dualità assoluta. Non si deve pertanto pensare la relazione tra le due polarità in termini di antagonismo (come ad esempio Male/Bene), bensì di complementarietà, di interazione, di cooperazione, anche se talvolta l’una esclude l’altra (es. luce/tenebre), ma sempre all’interno di una concezione ciclica dell’esistenza. In altre parole, yin e yang si autodefiniscono a vicenda da un punto di vista formale e strutturale ma si alternano dal punto di vista temporale poiché, quando uno dei due poli raggiunge il massimo, può solo declinare e trasformarsi nell’opposto.

Si dice infatti nel Dao De Ching (XL) che “il ritorno è il movimento della Via”.

 

Il modello yin/yang esprime quindi una visione unitaria del Tutto, fondata sulle due polarità. Polarità non significa però separazione, la quale è invece l’effetto di un pensiero dualista, dicotomico. Come dice Zhuangzi, “in realtà, non esiste né la verità né l’errore, né il sì né il no, né una qualsivoglia distinzione, dal momento che tutto – anche due cose fra loro opposte – è Uno”.

Il modello esprime dunque quella costante tensione verso l’equilibrio e l’armonia che costituisce il fondamento della cultura tradizionale cinese.

 

Il Daoista, si è detto, è colui che cammina sulla Via, che agisce secondo il Dao, che dedica la sua vita alla realizzazione del Dao.

Secondo il Dao De Ching, il Dao si attualizza mediante il non-agire (wu wei), ovvero l’agire che è non-agire (wei wu wei). Agire secondo il Dao, ovvero l’agire del Saggio, significa non cercare di trasformare il mondo, bensì essere ricettivo nei confronti delle leggi che ne guidano la trasformazione, non sforzarsi, essere spontaneo, e quindi in perfetta armonia col mondo.

Secondo Laozi il modo migliore di agire, a maggior ragione quando il Dao declina e si manifestano epoche di violenza, di confusione, di disgregazione dell’ordine cosmico, sociale ed umano, è non-agire, in quanto la forza finisce sempre per ritorcersi contro se stessa.

È detto nel Dao De Ching (64): “Chi opera fallisce / chi afferra perde / per questo il Saggio / non opera perciò non fallisce / non afferra perciò non perde / quando il volgare fa delle cose / sempre fallisce all’ultimo momento”. La violenza viene assorbita, quindi l’aggressione diviene inutile.

Si tratta di un paradosso, soltanto apparente, che Laozi spiega ricorrendo ad una metafora molto comune nel pensiero cinese: l’acqua. Un elemento umile, che riesce però ad avere la meglio su materiali più solidi non resistendo ad essi. Come il Dao, anche l’acqua scaturisce da una unica fonte, per poi manifestarsi in innumerevoli forme. È inafferrabile, in perenne mutamento, si adatta ad ogni situazione. Scorre sempre verso il basso, favorisce la vita, ed è perciò simbolo dell’energia Yin, il femminile, che conquista lo Yang. Ciò che è debole prevale sul forte: “Nel mondo non c’è cosa più molle e debole dell’acqua / eppure attacca il duro e il forte / nessuno può vincerla / nessuna cosa può sostituirla / il debole vince il forte / il molle vince il duro / nel mondo tutti lo sanno / ma non possono praticarlo” (78).

 

Laozi